Titolo: L’ospite inatteso
Note: Pensiero e azione N. 33
Prima edizione: dicembre 2013
SKU: pensiero-000033
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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“FAUST
Filosofia ho studiato,
diritto e medicina,
e, purtroppo, teologia,
da capo a fondo, con tutte le mie forze.
Adesso eccomi qui, povero illuso,
e sono intelligente quanto prima!
Mi chiamano magister, mi chiamano dottore,
e già saranno almeno dieci anni,
di su, di giù, per dritto e per traverso,
che meno per il naso gli studenti...
E nulla, vedo, ci è dato sapere!
Il cuore per poco non mi scoppia.
La so più lunga, certo, di tutti i presuntuosi,
dottori e maestri, preti e scribacchini;
né scrupoli né dubbi mi tormentano,
non temo né l’Inferno né il demonio...
In cambio sono privato di ogni gioia,
non m’immagino di conoscere il giusto,
non m’immagino d’insegnare agli uomini
come correggersi, come migliorare.
Non possiedo né terra né denaro,
non ho gloria né onori in questo mondo;
questa vita non la vorrebbe un cane!
Per questo mi sono dato alla magia,
se mai per forza e bocca dello spirito
qualche segreto mi si palesasse,
e non dovessi più sudare amaro
a raccontare quello che non so,
e potessi conoscere nel fondo
che cosa tiene unito il mondo,
scoprire i semi delle forze attive,
non rimestare più tra le parole.
 
Vedessi, luce piena della luna,
per l’ultima volta la mia pena,
tu che aspettavo fino a mezzanotte
tante volte, vegliando al mio leggìo:
poi apparivi con il volto mesto,
amica, sui miei libri e sulle carte!
Alla tua cara luce ah! potessi andare
sulle vette dei monti, librarmi
con gli spiriti intorno alle caverne,
vagare per i prati al tuo chiarore,
strapparmi ai fumi spessi del sapere,
rigenerarmi nella tua rugiada!
 
Ah! Sono ancora chiuso in questo carcere?
Maledetto buco ammuffito,
dove anche la cara luce del cielo
penetra fosca dai vetri dipinti!
Soffocato da mucchi di libri
rosi dai vermi e coperti di polvere,
sui quali incombe su fino alla volta
una tappezzeria nera di fumo;
sconciato da ampolle e da alambicchi,
zeppo di decrepiti strumenti
accatastati dai progenitori...
Questo è il tuo mondo! Questo chiami un mondo!
 
E chiedi ancora perché il tuo cuore
ti si stringe pavido nel petto?
Perché un dolore che non sai spiegare
ti soffoca ogni fremito di vita?
Non ti circonda la Natura viva,
dentro la quale Dio ha creato l’uomo,
ma soltanto tra il fumo e la putredine
ossa di bestie e scheletri di morti.
 
Fuggine via! Via nel vasto mondo!
E questo libro denso di misteri
di mano propria di Nostradamus
non è per te una scorta sufficiente?
Conoscerai il corso delle stelle,
e se la Natura ti ammaestra
nella tua anima nascerà la forza
dello spirito che parla a un altro spirito.
Vano è pensare che l’arida analisi
possa spiegarti questi segni sacri.
Spiriti, vi librate accanto a me:
datemi una risposta, se mi udite!
Spalanca il libro e scorge il segno del Macrocosmo
A questa vista quale voluttà
mi scorre ad un tratto in tutti i sensi!
Una sacra gioia di vivere divampa
come un giovane fuoco nelle vene.
Fu un dio a vergare questi segni
che placano dentro di me il tumulto,
riempiono di gioia il cuore misero
e per un istinto misterioso
svelano intorno a me le forze di Natura?
Sono io stesso un dio? Tutto mi si fa chiaro!
Io scorgo in questi tratti puri
la Natura creatrice aprirsi alla mia anima.
Solo adesso comprendo quello che il saggio dice:
“Non è sbarrato il mondo degli spiriti;
è chiusa la tua mente, morto il cuore!
Ma alzati, discepolo, e instancabile
bagna il petto terrestre nell’aurora!”.
Fissa a lungo il segno
come tutte le cose s’intrecciano nel tutto,
e l’una nell’altra agisce e vive!
Come vanno su e giù forze celesti,
porgendosi a vicenda i secchi d’oro!
Con ali benedette e profumate
dal cielo attraversano la terra,
e il Tutto ne risuona in armonia!
 
Che scenario! Ah, ma è solo uno scenario!
Dove potrò afferrarti, Natura senza fine?
E dove, siete, voi? Sorgenti di ogni vita
dalle quali la terra e il cielo pendono,
voi cui si tende questo petto vizzo –
sgorgate, dissetate, e io languisco invano?
 
(Volta le pagine con dispetto e scorge
il segno dello Spirito della Terra).
 
Quale diverso effetto ha su me questo segno!
Spirito della Terra, tu mi sei più vicino;
già sento crescere in me le forze,
già sento ardere un nuovo vino.
Sento l’animo di arrischiarmi nel mondo,
di portare le pene, le gioie della terra,
di battermi contro le tempeste,
non tremare allo schianto del naufragio.
Mi sovrasta una nuvola...
La luna nasconde la sua luce...
La lampada vacilla!
Vapori... Lampi rossi mi guizzano
intorno al capo... Soffia
giù dalla volta un brivido
e mi afferra!
Ti libri intorno a me, o spirito che imploro;
lo sento. Svelati!
Ah! Che fitta al cuore!
A sensazioni nuove
tutti i miei sensi si sconvolgono!
Sento tutto il mio cuore darsi a te!
Sì, tu devi! Tu devi! Mi costasse la vita!”

(J. W. Goethe, Faust)

Introduzione

La morte e la vita. Ecco l’oggetto di questo libro. Collocarsi al bivio tra queste due realtà, è guardare nell’abisso senza tremare, senza lasciarsi attirare verso il basso, in modo da trovare una soluzione qualsiasi a problemi troppo grandi, troppo angosciosi. La vita può essere un’apparenza – anzi quasi sempre lo è – ma è diversa dalla morte. Quest’ultima è l’assenza di quella stessa apparenza, l’azzeramento di quello che viene fuori come negazione o rifiuto dell’essere. È troppo impegnativo essere e perciò ripieghiamo sull’apparire. La vita non è quindi né uniforme né necessaria. C’è gente che vive una vita da morto, una vita da cadavere e quando muore realmente neanche si accorge di quello che ha perduto. Noi non pensiamo mai che la nostra vita è una sola e che non ci sono repliche. Vivere è quindi un impegno che può accedere all’essere e può rimanere ombra proiettata nella parete della caverna dei massacri. Ognuno pensa di scegliere la propria vita, di costruire le proprie possibilità. Malgrado ogni illusione possibile ciò è vero solo in minima parte. Non c’è una vocazione biologica che ci sollecita a vivere, anzi spesso ci comportiamo istintivamente in modo esattamente contrario. Corriamo rischi quotidiani, abitudini deleterie, chiudiamo gli occhi a ogni evidenza vitale. Ma questo è un fare che conduce solo – se assegnato a un attento controllo – a costruire una macchina più duratura, forse una morte inconsapevole lunga esattamente quanto la propria vita. Non è quindi l’aspetto meramente biologico che coglie il senso della vita. Forse è proprio l’inverso.

Mettendosi in gioco, anche pericolosamente – e questo libro è un cenno approssimativo del mio essermi messo in gioco – forse si accede alle condizioni della vita, si comprende il movimento intrinseco del vivere stesso.

Esco così dall’apparenza? Forse. Potrebbero essere solo concetti velleitari, in fondo occorrono mezzi a disposizione. La semplice volontà non è capace di liberarci, essa ci inchioda al fare quotidiano e il fare – per quanto spericolato sia (è un ex corridore motociclistico che scrive) – è sempre sotto il controllo della volontà. La vita è l’essere e l’essere è qualità. La qualità non si trova nel fare ma nell’agire. La vita è pertanto azione. La morte, di cui tante volte si parlerà in questo libro, è nell’azione un momento della verità, qualità primaria insieme alla libertà. Irrimediabilmente nell’azione posso incontrare la mia morte e posso determinare la morte del nemico.

Questa alternativa non sposta l’esperienza qualitativa. Nel caso della mia morte non ci sarà nessuna coscienza diversa a sorgere all’orizzonte, nell’altro caso sì. Ma l’azione vista in questi termini è atrofizzata in una dicotomia troppo stretta, che non le è indispensabile. Ho vissuto azioni senza la morte di nessuno e l’esperienza qualitativa è stata altrettanto ricca. La morte non è quindi che un accidente interno all’azione, per chi vive questo rapporto con la qualità, ma può essere anche un manufatto dell’apparire, un di già morto che muore senza accorgersi di essere stato in vita.

La nuda vita è un concetto spurio che può comportare considerevoli movimenti e perturbamenti nella sensibilità umana, ma non è di questo che qui vorrei parlare, anche se poi, alla fine, anche di questo parlerò. Chiunque può uccidere, anzi, quasi sempre, dietro un’arma spianata ci sta un imbecille in preda al panico. Ovviamente non di questo problema – che ho trattato altrove – mi occuperò nel presente lavoro. La figura dell’ospite inatteso è centrale e va compresa dopo la lettura di tutte le pagine di questo libro.

Come contrapporsi al nemico che ci sovrasta, specialmente nelle condizioni di estrema concentrazione repressiva, quelle delle dittature militari o delle occupazioni da parte di un esercito nemico? Evidentemente lottando. E queste sono pagine di lotta, ma anche di considerazioni problematiche. Chi attacca un sopraffattore, un aguzzino, un torturatore, un tiranno, è nel giusto diritto di ucciderlo? La potenza, sia pure ridotta, che è implicita in questa decisione sempre possibile, è esente da dubbi in assoluto? La vita, la nuda vita che in questi casi è apparenza concretamente nefasta, è giusto che venga azzerata? La teoria è dalla nostra parte. Non ha dubbi il teorico che non ha mai impugnato un’arma. Ma chi ha visto un uomo ridotto in un attimo a un pugno di stracci, è dello stesso parere?

La legalità è una delle tante illusioni che circondano il fare quotidiano. Le regole sono fatte per non essere rispettate da chi pone le regole. L’oppressione estrema è l’eccezione alla regola democratica? Non è così. Certo, ci sono manipolazioni più o meno brutali ma il potere si legittima in tutte le sue forme, per cui ricomprende in se stesso l’emergenza che lo fa ricorrere alla tortura e al massacro. Nessun potere è esente da questa indispensabile condizione. L’insieme stesso amministrato è retto in modo da produrre segretamente questa estremizzazione, ricomprendendola nel proprio essere regola ed eccezione nello stesso tempo.

Non c’è un solo prezzo da pagare per garantire il potere, qualsiasi prezzo è quello buono, anche il massacro e il tradimento. Chi domina ha di fronte a sé la possibilità di eliminare legalmente i propri oppositori più efficaci, almeno quelli che riesce a cogliere sul fatto, e questo lo fa perché non ci sono regole che non siano ribaltabili nel loro esatto contrario. Tutte le forme di potere, dalla democrazia alla dittatura militare, hanno i loro aguzzini segreti e li impiegano senza riserve, senza preoccuparsi del destino dei disgraziati che cadono nelle loro mani e senza nemmeno darsi troppo pensiero per la sorte degli aguzzini stessi. Questo libro dimostra la straordinaria fondatezza di questi due assunti che sembrano escludersi reciprocamente. E tutto ciò, cioè l’eccezione che ribadisce la regola, ed è regola essa stessa, è normalità assoluta, niente di mostruoso o di aberrante.

È la vita che si gioca il potere, quella dei suoi sudditi. Questo gioco ha molti aspetti, dall’appiattimento che rende mortale l’esistenza all’eliminazione vera e propria, in ogni caso è un rifornimento della caverna dei massacri che è in atto. Non esistono limiti etici a questo discorso del dominio se non sulla carta. In alcuni casi, come quelli di cui si parla qui, la forma stessa scelta dal potere ha permesso un’aggregazione di resistenza attiva che sarebbe stata necessaria anche in altre condizioni di potere, quelle per intenderci non dittatoriali. Solo che anche la forma che prendono le cose ha il suo peso, per cui è più facile combattere il fascismo e più difficile combattere la democrazia, anche se tra queste due sfumature di potere non ci sono che differenze marginali, apparenti e non sostanziali.

Chiedersi perché questa scelta è più facile merita una risposta. La democrazia uccide molto di più in maniera occulta, uniformando e abbassando la tensione vitale di chi sopporta questo regime e generando con maggiore facilità un processo mortale di assuefazione. Il tessuto biologico è più rispettato, ma la vita non è solo questo tessuto, essa è prima di tutto qualità e questa tarda a emergere in un ambiente in cui tutto è abbassato al livello della chiacchiera, dell’apparenza più trita e del non senso.

Le maggiori difficoltà repressive di una dittatura militare finiscono per rendere più visibile il medesimo processo di abbassamento vitale, che diventa così macroscopico da essere colto con meno sfumature, meno attenzioni, meno capacità analitiche. La stupidità del potere estremo è irrimediabile, quindi trova più facilmente chi è disposto a fare qualcosa per abbatterlo. In questa ultima condizione la vita è non solo abbassata – come accade in qualsiasi altra forma di potere – ma anche massicciamente distrutta, a livelli scandalosamente intollerabili.

È di questa condizione estrema che qui si parla. Un lavoro condotto in condizioni di alta pericolosità che ha avuto l’occasione però di attaccare delimitazioni marginali, efflorescenze troppo visibili per non essere individuate con maggiore facilità che altrove. Queste esperienze hanno reso possibile una lotta di contenimento in difesa di popoli caduti sotto queste forme di dittatura o in uno stato di occupazione e prigionia collettiva.

Non che nel corso di queste azioni l’esperienza diversa che ne derivava non si rendesse conto che anche altrove sarebbero state necessarie difese similari, ma era solo un rammarico, si era scelto di colpire nel punto più scoperto e più scandaloso, altri potevano fare il resto e, per quel che mi risulta, qualche cosa in questo senso è stato fatto anche contro i cosiddetti poteri democratici.

È ovvio che queste azioni sono state rese possibili da un intenso fare preventivo, di cui qui si dà a volte un inadeguato riferimento. Ed è anche naturale che esse siano state condizionate dal luogo e dal tempo in cui sono state portate a completamento, anche se – come azioni – non avevano né tempo né luogo. Non si tratta di una contraddizione. Procedendo nella lettura questo punto si chiarirà meglio.

Come comprendere la mia scelta? Desiderio di libertà, prima di tutto, libertà per tutti, quindi mi veniva naturale pensarmi portatore di libertà. Ma la libertà non è qualcosa che si fa, è una qualità che si sperimenta mettendosi a rischio. Nessuno può darla a un altro se non facendone un liberto, non un libero.

Se qualcuno manca di una parte, sia pure minima, di libertà – quasi sempre i meccanismi del potere fanno in modo che nemmeno se ne accorga – anche io vengo defraudato di qualcosa. Forse volevo ristabilire una sorta di equilibrio al mio interno, in quanto posso capire l’altro solo se abbiamo un coefficiente comune di libertà. Forse. Se ne parlo, adesso, da vecchio, in questo oscuro carcere greco, è perché la questione brucia ancora la mia pelle, non è conchiusa e mai si conchiuderà. C’è ancora dentro di me questa spaventosa tensione che mi fa dolere i muscoli e battere il cuore allo stesso modo di un tempo, che mi riempie ancora gli occhi di lacrime, che mi mozza il respiro.

Non è dentro di me la collocazione di un ricettacolo segreto dove continuo a cucinare lo stesso minestrone, è fuori di me, va in giro per il mondo, parla e cerca di dire l’azione, la potenza dell’azione e il pensiero che spezza i legami del fattibile nel tentativo di dire con la parola quello che la parola non può dire. Qualcosa del mio agire è passato nella realtà bruta del fare che mi circondava e continua a circondarmi, e ha trovato la forza bruta del potere che ricorre – come sempre e sotto tutti i cieli e le epoche – all’estremo massacro per garantire la propria persistenza.

Era una lotta senza quartiere contro l’apparenza e i suoi fantasmi asserviti agli atroci compiti della garanzia e della legalità, atroci ma essenziali, direi insostituibili per il potere. La materia di questi processi repressivi non può essere completamente annientata se non da una epocale rivoluzione, un azzeramento del mondo vecchio che come sappiamo è fondato sulla melma politica, ma può essere contrastata, parzialmente ostacolata, aggredita nella sua abietta normalità di esecuzione.

È sotto la protezione della legge che questi spettri operavano – e continuano a operare dappertutto con opportuni cambiamenti nei simboli gerarchici di comando –, attaccarli era, e rimane, una attività fuorilegge. Ma chi accede alla qualità, in un mondo fondato sulla quantificazione, non è forse necessariamente fuorilegge? L’azione è sempre contro le regole perché queste regole sono quelle del fare e l’azione opera nell’ambito dell’agire.

Non si possono contrastare questi spettri al servizio della normalizzazione statale con un efficiente apparato organizzativo fondato esclusivamente sul fare, naturalmente di matrice contrappositiva. In quest’ambito cade soltanto il lavoro preparatorio, indispensabile ma non sufficiente. Se fosse possibile questa confrontazione fattiva si dovrebbe ammettere un accumulo di segno diverso, capace di apparire come contropartita degli spettri assoldati dal potere, insomma uno scontro di fantasmi. Poiché non si tratta di questo non si può puntare tutto sull’elemento – debolissimo e controverso – del non rispetto delle regole del diritto da parte del potere, il quale utilizza aguzzini in grado di massacrare in perfetta aderenza alle regole concrete della ragion di Stato e non alle formule astratte di garanzia, più o meno entrate ormai in tutti i codici penali.

Non è qui il problema, come non si risolve niente gridando allo scandalo per le torture che continuano a essere perpetrate tranquillamente poniamo nella Grecia di oggi – io posso testimoniare in merito – come nella Grecia fascista di tanti decenni fa. Tutto ciò è normale e va combattuto. Tutto ciò è stato combattuto, in Grecia e altrove.

Questo libro è una piccola luce accesa sul problema, ma anche su tanti altri problemi connessi. Se non ci sono realmente diritti per il potere, che in qualunque momento può stracciarli, la soluzione è attaccare con azioni che sono al di fuori del fare, ambito in cui i diritti hanno il senso equivoco che posseggono sulla carta. Nell’azione è la qualità che mi viene incontro e di cui faccio esperienza, io sono la libertà e non ho nessun diritto dalla mia parte, non ho una sorta di salvacondotto che mi metta in grado impunemente di attaccare. Se lo faccio è perché sono la libertà che non può accettare l’oppressione e il massacro. L’ospite inatteso taglia alla radice, non esamina prima i trattati di diritto, non valuta né commisura, questo appartiene a un compito precedente, un compito del fare, a cui lui è estraneo. Egli toglie la vita a uno spettro che produce dolore e morte su ordine della gerarchia del potere. Non controbilancia né pareggia conti in sospeso. Non è né un carnefice né un contabile. Egli è il destino.

I diritti sono una finzione camuffata in malo modo nelle dittature. Ciò non vuol dire che essi non permangono finzione anche nelle democrazie. Ma il diritto alla vita? Anche questo è una finzione per il potere che massacra impunemente di nascosto, con maggiore efferatezza quando la cosa pubblica è in mano ai militari. È solo una questione di sfumature? Non fino in fondo. C’è un limite perfino all’abisso dell’orrore. Perché è inquietante la figura fantasmatica dell’aguzzino? Perché si riflette nello specchio della normalità e quindi denuncia senza ombra di dubbio la natura ultima di qualsiasi potere.

Così questo spettro che si aggira dietro le quinte assurge a figura emblematica non solo per i servizi da boia che rende – necessari al mantenimento dell’ordine – ma per il semplice fatto di apparire nel tessuto del dominio. In questo modo l’aguzzino è posto in una zona depenalizzata, non tollerato ma tutelato nel suo compito e giustificato, anche se ufficialmente è abbandonato al suo destino. Difficilmente la mobilitazione statale per difenderlo arriva fino in fondo. Quel tipo di lavoro sporco è affidato a individui isolati, provvisti di particolari caratteristiche, non proprio asociali ma solitari, non necessariamente di natura aggressiva ma all’aggressività istituzionalizzata condotti per gradi, a poco a poco. Il loro è un mestiere che si impara e ci sono scuole specializzate a questo scopo. Le dittature qualche volta si lasciano sfuggire di mano un filo di documentazione, forse per eccessiva fiducia in se stesse, le democrazie no, queste ultime su argomenti del genere sono sigillate.

La mia esperienza mi ha portato a sentire in questi particolari soggetti una sorta di nemesi della catastrofe, non una coscienza cattiva, derivante dal proprio lavoro, ma un’attesa spesso rassegnata, come se quel lavoro imprimesse sulla loro personalità una sorta di smarrimento irrecuperabile. Mi è sembrato spesso di avere davanti spettri che consideravano la propria vita come una sorta di concessione usurpata, un qualcosa di disomogeneo, di troppo estremo per essere compreso perfino da loro stessi. In fondo ogni uomo è anche quello che fa e sente il bisogno di riflettersi nel fare di altri uomini che si muovono in qualcosa di simile. Non dico che ci siano sempre scelte di affinità fattive, che forse non esistono, ma almeno di parallelismi, di spirito corporativo, di appartenenza al medesimo modulo operativo. Ecco, quegli spettri non potevano costruire niente del genere, erano automi isolati, mossi da gerarchie impazzite che giocavano con loro come con le pedine di un gioco essenziale al mantenimento del potere. Erano spettri perché respiravano e si muovevano in una terra di nessuno dove per essere riconosciuti proprietari di diritti dovevano recitare un ruolo diverso dal loro quotidiano lavoro. Ora, non sempre questo riesce, alla lunga spossa e rende automaticamente schiavi di modalità ripetitive, incapaci di stornare lo sguardo dall’abisso di orrore dove si guarda ogni giorno. Più questo abisso è profondo e orribile e più difficile diventa sottrarsi al suo dominio. La vita di questi fantasmi è quindi una sopravvivenza. Ma la sopravvivenza è pur sempre vita. Li ho visti camminare, andare al lavoro, tornare a casa, a seconda delle specializzazioni parlare con la gente o restare silenziosi, incontrarsi con i loro consimili, fare insomma tutto quello che un occhio lontano, ma esercitato, non si lascia sfuggire.

E questa era vita, la loro vita. Non credo che se avessi potuto interrogarli mi avrebbero risposto di non tenere per nulla a questa apparenza, penso che avrebbero trovato la mia domanda retoricamente superflua. La spossatezza sarà anche preparazione alla morte, avversione per un obbligo che scuote qualsiasi coscienza, anche la più efferata, ma non è uguale al desiderio di suicidio. La loro fine è da attribuirsi alle nostre azioni, non a una loro inettitudine o, come la si voglia definire, rassegnazione. E le azioni costruite sul nostro lungo e dettagliato fare preventivo erano il nostro accesso alla qualità, la nostra vita messa in gioco, non una semplice ratifica della loro insoddisfazione vitale.

Questi aspetti che andrò sottolineando qui, aprirono in me una serie di domande particolarmente dolorose, ma non mi fecero mai delegare ad altri le mie responsabilità. L’ospite inatteso senza di noi non avrebbe mai potuto portare a completamento la sua opera radicale. La compassione per il mucchio di stracci lasciato alle spalle non cancellava la perfetta coscienza diversa del grande valore della libertà di fronte alle orrende responsabilità della repressione feroce e insaziabile.

Difendere un popolo oppresso. Non mi ponevo il problema di identificare un referente preciso. Popolo è concetto troppo vago e corrisponde all’appiattimento che nell’ambito del fare subisce il concetto di libertà. Ciò per cui combattevo era tangibile solo nell’attimo senza tempo e senza luogo dell’azione, mentre prima, nel fare, non c’erano che questa o quella persona, questo o quel gruppo, particolari strumenti di repressione.

Non credo che gli oppressori stessi, della cui sagacia politica – specie per i militari – c’era da dubitare molto, sapessero bene cosa stavano opprimendo. Le differenze superficiali, come nel caso palestinese e in quello irlandese, alla fine corrispondevano a differenze di classe. I miseri sopportavano la repressione maggiore, anche se qualche ripercussione potevano averla anche le classi medie. Erano gli esclusi che pagavano il prezzo più alto, pure se all’epoca le mie idee in merito non erano per niente chiare. La vita, assolutamente nuda, dei campi palestinesi, era talmente intollerabile che non era difficile sapere a chi bisognava portare aiuto e, con l’aiuto, la libertà.

La caratteristica della dittatura – militare o di occupazione del territorio – è fondata su di un provvedimento preventivo diretto a eliminare tutti coloro che vengono supposti come pericolosi per la gestione del potere. Costoro sono prelevati senza nessuna procedura giuridica o ombra di garanzia fondata sul diritto, e sottoposti a detenzione o costretti a confessare, sotto tortura, comportamenti perfettamente legali oppure colpe immaginate dalla gerarchia repressiva. La dittatura, per riassumere queste condizioni di alta repressione, è una normalizzazione forzata, eseguita con metodi brutali – in genere di provenienza poliziesca – ma rientranti nella sostanza di ogni forma di potere se non nella sua costituzione letterale.

Il fare dei personaggi incaricati di portare avanti questi progetti repressivi era solo una particolare specializzazione, una branca segreta del potere. Gli uomini che concretizzavano questo fare erano funzionari dello Stato come un ufficiale giudiziario o un impiegato al catasto. Considerarli come operanti sotto una particolare condizione di natura eccezionale è un errore che anche all’epoca a cui si riferiscono queste considerazioni – peraltro attualissime – era molto diffuso. Essi non rendevano possibile un fare eccezionale, posto fuori della tutela legale, essi erano assolutamente nella legge, i massacri di cui si rendevano responsabili erano una delle forme con cui si sostiene il potere, qualunque potere. Che la vittima venga prelevata senza il rispetto delle norme procedurali non rende per niente eccezionale il prelievo, rende al contrario le norme legali più permeabili e più fluide di quanto una mente giuridica possa immaginare.

Un provocatore che spingeva ad azioni di attacco, quasi sempre velleitarie, giovani pieni di speranza e di illusioni, era un personaggio che preparava il terreno al suo collega torturatore, sempre nell’ambito di un lavoro normale di polizia e di repressione. Non c’era bisogno di una sospensione delle procedure giuridiche, esse erano – e sono – sufficientemente elastiche per essere disattese tutte le volte che il potere lo ritenga necessario.

Alla base di tutta questa normalità c’è la ferocia dell’uomo e il baratro in cui guarda continuamente l’animo suo. Certo, non tutti sono sufficientemente feroci, però non deve essere difficile trovare questi spettri se essi non mancano mai in qualsiasi epoca o sotto qualsiasi regime politico. All’interno della norma giuridica ci sta quindi un luogo segreto della sua rimozione. La cosa è possibile perché in ogni caso, qualunque potere, come qualunque teoria storica o filosofica, alimentano il massacro, solo che la regola persegue altre strade e il vuoto della regola altre ancora, ma i due percorsi si integrano a vicenda e si sostengono reciprocamente.

Ho insistito a lungo su questo problema che si ribalta nella personalità degli esecutori. Perché li ho definiti spettri o fantasmi? Penso che questa strana terminologia l’ho ricavata dai loro gesti. Non potendo estendere l’accostamento fino a udire le parole – nella maggior parte dei casi per me incomprensibili – era sulla gestualità che mi basavo per alcune considerazioni. Non erano gesti disinvolti, anche se permanevano del tutto regolari. In essi era stata sottratta la naturalezza a causa della pressione di una forza nascosta che spingeva questi uomini verso il loro reale statuto di spettri e di fantasmi. L’ospite inatteso non si curava di cogliere questi gesti che per me costituivano un intero discorso, l’unico possibile.

Privi di naturalezza quei gesti erano il segno dell’immiserimento di uomini ridotti, prodotti da una gerarchia omicida che generava aborti di umanità senza riuscire a produrre automi fino in fondo, meccanismi e basta. A un uomo, per quanto sospeso sull’abisso, alla fine non gli si può sottrarre tutta la sua umanità. Anche i boia sono esseri umani e ciò si vede nella loro misera gestualità schiacciata da codici imposti da forze invisibili. Svuotati dal di dentro, ridotti al puro spettro della normalità, non avevano a disposizione che un catalogo di gesti, artefatto e codificato, al quale si sforzavano di rimanere aderenti. Eccoli pertanto aggrappati a pochi movimenti ripetitivi e facilmente catalogabili come a un’ancora di salvezza. Ogni traccia gestuale racchiudeva, come il momento di chi sta per affogare, una sorta di trasfigurazione simbolica. Normalità e necessità si sposavano in quel momento denunciando l’abbassamento a livello di apparenza spettrale. Uno spettacolo pietoso e discernibile solo dal nostro occhio esercitato, capace di cogliere e registrare non solo corrispondenze e misurazioni ma anche questi lampi di anomalia che, senza riuscire a essere appelli di aiuto – nessuno di questi fantasmi penso abbia mai ipotizzato di cambiare mestiere –, erano pur sempre balenii di un’umanità ferita e distorta fino al limite del parossismo.

In questi gesti mancava la contingenza occasionale, l’imprevedibile risposta alla sorpresa di un momento, tutto era coinvolto nella necessità indiscernibile. Le loro consistenze gestuali erano pateticamente ripetitive, si accartocciavano sempre più in una sorta di balletto folle e privo di senso. La ripetizione genera un’apparenza più consistente, più forte, più omogenea, un fare meccanicamente assicurato, come gli schiavi alla catena di montaggio.

All’interno di questa zona di riserva l’umanità si affievolisce per non scomparire del tutto. Il fantoccio che ne risulta si muove e soffre come tanti altri fantocci prodotti dall’oppressione, con in più che la sua diretta commistione col lago di sangue lo mette davanti a un abisso dove è costretto quotidianamente a rispecchiarsi. Non può evocare una distorsione qualsiasi, una via di fuga, una sospensione del fare, tutto ciò gli è impossibile. Può solo aspettare il proprio destino, giocando la propria vita sul tavolo delle probabilità.

Sono certo che questi spettri avevano coscienza di un irrigidimento progressivo della propria situazione, e vi si avviavano con i gesti di cui sto parlando. La loro vita non aveva più un’attesa temporalmente vissuta come prospettiva ma solo un eterno presente, una maniacale ripercussione che dal massacro proveniva e al massacro era diretta. I loro corpi avevano un’esistenza regolamentata dal lavoro come tanti altri corpi, quindi erano corpi normali, di uomini normali, ma non credo riuscissero a controllare le conseguenze dell’abisso. Ciò era visibile nella loro gestualità spezzata, irrigidita e meccanica, perfino buffamente camuffata da qualcosa d’altro, come se portassero una barba finta. Maschere di cera che venivano modellate in luoghi adatti e poi gettate nel mondo, sia per svolgere il loro orrendo compito che per vivere quel surrogato di vita che era loro assegnato.

Ogni gesto era quindi morto, come prodotto da una maschera inconfessabile, e vivo in maniera residua e subalterna, come se tutta la sua forza si fosse esaurita nell’intrapresa abominevole della quotidianità. Per questo ho parlato di spossatezza, che non poteva essere l’occasionale mancanza di forze di un singolo, ma era una condizione comune a tutti, più o meno coglibile e a nessuno di loro veramente estranea. Era il ricordo dell’abominio che li riduceva a spettri stanchi, e ciò agiva anche nei casi di un’abitudine al massacro portata alle estreme conseguenze.

In questa gente c’era una specie di continua epifania della caverna del lago di sangue, ed era questa la ragione ultima – almeno così mi sono convinto dopo lunghe osservazioni – della spossatezza generalizzata. Spettri isolati, non facevano parte di un tutto, anche se erano funzionari perfettamente in regola del potere in carica, anche se costituivano l’ultimo perno del dominio, forse quello più indispensabile. Erano racchiusi in un isolamento da lebbrosi, a cui solo la nostra occhiuta attenzione si accostava. L’ospite inatteso trovava questa gestualità davanti ai suoi occhi e la tagliava alla radice insieme al resto.

In ogni coinvolgimento nell’orrore – e dare la morte è orrore – c’è sempre all’opera un legame tra chi dà e chi riceve. Questo legame può rimanere prigioniero del fare o oltrepassarsi nell’agire. Ecco perché l’orrore del torturatore, o del fornitore delle sue alte specializzazioni, rimanendo prigioniero del fare, è un abisso da cui non ci si può tirare fuori, un baratro che annienta col proprio potere di attrazione le persone e le riduce allo stato spettrale. L’azione è un immergersi nella qualità e quindi non è un lavoro ma un’esperienza unica, bruciante, dotata di una tensione che non consente repliche. Si agisce ogni volta per la prima volta e una sola volta è ogni volta l’agire. Non c’è ripetizione nell’azione, quindi non c’è quel potere paralizzante che solo l’accumulo quantitativo produce. Non ci si libera dall’azione, al contrario è l’azione che libera, ci si libera dal fare e il fare cattura, non produce che assuefazione e spossatezza. Questa la differenza tra l’ospite inatteso e lo spettro ridotto a un mucchio di stracci.

La problematica presente in questo libro deriva dal fatto che l’azione nasce perché un certo fare preventivo la rende possibile. Ed è in questo fare che si accumulano i fatti e anche i dubbi. Se l’agire è il sogno della libertà, il fare è l’incubo della coazione a ripetere.

Alla fine il gesto dello spettro non apparteneva neppure alla categoria del fare, era un’allusione rapportata e assunta come forma di un comportamento svuotato di senso dalle necessità oppressive del potere. Il gesto dello spettro non era mai per noi un evento, era una triste contingenza che potevamo non registrare. Altre cose ci interessavano, misurazioni e corrispondenze, frequentazioni e costanze, uniformità e duplicazioni. Ma per me – e per alcuni dei miei compagni – quel gesto aveva un contenuto umano, era come un segnale di aiuto, almeno così lo si poteva decrittografare, senza per questo ammorbidire la nostra rigida determinazione.

Il fare dello spettro era un fare mostruosamente orribile, il nostro senso etico del mondo lo rifletteva come inconcepibile, ma alla fine dovevamo pure ammettere che si trattava di un fare normale, niente affatto mostruoso se non per le conseguenze, non per chi lo poneva in atto. Eppure quel fare produceva evidentemente uomini che avevano la spossatezza e la gestualità vuota degli spettri che avevamo davanti.

Quale era lo scopo del torturatore? Costringere qualcuno a confessare l’inconfessabile? Non è vero. Nessuna confessione è così inattendibile come quella estorta sotto tortura. Lo scopo era – e qui parliamo della tortura come caso limite, sia pure molto diffuso, non di un accadimento raro e dovuto all’estro di un momento – di ubbidire agli ordini della gerarchia. Ma questi ordini erano diretti ad autorizzare la tortura allo scopo di terrorizzare. Quindi questo fare, quello del torturatore come quello del traditore, dell’informatore o del provocatore, non aveva il proprio fine in se stesso ma nell’idea di potere, al di là delle condizioni sanguinose in cui veniva alimentata la caverna dei massacri. Il mezzo si avvitava così su se stesso e non attingeva nessun fine, nulla di concretamente logico era davanti agli occhi di questa gente, solo un utilizzo senza scopo evidente, perfino senza possibilità di essere capito e quindi condiviso in pieno.

Allo stesso modo sprovvisti di senso logico, questi spettri possedevano una gestualità essa stessa priva di fine, non riconducibile all’ottenimento di qualcosa. Erano segni nell’aria, movimenti sprovvisti di un fondamento concreto, come se fossero sollecitati da stimoli nervosi incontrollabili, estranianti. Non erano mezzi essi stessi, erano forse segnali, per noi incomprensibili, scartando l’ipotesi – invero peregrina – della richiesta di aiuto indirizzata al vento e alla pioggia o al sole e alla luna.

C’era una distanza impercorribile tra quello che noi mettevamo insieme col nostro fare, diretto ad approfondire una conoscenza diciamo periferica e suppletiva, e questa persistente e incomprensibile gestualità. E c’era anche un rimanere in sospeso del gesto stesso, un tranciare l’aria a metà, come qualcosa di riprovevole colto in fallo, un non potere fare che veniva alla luce, deforme e forzato, per annegare subito nella sua stessa inconsequenzialità. Volevano quei gesti penetrare il muro sempre crescente della reciproca diffidenza ed estraneità? Non l’ho mai saputo. Erano però segnali umani, di questo ero certo. Ma della mia certezza che se ne faceva l’ospite inatteso nella sua azione diretta a tagliare alla radice, lasciandosi alle spalle solo un fantoccio accartocciato?

Automi privi di contenuto, quindi di una coscienza sia pure immediatamente diretta a uno scopo comprensibile, questi uomini erano ridotti al puro statuto di mezzi impiegati in una prospettiva loro ignota. Non potevano comunicare qualcosa, nemmeno la loro vacuità, non conoscendola se non per esperienze progressive – i singoli momenti del loro fare – che si susseguivano privi di significato, con quella spettrale consistenza che li rendeva alla lunga apparenze fantasmatiche. Non potevano mettere da parte questa condizione neanche per prendere un caffè, anche quando prendere un caffè faceva parte del loro lavoro. C’era in questo una gestualità artritica, scomposta, priva di comunicabilità perché non aveva nulla da dire, era come un residuo magmatico sul fondo di un pozzo nero in fermentazione.

Lo stesso per la parola, anche peggio. Da qui il senso muto, o quasi, della spossatezza che emanava da queste persone ma della quale sembrava non avvertissero la presenza per quanto da essa fossero continuamente caratterizzati. Esseri muti perché privi della possibilità di contenere passioni o dubbi, ridotti soltanto a un insieme di riflessi condizionati, l’estremo lembo della normalità e il più rappresentativo della condizione repressiva del potere. Come pronunciare una sola parola riguardante il loro lavoro, anche quando il parlare – era il caso dei provocatori – costituiva pur la parte essenziale di quello che facevano? Ecco il mutismo, anche quando le labbra sembravano accennare a un movimento vitale, quale che fosse, c’era in loro l’estasi dello svuotamento, il lasciarsi andare di chi non sa più come fare per dare contenuto alla propria vita, perché vede quest’ultima come una banale accidentalità giocata in una partita di cui sa di non potere mai conoscere l’esito. Eppure questi spettri erano uomini, non l’invenzione anacoretica di un potere impazzito. Perpetravano nel tempo il disegno improbabilmente dettagliato di un altrove dove la volontà di controllo ingigantiva sulla libertà facendone strame.

Non so se all’epoca alla quale si riferiscono i fatti di cui si parla in questo libro mi sia reso conto di questa realtà fino in fondo. Forse avevo bisogno di sognare una possibile giustificazione oggettiva per il mio compito, cioè priva di dubbi. Ma non ci sono giustificazioni del genere. L’azione, dove la vera e sola oggettività si raggiunge, non ne ha bisogno, il fare non può andare oltre l’oggettualità. Forse era un cercare scampo di fronte alla mia responsabilità? Forse qualcosa di più complesso, il pretendere, ad esempio, una sorta di indipendenza di giudizio quando tutto derivava dall’informazione iniziale che restava – come ho detto – fuori da ogni verifica realizzabile nel corso del nostro lavoro.

La mia era una resistenza, limitata se vogliamo, un dire di no, testardo ma coerente con le scelte di fondo, almeno con alcune di esse se non con tutte. I miei sforzi, qui illustrati a distanza di tanti anni, non erano però soltanto questi, comprendevano la difesa della mia concezione di portatore di libertà. Ecco perché cercavo di capire gli spettri, di leggere il loro mutismo e la loro spossatezza, come riflessi umani e non come sordi brontolii di mostri osceni dei quali non metteva conto capire il significato.

La nostra lotta era diretta a distruggere questi massacratori e, in termini strategici, l’attacco doveva prevedere una immedesimazione nelle condizioni del nemico. Questa è una regola aurea di qualsiasi conflitto. Ma tale immedesimazione era impossibile, al più si poteva realizzare un accostamento, il resto apparteneva alle misurazioni di tempi e luoghi di cui ho tanto parlato e all’oltrepassamento nell’azione dove i tempi e i luoghi scomparivano negandosi. Questa sorta di sfregamento con l’orrore, il vederlo per giorni a poca distanza del mio naso, il dovermi limitare a osservare i movimenti, sapendo che ogni giorno altro sangue sarebbe andato nella caverna dei massacri, era uno sforzo senza pari, molto più difficile di qualsiasi attacco immediato a viso aperto. L’azione veniva quindi vissuta per quella che effettivamente era, la fine di una sofferenza, un sollievo, una pietosa incombenza.

Quello che nell’azione era incomprensibile al fare preventivo, ciò che qui chiamo l’arrivo dell’ospite inatteso, era l’obiettivo essenziale e lo dovevamo coltivare nelle nostre coscienze, affinché dalla loro bruta immediatezza fiorisse una diversità qualitativamente indicibile. I miei dubbi non avevano in essa alcuna importanza.

Una volta che l’estrema risorsa del potere si basa su questi spettri, reclutati per incutere terrore, esso mette a nudo la sua interiore vuotezza di dominio cieco, la sua sostanziale mancanza di senso. Il segreto del potere è la sua estrema brutalità, al limite della erosione di ogni residuo di umanità. Ne deriva la necessità di occultare questo segreto designando una serie surrettizia di obiettivi che sono tutti parimenti inconsistenti, se non deliberatamente falsi.

Identificando il terrore puro, il massacro e l’assassinio, la tortura e la provocazione, il tradimento e l’informazione strappata con ogni genere di inganno, come il fulcro immateriale attorno a cui ruota l’essenza politica del fare coatto, si vede come è tutto il potere a diventare una scena di fantasmi, una ridda di spettri sanguinosi e stupidi. Può la morte, inflitta sadicamente con oculata normalità e senza uno scopo che non sia la semplice sussistenza del potere in carica, può tutto ciò diventare qualcosa di spettrale? Non sarebbe un alleggerire in questo modo la responsabilità delle gerarchie di comando, privando tutta la filiera della coscienza e quindi della consapevolezza di questi orrori? Secondo me è il contrario. Un potere in mano all’apparenza, voluta perché è l’unica soluzione possibile del suo problematico sussistere, è nel pieno della sua responsabilità morale. I massacri sono non soltanto orribili ma anche utili proprio al mantenimento di una condizione che è obbligata a imporre altri massacri, all’infinito. Non c’è nulla di più perverso del diventare spettrale di un meccanismo che produce la morte su larga scala per non fare eclissare la propria spettralità. Tutto ciò non ha la minima consistenza, uccide e basta, esibisce il meno possibile questa oscenità, ma per chi ha l’occhio esercitato non c’è modo di stendere un velo di camuffamento.

Gli spettri sono uomini morti all’umanità, spettri che producono morti. Un cerchio orribile che continua eternamente a ripresentarsi sempre simile a se stesso. Il potere è fatto di spettri che diventano sempre meno consistenti e quindi più spettrali, man mano che ci si avvicina ai fornitori diretti della caverna dei massacri. La ferocia del potere è la sua più intima composizione, un potere non feroce è una contraddizione suicida, non può esistere, si autodistruggerebbe. Nell’estremo territorio della ferocia, quando si accendono le luci accecanti della tortura e del tradimento, non c’è quasi più nulla da dire. Gli spettri tacciono.

Anche i cacciatori di spettri tacciono, si organizzano nel loro fare diuturno che rende possibile l’agire, non parlano. Questo libro è pertanto una strana anomalia, nascendo dai miei dubbi personali, quasi mai condivisi in pieno dai miei compagni, ma con l’intenzione – forse eccessivamente sovradimensionata – di fare luce sul problema di dare la morte. Dove si trova il luogo della (vera) giustizia? Nello stesso luogo della libertà, quindi da nessuna parte. Si trova nel non luogo dell’azione.

Ecco il punto, l’impotenza della parola ritrova la sua potenza a posteriori nella rammemorazione. Eppure, malgrado gli sforzi rammemorativi e lo spazio ad essi dovuto, c’è qualcosa d’altro, c’è una serie di dubbi. La parola può essere deformata fino a farla entrare nella stretta porta del rammemorare, ma resta sempre un prodotto della casa del linguaggio, una povera cosa. Può essere manipolata, può essere distorta, può essere detta male, può non essere capita, alla fine perfino falsificata. Ma il dubbio alimentato, l’intera sua serie composta da domande senza risposta, rimane.

Può una vita ridotta a spettrale apparenza, depotenziata da un’organizzazione di potere gerarchica che mira solo a riprodurre se stessa, essere considerata non vita, o una vita di più basso livello, che è lecito cancellare? Non si può rispondere affermativamente a questa domanda. L’azione sperimenta la libertà e, nella qualità, sperimenta la giustizia. Non pesa o misura. Taglia diritto. Ma che cosa taglia? Taglia una vita. Si pone il problema di cui sopra? No, non se lo pone. Nella qualità è la diversità della coscienza che agisce e azzera l’esistenza di ciò che è l’espressione della quantità nella forma più vuota di contenuto e più orrenda. Essa non ribalta nella speranza di porre rimedio a una ingiustizia, non rimette a posto ciò che a posto non può essere rimesso. Essa taglia. In fondo il dubbio ha bisogno della parola per essere espresso – quindi appartiene alla rammemorazione – ma è qualcosa di più della parola. È una parte dell’orrore che si prova guardando nell’abisso, perché è sull’orlo dell’abisso che l’ospite inatteso si presenta all’interno dell’azione.

Nell’annichilimento dell’umanità nello spettro, realizzato dal potere per gli scopi che conosciamo, si configura la gestualità della maschera, personaggi che vanno a poco a poco perdendo lo spessore della propria vita per ritrovarsi nella trasparente apparenza del fantasma. Questo insinuarsi della maschera è indispensabile per consentire all’uomo, chiamato al compito che conosciamo, di gettare continui sguardi affannati nell’abisso. Il fare si costruisce così la propria salvaguardia sull’orlo dell’indicibile, acquisendo automaticità e persistenza nell’orrore fino a farlo diventare abitudine. Il gesto spossato dello spettro è il prodotto, o forse l’incrocio, di questo cumulo di immani tragedie e di una normalità che le vive quotidianamente fino a farle diventare cesello del particolare, cura e attenzione di artigiano del massacro.

Che biografia individuale può avere uno spettro? Non lo so. La vuotezza da sola non basta a riempire una vita, ci sono altre cose. I ricordi, per esempio. Ma quali? Quelli di un tempo lontano, quando la propria umanità, quale che fosse, ancora palpitava, o quelli di un tempo più vicino, quando gli orrori sono cominciati ad accumularsi nel fare quantitativo che li produce? Chi può dirlo? Non ci sono pezzi di ricordo neutrali, tutto in fondo si mescola a tutto nella mente e, quando qualcosa affiora, un odore del passato, una scena vissuta da piccolo, la propria famiglia dove si è cresciuti, tutto viene amalgamato subito con quello che si è ora, perché i ricordi sono parte del nostro sentire, dello sforzo continuo di cogliere la realtà che ci ospita, non quella che ci ha ospitato, la quale non esiste più.

Ora, se si riflette su questo angoscioso problema, che ricordi può avere uno spettro? Ogni esperienza biografica è parte del presente, quindi per lo spettro è immersa nel sangue e nell’orrore della sua attualità spettrale, non ha niente di umano, ogni ricordo è avvelenato dalla sostanza attuale che è quella fantasmatica e non può avere vita autonoma, pulita, netta, neanche per un attimo. Lo spettro è solo presente, ottuso presente diretto a contemplare se stesso in uno sforzo tremendo di autoconsiderazione che assorbe tutta la sua capacità di fare. Ecco perché lo spettro è spossato. Questo sforzo lo circonda e lo soffoca, lo appiattisce continuamente alla sua condizione spettrale. La verità dello spettro è la sua radicale apparenza così come per noi, che lo combattevamo, era l’azione con la sua altrettanto radicale esistenza. L’essere si contrappone all’apparire mettendo in mostra le varie tonalità di falso che arricchiscono quest’ultimo fino a farlo sembrare vero. Risolvendosi il nostro fare preparatorio nell’azione di attacco, si poneva in atto la fondamentale differenza tra essere e spettralità del non essere, espropriata dal potere allo scopo di permettere la propria sopravvivenza.

In fondo, queste marionette che giravano sotto i nostri occhi attenti a seguire tutte le loro mosse, erano prevedibili come automi di cui si conoscono i limiti programmatici. La sanguinosa scia lasciata dal loro fare era l’unico elemento che ci faceva stare continuamente in tensione, che ci sollecitava ad accelerare il nostro lavoro, per il resto, osservarli e catalogarli, era una conoscenza ben misera, quasi mai ricca di novità o di indicazioni sulla natura umana. I miei dubbi erano miei, non mi venivano suggeriti dal loro comportamento, forse con l’eccezione tragica e accorante dei traditori irlandesi. Ed essi, i miei dubbi, mi afferravano tanto più saldamente quanto più quell’apparire spettrale rischiava di somigliare sempre di più all’umanità generalizzata di cui anche noi facevamo parte. Occorreva tenere presente l’abisso di orrore che si spalancava davanti ai passi di quegli spettri per vedere la loro spettralità concretarsi, altrimenti li si poteva vedere come uomini e basta, magari come uomini con idee diverse dalle nostre, ma prima di tutto uomini.

Infine, la loro consistenza spettrale – prodotta dal compito loro affidato e dalla frequentazione dell’orrore – non poteva cancellare del tutto la loro essenza profonda di esseri umani, ecco la radice dei miei dubbi. Ecco il punto cruciale. Nell’azione erano uomini che attaccavamo, non spettri. Quando l’ospite inatteso si lasciava alle spalle un pupazzo inanimato, avevamo tutti la coscienza di lasciarci alle spalle un uomo che fino a poco tempo prima era vivo e che ora si trovava per terra allo stato di mucchietto di stracci. Il taglio radicale è a un uomo che aveva tolto la vita.

La separazione degli spettri di cui discutiamo, il loro isolamento, la loro spossatezza, hanno un significato nella globalità del potere, cioè in un progetto che non è tale se non comprende anche l’insensatezza del terrore. Così, il ritaglio marginale, a cui viene delegato il compito ambiguo e malefico di completare il perimetro fondante del potere, è manifestamente nascosto, quasi come una vergogna, e nel nascondimento in cui lo si costringe a operare si nota il segno della privazione e dell’isolamento.

Alcune pratiche indispensabili al potere devono restare occulte. Queste particelle spettrali non comunicano né fra loro né con loro stesse, singolarmente prese si chiudono a riccio e si estraniano dalla logica comunicativa condivisa. Non hanno così un fondamento comune con gli altri uomini ma posseggono un residuo di essenza genericamente umana, abbassata e impoverita ma inalienabile. La spossatezza che li contraddistingue è pertanto molto più significativa di una banale constatazione di stanchezza per la natura del lavoro che questi spettri svolgono. La separazione nello specifico dell’obbrobrio, voluta dal potere, appiattisce questi spettri in una matrice che li rende, nello stesso tempo, privi di senso e indispensabili.

Senza dubbio questo vuoto è avvertito dallo spettro che guarda il mondo che lo circonda come se da questo fosse assediato, per cui si vede costretto a costituirsi in unità autonoma e formata essenzialmente da apparenza. L’estremo velamento nullificante che trasforma un uomo in un automa al servizio dei bassi bisogni del potere è forse la dimostrazione più completa di come quest’ultimo tenda ad annichilire tutto ciò che utilizza per il proprio mantenimento. La condizione compiuta di questo annichilimento è la condizione spettrale, dove la potenza del dire scompare in quanto non più utilizzabile e viene sostituita dalla semplice gestualità.

Il gesto – spento e inopportuno, quasi sempre fuori tempo e dissonante – è il riferimento più palese all’alienazione totale di ogni radicamento linguistico che potrebbe perfino tentare di comprendere e quindi giustificare il proprio lavoro, trovarvi una logica di sostegno e di salvezza per il potere, sempre su indicazioni della gerarchia di comando. Invece questa stessa ipotesi – sia pure nella sua grottesca incredibilità – non sussiste. Non c’è esperienza dicibile a parole dell’orrore e dell’orrore loro comandato. Gli spettri tacciono, essi non vivono nella parola e la loro vita non è riferibile, anche i loro gesti non sono traducibili in contenuti. L’esperimento più disarticolante di tutto questo orrore è proprio nell’incapacità di parlarne, da cui l’impossibilità di individuarne il senso.

Sommersi dal nulla che contiene il loro fare, i fantasmi non hanno contenuto e si mostrano per quello che sono, pura apparenza diretta a porre in atto nel proprio fare la sola volontà del potere. L’attacco contro queste espressioni periferiche della fantasmagoria di dominio è quindi un compito importante ma limitato, avrebbe bisogno di un passaggio al limite, cioè di un salto qualitativo insurrezionale – come è accaduto in Grecia – che non sempre si realizza. Ma anche in questo caso, cioè nella modificazione democratica, il potere aggiusta il tiro, indirizza sempre una parte consistente di se stesso verso la caverna dei massacri e, in questo caso, anche l’attacco di cui si parla nel presente libro diventa molto più difficile e spesso, per molti, perfino incomprensibile. Non bisogna dimenticare che il terrore è sempre alla base di ogni tipo di potere, non ci sono eccezioni. Insistere però sulla specificità delle condizioni di una dittatura militare, o di un’occupazione militare di un territorio, è importante per me – dopotutto questo libro è di me che parla, della mia vita e dei miei dubbi oltre che delle mie poche certezze – per cui è questo il motivo che mi spinge a girare il coltello nella piaga.

La condizione spettrale, così riassunta, è pur sempre multiforme, anche se abbassata e svilita essa mantiene un certo contenuto di umanità, è comunque la condizione vissuta da un essere umano chiamato a fare un lavoro orrendo che potrebbe rifiutare. Ecco un altro punto. Perché non rifiuta lo spettro di fare il massacratore? Perché è uno spettro sadico, un mostro d’ignominia? No. Non rifiuta perché è stato educato a fare quel lavoro, a poco a poco, a considerarlo essenziale per la gerarchia che glielo impone. Poi lo sguardo sull’abisso lo trasforma, come lo sguardo di Medusa, in spettro. A questo punto è pronto per l’incontro decisivo con l’ospite inatteso, e lo sa. Ne è prova la sua evidente spossatezza.

Tutto il fare è immerso nell’apparenza, la volontà lo presidia e lo difende. Solo alcuni uomini tagliano questo nodo gordiano ed esistono, accedono all’essere nell’azione. È un modello che ho illustrato a lungo e che è sempre in grado di riservare sorprese. Nell’apertura alla diversità folgorante vive l’essere la sua vita straordinaria, fuori del tempo e dello spazio, immerso nella qualità. Nel chiuso della quantificazione vive la sua vita grama e meticolosa l’apparenza. Per potere chiamare vita questa apparenza fattiva e illusoria, l’uomo ha bisogno di essere riconosciuto, ha bisogno di un volto che gli conferisca una maschera, ha bisogno di essere maschera, cioè persona. Ma questo riconoscimento non è costruito da lui, la sua volontà lo porta verso la ripetizione e l’accumulo, glielo conferiscono gli altri. Così, alla lunga, egli si adegua all’apparenza e si aggrappa al fare quotidiano, al proprio status che lo contrassegna e non lo riconosce se non superficialmente, un’occhiata sfuggente che gli altri gli gettano addosso come un’elemosina, indaffarati nel loro impellente bisogno, a loro volta, di venire riconosciuti. Ognuno ha il suo turno e i suoi problemi.

Il volto dell’apparenza è quindi quello che gli altri ammettono e concedono di vedere, un segno, un tracciato, non è un’apertura ma un sigillo che contrassegna l’operazione quantitativa in corso. Se questo sigillo è messo in discussione, come avviene nell’oltrepassamento, il forte impatto con la qualità lo deforma e lo rende irriconoscibile alla quantità. Quel volto che appariva adesso è l’essere che è e non può non essere nella sua potenza. Nessun essere può mai degradarsi a maschera, a persona, a spettro. Chi ha vissuto l’esperienza diversa dell’azione affronterà la vita diversamente, rifletterà diversamente sulla sua straordinaria esperienza. Lo spettro denuncia un avvenuto abbassamento, una degradazione e li denuncia attraverso il suo volto ridotto allo stato di maschera ghignante. Questo volto, apparendo nell’apparenza, non inganna nessuno, denuncia a chiare lettere ciò che sta dietro, la sconfitta di un mondo ridotto a pochi brandelli di umanità, costretto a muoversi sull’orlo dell’abisso dove muggisce l’orrore. Non dice qualcosa di preciso, non è neanche un annuncio di angoscia o di rammarico, è semplicemente la somma della gestualità spettrale, il luogo dove si intersecano i segnali che la bestia ferita continua a mandare come se aspettasse che qualcuno interrompa in un modo o nell’altro la filiera gerarchica che lo lega a quell’orrore dell’abisso, costringendolo a fare, sempre di più, il suo mestiere di boia.

Molti, discutendone con me, hanno supposto una sorta di comunicabilità cifrata. Non sono d’accordo. Non c’è contenuto reale nel volto del fantasma, come non c’è nella sua gestualità che in quel volto si riassume. Non c’è niente che procede da quel volto verso l’esterno, come non ci sono destinatari deputati alla ricezione di quei gesti. Lo spettro non ha passioni, quindi il suo volto è solo maschera, non rivela ma nasconde. Ma cosa nasconde? Il tradimento dell’uomo. Nulla può essere detto su questo tradimento, esso viene da lontano e raccoglie la parte più bestiale del cuore umano, ribaltando ogni giudizio sull’innocenza originaria. Non è più un segreto questo tradimento, esso si agita in tutti noi, solo l’amore per la libertà lo può mettere a tacere, l’amore per la libertà e il coraggio di affrontare l’avventura nella qualità.

Rannicchiata nel fare, qualsiasi brava persona accarezza continuamente contropelo la brutta bestia che le sta dentro, ed è disponibile ad accettare ordini senza discutere. La sfrontatezza di questa disponibilità forse si arresta a un certo punto, quando ormai si è immersi fino al collo nel lago di sangue, ma allora non si può tornare indietro. Ecco come si costruisce uno spettro, partendo da una brava persona, rispettosa dell’ordine e delle leggi, disponibile ad accettare gli ordini superiori e a metterli in pratica nel migliore dei modi.

Sprofondando nell’apparenza la maschera si incartapecorisce e diventa spettrale, i gesti sono stanchi e ripetitivi, la vita si adegua a una condizione quasi di sopravvivenza, il lavoro è l’unica fonte di preoccupazione e di soddisfazione nello stesso tempo. Il boia è stanco ma anche soddisfatto di essere boia al servizio di chi sa il perché misterioso e inesplicabile – e inspiegato – di quello che continua a fare. Non c’è una strada del ritorno. Lo spettro sa benissimo che può solo andare avanti, macinare altri massacri, affacciarsi ancora una volta sull’orlo dell’abisso, e sa anche che prima o poi l’incontro con l’ospite inatteso, questo emissario del destino, accadrà inevitabilmente.

Nessuno incontro di sguardi, che sarebbe stato un discorso insostenibile e quindi sospetto. Occhi che vagano nell’assurdo o che si abbassano cercando attentamente qualcosa che non può essere dove viene cercato. È lo sguardo rivolto all’abisso insondabile, quello che si apre nella caverna dei massacri. Il richiamo da parte dello spettro sarebbe stato un voler dire una disponibilità che non poteva esistere, un’apertura che era di già sbarrata in partenza.

L’apparenza riguarda soltanto se stessa, è a se stessa che si rivolge. Ed è a se stessa che dà una giustificazione. Tutti ne abbiamo bisogno, perfino i boia. Ecco quindi che questi aguzzini modificavano il loro mondo chiuso e coattamente codificato in un’immagine di normale apertura, assolutamente inesistente ma importante per fare apparire la loro apparenza nell’ambito di una non differenza da un fare che non poteva essere rivendicato perché coperto da una maschera. Senza quartiere, questa maschera deve essere garantita come copertura insostituibile, impermeabile. La verità, la verità dello spettro, è proprio questa corrispondenza assoluta, questo rispecchiamento che non ammette repliche, l’automatismo duplicato all’infinito.

Lo spettro sa di essere guardato, non può non saperlo, ma non può denunciare quello che sta dietro la maschera, la sua verità viene pertanto rispecchiata secondo l’esatto contrario degli ordini ricevuti, duplicazione all’infinito che la maschera rispecchia senza fine all’interno di se stessa. La finzione di fondatezza era così dimenticata o attutita, posta da parte, in caso contrario sarebbe stato impossibile continuare nella propria fattiva capacità di massacro. Essa era una finzione implicita di cui nessuno parlava, nemmeno gli ordini ricevuti dalla gerarchia di comando accennavano a protocolli particolari, sarebbe stato un contraccolpo troppo forte per la finzione, avrebbe sfidato l’occulto che deve sempre coprire il maleficio.

Quello sguardo spossato, smarrito, privo di obiettivo giustificabile, mostrava solo la coscienza della propria simulazione. Paradossalmente uno sguardo diretto avrebbe rotto un meccanismo che stava a monte – gettando un dubbio sulla validità del comando genericamente ricevuto – non a valle su ipotetici raccoglitori o destinatari dello sguardo in questione. Ecco perché eravamo solo noi a cogliere quella spossatezza negli sguardi genericamente rivolti nel vuoto, e ciò perché solo noi sapevamo il motivo di quella simulazione, di quella copertura, di quella maschera. L’essenza di quegli sguardi sfuggiva a tutti, ed era questo il vero contenuto della maschera, la sua funzione di copertura. Inequivocabilmente eludeva il pericolo di un venire a sapere, di un tono di falsità contenuto nello sguardo stesso.

La verità come rispecchiamento è una variante non molto intelligente del falso. In fondo era proprio la maschera a dare allo sguardo dello spettro un senso solo per noi. A insaputa dello stesso spettro? Me la sono posta più volte questa domanda. Ci sono evidentemente molti livelli di consapevolezza e non tutti hanno una pari intensità. La nostra consapevole considerazione dell’accostamento era diversa da quella spettrale. Quanti di noi si rendevano conto di questo mercanteggiamento segreto tra maschera e sguardo? Non molti. All’origine di molti miei problemi personali, di molti miei dubbi, c’era proprio il fatto di non riuscire a discutere questo punto.

L’apparenza che avevamo davanti, attraverso i suoi sguardi – tragicamente estremi quelli dei traditori irlandesi – manifestava qualcosa, una parvenza che tradiva proprio il compito di copertura della maschera. E questo qualcosa era un appello dell’umanità coartata e abbassata, ridotta al minimo vitale ma non distrutta del tutto. Ognuno di quegli sguardi aveva una improprietà irrinunciabile, stonava col contesto comune, col nostro di attaccanti sul punto di colpire, col loro di automi sul punto di continuare a macinare massacri. Apparire non vuol dire solo nascondere, vuol dire anche fare e non agire, circoscriversi e venire circoscritti in un territorio prigioniero dove si è costretti ad accettare ordini, non vuol dire necessariamente maschera, cioè duplicazione e sovrapposizione, vuol dire più spesso filtrare la propria vita attraverso l’alambicco deformante del potere, farsi ridurre allo stato spettrale, una forte accentuazione del semplice apparire. Certo, gli spettri dissimulavano. Ma ci riuscivano fino in fondo? Non è così. Essi fallivano il loro compito secondario, salvare la propria vita nascondendosi, il loro compito primario restando il massacro. La maschera ingannava molti ma non ingannava l’occhio esercitato dell’ospite inatteso. Non ci potevano essere dissimulazioni sufficienti né cambiamenti di atteggiamento che potevano impedire il taglio radicale.

Il volto spettrale è diviso, quindi non è reale. I gesti che lo assistono sono anch’essi divisi, quindi annegano nell’imprecisato limbo dell’insignificanza. Ciò legittima l’uso della violenza radicale? Non sono convinto. Non c’è legittimazione che possa fare regnare sovrana la tranquillità d’animo. Tutta l’organizzazione nostra fronteggiava un meccanismo gerarchico perverso. Lo so. E con questo? Posso autorizzare la mia coscienza, oggi, a distanza di tanto tempo e dopo tante riflessioni, di cui questo libro è solo una piccola parte, a mettersi tranquilla per avere fatto il proprio dovere? No. Non ci sono doveri da compiere, nemmeno quello di uccidere il tiranno o il boia. Tra parentesi, nel Medioevo, quando questi si incontravano, si stringevano la mano.

Se voglio collocare un valore assoluto nell’abbattimento degli aguzzini che ho contribuito a realizzare, mi ritrovo con una falsa coscienza fra le mani, con qualcosa di stonato e di fuori luogo, da difendere con le trombe in testa. Non abbiamo a suo tempo burocratizzato il nostro compito e non lo abbiamo nemmeno sottovalutato. Non eravamo di fronte a nemici veri, viventi una vita vera, ma a spettri, viventi una vita apparente. Il fatto è che anche una vita apparente è sempre una vita, ridotta alla miseria della sopravvivenza ma sempre un segno di vitalità, qualcosa di infimo, nella sua nudità beante ma sempre sussistente, capace di muoversi, di gesticolare, di guardare e, forse, ma non ne sono sicuro, di parlare. È questo residuo vitale che spegnevamo come si spegne un moccolo quasi consumato di candela ma non ancora del tutto esaurito. Un briciolo di vita, qualcuno potrebbe venire su a confortarmi, qualcosa di trascurabile. No. Nessuna traccia vitale è trascurabile, e ciò non per motivi ultraterresti o divini, non per sacralità fuori luogo, ma perché è la vita, l’unica vita che abbiamo, tutti in comune, tutti allo stesso modo nuda, ed è questo che tagliavamo di netto, tagliando con ciò una parte della nostra umanità.

Lo so che ci sono molte obiezioni, lo scontro, la repressione, la caverna dei massacri, la filiera della gerarchia – per noi invalicabile –, insomma una compartimentazione ampia e soddisfacente che riscaldava i nostri cuori e ci faceva andare avanti, ma al di là, il vuoto, il movimento irreversibile del taglio, l’intervento dell’ospite inatteso. Entrare in questo vuoto era facile nell’azione, perché l’azione non ha tempo né luogo, ma dopo la stessa rammemorazione – così come queste righe che stasera sto scrivendo in una cella di un carcere greco – almeno per me riportava alla luce l’essenza di questa nudità della vita. Un conflitto feroce e senza scusanti si scatenava all’interno di me stesso, ben più difficile da affrontare di quello esterno, nel calore bruciante del contatto con la qualità dell’azione. Cercavo di mantenere separato, in una zona di inappropriabilità, il mio lavoro quotidiano, il mio fare preparatorio, cercavo di non tenere conto dei gesti e dei volti che sfilavano davanti ai miei occhi, cercavo di rendermi duro per combattere coloro che della durezza avevano fatto una divisa e una nuova pelle. Ma con ciò non producevo anche in me stesso una sorta di abbassamento, non mi accostavo pericolosamente al limite di quell’abisso dove lo spettro guardava l’orrore nel momento stesso in cui lo metteva in atto? Dubbio atroce.

No. Non era possibile. Io ero il liberatore e loro gli uccisori della libertà, perché queste ubbie? Perché nessuno si salva da uno sguardo lanciato nell’abisso dell’orrore. Ci possono essere attenuanti, scuse, piccole parole che aiutano a convivere con l’abominio, ma non a mettersi in salvo. Avevamo a che fare con mostri da abbattere come animali pericolosi, tutto così tornava al suo posto nella nostra immacolata coscienza di liberatori. A me non stava bene questo bilanciamento, mi sembrava una soluzione accomodante. Dove erano i mostri? Davanti a me vedevo uomini abbassati a livello di spettri, non mostri, uomini dalla vita denudata e impoverita, non animali feroci da braccare e uccidere come che sia. L’unica ancora di salvezza era la reciproca estraneità. I volti e i gesti non le parole. Ecco. Tenersi alla larga dalle parole, dalle loro parole, se poi questi spettri erano capaci di parlare questo non lo abbiamo mai saputo. La mancanza di un accostamento verbale era l’unico mezzo per mantenere in piedi lo spettro, anche e forse ancora più facilmente riguardo il provocatore. Non era un caso, di certo, che l’ospite inatteso arrivava nel più assoluto silenzio.

Il volto di questi spettri, proprio perché sospeso a volte a guardare nell’abisso dell’orrore, sembrava disfarsi come se una minaccia intrinseca di inconsistenza venisse alla superficie per denunciarne la nuda vita dell’apparenza. Eppure erano uomini con le mani sporche di sangue, capaci cioè di portare a termini gli ordini ricevuti, non certo per farli oggetto di discussione o di dubbio. Malgrado questo forte senso del dover fare ecco che la loro spettralità prendeva il sopravvento facendo diventare amorfo e insignificante il loro volto, una faccia da burocrati abituati alla ripetizione e all’obbedienza cieca, ammesso che di faccia in questi casi si possa parlare.

Ma ci vedevano gli spettri? Non lo so. Il nostro lavoro, lungo e puntiglioso, non poteva passare sempre inosservato. Che volto presentavamo loro? Parlo per il mio volto. La mia decisione si annunciava essa attraverso il mio sguardo e i miei gesti? Avevo sufficientemente assunto in me l’abisso dove pure io guardavo? Oppure me ne ritraevo chiudendo gli occhi per salvare la mia buona coscienza rivoluzionaria? Non lo so. Qui mi addentro in territori inesplorati all’epoca e non posso permettermi che congetture. Non dovendo comunicare con gli spettri avevamo una sorta di indifferenza protettiva, come quella dell’uomo di Clapham, ma non so se questa affermazione possa essere considerata una risposta. Ci irrigidivamo in una espressione artificialmente sicura di sé, tipica di chi è certo di essere dalla parte giusta della barricata. C’era anche questa rigidità, perché non poteva esserci? Dopotutto, con il carico dei miei dubbi e questo stesso libro, mi sento ancora di essere stato dalla parte giusta. Ma questa certezza non ci faceva sprofondare in una sorta di identità muta e ottusa, incapace di guardare la propria coda e occupata soltanto a nasconderla? Non lo so. Il gran lavoro ripetitivo di controllo e duplicazione non ci consentiva molte divagazioni, ma non ci costringeva neppure a difendere la nostra identità di liberatori se di questa, a un certo punto, non fossimo stati più convinti.

Il fatto è che il convincimento di qualcosa e la persistenza di un dubbio non sono in grado di elidersi a vicenda, permangono in una sorta di latenza dove sono percepibili ma non pensabili fino in fondo. Occorrerebbe la parola, ma questa non aveva senso imprigionata nel fare, serviva per la sopravvivenza del progetto e per la preparazione dell’azione. Di un’altra parola ci sarebbe stato bisogno, ma questa non potevamo trovarla che dopo l’azione e, come ho più volte ricordato, la rammemorazione quasi sempre era schiacciata dal nuovo fare in arrivo, dalla preparazione della prossima azione.

Ecco che la nostra vita era, nello stesso tempo, vera nell’azione e falsa nel fare, ma senza questa falsità – che condividevamo in quanto apparenza con gli spettri, sia pure dalla parte giusta della barricata – non ci sarebbe stata la parte vera e non avremmo vissuto una o più esperienze diverse ma solo sognato un fare che era banale sopravvivenza.

Facendo propria la qualità – quindi, da questa angolazione, la nostra verità – la vita, la nostra vita, non era spettrale ma esisteva concretamente e, nell’attimo attivo, essa era libera, coglieva tramite l’ospite inatteso la realtà dell’essere che è e non può non essere e tagliava di netto la vita apparente dello spettro.

La nostra apparenza fittizia era quindi riassunta nell’agire trasformativo, era questo a mettere la parola fine all’orrendo contributo al massacro attuato dallo spettro al centro della nostra azione. Il nostro agire era oggettivamente diretto ad afferrare la verità, a togliere ogni dubbio, a sigillare nel suo involucro improprio il falso dell’apparenza che attaccavamo. Non c’era quindi più lo spettro e le nostre preoccupazioni fattive dirette a inquadrarlo nella prospettiva che gli competeva – torturatore, informatore, provocatore, traditore – ma ci appropriavamo della sua nuda vita, ne afferravano la sua messa in gioco, il suo andare avanti e indietro sotto i nostri occhi, azzeravamo l’improprio e il genericamente nemico riducendolo allo statuto di pupazzo spezzato, di mucchio di stracci.

Il fatto di riuscire a fermare questa apparentemente inarrestabile volontà di falsificazione ci rendeva completamente soddisfatti? No. Non completamente. Se fossimo rimasti nell’azione, al di là del punto di non ritorno, lo saremmo stati, ma questo è un altro discorso. L’insoddisfazione non si autoescludeva a causa dei dubbi – parlo per me e suppongo per gli altri – e questi emergevano nella rammemorazione. L’ospite inatteso non sembrava molto interessato a questa parte successiva all’azione.

L’espressione non significativa degli sguardi spettrali dipendeva, a mio avviso, anche dall’essere loro l’ultimo congegno del meccanismo burocratico che li obbligava a fare l’atroce lavoro che li caratterizzava come esecutori di basse opere di giustizia, come si definivano una volta le pratiche del boia. Questa inespressività era pertanto figlia del terrore burocratizzato, prodotto come alla catena di montaggio, una lunga mano del tiranno. Certo sarebbe stato meglio tagliare di netto la testa del tiranno (ironia della sorte proprio in questo carcere dove scrivo il tiranno di quei tempi ormai lontani è morto pochi giorni fa) che non la mano dell’esecutore. Ma non si può sempre fare quello che si vuole, ci sono ostacoli insormontabili, anche se alcune prove sono state fatte in questa direzione, senza risultato.

Tagliare la mano era pur sempre attaccare la nuda vita di un uomo, il che portava – almeno per quel che mi riguardava – a considerare il problema della morte di un uomo da vicino. Somiglianza in nome dell’umanità? Non so che rispondere. Ero portato, come i miei compagni, a considerare quegli spettri come disumani, ma alla lunga non potevo cancellare la somiglianza che ci accomunava. Eravamo insieme, noi, i liberatori, loro, i torturatori, insieme in un confronto che era uno scontro a vita e a morte, senza mezzi termini. Il fatto che le nostre azioni godessero del privilegio dell’iniziativa garantiva di colpire quasi a colpo sicuro obiettivi che – approfondendo gli accostamenti e le misurazioni – si rivelavano spossati. Non erano solo maschere ma uomini, nascosti dietro il simulacro di una spettrale apparenza, nuda apparenza, ma sempre uomini. Vederli era cogliere la simultaneità della loro vita con la nostra, stabilire un tenue filo di contatto, non porsi al sicuro dietro una estraneità mostruosamente animalesca. Non mi arrischio a parlare di somiglianza ma la simultaneità è qualcosa che ci va vicino. È proprio così.

Lo spettro era un’esteriorità, cioè un’apparenza, che andava e veniva sotto i nostri occhi attenti, ma dietro la maschera c’era una vita, ed era questa che andava attaccata. Se lo spettro mi aiutava a estraniare la mia umanità non spettrale, quel sentore di nuda vita coperta dalla maschera mi indicava che c’era qualcosa di più ed era questo qualcosa di più che andava attaccato e abbattuto. Chiunque può cacciare via uno spettro chiudendo gli occhi perché l’oggetto spettrale è una sua costruzione mentale, ma uccidere un uomo non lo si fa con un battere di ciglia. Era verso questa soglia decisiva che si indirizzava l’oltrepassamento. L’azione coglie l’essenza del problema e toglie via i dubbi, ma non mi rimane a fianco, si conchiude fuori del tempo e dello spazio e mi lascia con la tensione dell’esperienza qualitativa e con la ritrovata possibilità di dire i miei dubbi.

Certo, le dittature avanzano spedite sul terreno della repressione sanguinosa mentre le democrazie arrancano un poco, ma un’operazione di polizia è uguale dappertutto e noi eravamo davanti a spettri che erano in sostanza l’ultimo livello della degradazione poliziesca. Tutta la filiera gerarchica era responsabile di questi massacri, ma noi era solo l’ultimo livello che potevamo attingere, e il fatto di renderci conto di questa nostra parziale possibilità non ci confortava nel risolvere – almeno per quel che mi concerne – il problema dell’uccisione di uomo.

Tutti i politici sono responsabili dei massacri che continuano a perpetrarsi nel mondo, e con loro tutti i filosofi e gli storici, ma questo livellamento di gradazione, che anche all’epoca facevo, sia pure con meno chiarezza di oggi, non mi metteva in pace con la mia coscienza diversa in subbuglio dopo l’azione. I miei occhi erano pieni di pupazzi disarticolarti, lasciati alle nostre spalle e del soffio della nuda vita che era uscito da uomini costretti dall’incontro con l’ospite inatteso a diventare mucchietti di stracci.

Niente ha potuto, in tutti questi anni, cancellare quella presenza nei miei occhi, nessuna giustificazione mi ha soddisfatto, nessun discorso apologetico sulla libertà mi ha fornito un solido punto di appoggio. Chi ha visto all’opera la gelida mano dell’ospite inatteso non potrà darsi pace finché il destino non gli rivolgerà la parola definitiva, quella che non ammette repliche. Ed è quello che sto aspettando. I miei occhi sono stanchi e il mio corpo anche, ma l’udito resta vigile, in attesa.

Alfredo M. Bonanno

Finito nel carcere di Korydallos (Atene) il 18 settembre 2010

Nota

Consiglio la lettura di un altro mio libro: Palestina mon amour, Trieste 2007, in particolare le pagine 121-153 della terza edizione. Sono pagine importanti, che completano quanto detto qui.

* * * * *

“FAUST
Come non perde tutte le speranze
solo chi è perso dietro cose futili;
scava con mani avide in cerca di tesori,
trova solo lombrichi, ed è contento!
 
Può risuonare una simile voce
dove mi circondava una piena di spiriti?
Eppure questa volta ti ringrazio,
dei figli della terra il più meschino.
Tu mi hai strappato alla disperazione
che stava per confondermi la mente.
Ah, così immensa fu l’apparizione
che non potevo non sentirmi un nano.
 
Io, immagine di Dio, che già credevo
di toccare lo specchio di eterne verità,
che godevo me stesso nel limpido fulgore
del cielo, cancellato il figlio della terra,
io, più di un cherubino, la cui libera forza
si arrogava presaga di scorrere le vene
della Natura, e creando godere
una vita divina, come devo scontarlo!
Una parola di tuono mi ha schiacciato.
Io non posso presumere di assomigliare a te!
Se ho avuto la forza di attirarti,
non ho avuto la forza di tenerti.
In quell’attimo di felicità
mi sentii così grande, così piccolo;
tu mi hai respinto crudelmente
nella sorte incerta degli uomini.
Chi mi sarà maestro? Cosa devo fuggire?
Devo obbedire a quell’impulso?
Ah! I nostri atti stessi come il nostro patire
frenano il corso della nostra vita.
 
In ciò che di più splendido concepisce lo spirito
penetra sempre più una materia estranea;
quando otteniamo i beni della terra,
i migliori si chiamano inganno ed illusione.
I sentimenti splendidi che ci hanno fatto vivi
nel groviglio terrestre irrigidiscono.
 
Spesso la fantasia con volo audace
si dilata all’eterno con speranza,
ma le basta poco spazio quando naufraga
nel vortice del tempo ogni felicità.
L’angoscia già si annida in fondo al cuore,
vi genera segrete sofferenze,
inquieta vi si culla, turba il piacere, turba
il riposo, si copre di sempre nuove maschere,
appare come casa, podere, moglie, figlio,
come fuoco, acqua, tossico, pugnale;
tremi di tutto ciò che non ti coglie,
e sempre devi piangere quel che non perdi mai.
 
Non somiglio agli dèi! Troppo a fondo lo sento.
Somiglio al verme che fruga nella polvere,
che nella polvere in cui si nutre e vive
il passo del viandante annienta e seppellisce.
 
Non è la polvere di cento scaffali
a farmi angusta quell’alta parete,
il ciarpame di mille cianfrusaglie
a chiudermi in un mondo di tignole?
Devo trovarlo qui quel che mi manca?
Devo leggere forse in mille libri
che gli uomini dovunque si tormentano
e qua e là ne vive uno felice?
Che cosa mi sogghigni, teschio vuoto,
se non che il tuo cervello sviato come il mio
cercava il giorno chiaro assetato di vero
brancolando nelle ombre del crepuscolo?
Voi, strumenti, di certo mi beffate
con le ruote ed i giunti, con i cilindri e i manici:
io ero sulla soglia, eravate la chiave,
ma gli ingegni ritorti non alzano il paletto.
Misteriosa anche nel chiaro giorno
la Natura non si fa rubare il velo,
e quello che al tuo spirito non vuole rivelare
non lo potrai estorcere con le viti e le leve.
Vecchio alambicco che non ho mai usato,
sei qui soltanto perché ti usò mio padre.
Vecchio rotolo, ti sei annerito
mentre fioca la lampada fumava sul leggìo.
Quel poco che possiedo l’avessi scialacquato,
invece di sudare sotto il peso del poco!
Quel che hai ereditato dai tuoi padri
guadágnatelo, per possederlo.
Quel che non giova è un carico pesante;
l’attimo può giovarsi solo di ciò che crea.
 
Ma il mio sguardo perché si fissa su quel punto?
Quella piccola ampolla è un magnete per gli occhi?
Perché una luce amica mi illumina di colpo,
come a notte nel bosco raggi effusi di luna?
Io ti saluto, unica fiala,
che prendo adesso con devozione!
Onoro in te l’ingegno e l’arte degli uomini.
Quintessenza di umori soavi che assopiscono,
estratto di ogni forza che uccide con dolcezza,
dimostra al tuo padrone il tuo favore!
Io ti vedo, e il dolore si lenisce,
io ti prendo, e l’anelito si smorza,
la piena dello spirito a poco a poco scema.
E sono spinto verso il mare aperto,
ai miei piedi scintilla lo specchio delle onde,
un giorno nuovo invita a nuove sponde.
 
Un carro di fuoco su ali leggere
vola verso di me! E io mi sento pronto
a librarmi nell’etere verso nuove sfere
di pura attività, su una via nuova.
Questa alta vita, delizia degli dèi,
tu, che eri un verme, proprio tu la meriti?
Sì, se tu volgi senza tentennare
le spalle al sole dolce della terra!
Abbi l’ardire, e spalanca le porte
da cui ognuno vorrebbe scantonare.
Qui è tempo di provare coi fatti che non cede
alla maestà divina la dignità degli uomini,
di non tremare davanti all’antro oscuro
dove la fantasia da sola si tortura,
di tendere al passaggio alla cui stretta bocca
l’Inferno intero avvampa tutto intorno,
di risolverti lieto a questo passo,
e fosse pure a rischio di perderti nel nulla.
 
Ecco, coppa di limpido cristallo,
a cui per tanti anni non pensai,
esci dal vecchio astuccio e vieni qui!
Alle feste gioiose dei padri scintillavi,
rallegrando gli ospiti severi
quando ciascuno ti porgeva all’altro.
Il ricco fregio di artistiche figure,
l’obbligo a chi beveva di interpretarle in rima
e di vuotarti con un sorso solo
mi rammentano notti giovanili.
Questa volta non ti porgerò al vicino,
non sfoggerò il mio ingegno lodando la tua arte;
inebria troppo in fretta questo liquido
che ora ti empie con un flutto scuro.
L’ultimo sorso che io ho preparato
e che io scelgo sia con tutta l’anima,
saluto alto e solenne, offerto ora al mattino!”.

(J. W, Goethe, Faust)

Uno – quarantanove

1. – Dietro le ultime case, in un improvviso degradare del terreno, il vento aveva accumulato una parte del deserto. L’umidità della notte, sorprendente e inaspettata, faceva sentire ancora di più la stranezza del luogo e del perché mi trovano là. Ho guardato la luna, una piccola fetta, e ho visto la finestra, aperta, e un improvviso balenio. Qualcuno mi aspettava in una qualsiasi casa di una di quelle viuzze nere e abbandonate. Nemmeno una luce, una piccola luce, un segnale di vita, un aiuto, niente. Il silenzio e il vento, due compagni fatti apposta per sollevare il povero velo con cui cerco di nascondere l’inquietudine. Può essere che in quella casa la gente dorma? La cosa non sembra possibile, tanto era diffuso il senso glaciale della morte portato dal vento e accettato senza obiezioni. Qui tutto è impregnato della presenza dell’ospite inatteso, anche quell’unica finestra aperta e quel balenio. Strizzo gli occhi per vedere meglio, non ho i miei occhiali. Che senso avrebbe portare gli occhiali qui, in un posto come questo? Mi stendo sulla sabbia. Il vento ha smesso di soffiare. Aspetto.


2. – La miseria ha la faccia di un bambino nudo completamente coperta di mosche. Una stanza minuscola occupata da un immenso telaio per tessere tappeti fatto con piccoli tronchi d’albero appena sbozzati. Una vecchia lavora come ha fatto in passato e come farà nel suo breve futuro. Fa andare avanti i fili di molti colori e li intreccia annodandoli con cura. A fianco uno sgangherato divano e un piccolo tavolino con su un bicchiere di tè pieno a metà. Il pavimento è di terra e sabbia. Null’altro. Il bambino mi guarda e non so che dirgli. Non so giustificare la mia presenza. Sembro io l’ospite inatteso. Leggo nei suoi occhi enormi e scurissimi questo atroce sospetto.


3. – Una impressione sgradevole, come se nella saletta a fianco ci fosse qualcuno o qualcosa di pericoloso. Nel buio ho tutti i miei sensi all’erta. Stringo il mio amico K fra le mani per farmi coraggio. Avanzo lentamente. La stanza dove mi trovo è vuota e puzza di piscio. Anche la saletta a fianco dovrebbe essere vuota. Ma non ne sono sicuro. Tutto il sobborgo sembra immerso nell’attesa di qualcosa. Anche io aspetto. Poi faccio un balzo avanti e mi trovo di colpo nella saletta. Solo un letto con due donne. Giacciono di traverso, una sull’altra, faccia in aria. Morte. Non c’è motivo per rimanere là. L’ospite inatteso è arrivato di gran lunga prima di me.


4. – Lo sbigottimento del liberatore davanti al compito che lo attende. Anche un fiato, un piccolo impercettibile fiato, può cambiare l’assetto delle cose che mi stanno davanti. Ho in cuore un dispetto segreto, mi sento inadatto, impoverito e portatore di dubbi non di certezze. Che ne faccio dei miei lunghi studi? A che cosa possono mai servire in un posto come questo? Mi guardo attorno. La stanza dove ho passato la notte senza dormire è poco più di una stalla. Non mi lamento. Ieri un bazooka difettoso ha portato via di netto una spalla a un mio amico. Cerco di chiudere gli occhi e di prendere sonno. È tempo di andare via. Mangio una melagrana. Mi serve un po’ d’acqua ma non ce n’è. Forse più tardi potrò bere, per il momento devo essere contento di andare avanti. L’ospite inatteso stanotte non si è voluto presentare.


5. – Dalle fessure sconnesse delle imposte guardo in strada. Di fronte c’è l’ingresso del campo dove mi trovo. Un transito continuo di carri e qualche rara camionetta. Molti camminano con le mani intrecciate dietro la nuca, sembrano prigionieri avviati al patibolo, sono solo manovali selezionati per un piccolo lavoro nella città vicina. Devono essere perquisiti. La luce del giorno è ormai prepotente e aggredisce ogni cosa. Non c’è più quel senso di misteriosa umidità che si avventa nella notte. I lavoratori sono andati via, anche i caporali che li selezionavano per conto del nemico. Qui si deve sopravvivere, non si possono fare sogni schizzinosi. Anche le mie discussioni sono fiacche. Stringo nelle mani il mio amico K e mi è di conforto.


6. – Il tempo qui si è addormentato su molti oggetti che mi circondano. Trofei o ninnoli, armi antiquate e pezzi di vetro legati tra loro per farne collana. Su tutto l’odore provvisorio della mancanza di ricordi, come se il passato fosse stato cancellato dentro di questi oggetti e proiettato in una fantasia lontana, in ogni caso futura. Guardo fuori attraverso una finestra priva di vetri, il respiro del mare non lontano mi porta a pensare qualcosa di insostenibilmente doloroso. Non me lo posso permettere. Devo aprire l’animo ai prossimi impegni. Farmi forza, darmi forza. Non sono un uomo del declinare, sono un uomo della liberazione. Perché questi brividi di paura?


7. – Un gruppo di uomini di affari siede attorno a un tavolino rotondo, troppo piccolo per loro. Non sembrano accorgersi della mia presenza. Parlano fitto a voce bassa. Non deve trattarsi di grandi affari, ma qui ogni pagliuzza è sempre divisa in quattro, causidici per natura, tutti, si affannano per nulla, almeno per quello che a me sembra nulla o poco più. Mi muovo nervoso sulla seggiola, bevo il mio tè alla menta. Guardo l’espressione del mio compagno. Lui è intento a seguire la discussione ma non un muscolo del suo viso si muove. Ci alziamo. Lasciamo il locale al suo destino. Sapeva di chiuso. Altri provvederanno a fargli prendere aria. Era un covo di collaborazionisti. Ma da che cosa lo hanno capito? Forse da un’espressione degli occhi. Non l’ho mai saputo con certezza. Sento anche adesso un gelo nella schiena, mentre scrivo queste righe in un carcere greco.


8. – Li hanno massacrati da poco. Un senso di sgomento mi prende allo stomaco. Il mondo è un vuoto atroce ripieno di cadaveri buttati all’aria senza pietà, come pupazzi inanimati. Un cadavere ha la testa fasciata. Che stranezza. Doveva trattarsi di una precedente ferita. Non c’è molta luce nella stanza dove i corpi giacciono gettati a caso. Non posso farci niente. Mi mordo le labbra per un urlare. Non posso permettermelo. Non entro nel buio delle altre stanze, Verranno altri dopo di me e provvederanno alla sepoltura di questi cadaveri. Il numero cresce in maniera impressionante. Il mio amico K mi pesa nelle mani. Sono abbattuto e sbalordito. Non sono esperienze alle quali ci si fa l’abitudine.


9. – Ragni e topi. Altri animaletti poco gradevoli. Cimici e pidocchi. Non è facile questa altra lotta quotidiana. Ne schiacci uno e ne arrivano cento. La stanza dove mi trovo da una settimana è un allevamento. Bisogna difendere anche le poche cose che riusciamo a mangiare. Doveva essere una specie di magazzino di cuoiami, almeno una volta. È rimasto il tanfo di pesce andato a male e qualche striscia di cuoio, qualche ritaglio ammuffito. La miseria e la violenza hanno cancellato uomini, donne e attività lavorative. Il calar del sole non arreca nessun sollievo. Da qualche parte il verso di un uccello smarrito. Doloroso, come tutto quello che qui mi circonda.


10. – La strada in salita, silenziosa, assorbiva tutta la mia attenzione. La conoscevo metro per metro. Adesso bisognava concludere. La crudele frescura del mattino ancora acerbo sarebbe tra poco stata annullata dalla canicola implacabile. Le palme altissime, immani colonne nell’azzurro del cielo, aspettavano il mio arrivo nella loro vacuità di oggetti innocenti, estranei alla spaventosa responsabilità dell’uomo che viveva nell’ultima casa a destra della strada in salita. Tra poco il senso di oppressione che per il momento mi stringeva lo stomaco sarebbe finito. Lo sapevo per certo. È sempre così quando si mettono con attenzione e accuratezza i puntini sulle i.


11. – Ho con me qualche libro. Lo sfoglio di tanto in tanto. L’inglese non mi è congeniale, qualche cosa la colgo qua e là. Contribuisce questo sforzo a farmi sentire remoto e estraneo. Estraneo a me stesso. Sono portatore di libertà, mi ripeto, non un massacratore. Rimango perplesso sulla panca su cui sono seduto a riflettere. Il mondo che mi circonda è impassibile nel suo dolore e nella sua ferocia, giusta o sbagliata che sia, e mi porta con sé come un fuscello di paglia.


12. – La manifestazione oggi è stata impressionante. Un esercito scarmigliato e vago, senza capo né coda, un bubbone improvvisamente esploso in una città estranea, nemica, che pure dovrebbe essere la loro città, anche la loro. Un andare avanti e indietro. Braccia nerborute di giovani arabi grondanti rivoli di sudore, urla, mugolii animaleschi e nerbate da parte dei poliziotti dalla pelle scura. Sefarditi. Mani nodose che fanno muovere corte fruste e lunghi manganelli. Tutti furiosi, tutti impauriti, specie i poliziotti. Una pazzia. Nessuna traccia di organizzazione, nessun cartello, nessuna bandiera. A che servono questi simboli, non bastano le piaghe aperte e sanguinanti?


13. – Ero venuto con la presunzione di lanciare una sfida. Come mi era accaduto altrove, mi sono dovuto ricredere velocemente. Nessuna letteraria avventura, solo portatore d’acqua, che qui scarseggia per giunta. Nessuna illusione. Non avevo con me la formula della libertà, come non l’ho adesso. Col passare degli anni – e dai momenti che descrivo ne sono passati tanti – mi sono accorto che questa formula non esiste. Qui non c’è nessun vigliacco da guardare dritto negli occhi. Il coraggio sono venuti a stanarlo fin dentro la più misera stamberga e la gente se l’è dovuto inventare se non l’aveva. Ci sono solo occhi di qualche furbo che non vuole accettare il cattivo destino, ma la sua coscienza malata lo denuncia e per lui non c’è pietà. Gli altri aspettano nella costernazione o agiscono trepitando per l’incerto avvenire. Non ci sono alternative.

14. – Corto di braccia e di gambe, obeso, usciva la mattina per recarsi nel solito caffè, dove passava le sue giornate rannicchiato sotto il portico interno aspettando. Camminava faticosamente con i sandali sempre nuovi e lucidi come se li avesse comprati il giorno prima. Custodiva accuratamente il suo segreto lavoro di informatore. Non che provasse soddisfazione a esercitarlo, lo si vedeva dalla faccia sempre ingrugnita, ma era il suo lavoro e perciò lo faceva bene, fino in fondo. Ogni tanto, la sera, lasciato il caffè, non andava diritto a casa ma si fermava sul viale come a fare una passeggiata supplementare e qui lanciava il suo antico segnale di intesa. Sedeva su un piccolo muricciolo mezzo diroccato e lasciava là un pacchetto di tabacco da masticare con dentro i suoi appunti. Qualcuno lo raccoglieva subito dopo. Una sera, un improvviso arrivo dell’ospite inatteso cambiò il suo destino. Il messaggio rimase nella tasca interna da dove non sarebbe mai dovuto uscire. Questa volta arrivò a destino attraverso i macellai dell’obitorio.


15. – La casetta era allegra e ariosa, una vera eccezione in mezzo a tanto squallore e sfacelo. La porta d’ingresso, blindata, non sembrava abbordabile. Avrebbe resistito a qualunque effrazione. Non era possibile avere un’idea dell’interno, dovevano esserci almeno quattro stanze, un lusso eccezionale. Dei papiri crescevano sul terrazzo, acqua in abbondanza. Ma come faceva ad averla, tutta quell’acqua? Dal lato sud, una balaustra a piastrini faceva vedere alcune sdraio da campeggio europeo. Mancavano i fiori. All’imboccatura della via un fienile semidiroccato permetteva un comodo angolo di osservazione. L’uomo aveva una famiglia, misteriosa, come tutto da queste parti. Non era lui a fare la spesa, gliela portava a casa un ragazzo in bicicletta e gliela lasciava davanti alla porta, suonava il campanello e andava via prima che la porta si aprisse. Attraverso uno spiraglio, che non di più si riusciva a scorgere, una mano femminile ritirava la sporta. Tutto qui. Attorno le tracce di tanti malinconici naufragi. Solo quella casetta sembrava inattaccabile. Un giorno come un altro cessò di esserlo. L’ospite inatteso fece la sua visita.


16. – Respiro a pieni polmoni l’aria frizzante del mattino. Il cielo è limpido, senza una nuvola. Sono contento di essere qui, anche se ho dormito poco e male e il tè alla menta continua a non piacermi. Ho mangiato una ciambella zuccherata col sesamo di sopra. Guardo la non lontana chiesa cattolica dei francescani. Da lì dovrebbe uscire il mio uomo. Non posso aspettarlo a lungo perché non sono sufficientemente coperto e la gente mi guarda incuriosita. Per questa volta bisognerà rimandare il pedinamento.


17. – L’amarezza sì, l’intenerimento non mi è consentito. Non posso piangere. Debbo trattenere le lacrime, eppure ci sarebbero molti motivi per non farlo. Mi è sempre più difficile pensare ai bambini massacrati con quotidiana puntigliosità. I perseguitati di ieri sono i persecutori di oggi. Non dà scandalo di sé questa constatazione che tutti potrebbero fare se soltanto aprissero gli occhi. Il sostegno esterno è poca cosa. Vedo altri portatori di libertà aggirarsi come me nel campo e so che domande si stanno facendo, le stesse che mi pongo io tutte le sere, quando mi si stringe il cuore ancora di più. Non posso parlare con nessuno di queste sensazioni, tutti qui si danno da fare per apparire duri e puri. Il sole feroce fruga a fondo dentro di me, inesorabile.

18. – Irrequieto, smanioso di fare, aspetto da alcuni mesi. Mi dicono che verrà il mio momento. Ripeto ogni giorno gli stessi esercizi e ascolto le stesse parole dell’istruttore. Conosco un po’ meglio il mio amico K. Mi dicono che dovrò approfondire sempre di più la sua conoscenza. Momenti di tristezza passeggera. I dolori del mondo rinchiuso che mi circonda si vanno sedimentando a strati nel mio cuore. Come farò a contenerli tutti? Perché? La mia scorza dura di liberatore dove si è rintanata? Non ho dubbi su quello che sono venuto a fare e nemmeno sciocche paure di non farcela. Mi chiedo solo, che cosa vuol dire svuotare il mare con un cucchiaio?


19. – Il mio primo appostamento. Un omuncolo piccolo piccolo, gracile sotto l’ampio svolazzo della tunica. Sembra vibrare tutto come se avesse la febbre. Forse è la paura? Sa che qualcuno sa? Lo vedo fermarsi davanti a una barberia all’aperto. Parla col barbiere. Si guarda attorno. Non può avermi visto. Sembra rassicurato ed è come se si scusasse col barbiere che di certo deve conoscere bene. Su quest’ultimo non si hanno segnalazioni odiose. Sull’omuncolo sì. Per lui sarà solo questione di tempo. Poco tempo.


20. – Nel campo c’è un compagno tedesco di una bruttezza unica. Il peggio è che ha coscienza di questa sua deformità fisica. Non la mette mai tra parentesi ma la sottolinea, quasi la buttasse in faccia agli altri. Sta sempre sulle sue, il corpo infagottato nel mantello arabo, la testa bassa e le spalle ingobbite. Rabbiose contrazioni lo scuotono tutto quando cerca di spiegare in inglese il suo modo di vedere le cose. L’istruttore non lo tollera. Nessun militare inglese tollera le deformità, per giunta tedesche. Qui c’è un po’ di tutto. L’Occidente si incontra con l’estremo Oriente e non sempre ci si capisce bene. Lo scopo forse è comune, aiutare questo popolo a liberarsi dall’oppressione, ma non tutti si considerano uno strumento da mettere al servizio di questi diseredati, alcuni pensano di potere diventare artefici del loro destino. Questi ultimi – come sempre accade in simili casi – sono una minoranza ma hanno gli agganci migliori, sono portatori di aiuti concreti provenienti dall’Est. Armi e bagagli.


21. – Dormito male. Sogni gravidi di incubi. Visioni agitate e smanie. Forse il mangiare, forse la colite consorte dell’acqua. Il risveglio è stato terribile. Ho gli occhi stanchi. Guardo la stessa realtà da mesi, vuota e monotona, vorrei farla rifiorire. Sono qua per questo. Eppure devo aspettare che qualcuno decida per me. Presto. Qui hanno bisogno anche di gente come me e non vanno tanto per il sottile. L’imminenza di un pericolo concreto, uno scontro, un attacco, mi metterebbe in sesto lo stomaco. Ne sono certo. Almeno lo spero.


22. – L’odio è cattivo consigliere. Fa mancare la freddezza e la perseveranza, due dati indispensabili per portare a termine un’azione e salvare la pelle. Raggomitolato nel mio mantello arabo, rifletto su questa massima acconciata da me a mio uso e consumo. E la rabbia crescente dove la metto? Come frenare questo vortice e questa tensione che crescono ogni giorno di più? Non sono un vendicatore né uno strumento di bassa o alta giustizia, non voglio riequilibrare i piatti della bilancia. Sono un liberatore. Mi ripeto meccanicamente queste parole. Alla fine esse diverranno un convincimento.

23. – Siamo dentro un deposito dei servizi di sicurezza. Qualcuno ci ha dato la chiave. Qui le collaborazioni sotterranee si intersecano in modo imprevedibile. C’è sempre qualcuno che sa qualcosa che non dovrebbe sapere. Niente è come sembra da queste parti. Tutto è vecchio e decrepito qui dentro. Non devono entrarci spesso. Ci sono mercanzie di ogni genere, armadi con gli sportelli aperti, tavolini di ogni tipo, la maggior parte piccoli e rotondi, schedari vuoti, cassapanche piene di libri. Mensole, attaccapanni, sedie. Tra poco tutto questo marciume sarà solo un mucchio di cenere. C’è anche una piccola offset. All’aspetto sembra mai usata. È priva dei rulli di inchiostrazione. Un inutile ingombro.


24. – È una guerra sleale, come tutte le guerre. Qui si tocca veramente il fondo. Non basta individuare e colpire le bestie estreme, gli esecutori materiali delle torture e dei massacri, bisognerebbe andare oltre. Ma oltre c’è la gran massa della gente che come tutti i miseri ha una profonda paura di perdere i pochi benefici che rendono tollerabile la propria miseria. I peggiori sono proprio i più poveri, quelli che non avranno mai accesso ai posti di comando perché di pelle scura. Come spiegare loro cos’è la libertà? Questi la confondono con la propria uniforme di guardia civica o di pompiere, se non di poliziotto, e con la possibilità di colpire impunemente quello che loro considerano il nemico. Altri poveri disgraziati cacciati via a forza dalle proprie case mentre i nuovi arrivati mangiavano quello che era rimasto sulla tavola e dormivano vestiti nei loro letti abbandonati in tutta fretta.


25. – Profondamente persuaso del mio compito, ho cominciato ad acquisire una certa pratica per muovermi in un mondo per me del tutto estraneo. Nello stesso tempo la mia persuasione è calata. Avverto sempre il valore di quello che sto facendo, come penso lo avverta uno spazzino tutto il giorno con le mani nella melma. Pulire la parte peggiore, eliminarla. Ma questa cresce sempre, si ricompone, serra i ranghi. Mi occorre una spigliatezza che non posseggo per continuare.


26. – La mia vita passata chiusa, seppellita quasi del tutto nel lavoro. Ed ora qui, una vita imprevedibile. Non è facile affrontare con freddezza questo cambiamento. Cordiali i compagni, irreprensibile l’istruttore, a modo suo inavvicinabile, confusi i programmi se mai dovessero esserci. Non sono un avventuriero né un professionista militare, sono un anarchico, un portatore di libertà. Ma dove posso donarla, e a chi, questa libertà? Siamo giusti, occorrerebbero anni di spiegazioni, mentre qui bisogna subito riparare qualche falla, farsi vedere che si è vivi e non ancora morti, che non si ha paura. Insomma fare la voce grossa. Non è così che si può portare la libertà. Tutti qui soffrono e hanno sofferto, mi carico di una parte della loro pena. Sono forse un caritatevole cristiano benefattore degli oppressi? No. Mi si propone una efficacia che non posseggo e che forse, prima o poi, avrò. E dopo? Il riconoscimento di una infamia rende abilitati ad alzare la mano per colpire l’infame? Non lo so. Faccio ed ho dubbi nel fare. Le due cose – mi dicono – sono una grave contraddizione che devo superare. Non so se ci riuscirò.


27. – L’ospite inatteso è sempre nell’aria, domina tutti i discorsi e tutti i pensieri. Ognuno se lo immagina a modo suo. Io lo sento spesso venire fuori improvviso da qualcosa che sto facendo, anche un banale pedinamento preparatorio, la misurazione dei tempi, la percorrenza delle distanze, insomma tutte le monotone ripetizioni della lotta contro un nemico strapotente. In questi andirivieni lo incontro spesso, non mi tradisco né manifesto la mia emozione, sono diventato abile a dissimulare. In caso contrario chi avrebbe sùbito la meglio? Ma non posso fare a meno di vederlo quando avanzo a tentoni nella tenebra invadente di un cortile appartato o di una casa sconosciuta. L’unica via d’uscita nei suoi confronti è non pensarci. Alla lunga corro il rischio di farlo diventare un incubo e di ospitarlo pesantemente nella mia vita di tutti i giorni. Questo non deve accadere. Mi devo slanciare avanti, verso la libertà. Ma da quale parte si trova la strada che porta alla libertà?


28. – Nessuna distrazione, nemmeno un attimo di disattenzione. Potrebbe essere l’ultimo attimo della mia vita. L’istruttore è un uccello del malaugurio. Oppure no? Sono stretto da tutte le parti. La mia esistenza adesso è divisa tra l’attesa e la mia amicizia con K. Lo stringo fra le mani e lo guardo con affetto. Non ho mai avuto nessun interesse particolare per le armi. Questa è invece una parte essenziale della mia vita. Debbo contare sulla sua assistenza giorno e notte. Questa sorta di dipendenza mi agghiaccia le vene. Ieri sono stato per diverso tempo guardando un balcone che non dava segni di vita. Un balcone come ci sono dalle mie parti. Ho avuto la tentazione di balzare fuori dal mio appostamento e farla finita una volta per tutte. L’ospite inatteso non era da quelle parti.


29. – Mi stupisco della calma che c’è in me. A volte, sempre più spesso, tutta questa assurda vicenda diventa una routine, un’abitudine quotidiana, un lavoro. E io so bene cos’è un lavoro. Anni fa, quando ero nella resistenza greca, ero ancora al lavoro. Mi assentavo per un paio di mesi ogni volta e gettavo nel panico i padroni dell’azienda farmaceutica che dirigevo. Una doppia vita che non poteva durare a lungo. Appena nove mesi. Ora tutto è diverso. Dopo un breve riposo in una vecchia cuccetta militare mi sveglio pronto a riprendere il lavoro. La mia casa è lontana, i miei affetti lontani, tutto il resto è lontano. Solo è vicino il mio amico K e le attività che andrò a svolgere. Mi accorgo spesso di non essere del tutto pronto per l’azione, ma non sono solo io in questa situazione, penso che lo siamo tutti. Sostituiamo la determinazione alla preparazione, che altro possiamo fare?


30. – Oggi c’è un gran vento che viene dal deserto. A ogni folata i vetri precari e feriti delle finestre tremano e avvertono che stanno per cadere. Uso della colla per attaccare pezzi di carta dove ci sono le fenditure. Non funziona. Tutto sta per andare in frantumi. Poi il vento, come spesso succede da queste parti, cade di colpo. È notte. La porta del terrazzo sbatte ancora a ogni piccolo risveglio del vento, mi avverte che sono ancora vivo. Nella cuccetta vicina un compagno tedesco dorme. Due giorni fa è stato ferito a una mano in uno scontro a fuoco. Per fortuna non la si è dovuta amputare. Ha detto che non vuole tornare indietro. Penso debba avere la febbre perché sta tremando nel sonno. Qui c’è un infermiere ma non voglio svegliarlo per così poco. In fondo, tutto quello che succede qui, anche il lavoro dell’ospite inatteso, sembra qualcosa di poco conto. La morte è nell’aria, impalpabile ma presente. Alla fine non ci si fa più attenzione.


31. – Non posso scrivere. Neanche un appunto. È vietato. Potrebbero trovarlo e partire per una ricerca poliziesca delle imprevedibili conclusioni. Ho qui il mio stesso nome che usavo nella resistenza greca. Ma questa non può essere mai una traccia. Riformulo quindi nella mia mente gli appunti che vorrei mettere sulla carta, do loro una forma articolata, abbastanza simile a queste righe che sto scrivendo tanti anni dopo in un carcere greco. Il mio cervello è proprio addestrato per questo compito. Anni di preparazione lo hanno reso uno strumento docile ed efficace. Non così il mio corpo. È su quest’ultimo che devo lavorare. Ho pensato al dolore. Sarei capace di sopportarlo? Certamente, mi dico. Ma fino a quanto?


32. – Il vento ha portato nel campo un gran quantitativo di sabbia. La porta della baracca stamattina quasi non si poteva aprire. Sono tutti molto tesi. Non a causa del vento, che è cessato in nottata, ma dell’azione di oggi. Non vengo scelto per andare. Vanno in quattro. Noi restiamo a fantasticare e a mangiarci il fegato. Nel pomeriggio sono di ritorno. L’azione è sfumata. L’uomo è stato avvertito e ha cambiato itinerari, oppure un caso, uno stramaledetto caso gli ha fatto fare un percorso diverso. So bene qual è l’itinerario, l’ho controllato per alcuni giorni. Sempre preciso come un orologio. Non stamattina. Tutti sono stanchi e un po’ giù col morale. Il coordinatore ha l’intelligenza di non aspettarsi granché oggi da tutti noi. Domani, forse. È spesso così. Un gran lavoro, minuziosamente e costosamente articolato, va in fumo per una banalità. Ancora una volta l’ospite inatteso non è stato della partita.


33. – Precipitato dal terzo piano. Era andato sulla terrazza per fuggire ma non aveva avuto scampo se non cercare di saltare nella casa successiva, troppo lontana da raggiungere con un salto. Adesso era un mucchio raccapricciante di carne e di stracci. Eppure si muoveva ancora. Ho guardato i suoi occhi smarriti, sbalorditi, come cercasse di dirmi, perché? perché proprio a me? Il sole implacabile non consentiva illusioni. Non era compito mio aiutare l’ospite inatteso. Aveva fatto tutto lui. Adesso il grumo era immobile. Forse non era trascorso più di un paio di minuti. Il cappuccio era scivolato e dalla testa spaccata usciva qualcosa che veniva frenata dai capelli grigi, ruvidamente aggrovigliati, ricci. Ricordo le mani, distese sull’asfalto a palma in giù, enormi. Mani da torturatore.


34. – La morte di un miserabile non fa gioire. La morte è sempre la morte. Qualcuno è là, davanti a noi, a ricordare con la sua estrema esperienza, più o meno traumatica, quella che sarà la nostra esperienza. Il viso – quando lo si può vedere – a volte manda un ultimo messaggio. Stanchezza, quasi sempre di stanchezza, mai di serenità. La vita stanca e le miserie che la intessono non aiutano certo a farla migliorare. La morte disillude sempre, non è mai quella che ci si aspettava di vedere all’opera. Non è un fatto, è un di già accaduto, un materiale d’archivio, da obitorio. Eppure occorrerebbe avere la possibilità di parlare con un cadavere, specie quando c’è qualcosa in comune, qualcosa che lega per sempre e che nessuna fondatezza filosofica può sciogliere. Non è questione di rimanere costernati per l’accaduto, dopotutto lo si era costruito, quest’ultimo, nei dettagli, quindi non deve sorprendere. Eppure c’è qualcosa d’altro, una insoddisfazione come di cosa malfatta, che per reggersi ha bisogno di mille sofisticherie. È faccenda che si trascina lentissima, per ore e giorni. Poi scompare o si affievolisce. Ma torna, di quanto in quanto, torna a chiedere, perché?


35. – Non potevo immaginare che l’ingerenza politica arrivasse fin quaggiù. Vengono, non in molti, ma vengono. Specie cecoslovacchi, a quello che mi dicono. Controllano se i loro investimenti sono in corso di fruttare qualcosa. Per la verità non si aspettano molto ma non hanno neanche dato molto. È un piano sporco che non mi sfiora e che non mi riguarda. Mi fa ribrezzo solo vedere queste ombre che si aggirano qui attorno e poi partono per essere sostituite, dopo pochi giorni, da altre ombre. Gli aiuti ci sono – non so quanti morirebbero senza questi aiuti – ma sono dati con una certa pelosità sottointesa. Una specie di ricatto. Le organizzazioni locali si fanno largo a spallate tra di loro per gestire questi aiuti. I leader appaiono sotto scorta e sotto scorta se ne vanno. I massacri restano.


36. – Occorre una certa cocciutaggine per andare avanti. Non è questione di fondamento teorico o di analisi di fondo, qui è pestare l’acqua sempre nello stesso mortaio, con i risultati che si possono immaginare. In un certo senso questo andare comunque avanti ha una sua logica. Individuato il nemico bisogna colpirlo. Questa semplice frase è molto più complessa di quello che si può immaginare. La cosa richiede un lavoro enorme. Una enorme fatica ripetitiva e noiosa. Nulla di bruciante capace di portarti via il cuore in un empito di travolgente e coraggioso mettersi a rischio. Qui tutto è calcolato, salvo gli imprevisti. Ma questi ultimi sono, quasi sempre, o incidenti o disillusioni. Dopo tanto lavoro qualcosa va storto e bisogna ricominciare daccapo. Si può essere provati e sperimentati, ma non si riesce mai ad accettare pacificamente uno smacco plateale contro cui non c’è nulla da fare se non tornarsene indietro e provare a ricominciare. Nel frattempo l’obiettivo si è bagnato – come si dice in gergo – e bisogna aspettare che si asciughi. Fastidi anche maggiori e accorgimenti più delicati e lunghi. L’ospite inatteso a volte tarda a venire.


37. – Città antica, eterna come quell’altra, ora diventata enorme, fastosa in maniera stupida, divisa in tanti luoghi contrastanti di preghiera e di culto, in quartieri chiusi, interdetti, dov’è pericoloso inoltrarsi se non si è dal lato giusto. Città laboriosa, sapiente, lenta e capace di aspettare. Alberi dove una volta c’era solo l’aria attesa del nulla. E tanto odio, tanta amarezza, tanto rammarico reciproco, tanto sospetto. Nervi a fior di pelle. Un fruscio sommesso può scatenare reazioni scomposte, inaspettate. Città dove non è possibile passeggiare sotto la luna, né ascoltare il canto dei grilli, tutto sembra sia sempre in attesa del prossimo evento distruttivo. Città che campa alle spalle di una minoranza di diseredati, custodita da cittadini di seconda categoria. Città di riti e di regimi rigidi rispettati con compunta ferocia. In fondo, città dove i giovani fanno presto a diventare vecchi e i vecchi offrono un esempio spaventoso di rancore e di acredine verso tutti. Loro stessi compresi.


38. – Il negoziante era un tipo poderoso, tozzo, il collo taurino, le spalle enormi. Eppure aveva un aspetto quasi dimesso nella faccia contornata dalla lunga barba ortodossa. Gli occhi erano guardinghi, con transitori lampi di furbizia e di attenzione. La mattina presto, arrivando, dopo avere alzato la saracinesca dell’oreficeria, spazzava il marciapiedi davanti alla porta. Poi si tappava dietro il banco aspettando i clienti. Ecco, questi ultimi erano il vero problema, almeno a quel che avevamo saputo. Il negozio era una casella postale del servizio di informazione. Vedendo questi pochi clienti sussiegosi nell’intera giornata, mai più di quattro o cinque, ci si rendeva conto che c’era qualcosa di particolare. Erano tutti uomini, cosa di per sé non degna di sospetto, ma sembravano fabbricati su misura. Perfino sembrava che tutti vestissero allo stesso modo e si muovessero con la stessa circospezione. Poi la conferma. Ne pediniamo alcuni. Entrano tutti nello stesso caffè, poco distante, dove si siedono a un tavolinetto appartato confabulando con altri tipi congeniali. Convocare l’ospite inatteso è ormai necessario.


39. – Nel quartiere arabo lo scoppio produsse una gran confusione. Non era una cosa gravissima, solo qualche vetro rotto, ma rimaneva l’avvertimento. Le case, povere e confuse, da questa parte, avevano tremato tutte. Mi ronzavano le orecchie per lo spostamento d’aria, anche se non ero stato proprio vicino allo scoppio. C’era qualcosa nell’aria che non mi convinceva. Non si sentivano in arrivo i camion dei pompieri né le auto della polizia. Tutto quanto avvenne dopo molto tempo, come se si volesse dare possibilità alle cose di riassettarsi da sole, di trovare una loro intima compostezza autonomamente, senza ingerenze esterne. Strana convivenza di un’antica civiltà divisa in due. Magari in più di due parti. Chi può saperlo. Questo è il paese delle sfumature imprevedibili.


40. – La donna, anziana, aveva un contegno dignitoso, come sapesse sempre quello che bisognava fare. In capo uno scialle sui capelli argentei che le coprivano la fronte. Un pizzo nero le girava attorno al collo e restava annodato sotto il mento. Le mani piccole avevano alcuni anelli che non dovevano essere di gran valore. Viveva nella miseria? Non proprio. Il mestiere del marito, prestatore di soldi ad altissimo tasso di interessi, doveva essere piuttosto lucroso. Ma quel suo abbigliarsi era forse destinato a stornare l’attenzione dagli affari loschi del consorte? Non era stato possibile capire in che modo venissero selezionati i clienti, con quali mezzi si mettevano insieme le informazioni necessarie alla concessione dei prestiti mai su pegno. Si vedeva solo un andirivieni di povera gente. Doveva trattarsi di piccoli prestiti al consumo, i più micidiali. La segnalazione era arrivata dal centro di raccolta informazioni e non riguardava l’usura ma una piccola attività collaterale, supporto per un’organizzazione clandestina ortodossa. Le due cose si sposavano magnificamente. L’una copriva l’altra. Anche questa volta l’ospite inatteso venne puntuale. L’uomo aveva un paio di occhiali d’oro che caddero sul bancone. Le lenti rimasero intatte. Anche la cassaforte.


41. – Un compagno è stato ferito in un’imboscata. Non una ferita grave. La pallottola gli ha attraversato il braccio sinistro. Nessun rischio perché subito venuta fuori dall’altro lato. Adesso porta il braccio al collo e una corta fasciatura. Ne avrà per una settimana o più. Mi dice che li aspettavano proprio nel posto in cui avrebbero dovuto fermarsi e osservare il lungo e occhialuto personaggio che coordina le frange sparse utilizzate con pochi spiccioli dal servizio. Qualcosa non deve essere andata per il verso giusto. Era proprio il primo giorno di osservazione e non ci dovevano essere intoppi. Invece il personaggio doveva essere stato preventivamente custodito bene perché temevano qualcosa del genere. Troppo esposto, lui. Troppo esposti, noi. Un gioco sottile, mi dice il compagno ferito, tentennando il capo. È un uomo di circa cinquant’anni con una lunga esperienza in diversi movimenti clandestini di resistenza. E così, conclude, mi hanno messo fuori gioco. Un altro giorno è trascorso. Non riesco a prendere sonno. Quando toccherà a me? mi dico, senza timore, come cosa più o meno ineluttabile.


42. – In fondo al caffè un vecchio era seduto davanti al suo bicchiere di tè alla menta. Non beveva. Sulle labbra un perenne sorrisetto ambiguo, enigmatico. Nessuno sapeva ciò che quel sorrisetto nascondesse. Eppure la segnalazione ricevuta parlava chiaro. Il vecchio aspettava messaggi da trasmettere ai servizi. Non cose importanti, piccole notizie, e si rallegrava delle minuscole provvigioni che gli sarebbero piovute in tasca per quel suo lavoro di stupida spia. Non si spazientiva mai nell’attesa, era quello il suo compito, alla fine della giornata, se non c’erano stati messaggi, se ne tornava tranquillo a casa, una catapecchia in periferia nord, dove viveva da solo. Mille individui come lui fungevano da trasmettitori stabili. Il valore delle notizie non aveva importanza. Quello che per giorni e giorni era stato uno stupido e incongruo prendere e riportare, alla fine, improvvisamente, poteva rivelarsi importante. Lui non l’avrebbe mai saputo. Mai gli vidi gettare a destra o a manca uno sguardo inquieto. Non si voltava mai indietro nella via del ritorno a casa. Non si voltò nemmeno quando l’ospite inatteso venne a fargli visita. Forse gli rimase in bocca l’eterno sorrisetto.


43. – Nella campagna arsa, piena di stoppie, a fianco di un viottolo scosceso, c’era un nascondiglio non più largo di venti centimetri quadrati. Gli strilli gioiosi degli uccelli lo custodirono finché non lo scoprimmo, quasi per caso. La vecchia che andava a prendere il contenuto del nascondiglio, un piccolo pacchetto, si sedeva su di una pietra lì vicino, come per riposare. Nessuno poteva sospettare di lei. Non abbiamo mai saputo perché lo facesse, forse perché gli era morto un figlio in guerra e, a modo suo, continuava quello che lui aveva dovuto interrompere. Oppure per denaro. Non lo abbiamo mai saputo. Al posto suo, per un po’ di tempo, abbiamo prelevato noi i messaggi. Chi sapeva leggerli ce li tradusse in inglese. Nulla d’importante, un piccolo punto di una grande rete, vastissima, che si collegava per mantenere in piedi una repressione e un controllo capillari. In una parola, quelle che si possono definire notizie di quartiere. Partenze, arrivi, strani atteggiamenti, visite impreviste. Roba di ordinaria tristezza.


44. – Nel campo c’è una vivissima agitazione. Fra qualche giorno si parte per iniziare concretamente le prime azioni. L’enorme bagaglio delle tecniche e delle chiacchiere ce lo lasciamo alle spalle. L’istruttore sorride, come può farlo un istruttore inglese, una specie di topo biondastro. Non si è mai curato di sembrare diverso da quello che è sempre stato, una perfetta macchina bellica. Lo saluto mentre sto preparando il bagaglio. Il mio inglese non consente lunghe conversazioni. E lui non è il tipo di intavolarne per fare passare il tempo.


45. – I due monaci sono simpatici e imprevedibili. Non tanto per la loro filosofia e per i loro giochi ginnici di prestigio, quanto come uomini. Sorridono sempre, sono sempre presenti e non perdono mai la pazienza. Non è facile capire quello che pensa un orientale. Il massimo dello sdegno è una sorta di mezzo inchino compunto, come se l’errore o la stupida affermazione fosse roba loro e non nostra. In fondo anche loro sono istruttori, più dell’animo che del corpo. Hanno per mesi allenato il coraggio senza farcene accorgere parlando dei nostri muscoli e di quello che la mente, concentrandosi, può far fare loro. So che ricominceranno con altri dopo di noi. Sono impassibilmente contenti. Avrebbero la stessa faccia se fossero adirati o addirittura imbestialiti. Li saluto con un leggero inchino. Loro congiungono le mani, io no. Mi sentirei ridicolo. Per quanto riguarda la loro arte resto dal lato dell’ignoranza. Quello che ho appreso è troppo poco e la mia mentalità pragmatica mi impedisce di capirlo fino in fondo. So toccare un uomo con un dito e fermargli la respirazione, ma non so se questo mi riuscirà proprio nel momento in cui sarà assolutamente necessario farlo. E questo annulla qualsiasi vantaggio tecnico posso avere immagazzinato. Sono non solo un principiante, ma anche un incerto. Non ho la sufficiente determinazione. Abbraccio il mio amico K e mi sento di colpo più sicuro. E questo, come mi hanno spiegato, è un segno di paura, un bisogno profondamente fallico di una protesi aggressiva.


46. – La pace apparente del deserto di notte non riusciva a ispirarmi la calma. Ero nervoso e preoccupato che la mia ansia si vedesse e anche gli altri compagni ne subissero le conseguenze. Il mio primo appostamento attivo, come veniva chiamato quando si concludeva con tutta probabilità con un attacco, non poteva non causarmi questo pulsare delle vene e questo battere del cuore che temevo tutti potessero sentire. Non si vedeva molto della pista al margine della quale eravamo, nei pressi di una curva. La parte più distante invece rimaneva coperta da un improvviso alzarsi del terreno, una specie di dosso o collinetta. Rimanevo assorto nel mio tentativo di controllarmi, di darmi un atteggiamento. Stringevo forte il mio amico K, l’unico con cui avrei potuto confidarmi, ma lui non parlava, e questo era un gran bene. Non era il momento delle chiacchiere. Eppure ero lì, totalmente lì. Nessun pensiero di un altrove, nessun sentimento estraneo alla mia povera esistenza tutta rappresa nella posizione accovacciata in cui mi trovavo. Ed è lì che arrivò l’ospite inatteso, non per noi, ma per il nemico. L’attesa, neanche tanto lunga, non poteva avere esito migliore.


47. – Controllare, dominare la propria natura impulsiva, rimanere impassibili mentre dentro divampa un fuoco, ma come è possibile tutto ciò? I monaci avevano accennato a una sorta di gesto, un movimento impercettibile delle mani o dei piedi, uno strizzare lento e ritmico di un occhio, insomma un punto su cui concentrare la propria attenzione. Contare questi movimenti, distribuirli per gruppi e poi tenerli insieme in una doppia enumerazione, una provvista di numeri e una di oggetti presenti, come se i vari gruppi di movimenti si posassero su quegli oggetti e là giacessero in attesa di essere rimossi. Ho impiegato recentemente, qualche mese fa, ancora una volta, questo metodo, mentre venivo torturato nella città greca dove sono stato arrestato. Dentro certi limiti funziona. In quei tempi remoti, a cui risalgono le rammemorazioni che vado descrivendo, queste tecniche le conoscevo meglio. Non so dire se sono state, in un passato lontano e recente, veramente utili.


48. – Una prova della stupidità degli uomini, come qualsiasi divisione fondata sulla paura dell’altro, del diverso. Una prova di quanto partendo da buone ragioni si possa facilmente travalicare nelle cattive, da reietti a persecutori. E la melma politica, dappertutto. Anche nella più estrema miseria. Ancora divisioni su divisioni, leader e progetti, uno più oltranzista dell’altro, sulla carta, alla fin fine bisogna vedere le cose con gli occhi del realismo. Ecco, non sono stati mai questi i miei occhi, eppure mi accorgo che non sono nemmeno quelli di un idealista. Sopporto quello che posso sopportare, il resto lo devo decidere con i miei compagni, altrimenti niente da fare, non sono disponibile. Nessuno può distruggere le mie idee e queste non sono al servizio di nessuno, sono mie e non sono disponibili. Abbiamo preparato un magnifico spettacolo pirotecnico, dettagli, mezzi, e tutto il resto. Obiettivo, accettabilissimo, nulla da ridire. Non è stato possibile realizzarlo. Non è venuto il placet politico. Motivi sconosciuti. Chissà quali equilibri stavamo per stanare e sconvolgere. Da buoni atomi infinitesimali abbiamo soprasseduto. Qui non si possono fare rivolte al nostro interno, sarebbe un amaro controsenso. Azzuffarsi fra di noi. È accaduto in passato e le conseguenze sono state gravissime, me lo hanno raccontato come si racconta un’atroce favola per bambini. Oggi è diversa la situazione. Oggi siamo tutti più maturi. Siamo tutti compenetrati dalle incalcolabili miserie che ci circondano ma soprattutto regna sempre l’ordine politico, gli equilibri internazionali e tutto il resto. Per il rispetto che debbo a me stesso cerco di pensare alla prossima azione. La condividerò di certo, è impensabile il contrario. Siamo tutti nella stessa barca. Ma so anche che non è solo questione di forma.


49. – C’è un’accettazione diffusa delle condizioni di miseria in cui tutti, nessuno escluso, ci troviamo. Miseria e disordine, confusione e sporcizia. È un miracolo bere, pensare di lavarsi decentemente è fuori discussione. Ogni tanto, andando nella città, con opportune cautele e utilizzando conoscenze sicure ci si può lavare. Questo è un problema che colpisce tutti ma nessuno si lamenta, lo si sapeva prima di venire qui. Guardo spesso la strana e muta costernazione dei vecchi, accoccolati davanti alle porte delle baracche aspettando la fine. Cosa pensano dei tempi non molto lontani? Che ne è del ricordo di quando sono stati cacciati dalle loro case? Che lavoro facevano? Ora sono muti oggetti. Le donne anziane sono più vive. Hanno spesso occhi scuri, da furetto, e si infuriano facilmente, imprecano, sputano e corrono per quel che permettono le loro forze a prendere l’acqua al pozzo senza salutare nessuno.

* * * * *

“FAUST
In ogni abito sentirò il tormento
di questa angusta vita terrestre.
Io sono troppo vecchio per giocare,
troppo giovane per non desiderare.
Il mondo che cosa mi può offrire?
Rinunciare tu devi! rinunciare!
Questo è l’eterno ritornello
che risuona all’orecchio di ciascuno,
che ogni ora per tutta la vita
ci ricanta con voce roca.
Al mattino mi sveglio con orrore,
vorrei piangere lacrime amare
vedendo il giorno che nel suo cammino
non un mio voto appagherà, non uno,
che svuoterà con critiche ostinate
anche il presentimento del piacere
e con le mille inezie della vita
vieterà di creare al mio animo inquieto.
Quando cala la notte con angoscia
io debbo coricarmi sul giaciglio;
neppure su di esso trovo pace,
spaventato da incubi crudeli.
Il dio che mi abita nel petto
può commuovere il fondo del mio animo;
egli regna su tutte le mie forze,
e non può muover nulla al di fuori di me.
Io sento l’esistenza come un peso,
desidero la morte, odio la vita.
 
MEFISTOFELE
E tuttavia la morte non è mai benvenuta.
 
FAUST
Felice l’uomo al quale, fulgido di vittoria,
la morte cinge il capo di allori insanguinati,
felice chi la incontra dopo danze sfrenate,
allacciato da braccia di fanciulla!
Davanti alla potenza di quel sublime spirito
fossi caduto in estasi e spirato!
 
MEFISTOFELE
E tuttavia qualcuno, quella notte,
non ha bevuto una bevanda scura.
 
FAUST
Spiare, a quanto sembra, ti diverte.
 
MEFISTOFELE
Onnisciente non sono; però so molte cose.
 
FAUST
Se mi strappò a quel groviglio orrendo
allora un suono dolce e familiare
e illuse con l’eco di giorni felici
un resto di infantili sentimenti,
io maledico ogni allettamento,
ogni miraggio che avviluppa l’anima
e con forze che accecano e lusingano
l’esilia in questa valle di tristezza!
Maledetto sia l’alto intendimento
con cui lo spirito s’intrappola da sé!
Maledetto l’abbaglio dei fenomeni
che si rovescia contro i nostri sensi!
Maledetta l’ipocrisia dei sogni,
l’inganno della gloria e di un nome che duri!
Maledetto il possesso che ci adula
come donna o figlio, come servo o aratro!
Maledetto Mammone, sia quando ci sprona
con i tesori a osare imprese audaci,
sia quando ci accomoda i cuscini
per invitarci a godimenti oziosi!
Maledetto sia il succo balsamico dell’uva!
Maledetta la grazia suprema dell’amore!
Maledetta speranza! Maledetta la fede!
E maledetta soprattutto la pazienza!”.

(J. W. Goethe, Faust)

Cinquanta – novantanove

50. – Ho un mio personale sentimento della giustizia. Aspro e rigido, come tutti gli anarchici. Sono contro questa condizione separata, anticamera della morte. E sono contro coloro che alimentano l’ideologia esclusivamente politica di buttare a mare gli usurpatori della loro terra. Convivere. Ecco la soluzione iniziale, degenerata poi a causa degli interessi internazionali e della cresciuta potenza militare dei guardiani e dei custodi dello sfruttamento. Questo posto è un ginepraio di spaventosi contrasti. Non voglio entrare in essi. Ma voglio colpire i torturatori, i politici, gli imbroglioni, gli sfruttatori, gli uomini dei servizi, i manganellatori, gli estremisti di destra che qua sono in maggioranza uomini di colore. Birbanti nei cui confronti è giusto facilitare l’arrivo dell’ospite inatteso. Tutti i miei compagni condividono questa scelta.


51. – Un omino pulito e vestito all’europea. Occhietti furbi ma nascosti dietro un colossale paio di occhiali. Pettinato con cura. Pochi capelli divisi nel mezzo con una riga che pareva disegnata. Forse colorati di un nero inverosimile. Non sembrava darsi pensiero di essere seguito. Anche lui aveva l’aspetto di uno sfaccendato qualunque, un perdigiorno, uno dei tanti frequentatori di caffè. Non era così. La sua specialità era il controllo degli studenti universitari. Non l’ho mai visto parlare con qualcuno di loro. Gironzolava nei pressi della facoltà e ascoltava. Ascoltava e riferiva a chi di dovere. Come questo riferire avvenisse lo si accertò per caso, o quasi. L’amico, che avevamo chiamato John, commise un errore, non seguì quella volta i precedenti consigli del manuale in dotazione al servizio. Rifece per diverse volte lo stesso percorso andando al caffè dei suoi appuntamenti, delle sue consegne. L’ospite inatteso lo aspettò sotto casa.


52. – L’esecutore di bassa giustizia sembrava un pollo spennato. Alto di statura e magro, faceva ribrezzo solo a guardarlo anche a chi non conosceva il suo vero mestiere. Una specie di gobba gli faceva tenere sempre il capo chino, come se stesse cercando qualcosa per terra o come se volesse sfuggire agli sguardi altrui. Andava al lavoro la mattina, come tutti i boia, puntuale e pulito, un impiegato postale o un uomo del catasto. Invece si infilava nel garage riservato ai servizi, dove, all’ultimo piano, era collocata la scuola delle guardie carcerarie. Molti erano passati per le sue mani e ne portavano i segni nel corpo. Ne ho conosciuti alcuni. Mi avevano detto che nel lavoro manteneva sempre un certo risolino tagliente, beffardo, noncurante. Una specie di rictus da mestiere. Amava il suo lavoro, un vero artista. L’ospite inatteso gli lasciò intatto in faccia il suo risolino, solo quello. Il resto non era più utilizzabile per fare del male.


53. – Siamo andati via appena in tempo. Quando sono arrivati hanno sventrato tutto, donne, uomini, bambini e cose. Come tutti i soldati, lasciano dietro terra bruciata. E questi sono aizzati dai loro capi religiosi. In nome di un dio unico e onnipotente, tutto è permesso. L’estraneità a qualunque delitto, anche il più trascurabile, penalmente parlando, di quella povera gente, era evidente. Parenti o amici di nostri amici, un sostegno provvisorio e indiretto, del tutto marginale. Un peccato pagato con la vita. Una morte straziante. Come possono accadere atrocità del genere? Con quale pesante moneta si possono ripagare simili assassini? Assassinando. Ecco la spirale irrevocabile che si avvita e non si ferma mai. Mai può esserci perdono, mai pace, mai si potranno dimenticare queste scene. Una cento mille è lo stesso. E sono certamente più di mille.


54. – Il capitano era più o meno un damerino con velleità di accuratezza nel vestire. La divisa sarebbe stata di per sé modesta, ma lui cercava di farla apparire più ricca e perfettamente acconciata al suo corpo atletico, grazie all’arte di un sarto personale dove lasciava buona parte del non lauto stipendio. Aveva un passo energico e sicuro di sé e l’arma al fianco chiaramente fuori ordinanza, una magnum micidiale. L’uomo aveva un difetto, piccolo se vogliamo, ma che ho riscontrato in tanti amanti del militarismo efficientista, gli piacevano i giovani disponibili a pagamento. Un impiccio non da niente per lui che doveva comunque salvare la faccia di fronte ai subalterni. Così frequentava un certo locale riservatissimo, e per noi inavvicinabile, e vi entrava da una porta collocata in un cortile interno a cui si accedeva da una strada secondaria. Buon posto per un appuntamento con l’ospite inatteso. La magnun rimase inoperosa nel suo fodero.


55. – La ragazza dagli occhi verdi, cupi, intensi, ombreggiati da bellissime ciglia, si era presentata nel caffè dove aspettavamo, sedendo a un tavolo vicino al nostro. Parlava francese del sud, con un forte accento nasale. Una turista a tutti gli effetti, zainetto compreso. I capelli neri, sciolti sulle spalle, incorniciavano un viso grazioso con un naso francese del tutto regolamentare. Nulla da dire da parte nostra. Avevamo altro a cui pensare. Molto da dire da parte sua. Da qui l’inizio di una complicata conversazione, ansiosa da parte nostra, pressati dalla delicatezza di quello che stavamo facendo, distesa e curiosamente interessata da parte sua. In fondo al caffè, su di una semplice mensola, una teiera enorme, mai usata suppongo, perché da queste parti il tè lo fanno nelle pentole da cucina, e sotto un sofà sgangherato con sopra seduto il nostro uomo. Alle pareti, brutte stampe di grandi capitali spagnole e sudamericane. A un certo punto è arrivato l’ospite inatteso e ci siamo buttati in due sulla ragazza per appiattirla sul pavimento sporco di segatura e di sputi. L’uomo seduto sul sofà rimase a bocca aperta mentre gli veniva presentato il conto definitivo della sua vita.


56. – L’università era luogo molto complicato. Occorreva tenersene alla larga. Le correnti politiche vi si scontravano apertamente e non era facile individuarle se non gli estremisti di destra, per i loro segni religiosi tangibili. Ma i più pericolosi, la maggior parte informatori dei servizi, non si tradivano con questi segni, erano solo uomini assoldati, non fedeli ciechi e stupidi. Non lontane della scalinata principale c’erano due strade, quella a sinistra ospitava una libreria con testi universitari, quella a destra un caffè, luogo deputato di incontri e scambi. La caratteristica di questo caffè era costituita da un enorme tavolone posto al centro della sala con uno strato di polvere alto un dito, mai rimosso a memoria d’uomo. L’impasto della polvere e del tè versato per sbadataggine studentesca si era ormai solidificato. Non era posto per noi, però bisognava controllarlo per cogliere gli eventuali scambi di informazioni. Da qui partivano alcuni bravi ragazzi, vestiti da studenti, e in servizio permanente come confidenti di noti esecutori di bassa giustizia. Uno di loro, in particolare, me lo ricordo tranquillamente appoggiato all’augusto tavolone in attesa di incassare la comunicazione da portare a domicilio. Strizzava gli occhi quella mattina e contraeva tutta la faccia sbirciando in giro dietro i suoi occhiali da miope. Sorrideva al nulla assoluto con i suoi denti gialli, aguzzi, tenendo il capo chino come a sostenere la pesantezza di chissà quali pensieri. Muoveva le labbra come se parlasse da solo, ma forse recitava una preghiera o un pezzo dei suoi libri sacri. L’ospite inatteso gli si presentò proprio quella mattina, la stessa mattina del sorriso ebete e dei denti gialli.


57. – In poco tempo, da quando ho lasciato l’addestramento, sono cambiato molto. Non ho avuto occasione di ripensare per bene a quello che ho appreso, se ho appreso qualcosa. Quando mi trovo in azione è tutto così veloce e istantaneo da sembrare automatico. Spesso queste azioni sono condotte in gruppi di quattro compagni. Uno si presenta come l’ospite inatteso, l’altro gli sta dietro a pochi passi e gli copre le spalle, gli altri due sono più lontani e coprono le vie di uscita e le vie di entrata. Tutto dovrebbe funzionare più o meno come previsto nelle tante prove e nei tanti pedinamenti e controlli. Qualche volta c’è un imprevisto. In questo caso l’ospite inatteso è invitato a fare marcia indietro e a ripresentarsi un’altra volta. Oppure mai più, se il lavoro è andato a monte in maniera scoperta. In questi casi la cosa più difficile è quella di ricompattarsi e non perdere la testa. Bisogna lo stesso mantenere il controllo della zona e ripiegare con ordine.


58. – Il motoscafo portava in alto mare, in perlustrazione, uomini della sicurezza costiera, per impedire l’arrivo dei clandestini. In genere si trattava di arabi egiziani che volevano raggiungere la grande città per i loro traffici. Oppure per dare una mano a una qualunque delle organizzazioni di resistenza. Appostarsi nella sabbia non era difficile. Più difficile era avvicinarsi al porticciolo di levante, il quale per quanto riparato da alcune rocce gettate là a caso da millenni, era pur sempre esposto. Il piccolo molo aveva una garitta dove sonnecchiava una sentinella. Questa operazione mi dette subito un senso di sgomento, forse a causa del mare, forse per i miei ricordi di fanciullo. Non lo so. Dovetti farmi forza per controllarmi. Eravamo in cinque. Quattro dovevano pensare al militare, uno a preparare l’esplosivo per il motoscafo. Era la prima volta che eravamo in azione con gli esplosivi e ci avevano dato solo settecentocinquanta grammi di tritolo, cinque candelotti in tutto, e un detonatore oltre a quattro metri di miccia a media velocità. Abbiamo aspettato la notte. A lungo ho guardato il soldato appoggiato al suo bravo mitra nazionale, quasi appisolato, seduto sul pavimento dell’abitacolo. Sapevo che era un militare di leva, forse un sefardita da quello che si poteva vedere. L’ospite inatteso arrivò silenzioso senza dargli il tempo di fare un gesto. Preparato il marchingegno. L’esplosione fece volare lontano i gabbiani che si erano appisolati nei dintorni.


59. – Qui c’è chi vive nello squallore e nell’amarezza, nell’orribile desolazione di un doppio torto subito, quello della terra sottratta e quello della propria miseria, patita quest’ultima come una conseguenza di quella sottrazione. È gente che non ha speranza di miglioramento se non il piccolo sussidio dell’organizzazione che l’aiuta a non morire subito o il mettersi in fila per andare a lavorare con un salario irrisorio per il nemico. Cosa può capitare di peggio a molti di loro? Saltare in aria con la propria carica di esplosivo? E perché questa morte la devono considerare peggiore della cosiddetta vita che soffrono quotidianamente nei campi? È valutazione di chi ha la pancia piena e i piedi al caldo, non di chi soffoca schiacciato da una molteplice oppressione. Molti si decidono al passo decisivo, decisione familiare, si badi bene, non individuale, e poi, al momento decisivo, si sentono venire meno l’animo. Non sono per questo disprezzati. Riprendono il loro posto, seduti davanti la porta della baracca e aspettano che torni il coraggio. L’avvilimento maggiore è tornare indietro, ma nessuno fa pesare questa sconfitta. Tutti si rendono conto che il coraggio va e viene, nessuno ne è depositario in assoluto.


60. – Tutto qui ha l’aria di un mattatoio per bestie di poco valore. L’organizzazione stessa di un campo è una specie di suicidio collettivo. I più deboli soccombono necessariamente. Tutto è ridotto ai minimi termini. Non c’è niente che non sia di un qualche soccorso internazionale o delle organizzazioni interne. Con tutta la provvisorietà e la saltuarietà di questi procedimenti. Consultando la catasta di opuscoli e depliant in inglese sembrerebbe che tutto il mondo si sforzi di raccogliere soldi per acquistare prodotti da mandare in posti come questo, dove mi trovo anch’io. Se uno si ferisce, a volte, non c’è nemmeno come disinfettare la ferita. Io porto sempre con me un gel da usare nel caso di un colpo di pistola. Si copre il buco e si aspetta che qualcuno cacci via il pezzo di piombo che c’è dentro. Se si è fortunati ci si procura un buco di entrata e uno di uscita. In questi casi basta sigillare i due buchi e aspettare un medico, improbabile, per un altrettanto improbabile drenaggio.


61. – Alcuni più disgraziati degli altri hanno il cervello completamente sconvolto. Si aggirano nel fango con uno sguardo remoto come se stessero cercando qualcuno o qualcosa di assolutamente urgente. Parlano sottovoce da soli, forse si raccontano storie riguardanti la loro felicità perduta, la loro famiglia, i figli, le mogli. Non lo so. Forse semplicemente pregano a voce un po’ più alta del solito. Cercano una logica che qui non c’è, e quindi ne vanno alla ricerca con tutta la loro esistenza. Senza logica, la vita, che vita è? E la loro è una morte che sembra vita, che si prolunga per giorni e per mesi e poi si conclude improvvisamente. Non si meravigliano di nulla. Guardano ma non vedono. I loro occhi sono remoti, forse si sono voltati all’interno, per l’orrore e l’incapacità di sopportarlo. Quanta riserva di energia hanno gli uomini? Non lo so, certo non è illimitata. La sofferenza alla lunga stronca le complessioni più forti. Gli aiuti, la nostra stessa presenza che non è di aiuto materiale ma di altro genere, nemmeno li vedono, sono partiti per un viaggio senza ritorno. E non sono pochi, centinaia, migliaia. Le organizzazioni nascondono questa realtà perché ne hanno paura. Il trionfalismo, anche per quel che riguarda le nostre stesse azioni, mi ha sempre dato il voltastomaco.


62. – I servizi dovevano avere reclutato nuove leve. Un giovane alto e pallido, con un viso come se fosse di cera, un difetto vistoso all’occhio destro e un’aria sonnolenta e assente. Se questo tipo fosse stato diverso da quello che dava a vedere, bene impiegato, poteva fare molto danno. Non sembrava guardare niente e nessuno. Sedeva sulla scalinata dell’Università e aspettava. Ascoltava? Sembrava proprio di no. Ogni tanto si toccava i baffetti, leggeri, come se fossero posticci. Forse lo erano? Anche questo faceva parte della messa in scena? Per diversi giorni lo controllammo senza nessun risultato. Sembrava là per caso. Ma sedersi su quella scalinata per caso, e per più giorni consecutivi, era l’ultima cosa che una persona sensata avrebbe fatto. Alla fine, dopo diversi giorni, scattò il contatto. Consegnò un pacchetto di sigarette a un signore elegante, magro, intorno ai quarant’anni, con un collo lungo e gracile, quasi privo di mento. Era questo che gli aveva chiesto una sigaretta e l’altro gli aveva passato il proprio pacchetto. Nota importante. Il prestito non era tornato indietro. L’uomo dal collo lungo ringraziò e andò via. Lo seguimmo fino a uno dei posti più rinomati fra quelli usati dai servizi. Il nostro ragazzo stava dando i suoi primi apporti. L’ospite inatteso non poteva tardare a fargli visita.


63. – I pali si erano dati il cambio. La donna era sempre lì, al posto di prima. Non sembrava avesse l’intenzione di fare alcunché. Non si guardava in giro, non era nervosa. Vestita all’europea, non aveva l’aspetto arabo e forse non lo era, ma non si poteva sapere mai. I pali erano chiaramente sefarditi, anche se facevano qualcosa per nasconderlo. L’informazione registrava che stavano proprio controllando la nostra sede, la piccola casetta dove il nostro gruppo abitava da una settimana appena. Avevano fatto presto ad arrivare. I servizi erano sempre all’avanguardia, ma come tutte le organizzazioni del genere non potevano difendersi dalle infiltrazioni. I risentimenti e i massacri sono lunghi da digerire. L’unico segno di inquietudine era che la donna ogni tanto batteva le palpebre. Poi eccolo avvicinarsi un signore basso, barbuto, bruno. Gli occhi nascosti da un paio di lenti spesse. Anche lui aveva l’aspetto sefardita ma forse non lo era, molti askenaziti si possono confondere o camuffare opportunamente. In effetti i sefarditi nelle sfere un poco più elevate del servizio, com’è ovvio, visto il razzismo imperante, sono pochi. Il signore scambiò qualche parola con la donna. Decidemmo di sloggiare al più presto. Dopo poche ore eravamo altrove mentre uno di noi era rimasto a guardare la casa da lontano, seduto tranquillamente sulla soglia di una catapecchia semidistrutta. Arrivarono in molti, macchine della polizia e dei servizi. Per questa volta era andata bene. La loro operazione aveva un buco, i pali non erano all’altezza del compito. Bene per noi.


64. – Niente pesa su di me, nessun legame si solidifica nel mio cuore, la sospensione o la messa tra parentesi – in qualunque modo la si voglia chiamare – la costringo a funzionare. Forse è lo sforzo maggiore che devo sostenere. Vengo da lontano e vado lontano. Ma da dove vengo? e dove vado? Non posso rispondere, aprirei un varco insanabile che metterebbe in gioco il piccolo vantaggio su cui alla fin fine conto giornalmente per sopravvivere. Mi manca uno sfondo? Insomma una riserva affettiva da cui attingere per affinare la mia abilità di saltimbanco? Forse, ma faccio finta di non avvertire questa mancanza, e ci riesco perfettamente. Sono più o meno un serpente che si è attorcigliato su se stesso e con lingua biforcuta sibila in faccia al mondo, questo piccolo mondo ristretto e in decomposizione, tutto il suo amore per la libertà. In fondo, se di spaesamento debbo parlare qui sono in buona compagnia. Non so per i miei compagni, cioè non so quale accorgimenti adottino, ma per il resto, qui sono tutti spaesati, miei correligionari o quasi, se non patriarchi di questa religione dell’assoluta solitudine. Io per amore, loro per forza abbiamo subito, su binari paralleli, la medesima eclissi di sentimenti, ci siamo visti costretti a indurirci, ad annullarci qui, nel presente, negandoci e negando, anzi rinnegandoci e rinnegando per meglio attestare la nostra sola possibilità di continuare a lottare. Un occhio lontano, racchiuso nel nitore di qualche cucina economica ben riscaldata, troverà tutto questo indecente? Può darsi. Non posso criticare quest’occhio così lungimirante e pacato, né invidio la sua calma raccattata nella compiacenza della propria sicurezza.


65. – Mentre scrivo queste righe, a distanza di tanti anni, rifletto su di un fatto assai semplice che allora mi passò davanti inosservato. Mettiamolo sotto forma di domanda. Perché non me la sono mai presa con Dio? Eppure i termini di una quotidiana e persistente imprecazione – che sarebbe stato ingenuo definire blasfema – c’erano tutti. Non mi riferisco ai riflessi terreni di una qualsiasi religione di cui avevo sotto gli occhi manifestazioni in abbondanza, in forme spesso antitetiche dal punto di vista rituale, ma proprio mi riferisco a Dio, proprio a quell’ente a cui io, ateo da sempre, non riconoscevo il diritto di esistere. Certo, la risposta più ovvia sarebbe che non l’ho fatto perché ero, per l’appunto, ateo, e gli atei non credono in Dio, quindi non lo insultano per le miserie e le atrocità umane. Razionalisti perfetti, gli atei sanno benissimo che queste atrocità sono per intero colpa degli uomini stessi e delle loro vanità e ingordigie. Certo, conosco questo ragionamento, ma non mi soddisfa. Non ho voluto ingaggiare uno scontro “anche” con Dio in quelle condizioni, aggiungendo nemico a nemico? No. Nemmeno questa spiegazione è soddisfacente. Ma neanche mi placa la risposta che la mia vanità, stupidamente non placata, mi suggerisce, che io sapevo dell’estraneità di Dio a tutto quell’orrore. Vedere i miseri fra i più miseri della terra pregare il loro Dio non mi faceva andare in bestia? No. Non mi scatenavo con la mia ira contro il beneficiario di tanta speranza sprecata, né perdevo il mio tempo, e la mia concentrazione, per spiegare a coloro che avevano come unico patrimonio quell’unica speranza, l’infondatezza della stessa. Non lo facevo. Sarei stato un portatore di libertà, ma anche un ipocrita, oppure uno stupido e cinico razionalista.


66. – A tratti, nelle mie riflessioni notturne, quando a causa del caldo o del vento non riuscivo a prendere sonno, chiedevo notizie a me stesso della mia insensatezza. Non ponendo un paragone – pericoloso e capace di svuotare dall’interno la mia determinazione – tra la condizione presente e quella passata, abbandonata da poco tempo, appena pochi mesi. No, questo no, ma proprio mi ponevo domande riguardo la mia insensatezza e basta, ovviamente quella della condizione in cui mi trovavo, non quella della mia scelta che a quella condizione mi aveva condotto. Non posso parlare esattamente di una crisi di prospettive, o di lucidità nella scelta, ma solo di lontananza incommensurabile tra coscienza della libertà e constatazione dell’asservimento a cui provvedevo solo in misura infima a porre rimedio. Certo, erano riflessioni ideologiche e non pragmatiche, lo so, ma chi ha detto che il pragmatismo è meglio di una qualsiasi ideologia? La bilancia non so da quale parte penderebbe. Il fatto è che non ero io a tenere in bilico i bracci di questa bilancia. Forse il destino? Oppure queste sono riflessioni di oggi, fatte a distanza di tanti decenni, dirette a modernizzare un’angoscia che allora mettevo da parte con un brusco gesto della mano, quasi a volere cacciare via un insetto molesto?


67. – Era una prodigiosa intuizione dell’incoscienza, la mia, o semplice fortuna? Non mi ostinavo mai a seguire esattamente le precise indicazioni del piano, studiato in tutti i particolari. Ad esempio, arrivavo sul posto un’ora prima e facevo un piccolo giro a piedi, lentamente, con l’atteggiamento adeguato all’abbigliamento. Se ero un turista guardavo dappertutto col naso per aria, se ero un arabo camminavo lento con gli occhi bassi e guardavo tutto di sfuggita, se ero un ortodosso camminavo placidamente con le mani dietro la schiena, come avevo visto fare a loro e come mi avevano insegnato. Queste deviazioni dalla regola causavano spesso discussioni interne. Molti le trovavano inutili o pericolose, io insistevo e qualche volta ho individuato proprio in questo modo degli errori nostri o delle smagliature nelle difese del nemico. A mente fredda posso adesso essere d’accordo col fatto che si trattava di vere e proprie sfide alla sorte, ma avevo in me una specie di certezza, una sensazione a fior di pelle, che non era un banale capriccio ma una convinzione che niente poteva andare male se verificavo il posto prima di cominciare l’azione, fosse un pedinamento o un vero e proprio attacco. Dopo un certo tempo questo modo di fare si era propagato anche agli altri e così tutti facevano come me, cioè seguivano la mia rischiosa intuizione. Le cose, da questo punto di vista, non ebbero mai conseguenze dannose. Ciò necessitava però di un maggiore controllo dei propri tempi di reazione e, poiché questi non sono tutti uguali, potevano esserci problemi. Considerazione critica non priva di senso.


68. – Qualcosa non andava secondo quanto previsto. Il mio uomo insisteva a voltarsi indietro e a guardare se era seguito. Palesemente era in allarme. Sentii improvvisamente gravarmi addosso una grande responsabilità. Che dovevo fare? Abbandonare, col rischio di mandare a monte il lavoro di tanta gente per tanti giorni, o continuare fino alla catastrofe? Quella mattina non avevo avuto tempo di fare colazione, vibravo tutto per il nervosismo e anche per la paura. Anche io mi voltai indietro, concitato e fuori di me, il mio compagno non era visibile. Raccattai tre piccoli ciottoli e, facendo finta di allacciarmi una scarpa, li depositai sul marciapiedi. Era il segnale di pericolo estremo. Qualcosa non stava funzionando. Restai lo stesso dietro il mio uomo. L’ospite inatteso si presentò puntualmente malgrado le preoccupazioni mie e dell’obiettivo che venne in questo modo perfettamente centrato. Avevo visto le madonne. È quello che dovetti confessare più tardi a tutti, nella riunione conclusiva, e loro non avevano visto i miei tre sassolini. Meglio così. Meno nervosismo per il futuro e, soprattutto, non saltare mai la colazione. Non abbondante, ma necessaria.


69. – Prima o poi doveva accadere. Nel primo impeto della mia arrogante presunzione, avevo pensato di non averne bisogno, ma la tecnica lo imponeva e quindi tolleravo la cosa con un’alzata di spalle. In ogni azione chi era incaricato di concludere si presentava come ospite inatteso, ma doveva avere a poca distanza un raddoppio, pronto a intervenire se qualcosa non fosse andata per il verso giusto. Ebbene, mi ero bloccato. Non riuscivo a concludere, guardavo l’uomo in faccia – quindi gli avevo dato il tempo di voltarsi, primo gravissimo errore – e mi sorrideva sorpreso, forse per chiedermi che cosa volessi da lui, in ogni caso non ebbe il tempo di farfugliare niente, il raddoppio concluse il compito non concluso del primo ospite inatteso. Era irritante ma era così che la cosa era andata, mi ero incitrullito davanti al sorriso di un massacratore. Per giorni e giorni ebbi come un senso di sopraffazione nell’animo, qualcosa di pesante e di insopportabile, volevo guidare la mia inadeguatezza e mal tolleravo le spiegazioni parapsicologiche dei compagni. La loro stessa noncuranza di fronte a quello che per me era una vera e propria sconfitta mi irritava invece che rincuorarmi. Pensavo al tipo, caduto di sasso a terra, stecchito, e a me che non avevo neanche tirato fuori la mia carta da visita, il mio amico K, che tenevo sotto il mantello.


70. – Su quel vecchio carretto trascinato da un asinello non in carne avevano caricato tutte le loro ricchezze. Miseria su miseria erano visibili in quell’accozzaglia di rimasugli di ogni sorta. Dovevano spostarsi dai loro parenti in un paesello vicino, potevano quindi lasciare il campo. Il viaggio non era né lungo né pericoloso. Ai coloni non garbavano questi spostamenti, mettevano in pericolo le loro usurpazioni codificate dal governo e garantite dai soldati. Tutte queste tutele non bastavano, alcuni di loro, più stupidi degli altri, usavano spesso i fucili a pompa per darsi la loro giustizia. Così azzerarono un piccolo spostamento, cancellando una intera famiglia. Non voglio pensare a quello che di quei poveri disgraziati rimase sul terriccio malconnesso dello stradone. Perché la bestia umana è così malvagia? Perché non dà mai respiro? Perché cerca sempre di soddisfare la sua voglia di massacrare? Era gente della zona. Non fu difficile venire a sapere chi erano stati i massacratori. Anche per loro arrivò l’ospite inatteso. Questa volta fece più presto del solito. La nera e ignota solitudine scese in questo stupido modo su due famiglie. Una sterminata completamente, una in parte. Il vicino deserto nemmeno se ne accorse. Il vento continuò a soffiare come al solito.


71. – Il senso di impotenza è tornato. Vuotare il mare con un cucchiaio. Qui ci sono bubboni dappertutto, in questa città millenaria benedetta dal sole. A volte è più acuto, a volte meno. Nell’azione i battiti del cuore accelerano e ho l’impressione di vivere e di vedermi vivere. Non provo tensioni particolari. Dopo la prima disavventura sono io a copertura di altri compagni. Non mi sembra strana la cosa, è tutta un questione di pratica. Adesso assemblo io le informazioni e i sopralluoghi, metto insieme i pedinamenti miei e degli altri, poi traggo conclusioni. C’è molta gente apparentemente rispettabile – un farmacista, per esempio – che viene poi scoperto come accanito informatore dei servizi. Perché lo fanno? Per dedizione alla causa? Perché si sentono sempre minacciati e da millenni sono abituati a guardarsi attorno come fanno da che mondo è mondo tutte le spie? Per denaro? Per professione? No, queste due ultime eventualità sono le più rare. Qui denaro ne circola poco. I professionisti sono pochi e meglio conosciuti, quindi operano su scala all’ingrande, forse a livello internazionale. Quelli che lavorano nelle vicinanze dei campi, o nella grande città, sono per la maggior parte volontari, fedeli della cospirazione e della denuncia. L’ospite inatteso non ha mai pietà di loro. È interessante leggere – me li traducono puntualmente – i necrologi che circolano puntuali nei giorni successivi alla visita. Angoscia inenarrabile. Cordoglio. Compianto. Persona integerrima. E le torture? E le uccisioni di massa? E le case distrutte dalle fondamenta? E le imboscate nella notte? E le gole tagliate? E gli stupri? E tutto il resto? Solo una generale costernazione, buona per tutti i palati.


72. – Come liberatore sono una delusione. A restare deluso sono io stesso. Conduco la mia idea anarchica di libertà per vie scoscese, dove le urgenze sono altre, non quelle della via diritta che avevo sognato. Sono urgenze di sopravvivenza, di non farsi sommergere e soffocare, di non farsi scannare all’angolo di una via buia o di uno stradone nel deserto, una qualsiasi pista ovviamente non illuminata. Urgenza di attrezzarsi materialmente e psicologicamente per sparare più velocemente e meglio degli altri, del nemico. Così ho caricato la mia idea di libertà del gravoso compito della bassa giustizia, l’ho messa in contatto col mio amico K. Non vanno d’accordo, lo so. La prima non capisce le necessità del mio amico e quest’ultimo è uno strumento passivo nelle mie mani di artista. Non posso chiudere gli occhi davanti ai massacri e andare avanti, candido come un giglio, parlando della libertà, della bellezza della libertà anarchica. Prima c’è qualcosa d’altro da fare, qui e subito. Il mio paziente e amoroso studio per coordinare le due cose è destinato a fallire se prima non porto avanti quest’altro compito, spianare la strada all’ospite inatteso.


73. – Il sarto era vecchio e con una considerevole gobba certamente dovuta alla lunga abitudine di lavorare sempre curvo nella stessa posizione, seduto sulla stessa sedia priva di schienale. Portava una barba ortodossa e il berretto d’ordinanza. L’icona di quel genere è inconfondibile dovunque si vada. Vivendo nella grande città e nel quartiere protetto la sua vita di già lunga, a quanto sembrava, poteva continuare per qualche anno ancora. Ma c’è in ognuno di noi un segreto che ci spinge ad andare avanti come se qualcosa ci tirasse per i capelli. Anche il sarto aveva il suo segreto. Passando davanti al negozio dove lui lavorava dietro una vetrata, lo vedevo spesso con lo sguardo fisso, immobile, senza fare andare la mani nei gesti consueti del suo lavoro. Era evidentemente preoccupato. Non sapevamo molto di lui, solo che, a quanto sembrava, qualcuno l’aveva messo sotto pressione, cioè obbligato a servire da casella postale. Di tanto in tanto, difatti, al negozio si presentava un giovane che palesemente non avrebbe mai richiesto un prodotto dell’arte manuale del sarto. Questo giovane restava poco e, fatte quattro chiacchiere, andava via. La sera della visita di questo personaggio, il sarto, chiuso il negozio, usciva per andare a casa, non molto distante, e sistematicamente – dopo essersi guardato da tutte le parti, con sconfortante ingenuità – lasciava una piccola busta, una busta da biglietto da visita, in una fessura del muro di una vecchia casa, qualche strada prima della sua abitazione. Poco dopo qualcuno passava a ritirare la busta. Un uomo dei servizi. Quando decidemmo di agire, l’ospite inatteso si presentò a quest’ultimo uomo della catena e ritirò, con l’occasione, la busta. Chi la tradusse mi comunicò che c’era scritto, “per ieri e per oggi nessuna novità”.


74. – Devo tagliare dentro di me ogni memoria precedente, ogni affetto, ogni ricordo, fermare l’animo mio su quello che sto facendo, solo sul presente. Credevo di essere arrivato a tanto ma qualche volta è come un lampo e il meccanismo di sicurezza non funziona. Niente passato, niente futuro. Ogni istante nell’azione si vive la propria vita per intero, nessun dettaglio è possibile se non a posteriori. Queste note, scritte dopo più di quarant’anni, vogliono testimoniare questa triste necessità. Una coscienza di sé nuova in ogni azione, uno spirito vigile, pronto ad afferrare qualunque modificazione, a trarre profitto da ogni movimento falso dell’avversario, a smascherarlo proprio quando meno quello se lo aspetta. Costruisco così ogni giorno un mio nuovo me stesso, vedendo diversamente, attorno a me, uomini e cose, interessandomi a loro con un mio unico e monotono scopo segreto, scoprire i loro movimenti, capire quello che stanno facendo, di regola l’opposto di quello che sembrano intenti a fare. Per questo occorre una leggerezza di spirito che non può raggiungersi avendo qualcosa alle spalle. Tutto deve essere vissuto al presente, coniugato ottusamente al presente. I miei amici, adesso, con cui dialogo – a parte i compagni – sono le dune del deserto e le dune in riva al mare. Ne studio le differenze, le catalogo, le raccolgo con un’attenzione che non avrei mai immaginato possibile. Studio anche gli uomini. I soldati, ad esempio, ne conosco le abitudini, i tic nervosi, i luoghi che frequentano e sento perfino la paura che hanno in corpo. Qui la paura abita dovunque, anche dentro di me. Perché dovrei fare eccezione? Mi tiene compagnia la notte quando cerco di prendere sonno e mi aiuta a contare le pecore.


75. – Qui muoiono, a dozzine, di febbre. Non sono un medico ma penso dipenda dalla debolezza e dalla poca igiene. Nessuno ci dice di che cosa è morto quel suo amico o quel suo parente che pure vedevamo ogni giorno. Informarsi non vale a niente. Dopo lunghe trattative linguistiche si resta con qualche notizia vaga e inutilizzabile nelle mani. Ci sono nel campo due ospedali, ma non hanno mezzi a sufficienza per curare tutti. E poi, la cura migliore sarebbe mangiare un po’ di più. Il problema dei soldi nostri, per il nostro lavoro, non può essere risolto soltanto dai finanziamenti delle organizzazioni di resistenza. Occorre realizzare espropri in città, colpendo i quartieri abbienti. Le gioiellerie sembrano l’obiettivo più a portata di mano. Le banche richiederebbero interventi più duri che metterebbero subito sotto un vero e proprio coprifuoco interi quartieri. Iniziamo la ricerca e la documentazione.


76. – Il problema della lingua è centrale. Solo alcuni del nostro gruppo d’azione sono arabi e quindi capiscono anche la lingua dei dominatori, per loro è una necessità che hanno dovuto affrontare fin da piccoli. Vivo quindi in uno stato di soggezione, anche se per strada, vestito da arabo, nessuno mi inquieta se percorro certe vie e non altre. Dopo devo cambiarmi e tornare al vestito europeo, adattato al clima. Questi dettagli hanno di già causato sufficienti catastrofi per essere sottovalutati. Alla fine mi costruisco una identità fittizia costante che sento mia, come veramente vissuta. Sono muto e sordo ma mi esprimo a gesti. Ho appreso alcune parole con i segni. Non più di quattro o cinque. Sufficienti per il momento. Gli espropri vanno molto bene e adesso abbiamo anche un forno per la fusione del metallo e un ricettatore che non sembra una spia. Ha buone referenze e i controlli successivi hanno dato risultati confortanti.


77. – Le giornate si susseguono una dopo l’altra. Apparentemente i due meccanismi funzionano. Abbiamo adesso una certa autonomia finanziaria ma non vogliamo che questo lavoro suppletivo finisca per schiacciare il principale. Ecco perché ci manteniamo dentro i soliti limiti della sopravvivenza, ma almeno lo facciamo con una certa autonomia. La nostra iniziativa non è piaciuta ai politici delle organizzazioni ma non se la sentono di venirci contro duramente. Hanno sollevato molte obiezioni. Al primo incidente si rifaranno sotto. In ogni modo non vengono informati su quello che si progetta e su quello che si realizza. In fondo lo stesso avviene con le azioni di bassa giustizia. Le informazioni sono gestite da loro ma, dal momento che entrano in nostro possesso, tutte le nuove rielaborazioni, le aggiunte e i perfezionamenti non vengono comunicati alle organizzazioni da cui provenivano le informazioni. Ciò è norma di sicurezza, da un lato, ma è anche pratica di autogestione, dall’altro lato. L’azione la costruiamo noi, la vediamo nascere e svilupparsi fino al suo completamento, e siamo noi a decidere se concludere o se sospendere evitando l’invio dell’ospite inatteso. In questo senso le nostre decisioni non vengono sottoposte a revisione critica. Facciamo parte di gruppi che in fondo hanno alcuni privilegi e non vogliono giocarseli.


78. – Com’è diversa la realtà dall’immaginazione. Avevo fantasticato a lungo prima di arrivare al campo di addestramento e durante il lavoro di preparazione. Avevo una grande forza e una certa mestizia. Questi due aspetti si sono adesso appiattiti. La forza è diminuita e la mestizia anche. Il mio quotidiano vagabondaggio è ormai una vera occupazione, vivo in esso, sono questo procedere sempre nelle stesse strade per qualche giorno e poi cambiare di colpo, altri itinerari, altre persone da seguire, altre porcherie da scoprire. Scendo così sempre più a fondo nella radice dell’animo umano e conosco miserie che avrei pensato impossibili. Certe inverosimili follie hanno come corollario lo scatenarsi di altrettanto inverosimili avventure. Tutto questo tumulto è da mesi la mia vita, è ciò che respiro e ciò di cui mi nutro e di cui sono chiamato a dare conto a me stesso. Spesso sono aspetti sostanziali ma minutissimi, inimmaginabilmente trascurabili all’apparenza, ma di una importanza unica. Da essi dipende lo sviluppo e la riuscita dell’azione. Questo è il complicatissimo intrico della mia vita, ora.


79. – Ogni tanto ci si inventa una vita diversa. Dopo poco tempo, mai più di qualche giorno, si è costretti ad abbandonarla. Eppure queste opere di fantasia non sono del tutto campate in aria. Nulla si inventa che non abbia una sua qualche radice realmente vissuta prima, più o meno profonda, per cui anche le cose e gli atteggiamenti più stravaganti possono corrispondere a esperienze del passato. Più spesso è proprio da esperienze passate che sorgono suggerimenti impensati per immagini del tutto fuori del comune, dove non è possibile scorgere la radice sotto la superficie che lontanamente ricorda qualcosa di vissuto, qualcosa che per questo solo fatto improvvisamente ci è caro e non vogliamo cancellare quando diventa necessario cancellarlo. Tracce minutissime, gesti, pensieri, colori, vestiti, che tardano a scomparire, come se con loro andasse via una parte della nostra vita.


80. – Una identità fittizia comporta conseguenze non facili da gestire. Un complicato intreccio di realtà e fantasmi si mescola e produce una continua tensione che non tutti sanno affrontare correttamente. Ogni volta qualcosa si deposita dell’identità precedente, del personaggio recitato fino al giorno prima, per cui non si sa mai se quel gesto, quell’atteggiamento, quel modo di guardare o di camminare sia quello adeguato alla identità presente o sia una sedimentazione di identità precedenti. Il bisogno di tenere sotto controllo questa grande varietà di moduli rende il comportamento un po’ ingessato con qualcosa tra il manichino e lo spaventapasseri. Mi sentivo una invenzione di sana pianta calata a forza in una realtà estranea dove aveva bisogno di incastrarsi in un mosaico a cui non era adeguata. Osservando la vita degli altri vedevo una continuità di legami minuziosa e costante che mi mancava, per cui ero discontinuo e scoordinato, come un pupazzo con i fili spezzati. Mantenevo di certo un equilibrio, ma con quale sforzo e con quante sfasature? Non potevo saperlo. Eppure da questa aderenza al personaggio dipendeva spesso la vita mia e quella degli altri. Potevo legare in maniera continua queste discontinuità solo con la fantasia.


81. – Guardavo la faccia della gente, le espressioni più comuni, alcune tranquille, altre agitate, e cercavo di imitarle, per costruire movimenti facciali accettabili. Non era un esercizio facile. Qualche volta mi riusciva bene ed esprimevo un sentimento che mi appariva abbastanza reale, non era il mio ma funzionava lo stesso. Altre volte affioravano i miei timori, le mie sofferenze, le mie speranze, e ciò non andava bene. Quanti uomini ho seguito per meglio imparare a imitarli perfino nel modo in cui si soffiavano il naso o si pulivano gli occhiali, nel modo di ridere o di grattarsi dietro l’orecchio. Vedevo che io, portatore di libertà, ero costretto a nascondermi dietro maschere inverosimili e ridicole ma indispensabili, dove a volte mi smarrivo con una specie di stupore. Quanto ero bravo e quanto ero ingenuo.

82. – Che senso ha prendere a pugni i miei dubbi? Mi si innalzano davanti come altrettante barriere, lacci che cercano di avvolgermi e legarmi strettamente impedendomi di avanzare. Ciò mi accade con particolare veemenza la mattina al risveglio. Bisogna allora ripiegare con urgenza su qualcosa, qualsiasi cosa. Un bicchiere di latte, per esempio. Ma non sempre è possibile averlo, a volte bisogna accontentarsi di un pacchetto di gallette durissime e di un po’ d’acqua, anche questa preziosa. Questi fremiti hanno un senso loro, proprio, oppure sono sintomo di qualcosa d’altro che ruggisce laggiù, da qualche parte? Mi sento svuotato e senza un punto di riferimento a cui rivolgere la mia attenzione. Guai a girarmi indietro. Devo guardare avanti, solo avanti, proprio la linea di confine, del mio confine, dove si adagia il destino che per il momento sembra distratto da altre incombenze. Non parla, aspetta, ma non so bene che cosa aspetta.


83. – C’è una finalità intrinseca al conflitto? Proprio interna ai suoi meccanismi, di cui conosciamo solo una piccola parte? Parlo del conflitto in generale, non di questo che ho qui, davanti ai miei occhi. Oppure si va avanti alla cieca, valutando a breve scadenza le convenienze che spacciamo per giustizia e un asfittico progetto di sopravvivenza che presentiamo come libertà? Spesso, in questo gioco di domande intrecciate, capovolgiamo la contraddizione tra progetto e fiducia e ne ricaviamo una fideistica visione della vita che si solidifica in progetto privo di fondamento. Intenso, questo sì, col cuore in mano, per carità, nessuno mette in dubbio questa partecipazione, ma sempre privo di quella sostanza che dà chiarezza al processo in corso. Oppure non è tanto il processo che ci interessa ma i suoi singoli momenti, isolati movimenti di un insieme infinitamente esteso, incomprensibile, dove si agitano, ombre proiettate sul muro della caverna dei massacri, fantasmi considerati certezze e certezze tenute in piedi da una fede cieca nel proprio destino? Movimenti convulsi, improbabili, spezzati, lacerati tra rigidità dogmatica e specchiate aporie metafisiche. Andiamo avanti lo stesso, fermarsi significherebbe morire, tornare indietro, vegetare.


84. – Poi l’azione. Il momento unico, padrone di me stesso e del mio destino. Il momento della qualità. Una pienezza che ripagava del lungo lavoro, dei sacrifici e degli atteggiamenti falsi e artefatti. Una presenza forte che mi entrava violentemente nel petto. Respiravo profondamente e a lungo dopo avere trattenuto il respiro, mi sentivo sollevato come se avessi lasciato cadere un peso. Finalmente padrone di me stesso, se non altro come espressione facciale. L’aria stessa mi sembrava di una diversa trasparenza, più lieve e munita di una capacità di darmi sollievo che prima non possedeva. La stessa visita dell’ospite inatteso mi era diventata familiare. Ne vedevo adesso gli aspetti necessari, anche se orribili. Mi mantenevo al di qua del giudizio di merito, non accettavo il principio di una sentenza pronunciata altrove, ma io stesso ero in grado di valutare, esaminare e decidere. Io e altri compagni. Mai nacquero dubbi sulla validità di queste opere di bassa giustizia. So che adesso, a distanza di quarant’anni, o quasi, molte di quelle visite le metto nel numero incolmabile delle nefandezze umane. So che a volte si è costretti a sporcarsi le mani di sangue. So tutto questo. So che non mi pento di quello che ho fatto, ma so anche che l’ospite inatteso è sempre portatore di una feroce calamità. Non voglio alleggerire le mie responsabili decisioni di allora. L’impeto del portatore di libertà non mi faceva velo a suo tempo e continua a non farmelo adesso.


85. – Non avendo il gusto della menzogna mi riusciva difficile recitare una parte. Se a questo si aggiunge la difficoltà della lingua, la cosa raggiungeva a volte risvolti impensabili. Il personaggio del turista andava bene nella grande città non nelle strade di accesso o nei campi. Qui bisognava affidarsi ai compagni del posto e alle loro iniziative, conoscenze e tutto il resto. Spesso si passavano ore in fila per la verifica dei documenti alle vie di accesso alla città e non erano le ore più tranquille. Per questo si cercava di evitare questi luoghi e si preferivano passaggi sotterranei, da una casa all’altra, lungo il confine o lo sbarramento, oppure le zone desertiche, dove però era facile incontrare pattugliamenti dell’esercito.


86. – Ognuno qui si conforta con la propria visione della vita. Anch’io. Ma il rifiuto dell’autorità non è un gran conforto, anzi, al contrario, ti spinge a diventare – agli occhi degli altri – una sorta di frequentatore assiduo dell’eresia, un rimasticatore di ortodossie e un cucitore di toppe nel vestito ideologico che tutti, bene o male, ci tiene in piedi come pupazzi. In fondo la negazione è un lusso che alla lunga dà all’occhio e attira l’attenzione. Non si può giocare sempre il ruolo di colui che crea il mondo di nuovo, ogni mattina, di sana pianta. C’è anche un fallimento della creazione se a lungo ripetuta, o sarebbe meglio parlare di una svalutazione per cause quantitative? Oggi so che erano ambasce conoscitive, tutto qua. L’animo umano è un pozzo che si può esplorare solo con la saggezza e quest’ultima non è strumento che si acquisisce in maniera parallela all’acquisizione della conoscenza. Il movimento è esattamente inverso.


87. – Un uccello senza nido si adatta a trovare riparo dove gli capita. Così mi sentivo, con un tantino di stupido orgoglio. L’avevo scelta io quell’avventura e ne conoscevo le condizioni, non potevo riconoscere nessun riparo come casa mia, neppure temporaneamente. Il mio stesso equipaggiamento entrava in uno zaino militare che cambiavo frequentemente per i motivi più svariati. Se immaginavo condizioni di tregua, almeno momentanea, bastava guardarmi attorno per averne subito vergogna. E quella povera gente che ero venuto a liberare, poteva concedersi una tregua? No, certamente no. Erano le mie fantasie residue, il mio patrimonio atavico, culturale e genetico, che me le faceva immaginare. Qui la vita sfugge dalle mani come l’acqua, non c’è previsione che regga al di là del presente e del brevissimo termine. Le abitudini non fanno a tempo a sedimentarsi. Una coperta non è mai tanto a lungo mia perché possa riconoscerla per tale. Alla lunga non ci faccio più caso, ma la cosa ha la sua importanza. La precarietà di tutto quello che mi circonda rende precario anche me. Mi sento spesso sospeso su di un abisso che potrebbe spalancarsi improvvisamente. Sono pronto ad affrontare questa evenienza. Ma questa efficace risposta attiva non mi rende, per il fatto di avvertirla dentro di me, solo per questo, più tranquillo. Gli oggetti che usiamo sono accumuli di memoria, depositi di ricordi, agglomerati di immagini che permettono di mantenere in vita una identità. Se questi oggetti si alternano vertiginosamente sotto gli occhi, anche quelli più intimi e minuti, alla fine si rimane con una identità inquieta. Certo, un oggetto nuovo può essere anche gradevole per certe sue caratteristiche più o meno corrispondenti all’idea che ognuno si fa della bellezza o della comodità d’uso, ma ciò è troppo limitato e, pensandoci bene, richiede una grande forza di concentrazione per focalizzarsi solo su queste caratteristiche e non pensare al vuoto lasciato dalla mancanza delle altre. Ogni volta un oggetto nuovo, un nuovo abbigliamento, nuovi ambienti, nuovi luoghi dove dormire o mangiare. Alla fine, l’unico a persistere sempre uguale a se stesso è il mio amico K, silenzioso e impassibile.


88. – La tutela fornita da un altro è una grande cosa ma, alla lunga, stanca e richiede una concentrazione e un autocontrollo spropositati. Si finisce per vivere sempre sotto l’impressione di non comportarsi nel modo corretto per non dare nell’occhio, per non destare sospetti, errori che comprometterebbero lavoro e impegni, oltre che la vita, non solo di chi li commette ma anche degli altri. I giorni di forzata inattività suggerivano più degli altri queste riflessioni malinconiche. Così, alla fine, io, liberatore, mi sentivo che dovevo per prima cosa liberare me stesso dai mille fili che mi legavano alla mia vita precedente e che costituivano un pesante ostacolo, anche affermando di non avvertirli. Ma ciò era possibile? No. Non era possibile. Ed ecco che tornavo a cercare di escogitare dei metodi empirici per sbarazzarmi dei ricordi. Ecco che mi legavo più strettamente allo stesso molteplice cambiare degli oggetti a mia disposizione. Trovando in questo turbinio una forza per estraniarmi da me stesso. Ma a quale prezzo? Mi scrollavo di dosso la malinconia, il ricordo dei miei figli, della mia casa, e mi costituivo in perfetto automa. Ovviamente con scarsi risultati. La mia super-coscienza mi diceva che non potevo accettare queste debolezze. Va bene, ciò aiutava un poco, ma la coscienza è una costruzione della mente come un’altra, una immaginazione che controbatte altre immaginazioni e, nella lotta dei tempi, l’esito di questo scontro non è mai scontato. Non c’è niente di definitivo, niente di assoluto che regga una volta per tutte, la mia coscienza di anarchico e di liberatore era là, ogni notte, prima di contare le pecore, e mi rispondeva a puntino, come uno che ripete una lezione appresa a memoria. Anche adesso, in questo carcere greco, a distanza di quarant’anni, la mia coscienza mi parla allo stesso modo e mette di lato l’ospite inatteso che siede silenzioso ogni sera ai piedi del mio letto. Loro non si parlano né si potrebbero comprendere, sono due monadi senza finestre, inaccessibili reciprocamente. La coscienza mi parla e l’ospite inatteso mi guarda e so che è lì ad aspettare. Sono tranquillo, qui, adesso, la chimica mi aiuta molto, la mia età la rende indispensabile. E di questa tranquillità di reietto me ne faccio uno scudo. Non sono ancora morto.


89. – Dov’è il punto di partenza di tutto questo? Non di quello che mi sta di fronte ma di quello che c’è dentro di me, un insieme confuso di continuo rifiuto e costante accettazione. Devo vivere e contrasto la vita, questa vita che sostanzialmente è solo morte camuffata. Non so trovare risposta. Forse in una passione per la verità? Oppure, in modo più adeguato, nella bellezza della vita, quella vera, non questo spauracchio in cenci da mendicante. Certo in un convincimento che mi fa sentire possibile una trasformazione profondamente qualitativa, non un banale cambiamento e, dentro certi limiti, nemmeno un più che desiderabile miglioramento. Una più alta disponibilità di cibo e medicinali per tutti qui sarebbe una benedizione, non lo metto in dubbio, ma non è la rottura che porto nel cuore. Odio una verità che si accontenta di farsi specchio di condizioni appena vivibili, di gran lunga migliori di questa sopravvivenza equivalente a una morte lenta e prolungata. Mi contraddico e, nello stesso tempo, so bene di non contraddirmi. Il torpore di chi cerca di aggiustare le cose venendo a patti col proprio nemico non addormenta le mie membra. Sono sempre in grado di reagire.


90. – Una mano di vernice. Ecco quello che molti auspicano. Anche qui. Forse non proprio fra di noi compagni ma di certo all’interno delle organizzazioni di resistenza ci sono questi portatori di sogni a poco prezzo. Costoro si racchiudono in un lenzuolo mortuario di prezzo meno modico, quindi più appariscente, ma nascondono lo stesso un cadavere in corso di veloce putrefazione. Non si può andare avanti accettando di indietreggiare fortificandosi in una condizione lievemente migliorata ma che reca in sé il germe del prossimo peggioramento. Nello stesso tempo non è possibile accettare la tesi degli oltranzisti a parole, quelli del “buttiamoli a mare”, quando tutti sanno bene di avere di fronte uno dei più forti eserciti del mondo. Riempirsi la bocca di grandi parole equivale a denunciare la propria inadeguatezza, a sfidare il gigante facendogli il solletico. E quest’ultimo sa bene come stanno i rapporti di forza e lascia che l’altro, il resistente, si sfoghi in questo modo, accettando la sorte miserrima a cui insiste a condannarlo.


91. – Purtroppo i nostri limiti ci dominano e la sola volontà non basta a spostarli, può solo incrudelire le nostre illusioni. Solo accettandoli pienamente si può continuare a lottare in maniera efficace, colpendo in base a quello che si può fare – che non è pochissimo – e non in base a quello che si desidererebbe fare. Non valutare a pieno questi limiti non produce uno stimolo ma un suicidio, il che, qualche volta, può raggiungere livelli di sublime dedizione ma resta faccenda in sé occlusa, senza sbocchi, iniziata e terminata in un solo gesto. Al di là dell’ostacolo non si getta il cuore per continuare a lottare ma tutto, quindi si ottiene in risposta solo l’azzeramento delle future possibilità. Se da vivo sono quasi morto, da morto non per questo sono vivo, niente può dare vita alla morte. E qui parliamo di faccende concrete che riguardano tutti, non si tratta di sillogismi filosofici.


92. – Più di quarant’anni fa, all’epoca in cui facevo, più o meno, queste riflessioni, mai avrei pensato di potere scrivere queste righe dopo tanto tempo, in un carcere greco. La vita riserva sorprese che sarebbe saggio tenere da conto. Eppure nessuno è saggio abbastanza per farlo. Ecco perché siamo sempre impreparati di fronte alla visita dell’ospite inatteso. Il suo arrivo spazza via tutti alla stessa maniera, giusti e ingiusti, vittime e carnefici. Non fa differenza. La differenza siamo noi. Essa giace in fondo al nostro cuore. E se nel cuore di un carnefice, nel momento in cui si rende conto che l’appuntamento estremo si sta concretizzando, persiste la nebbia che lo ha accompagnato durante tutto il suo lavoro, peggio per lui. Non sarà nemmeno in grado di capire che è arrivata la sua ora.


93. – Odiavo la retorica. Le fanfare spiegate, il sentirsi protagonista, ma mi sentivo un liberatore. Quello che odiavo lo odio ancora, quello che mi sentivo – un liberatore – ho smesso da tempo di sentirlo. Non si possono contrastare sentimenti e desideri essenziali, non per negarli, ma nemmeno per incanalarli in quella che si ritiene una giusta direzione. Non si può suggerire di prendere la vita nelle proprie mani quando la gente non ha più nulla da potere prendere se non la propria miseria. Le mie idee libertarie, ovvie altrove, in quella condizione in cui improvvisamente mi trovavo calato potevano apparire un ghiribizzo da intellettuale. L’ansia del momento non era favorevole a fare fiorire i germogli, i semi delle mie idee. Occorrevano altri suggerimenti, altri obiettivi, altri mezzi. Poi, forse, in un domani migliore, si sarebbe potuto parlare di libertà. Per il momento occorreva difendersi dall’invasore, disputare palmo a palmo il più piccolo spazio di sopravvivenza. Insinuarsi in interstizi che altrove potevano sembrare trascurabili. Se mi fossi irrigidito sarei stato messo bellamente da parte. Le mie idee avrebbero avuto il successo della vecchia retorica fanfarona. Non potevo correre questo rischio. Dovevo andare avanti, trarmi d’impaccio, avanzare critiche di natura organizzativa e decisionale. Ma da questo lato le cose funzionavano abbastanza bene. Le azioni erano decise all’interno del gruppo e partivano da informazioni ricevute dalle organizzazioni di resistenza. Queste ultime non ostacolavano l’autonomia decisionale e tecnica, badavano ai risultati, e questi arrivavano puntuali, per cui non entravano in gioco pesantezze politiche.


94. – La libertà che avevo scelto la vivevo nell’azione, nel momento in cui si bruciava il mio essere la qualità stessa, la mia coscienza diversa non più immediatamente desiderosa di adattarsi alle regole più o meno imposte, per esempio, quelle rigidissime della clandestinità. Ma questa libertà, vera, sconfinata, era solo mia, non potevo condividerla con coloro che ne erano privi quasi del tutto. Agivo, in fondo, come liberatore di me stesso. Agli altri, conclusa l’azione, rimaneva il risultato raggiunto, ben modesta cosa per loro che l’osservavano dal punto di vista quantitativo, molto più grande per me che lo rammemoravo, quel risultato, cercando di coglierne la qualità, la mia individuale esperienza nella qualità. Chiarezze per loro – un nemico in meno, una struttura repressiva danneggiata, un piano di sfruttamento mandato in aria – dal punto di vista della quantità. Ombre e ostacoli per me, dal punto di vista della qualità. Dopo l’azione mi fermavo a riflettere su sfumature morali per me fondamentali, per loro scontate o inessenziali, osservavo come si erano svolti i fatti – per me era l’azione il punto essenziale – e scoprivo che l’intensità con cui io avevo vissuto quello che per gli altri erano fatti, per me era il nucleo centrale dell’azione, la sua intrinseca potenzialità liberatoria, la tensione qualitativa che si determinava dentro di me e che non riuscivo a comunicare se non per brevi e innocue affermazioni, in una lingua ostica e non padroneggiata bene, il che rendeva le cose ancora più difficili. Li vedevo partecipare insieme a me, agire insieme a me, e osservavo il loro essere spettatori estranei di quello che facevano, pur compenetrandosi nella imprescindibile necessità di farlo. Per me c’era un costrutto diverso, una crescita del tutto differente della mia coscienza rivoluzionaria, non corrispondente a quello che per gli altri le medesime cose significavano. Spesso queste semplici ma terribili considerazioni mi facevano sperduto in mezzo a un gruppo con cui avevo un contatto intermittente e circoscritto, contatto che di tanto in tanto si interrompeva lasciandomi solo, bruciato dalla mia esperienza della qualità, dalla mia partecipazione all’azione portata a completamento. Ecco perché mi trovavo spesso spaesato e isolato dopo un’azione e non partecipavo alle considerazioni e alle riflessioni che su di essa venivano fatte. Non le trovavo né pertinenti né adeguate. Tante erano le affermazioni fatte nel frastuono delle tanti voci che parlavano spesso contemporaneamente, eccitate dal pericolo corso, e io mi sentivo estremo e remoto, anche se cercavo di nascondere questo mio strano sentimento per non sembrare un elemento di disturbo all’interno del gruppo.


95. – L’illusione di potermi fare capire nelle mie vere intenzioni, quelle recondite, fondate indubitabilmente sulla libertà, era, per l’appunto, una illusione e tale doveva restare. Mi impegnavo a darle spazio, facendola vivere nella mia vita quotidiana, ma mi accadeva allora di scuotere la testa tra me e me. Non mi scoraggiavo ma non accettavo di fare, soltanto di fare. Cercavo di agire, cioè di andare oltre l’elenco quantitativamente dettagliato e orripilante che le organizzazioni provvedevano a fare arrivare a tutti i gruppi combattenti. Era qui che l’illusione prendeva il sopravvento, a volte, e imponeva domande che ero costretto a rinviare a dopo, dopo che le incombenze necessarie venivano a completamento. Le mie fantasticherie mi facevano velo? Non lo so. Penso di no.


96. – Aveva l’aria svanita, sempre appariva come sprofondato in sue meditazioni che lo tenevano come discosto da ciò che gli accadeva attorno. La taverna era scura e fumava. Sono in un altro paese, lo stesso dove adesso scrivo queste righe in carcere, dopo quarant’anni. Era vecchio e sembrava stanco oltre che svanito. Con il berretto calato sugli occhi non guardava nessuno. Stava lì col suo bicchiere di caffè e acqua davanti, l’orribile bevanda greca del mattino. Eppure era stato indicato proprio lui come uno dei servitori più efficaci del nuovo regime. Avvertiva direttamente e ingenuamente recandosi in un vicino posto di polizia nella zona del porto. Quanto ricevesse da questa sua odiosa attività non fu dato sapere, non doveva essere molto, e nemmeno efficaci le sue indicazioni. Per altro la zona non era fra le più interessanti dal punto di vista della resistenza contro il fascismo. Decidemmo di non fare intervenire l’ospite inatteso. Un compagno una sera l’accostò per strada e con un lungo discorso lo convinse a vivere diversamente la propria vecchiaia. Forse riuscì nel suo intento? Non lo abbiamo mai saputo, in ogni caso era inoffensivo o quasi, come molte cose apparentemente truculente e feroci in questo strano regime e in questo straordinario paese.


97. – Qui le cose vanno in maniera del tutto impensabile. Parlare di mancata organizzazione è dire poco. Il mio contatto non si è presentato puntualmente, ho dovuto attenderlo due ore al Pireo. Non sapevo dove andare né che fare. I miei documenti francesi erano stati trattati bene alla frontiera, ma dovevo andare via dalla stazioncina dove non trovavo la persona che doveva esserci. Alla fine venne. Parlava un italiano perfetto, aveva studiato medicina in Italia ma non si era laureato. Aveva una certa pratica di medicazioni che poteva tornare utile. Mi portò al centro, in una casa nei pressi del Politecnico. Non parlava molto, e questa era una grande dote quando si era fuori, ma in casa era un po’ seccante vivere in pratica con una mummia taciturna. L’indomani mattina vennero due altri compagni, anche loro vicini all’area socialista, e mi chiesero di che cosa fossi pratico. Qui non c’erano luoghi di addestramento. Tutto si basava sull’improvvisazione e sulla buona volontà.


98. – Dovendo partire dal nulla, la prima azione fu quella di utilizzare le poche armi a disposizione per espropriare un’armeria privata. All’epoca i percussori erano tenuti insieme alle armi e non separati come accade oggi. L’operazione andò bene e mi resi conto che i miei compagni, specie quello che viveva nella stessa casa dove ero ospite anche io, avevano una certa pratica. Non erano specialisti, ma nemmeno io lo ero. Mi dissero che c’erano dei gruppi vicini al partito comunista che comprendevano anche dei militari, non di grado elevato. Non ho mai avuto contatti con loro. Dopo venni a sapere che il servizio non aveva ancora organizzato degli infiltrati ma si limitava a utilizzare solo degli informatori occasionali, pagandoli in modo veramente irrisorio. Ma all’inizio non potevo saperlo e quindi ho preferito evitare di allargare le mie conoscenze anche a questi gruppi vicini ai comunisti. La prima settimana, successiva all’azione di reperimento delle armi, passò in progetti faraonici, tutti opportunamente messi da parte.


99. – Tranne pochi di buona volontà qui mi sembra tutto morto, gloriosamente defunto come i ruderi immani che si trovano dovunque. Giusto di fronte al monumento più augusto dell’antichità si trova la sede occulta del servizio americano. E dove potevano collocarlo? In una biblioteca. Il massimo della sconcezza sotto tutti i punti di vista. Occorrerebbero molti sforzi, di sicuro molti di più di quelli che possiamo fare noi che resistiamo al dominio congiunto – greco-americano – per sollecitare la gente, per ricordare l’orgoglioso passato di cui parlano qui anche le umili pietre del selciato. Ancora una volta mi viene in mente l’immagine del bambino e dell’oceano di cui al mio amato-odiato Agostino. Ma io sono qua per agire, non sono in riva al mare, sono un uomo di trentacinque anni e non sono un bambino. Qualcosa possiamo farla per svegliare l’attenzione della gente. La sede del servizio americano è stata una buona scelta.

* * * * *

“FAUST
Sublime spirito, mi hai dato tutto, tutto
ciò che ti chiesi. Non hai rivolto invano
a me il tuo viso tra le fiamme.
Mi hai dato la Natura maestosa come regno
e forza per sentirla e per goderne.
Non mi hai concesso un freddo e attonito soggiorno,
mi hai lasciato guardare nel fondo del suo petto,
come si guarda il cuore di un amico.
Porti davanti a me le schiere dei viventi,
m’insegni a riconoscere i fratelli
che ho nell’aria, nell’acqua e tra le quiete fronde.
Quando nel bosco mugghia e scroscia la bufera
e l’altissimo abete rovina, sradicando,
schiantando i tronchi e i rami più vicini,
e al crollo tuona sordo e cavo il colle,
tu mi guidi al riparo di una grotta
e sveli me a me stesso: e nel mio petto
si aprono segrete, profonde meraviglie.
E quando sale limpida la luna
al mio sguardo e mi placa, dalle rupi,
dagli umidi cespugli mi aleggiano davanti
le forme inargentate del mondo che è già stato,
a lenire la gioia severa del pensiero.
 
Oh, nulla di perfetto tocca all’uomo,
ora lo sento. In questa voluttà
che mi avvicina sempre più agli dèi
tu mi hai dato un compagno, e ormai non posso
fare a meno di lui, benché freddo e insolente
mi degradi ai miei occhi e con un soffio
della sua voce annienti ogni tuo dono.
Senza posa egli attizza nel mio petto
una violenta fiamma per quella bella immagine.
Così dal desiderio brancolo al godimento,
e poi nel godimento mi strugge il desiderio”.

(J. W. Goethe, Faust)

Cento – centoquarantanove

100. – Agire nei villaggi è più facile. Nelle isole più difficile. Ma non si può restringere tutto nella capitale. Qui non c’è neanche la scusa di una maggiore ridondanza. La stampa è sotto controllo. Gli effetti di un’azione nascono e muoiono quasi sempre nei pressi del suo realizzarsi. Non possiamo contare se non sulla diffusione di qualche volantino ciclostilato, la cui circolazione è non solo difficile e pericolosa ma anche spesso coglie di sorpresa la gente che ha quasi un subito gesto di rifiuto. Poi magari prende il pezzo di carta e lo nasconde accuratamente. Lo leggerà? Non è dato saperlo. Quindi l’azione coglie il proprio limite in se stessa. Un torturatore è sempre un torturatore. La gente non lo conosce se non come padre di famiglia, come impiegato al Ministero dell’Interno, come militare in genere di grado non elevato. L’arrivo dell’ospite inatteso è un accadimento positivo, anche se non è facile che la questione possa allargarsi a una più ampia fruizione. Certo, si poteva contare su di una sorta di passaparola clandestino diretto a chiarire l’attività della bestia abbattuta, ma ci si doveva per forza fermare sulle generali, sia per quanto concerne gli autori dell’azione che per i misfatti della bestia. Anche questi ultimi potevano costituire un filo che gli indagatori avrebbero potuto tirare per arrivare a pericolose conclusioni. A volere essere giusti non mi ricordo di indiscrezioni o di morbose curiosità che, in un ambiente che ama la chiacchiera, costituisce di per sé un motivo di grande valore da sottolineare qui, in queste tarde annotazioni.


101. – Arrivato di mattina al solito caffè-latteria, al centro della grande città, trovai un’aria tesa e insopportabile. Tutti tacevano e guardavano la propria bevanda o mangiavano il proprio yogurt al miele. Mi tenni indietro, sedendo nei pressi della porta, pronto per ogni evenienza. Solo dopo un po’ il silenzio si interruppe e ricominciò il solito vocio a più interventi urlati in contemporanea, com’è nell’uso da queste parti. Con la chiacchiera arrivò anche il compagno che mi disse di pagare e andare via. Per strada, andando verso casa, mi spiegò che mezz’ora prima del mio arrivo c’era stata una visita della polizia e che molti erano stati interrogati ma non fermati. Mi ero salvato per pochi minuti di ritardo e per la superficiale organizzazione repressiva in atto nel paese.


102. – È incredibile quante impressioni si registrano e si selezionano in un pedinamento. Uno qualsiasi, non importa quale. Su dieci lavori del genere solo uno arriva, dopo tanti sforzi, a conclusione. Queste impressioni registrate nel silenzio e nell’accortezza giacciono sepolte nella coscienza e si sedimentano una sull’altra, fino ad accumularsi costituendo la figura concreta della persona sconosciuta di cui si hanno solo vaghe indicazioni di maniera. Al momento opportuno questo insieme si autorganizza e balza fuori pronto a servire come strumento essenziale per la riuscita dell’azione. Un suono di pianoforte, remoto, subito dimenticato, è invece rimasto là, intensamente legato al resto delle osservazioni, registrato in un coacervo che comprende le strade percorse, i portoni e le finestre intravisti, gli uomini, le donne, i bambini incontrati. I locali di ritrovo, i negozi, un gommista, uno o due giornalai. Tutto un insieme pronto all’uso. Unico e inscindibile.


103. – L’intuizione di un pericolo è qualcosa che non può essere visto solo nella prospettiva razionale delle misure prese o delle tecniche conosciute e applicate correttamente. C’è qualcosa d’altro. Di fronte a una situazione che sembra del tutto normale, mentre le corrispondenze e i comportamenti degli attori del dramma sono tutti perfettamente allineati, in quello stesso momento sta maturando l’incidente, l’ostacolo, l’imprevisto. Ecco, c’è qualcosa nell’intuire questa difformità un attimo prima che si renda palese in tutta la sua estensione, e questo qualcosa è un imponderabile senso del pericolo imminente, qualcosa che senza saperlo scioglie prima, un solo attimo prima, l’impaccio e propone una via d’uscita fuori delle medesime regole prefissate. Spesso infrangere le regole porta al disastro, qualche volta seguirle fino in fondo causa l’impossibilità di prevenirlo e ovviarlo. La tensione provata in questi istanti è simile a un turbamento angoscioso, a una sofferenza fisica, come se si stesse ricevendo un colpo violento, e ciò mentre ancora tutto sta procedendo perfettamente bene. Ciò può dipendere, ma non è certo, da una sorta di aura che raccoglie gli attori dell’azione e li unisce in un tutto unico che si evolve nell’attimo in cui tutto si compie, quindi fuori del tempo cronologicamente inteso. Questo movimento ha una durata della coscienza che può intendere un prima del maturarsi degli eventi e un dopo. Quando si avverte questa tensione, vuol dire che si sta agendo con la piena consapevolezza di se stessi, cioè con una coscienza diversa che è resa tale dalla qualità che si coglie agendo, lontana mille miglia dalla sonnolenza dell’immediatezza che conosce e capisce soltanto a posteriori e solo quello che il fatto gli getta in faccia nella cosiddetta evidenza capace, a suo dire, di rispecchiare la realtà. Ho spesso parlato della bruciante esperienza dell’azione, qui mi soffermo in un potente particolare inedito, una sorta di premonizione che si appressa a chi agisce senza che quest’ultimo la possa sollecitare e senza che nemmeno se ne renda conto. Molte volte questo misterioso qualcosa mi ha salvato la vita.


104. – La cortesia cerimoniosa, inquietante, assillante, la servilità che si insinua e nasconde la concreta e violenta malevolenza se non proprio l’odio. Ecco gli elementi dove mi trovavo a respirare. In fondo un ambiente repressivo non certo di prim’ordine, sbracato, pieno di approssimazioni, ma proprio per questo capace di sorprese che nessuna logica poteva prevedere. Anche i compagni, non avendo alle spalle un’organizzazione vera e propria, dovevano arrangiarsi per le informazioni, rischiando con la loro insistenza, a volte, di mandare a monte un’azione, specialmente nei piccoli centri dove di preferenza, dopo alcune settimane, sceglievamo di operare. Qui gli informatori, invece di mimetizzarsi e sparire fra le righe del loro sporco lavoro, assumevano un aspetto arrogante, come se fossero loro a spadroneggiare e non i mandanti. Ma più si scende nella distretta morale di una persona, più questa si vende per quasi niente, e più la sua coscienza nel cancellare se stessa vi sostituisce un fantoccio simile a uno spaventapasseri. Più di una volta potemmo verificare che alcuni di questi individui non erano informatori se non immaginari, assumevano l’atteggiamento e la spacconeria che l’atmosfera richiedeva ma, in fondo, informavano poco o niente e, di conseguenza, lavoravano a guadagno zero. Non spettava a me valutare la loro disponibilità a fare danno, dovevo solo constatare la loro effettiva efficacia. Se il danno non c’era bisognava andare oltre. Questo paese è pieno di karaghiosi e non si possono tutti buttare giù se non con le palle piene di segatura che usavo quand’ero piccolo.


105. – Hanno torturato e ucciso un compagno. Il cadavere è stato ritrovato in un paese periferico dell’Attica, in una stradina di campagna. Nessuna informazione. Roba da mangiarsi le mani. Gli impulsi della vendetta sono sempre cattivi consiglieri. Non sarebbe difficile mandare l’ospite inatteso da uno dei tanti informatori chiacchieroni, ma qui occorre qualcosa di più. Il nostro gruppo conosceva questo compagno, anche se lui faceva parte di un gruppo operante al nord del paese. Ma il luogo dove è stato trovato il corpo è nella nostra zona. Spetta a noi decidere cosa fare. Le perplessità angosciose, i dubbi, i ritegni e le incertezze non possono essere tollerate. L’ospite inatteso non tardò a presentarsi.


106. – Non si possono tollerare strappi nel tessuto dell’azione. Questo viene messo insieme con piccoli gesti pazienti che si evolvono nel tempo e che non fanno parte dell’azione ma la rendono possibile. Questo insieme concerne esclusivamente il fare attorno al quale ci si industria e che da solo non può mai produrre l’azione. Occorre, parallelo e al fare estraneo, un percorso individuale di oltrepassamento, dove i ritegni, le sfumature di dubbio, gli intoppi e perfino l’umana pietà, devono mettersi da parte, cioè devono essere lasciati nella dimensione del fare e non deve loro essere permesso di penetrare in quella dell’agire. L’attimo bruciante in cui si viene in contatto con la qualità non può tollerare la presenza delle incertezze che caratterizzano le marionette umane che riempiono il mondo con le loro vertigini e i loro capogiri, con le loro intraprese superficiali e chiacchierone.


107. – Alto e provvisto di robuste membra che agitava freneticamente camminando con passo sbilanciato e strano, il politicante da caffè, puntuale ogni mattina, sedeva al proprio posto di provocatore prezzolato. Le sue critiche al governo fascista erano sfumate ma pungenti e, in genere, procuravano un certo vuoto attorno a lui non appena cercava di attaccare discorso con chi gli capitava a tiro. Sempre pronto a offrire un caffè, aveva pochi clienti che abboccavano al suo amo. Nonostante tutto persisteva nel suo atteggiamento, lisciandosi, nell’attesa del prossimo pesce, i grossi baffi brizzolati posti, come se appiccicati apposta, sotto un naso grosso e rubicondo. Particolarmente, con un compagno del nostro gruppo, era pieno di cerimonie, cercando di coinvolgerlo nelle sue chiacchiere azzardate, ponendo domande e aspettando risposte che non arrivavano mai. Il tipo era evidentemente troppo stupido per essere pericoloso, per cui si decise di lasciarlo perdere. Solo in un piccolo centro potevano trovare un certo spazio tipi del genere, non occorreva sprecare il tempo dell’ospite inatteso con lui. Sarebbero bastati quattro schiaffi bene assestati, conto che qualcuno si incaricò in questo modo di regolare. Tutto qui.


108. – Le sofferenze procurano un’idea eccessivamente gonfiata dell’aiuto che ci si aspetta dagli altri. È umano che quando chi soffre veramente si vede tendere una mano cerchi di afferrare il braccio. Nella nuova condizione in cui mi trovavo, in un paese straniero, senza parlare la lingua, sotto un regime fascista, non potevo dare l’impressione che mi sarebbe stata congeniale, quella del liberatore armato di tutto punto. Dovevo defilarmi, procedere con cautela, ingoiare le parole di fuoco – peraltro incomprensibili agli altri – che mi venivano alle labbra, essere cauto. Ma non potevo impedirmi di non indignarmi e questo mi causava un costante disadattamento che finiva per avere conseguenze anche sulle mie personali capacità di agire. Queste capacità necessitavano, prima di tutto, di una grande calma, di una profonda tranquillità interiore. Per ottenere questa indispensabile condizione dovevo fare continui sforzi di autocontrollo. Alla fine sono riuscito a rimuovere la convinzione del liberatore, quindi il sottostante malinteso dovere di sacrificare qualcosa alla dea della libertà. Non c’è una dea del genere, non è mai esistita. Combattevo il fascismo perché odiavo il suo modo autoritario e nazionalista di concepire la vita, perché non condividevo nessuna delle sue scelte di valore. La libertà era un mio espediente per sollecitare la mia determinazione a farsi sempre più radicale e avanzata. Una volta convinto di questo mi calai in un personaggio del tutto nuovo, più duttile, più attento alle sfumature, capace di scendere negli interstizi ideologici di una scelta politica e di non fermarsi alla rigidità cadaverica di una coerenza ideologica a priori presa e mantenuta una volta per tutte e da mantenere in qualsiasi situazione.


109. – Una società in attesa di qualcosa. Questa era l’impressione che continuavo a ricevere nei piccoli centri, nei paesi del centro della Grecia. Il fascismo non sembrava presente, niente parate o sbandieramenti, niente forzature nazionaliste. Eppure sentivo qualcosa nell’aria, una sospensione del respiro, un ritmo diverso della vita, un guardarsi reciprocamente senza parlare. Poveri vecchi e povere donne, arroccati nei pressi della chiesa. Quasi assenti i giovani, che si affrettavano a mettere in mostra un impegno lavorativo, come per dire, ecco qua, io lavoro, io sono in regola. Ciò rendeva difficile la mia mimetizzazione, essendo facile farmi notare come un corpo estraneo, entrato a forza in un contesto che non può facilmente assorbirlo. Un progetto era, in queste condizioni, non solo difficile da realizzare, ma anche da pensare. Le poche informazioni che arrivavano riguardavano obiettivi o troppo scontati o troppo scoperti. In ogni caso richiedenti lunghe indagini, difficili da portare a compimento. Questi limiti erano nostri, cioè dipendevano dalla nostra incapacità e inesperienza, oppure erano una conseguenza della cattiva organizzazione resistente? Non so dare una risposta, nemmeno ora, a distanza di tanto tempo. Non voglio alleggerire i miei limiti di allora né accentuare i difetti di un contesto che senza alcun dubbio c’erano. Ci sentivamo imprigionati in una nebbia dove non vedevamo nessun obiettivo plausibile. Poi, finalmente, una indicazione più precisa, facile da controllare e da mettere a punto. L’azione trovò il proprio spazio. Il lumicino divenne un faro e si vide meglio l’obiettivo e il modo in cui lo si poteva attaccare. Un pendolare della repressione fascista passava il fine settimana in campagna. Mandammo l’ospite inatteso. Tutto si colorò diversamente. Eravamo in marcia, non ci potevano più fermare.


110. – Cercare significa non essere, desiderare di essere. Ecco quello che cercavo, la libertà che non possedevo e di cui farneticavo a volte nei miei soliloqui destinati a tenermi compagnia. Per questa ricerca avevo acceso il mio piccolo fuoco, che a quanto sembrava nessuno riusciva a vedere nella notte indistinta dove bene e male si confondevano, dove i confini del giusto e dell’ingiusto si sovrapponevano. Quel mio piccolo fuoco voleva illuminare la sofferenza degli altri o semplicemente abbagliare la mia paura, la mia solitudine? Questa in Grecia era la mia prima esperienza clandestina, come tale si presentava con le illusioni dell’esperienza nuova e con tutto l’oltranzismo del neofita. Non ero quello che pensavo di essere, dovevo costruirmi, e ciò poteva avvenire solo nell’azione, impegnandomi totalmente nella qualità dell’agire. L’idea di libertà deve essere alimentata da un’esperienza collettiva, non può proporsi come imposizione di un’astrattezza concretizzata sul nulla di un a priori metafisico. Avevo il dubbio di stare facendo qualcosa del genere. Di tanto in tanto questo mio misero fuoco si spegneva e allora era la disillusione della sopravvivenza. Prima di tutto non farsi prendere. Per questo la routine infinita delle cautele e dei controlli. Ciò ripetuto fino alla noia senza interruzioni di continuità. Un cedimento nell’attenzione e tutto poteva andare perduto.


111. – L’azione più complessa ed eclatante, diretta contro il numero tre del regime, doveva essere destinata a fallire. Eppure è quella che più di tutte ci impegnò e ci fece crescere in esperienza e determinazione. L’obiettivo era ben custodito. Usciva raramente e sempre sotto scorta. Varie ipotesi vennero elaborate. La dinamite e l’attacco armato. Questo binomio, utilizzabile anche in contemporanea, se non altro come copertura, ci divise per molto tempo e ci fece perdere molte delle nostre speranze. Alla fine ci dovemmo convincere che occorreva l’intervento di più gruppi insieme. Questo aprì un capitolo spinoso riguardante le condizioni di una possibile collaborazione. Alcuni gruppi erano disponibili in teoria ma non in pratica, altri richiedevano la presenza di compagni che avevano una esperienza militare. Noi non eravamo d’accordo. Sarebbe lungo narrare questa noiosa vicenda. L’ospite inatteso rimase inoperoso.


112. – Mi sveglio la notte. Brutto segno nelle condizioni difficili in cui mi trovo. Nel silenzio approssimativo che circonda la strada dove abito, avverto come una strana meraviglia, una straordinaria e imprevedibile sorpresa. Che ci faccio qui? Domanda che mi commuove. Sono venuto a portare la libertà. La risposta, come tutte le risposte, non mi soddisfa. Dal balcone entra la luce della strada non illuminata in modo ottimale ma io ho la stanza proprio sotto la lampada stradale. Che ne è stato dei miei progetti? Delle decisioni prese? Nella notte, improvvisamente incapace di dormire, mi sembrano lontane luminescenze fantastiche, abbagli di uno spirito esacerbato, eppure le avevo vissute come ponderate decisioni, scelte mie personali che coinvolgevano il destino dei miei figli, di mia moglie. Perché ora tutto questo mi appariva improvvisamente poco credibile? Le ragioni, le scuse, le speranze, le smaniose immagini di qualcosa che si realizza ora e subito, dove sono? Mi rannicchio timido sotto il lenzuolo, cerco di allontanare questi perniciosi pensieri. Ma come faccio? Non se ne vogliono andare. Mi alzo e mi metto a leggere uno dei pochi libri italiani che posseggo. Un libro di Adorno sulla musica. La luce del giorno si fa strada nel cielo e i pensieri notturni se ne vanno col suo arrivo.

113. – Bisogna che mi convinca fino in fondo e che metta da parte le mie antiche illusioni, non sono un portatore di libertà. Rabbiosamente stringo i pugni come per difendermi da uno spasimo intimo, troppo personale per essere compreso dagli altri. Vedo con chiarezza i limiti delle mie azioni, anche se esse, ognuna di esse, pur essendo avventure nella qualità, non sono in grado di rendermi libero, tanto meno di dare la libertà agli altri. Mi coinvolgo, vivo la mia personale condizione di oltrepassamento, ne posso pure rammemorare la sua concretizzazione attiva, dentro certi limiti, discutendone con gli altri compagni, ma non posso catturare la qualità. È essa che mi cattura e incide sul mio corpo i segni, le bruciature, del suo contatto, non viceversa. La libertà senza limiti, che vivo nell’azione, mi sfugge una volta concluso il mio agire e mi rimangono in mano pochi accenni, qualche parola rammemorante, l’ebbrezza di un potente anelito di poi spento e quieto, come se su di esso fosse passato il livello tremendo e uniformante del tempo. Pochi minuti o alcuni secoli, che differenza c’è?


114. – Ho in me tanta incoerenza quanta coerenza penso di mantenere in tutto quello che faccio, cioè in quello che progetto per prepararmi all’azione. Ma il plauso per quest’ultimo sbocco non può farmi chiudere gli occhi di fronte alla mia contraddizione di partenza, se lo facessi farei troppe concessioni a me stesso. Quello che vivo in pochi attimi – tempo condensato in maniera non cronologicamente avvertibile – mi rende in grado di cancellare i miei dubbi? No di certo. Eppure ho quasi l’impressione che da qualche parte, se non altro come retribuzione per il mio impegno (nobile), una qualche autorizzazione in questo senso potrei averla. Ma da chi? Da me stesso. Ebbene, mi pare di capire che io stesso non concederò mai questa autorizzazione. In questo modo, persistendo la contraddizione, è come assistere al sacco di una fortezza che si pensava inespugnabile da parte di un’orda senza regole e senza legge. Perché ho paura di questo assalto? Non dovrei fare parte anch’io di questa orda selvaggia? Che cosa il mio cuore anarchico nasconde, da qualche parte, di conservativo e di perbenista? Forse più di quello che le mie illusioni sono disposte ad ammettere.


115. – Se mi lascio andare, accettando il volgere degli accadimenti, turbinante e ansioso di raccogliere ogni briciola della mia attenzione, ho quasi l’impressione di assumere un atteggiamento indolente, rappacificato. Sono dalla parte corretta della barricata, e qui, dove ho piantato le mie tende, devo per forza di cose starci bene. Perché queste incursioni del dubbio? Non è forse un modo per stuzzicare il mio stesso impegno, per riverniciarlo continuamente fino a farlo luccicare al sole della crudeltà e della ferocia? Non lo so. Non è certo con oculata parsimonia che centellino questi dubbi. Vengono su a fiotti, come il sommovimento di un fiume sotterraneo che nessun avello può sigillare. Oppure sono io che considero ogni sorta di chiusura, di sistemi artificiali per mettere a tacere questi dubbi, un provvedimento da catacomba? Qui non possono albergare finzioni. Qui c’è la nudità della miseria e dell’oppressione. Eppure anche qui ci sono spazi, tanti spazi, per collocarsi a riposo, per sostare guardando il cielo carico di nuvoloni, simile a quello che stamattina guardavo al passeggio in questo carcere greco che mi ospita, nella stessa città di quarant’anni or sono.


116. – Insistendo nella mia idea di libertà, anacronistica e indigesta, mi condanno alla solitudine. Devo cercare solo la compagnia di me stesso, le riflessioni poco confortanti che ricavo dalle mie intenzioni di partenza disilluse. Qui, adesso, in un paese sotto il fascismo, il primo passo non può essere la libertà ma la liberazione da un regime odiosamente repressivo. Una bella differenza che stento ad applicare praticamente anche se la capisco molto bene. Debbo tagliare ogni occasione di ricollegarmi ad accenni fatti prima, pericolosamente dissocianti, devo vedere le cose che qui vanno fatte e le possibili azioni, nulla di più. Sarebbe una potente forza disgregatrice, la mia, e io non voglio rompere ma mantenere unito il gruppo a cui mi sono associato. Sono compagni che come me ogni giorno rischiano la vita, non posso giocare con loro il mio eterno gioco della libertà assoluta. Bando quindi agli infingimenti puerili con i quali prendevo qualsiasi pretesto per sollevare e mettere in evidenza la differenza tra quello che si fa e quello che si potrebbe fare. Queste notazioni non mettevano quiete nella mia coscienza malata e non giovavano agli altri. Eccomi quindi impegnato in una lotta contro l’oppressore per una liberazione parziale, che non condividerò nei suoi aspetti concreti nel momento in cui sarà realizzata, anche con il mio impegno. Il rispetto per gli impegni presi mi impedisce di affrontare la mia visione del mondo. Non è quindi un passo indietro ma uno in avanti, non vengo meno ai miei accordi con i compagni, metto tra parentesi una fonte delle mie idee. Dopo tutto sono in una condizione collettiva di fronte unito, cioè di un insieme di forze eterogenee, genericamente avverse al fascismo al potere. Questa è la realtà, qui mi sono voluto inserire e qui mi trovo inserito, lusingarmi di potere essere qualcosa d’altro è fuori luogo.


117. – Dipendesse da me non avrei preclusioni a scrivere subito, oggi stesso, l’epitaffio dei responsabili di questo regime oppressivo. Purtroppo gli equilibri sono difficili da mantenere e, tranne casi estremi di idiozia pura, anche i responsabili governativi si rendono conto di non poter tirare troppo la corda. Perfino i loro protettori americani hanno questa sensazione, e non si trovano a loro agio. Dopo i recenti disturbi, non particolarmente significativi, contro di loro, questi ultimi sembrano avere allentato gli applausi a scena aperta. Lavorano di profilo, per come sanno fare loro, cioè in maniera grossolana e spesso inefficace. Certo, c’è sempre un lato diurno e uno notturno del potere, e quello notturno, che noi curiamo particolarmente, rimane efferato e disgustoso. I responsabili di questo eccidio che continua sotterraneamente in maniera ininterrotta non possiamo additarli soltanto a futura memoria. Passata questa bufera – com’è quasi certo che accadrà – i loro nomi saranno dimenticati. Molti qui pensano invece che ci sarà modo di presentare loro il conto anche dopo la liberazione. Ci sono molte maniere di illudersi.


118. – Nella sfilata di ignominie che ho visto qua negli ultimi due mesi non ci sono bestie particolarmente coscienti del proprio ruolo di infami. Li vediamo – un po’ tutti all’interno del nostro gruppo – come portatori di ignominia, torturatori e delatori, informatori e provocatori, ma in fondo, a quel che ho potuto constatare, nell’ambito della mia esperienza, si tratta non solo di bestie piccole ma anche sorprendentemente prive di cattiveria, per intenderci, senza la bava alla bocca. Ognuno di loro, negli atteggiamenti almeno, e questi sono indice abbastanza sicuro una volta che vengono collezionati con tanta accuratezza come facciamo noi, si ritiene una specie di “lavoratore subordinato”, vedendo i lati disgustosi del proprio “lavoro” come un elemento del mestiere, nulla di anomalo. Non scrivo questo per giustificarli, a distanza di quarant’anni e oltre, ma solo per constatare una volta di più la profondità della caverna dei massacri, la melma politica e i suoi livelli, insomma la ferocia pura e semplice di queste bestie. Tanto appiattimento, perfino nell’ignominia, mi sbalordiva e continua a sbalordirmi.


119. – La spia resta tale in qualunque modo la si tratti da parte della committenza. Spesso non è questione di livello d’impegno, di fascino della segretezza o di consistenza della paga. Questi elementi ci sono di certo ma sono secondari. C’è una naturalezza nella spia che non si acquista e non si vende, una devozione che non ha prezzo, perché se viene venduta o comprata non raggiunge un livello veramente significativo. In altre parole, una spia non ha prezzo. Lavora d’impegno nemmeno per la gloria, che questa le è negata per definizione, ma perché è profondamente spia nell’animo suo, nella sua visione del mondo. La sua è una sorta di fede in qualcosa di superiore, nel dio della delazione, e a questo dio sacrifica perfino la propria identità, che è cosa importante per chiunque. La spia raccoglie i suoi allori più significativi quando non ha ambizione né orgoglio, quando si consegna al padrone anima e corpo e, nello stesso tempo, accetta di duplicare se stessa in mille sfaccettature intercambiabili, tutte però adeguate all’unico scopo, ottenere informazioni utili per il potere che ha deciso di servire. In fondo il suo è un servizio “irregolare”, dietro le linee ufficiali, e come tale richiede una mentalità particolare, aliena da simboli o da contrassegni, da riconoscimenti o pacche sulle spalle. L’umiltà di un servitore di questo tipo rasenta la mistica dell’obbedienza, il fanatismo del servizio divino, l’ascetismo dello stilita senza neanche il piacere di potere guardare il cielo da una certa altezza. Grugnendo nel fango che è il suo ambiente naturale non si accorge, col passare del tempo, di come le sue fattezze si incattiviscano nell’espressione ingrugnita del porco che grufola invece di respirare, del serpente che sibila invece di parlare, del topo che squittisce invece di pensare. Una spia non respira, non parla, non pensa. Una spia è una bestia. Una bestia maligna e pericolosa.


120. – Sono stato torturato più volte, anche pochi mesi fa, dalla polizia di Trikala, dove sono stato arrestato nell’ottobre del 2009, e ho conosciuto da vicino molti individui che per mestiere facevano, appunto, i torturatori. Li guardavo, questi ultimi, mentre andavano per i fatti propri, mentre tornavano dal “lavoro” o vi si recavano, insomma ho imparato a conoscerli, registravo i loro movimenti, i loro piccoli atteggiamenti quotidiani, forse le loro speranze di mimetizzarsi fra la gente per non far vedere il marchio che, sono sicuro, loro stessi leggevano impresso sulla propria faccia, normalissima questa, senza eccezioni. Posso azzardare l’ipotesi di una caratteristica comune? Erano dei solitari. Non so fino a che punto questa ipotesi regge, né le presenti considerazioni sono un saggio di psicopatologia applicata, quindi non mi preoccupo che della loro verosimiglianza. Solitari lo dovevano essere per forza, a mio giudizio. Anche i loro colleghi, con specializzazioni parallele ma diverse dalla loro, dovevano provare una sorta di impaccio a frequentarli. Penso che, con un minimo di sforzo, anche loro avrebbero potuto scorgere la mani macchiate di sangue, le tracce lasciate dai ferri del mestiere, insomma anche loro, pur essendo consimili ma non identici a questo particolare abominio umano, dovevano provare una specie di ripulsa, o almeno un’ombra di questo sentimento umano. Il fatto è che non sono per niente certo di queste mie considerazioni, e la cosa mi fa stare male. In fondo l’uomo è una bestia ancora più maligna di quanto posso avere immaginato.


121. – L’elenco dei mascalzoni è pressoché infinito. Pure con le scarse informazioni che qui possediamo, esso cresce ogni giorno. Nei tre piccoli paesi dove ci rechiamo di tanto in tanto, e dove ho conosciuto alcuni compagni, ne sono stati individuati complessivamente una ventina. Sono mascalzoni che lavorano alla cieca. Non sono stati né reclutati né addestrati, o almeno non ci risulta niente del genere. Abbracciano, di volta in volta, le indicazioni di massima che ascoltano alla radio del bar del paese. Diventano così paladini del nuovo regime e gettano tutto intorno la loro rete bucherellata. Raccolgono atteggiamenti e sospiri di insofferenza della gente e li riportano alla polizia. A quel che pare la polizia locale non ne tiene quasi conto o forse sottopone questi suggerimenti a una certa intelligente selezione. Non sembra che questi mascalzoni causino danni rilevanti. Uno soltanto pare più attento degli altri, forse solo più spavaldo della propria incerta sorte. Costui, a quel che mi dicono, più che ascoltare parla, e parla favorendo il governo fascista in carica, non si cura nemmeno di darsi una copertura, non è un provocatore, è solo uno stupido mascalzone che causa pericoli solo per coloro che ascoltandolo non ne possono più e lo contrariano, facendo così vedere le proprie idee. L’ospite inatteso si presentò direttamente al lavoro di questo figuro che rimase con la bocca aperta, così stupidamente com’era vissuto per tutta la vita.

122. – Inconseguente e rigido nella mia inconseguenza. Così sono e non posso essere altro che in questo modo. Mi sono costruito una scorza che col passare dei mesi – sono alla seconda venuta in questo paese fascista – sta diventando considerevole. Non entro più nei miei dilemmi, sto fuori delle mie perplessità. Sono sempre un portatore di libertà, ma di una libertà a mezzo servizio. Escluso dalle mie idee, con le quali convivevo non più conflittualmente ma con un accorato bisogno di tutelarle e difenderle dalla rigida corazza che attorno me io stesso stavo costruendo. Non avevo paura di cadere nei lacci dell’incongruenza, temevo soprattutto di non riuscire a perforare la corazza che mi ero fatta per proteggermi e non potere più rientrare in me stesso, convivere con le mie idee. Temevo che il processo logico dell’azione, puntualizzandosi di volta in volta, mi facesse vivere la libertà e non me la facesse vedere, me la rendesse invisibile e inavvicinabile, come un sudario che copre il cadavere ma di cui quest’ultimo non ha cognizione. Il procedere monotono e uniforme della preparazione, parte essenziale dell’azione, mi prendeva quasi totalmente. Ero una macchina lavorativa, un produttore specializzato in corrispondenze e riscontri, misurazioni, pedinamenti, controlli, appostamenti. Mi appassionavo al mio lavoro, che eseguivo con cura – e come poteva essere altrimenti?, in caso contrario, la catastrofe – e non collegavo nemmeno più questo lavoro preparatorio all’azione vera e propria. Questa fioriva improvvisa, a un dato momento, frutto di quel lavoro e della mia decisione di oltrepassamento, parallela e univoca con quella degli altri compagni. Qui vivevo la mia qualità, come loro vivevano la loro. La rammemorazione di queste esperienze, anche stasera, mentre scrivo queste note, in un carcere dello stesso paese, dopo quarant’anni, non era gran cosa. Certamente ciò dipendeva da un mio difetto di rigidità, diretto a sottolineare le distanze della mia idea di libertà assoluta, anarchica, e quel poco di libertà che la rammemorazione rendeva tangibile nell’azione compiuta. Ma non era nemmeno una mia carenza, era una condizione collettiva che vivevo, del tutto diversa, ad esempio, da quella italiana, e questi difetti rammemorativi venivano prodotti forse, non ne sono sicuro nemmeno oggi, dalla distanza tra l’esperienza nella qualità e la ridotta situazione sociale in cui ero obbligato a collocare l’azione stessa una volta portata a completamento. Come che sia la questione, se mia esclusivamente o in parte dovuta alle condizioni oggettive del luogo dove mi trovavo, ero dilaniato lo stesso se non facevo ricorso a un efficace rafforzamento della suddetta corazza. Ma ogni corazza protegge e proteggendo indebolisce, rende pusillanimi e incerti, questo è il guaio peggiore di una copertura troppo stretta, troppo guardinga. Non c’erano alternative.


123. – Quasi spezzato in due, curvo al massimo, vi si leggeva nella postura antica e nel volto rugoso il suo passato di contadino. Era un vecchio compagno estenuato, pallido, stanco, eppure negli occhi aveva la vergogna per quello che il suo paese era costretto a subire e l’orgoglio di non accettare questa repressione. In breve divenne uno dei nostri punti di riferimento. Conosceva i paesi attorno, a nord della capitale, come le sue tasche, e non era tipo da farsi illusioni. Guardava alle piccole cose che si potevano fare. Attaccare le linee di comunicazione – cosa che aveva fatto durante la precedente resistenza contro l’occupazione italiana e tedesca – era la sua specialità. Non poteva farlo personalmente ma i suoi consigli ci furono sempre di prezioso aiuto. Parlava piano, appoggiando le mani e il mento al bastone, seduto, e i compagni che lo capivano mi ripetevano poi, in veloci traduzioni, le sue parole. Si trattava di indicazioni e di modi per reperire il materiale. Mai una chiacchiera inutile, mai un dubbio o una preoccupazione, mai un gesto fuori luogo di esultanza o di esasperazione. Un uomo concreto.


124. – Entrati in bottega era venuta fuori una gran confusione. Dalla stanza di dietro, al primo accenno di rumore, uscirono due cacciatori con i fucili in braccio, presumo scarichi, e si dovette imbarcare anche loro. Una ragazza svenne e cadde sul vicino divano. Era veramente andata o faceva finta? Chi poteva dirlo? Bisognò chiudere tutti dentro uno stanzino piccolissimo, dove si intasarono quasi uno addosso all’altro. Un compagno mi afferrò per un braccio per dirmi che c’era un problema con la cassaforte. Era chiusa. Bisognò riaprire lo stanzino, fare uscire il padrone con le chiavi, che aveva silenziosamente messo in tasca, portarlo davanti al monumento del suo tesoro, farglielo aprire, riportarlo nello stanzino. Tutta una grande perdita di tempo e una confusione che in questi casi può facilmente tramutarsi in tragedia. Alla fine di queste operazioni lasciavamo un volantino spiegando il perché della nostra azione di esproprio e a cosa sarebbero serviti i soldi così sottratti. Ma nel caso in specie non volli lasciare nessun volantino, la nostra maldestra condotta poteva essere una traccia molto pericolosa che la polizia avrebbe forse saputo decifrare. In fondo, a pensarci bene, una precauzione inutile.


125. – Ogni azione è diversa dall’altra, eppure tutte si somigliano. Noi siamo le formiche che cercano di punzecchiare il grosso animale. Non siamo in grado di capire fino a qual punto queste punzecchiature lo inquietano. Gli approvvigionamenti non molto, a quel che appare dai giornali, un trafiletto, non più di questo – forse è una strategia centralizzata, un ordine del governo, ma non ne sono sicuro –, gli attacchi alle comunicazioni non vengono neanche pubblicizzati, le nostre rivendicazioni sono povera cosa, raramente raggiungono lo scopo, cioè farsi leggere dalla gente, sospingerla a organizzarsi per fare la stessa cosa. L’eliminazione dei torturatori e delle spie non viene spiegata che con brevi comunicati, per lo più fatti circolare dal movimento rivoluzionario all’estero e poi, di rimbalzo, riportati qui. Queste, in fondo, sono le azioni che disarticolano meglio le giunture repressive del governo, forse, a quel che mi sembra, a causa della loro approssimazione. Mi ribellavo a questa inevitabile graduatoria di importanza che non condividevo, non amando molto le azioni di bassa giustizia, ma alla fine mi rendevo conto della loro importanza. È in questa direzione che avviavo pertanto, con impeto rabbioso, le mie energie. L’ospite inatteso restava raramente inoperoso. In fondo, anche in altri contesti, è questa l’azione tipica del movimento clandestino che opera in condizioni di estrema difficoltà. Modulare la lotta diversamente, limitarsi al solo sabotaggio, ha come conseguenza di irrobustire le strutture organizzative del potere in carica, in genere di una ferocia repressiva non commisurata al livello dell’attacco. In queste situazioni, un incidente non poteva concludersi con un arresto. Sarebbe stato un disastro. Lo scontro era quindi sempre fino alle estreme conseguenze. Queste condizioni stesse operavano su di noi una sorta di scelta che andava contro e oltre la nostra stessa scelta. Spesso, quando si decideva di non invitare l’ospite inatteso i rischi che si correvano erano maggiori. Si trattava comunque di una titubanza, di un cambiamento di obiettivo realizzato all’ultimo momento, quindi di per sé pericoloso molto di più della sua ordinaria realizzazione, capace di seguire nelle sue diverse fasi il programma già studiato in precedenza.


126. – Malgrado l’abitudine al lavoro quotidiano mi rendo conto di vivere momenti di vero sbalordimento. Con un certo rimescolio mi chiedo a volte, che ci faccio qui? La lotta contro il fascismo, va bene. Ma anche a casa mia lottavo contro la repressione che, se non portava il nome di fascismo, in sostanza non era molto diversa. Perché questa svolta estrema? Perché sono stato sempre estremo in tutto quello che ho deciso nella mia vita. Ma non è una risposta che mi soddisfa. Sono così sempre stato desideroso di misurarmi con me stesso? Forse. E la scelta della libertà? Quella non era solo per me, ma per gli altri. Una sorta di umanesimo travestito da reboanti parole? No, non sono venuto qui per modulare altre chiacchiere. Sono qui per agire. Ciò, una volta fatte queste riflessioni, mi causa una impazienza angosciosa che in qualche modo devo padroneggiare. Ogni mattina riprendo il mio lavoro sul territorio e, a poco a poco, ritrovo il mio equilibrio. Rifletto di meno sulla mia situazione in generale e di più sulle piccole incombenze da portare a completamento. Non dico di riuscire ad aprire una parentesi ogni giorno e di cacciarmici dentro, nemmeno dico che queste deambulazioni accanite e misteriose sul territorio siano passeggiate piacevoli, dico solo che sono tutto in questo mio quotidiano lavoro e nelle discussioni con i compagni faccio la mia parte senza pretendere di imporre una rigidità che risulterebbe anacronistica. Mi capita a volte, improvvisamente, di essere infastidito per la riduzione all’osso di alcuni fatti, per la rinuncia a priori di perseguire un efficientismo di fondo posto in ogni caso fuori discussione, poi rientro nei ranghi e riporto per quanto possibile in modo razionale le mie corrispondenze e le mie osservazioni. Con un gesto della mano nell’aria, che solo io conosco, scaccio via i pensieri fastidiosi dei miei ricordi. Devo andare avanti. Il fascismo deve essere abbattuto, questo è indispensabile. Lo so che dopo, qui, costituiranno un altro potere, simile, ma per il momento un dominio militare è una cosa che io personalmente non posso tollerare. Questo, in fondo, è il motivo perché sono qua, devo smettere di cercare altre motivazioni. Questo motivo basta da solo.


127. – C’era la luna quella sera, ma solo un pezzetto, e le stelle non facevano bene il loro lavoro. Neanche una nuvola ma nemmeno una lampada nella viuzza di periferia del paese. Una viuzza deserta dove ogni sera si avventurava, di ritorno dal posto di polizia, l’uomo forte del posto, una specie di colosso dal pelo rosso. Era addetto a intimidire i contadini e a schedarli. Le sue lunghe braccia gli davano un certo aspetto scimmiesco ma il passo non era pesante, doveva essere un tipo che teneva alla forma fisica, contrariamente alla maggior parte dei suoi conterranei, uomini e donne. Il posto di osservazione era ottimo e l’uomo non sembrava essersi reso conto di niente nei tanti giorni di appostamenti e controlli. Bastava balzare fuori al momento opportuno e bloccarlo disarmandolo. Il posto di polizia non era lontano ma non era nemmeno tanto guarnito. Un graduato e tre agenti, più il nostro personaggio in borghese, boia di professione. Avevamo notato che ogni sera, arrivato davanti alla porta della casa terrana dove abitava, si fermava a osservare la viuzza, a guardare in alto, spesso volgendo le spalle alla porta, come se non avesse voglia di tornare a casa, dove ad aspettarlo non c’era nessuno. Solo due volte, in una settimana, s’era fermato in una bottega vicina a comprare una bottiglia di vino e qualcosa da mangiare, frutta e verdura. L’ultimo giorno mi accorsi che portava una fascia di lutto al braccio. Qualcuno era morto in famiglia? Forse sua moglie? Le nostre sempre approssimative informazioni non avevano niente in merito. Questo lutto l’aveva fatto diventare più feroce, oppure aveva avuto una leggera attenuazione? Che strani pensieri per me, esecutore di bassa giustizia. Adesso, ma solo dopo aver visto la fascia al braccio, mi accorgevo di una fascia di lutto attaccata alla porta, nera, come quelle che di colore rosa o azzurro si mettono dalle mie parti per la nascita di bambini. Non un lutto stampato in tipografia ma una fascia di velluto nero, una striscia lunga un paio di metri. Nel percorrere l’ultimo tratto della viuzza, ogni sera, il nostro uomo sembrava rallentasse il passo. Osservando meglio mi accorsi che lo rallentava davvero. Era un buon motivo per non inviare l’ospite inatteso? No, non lo era. Difatti, venne puntualmente inviato.


128. – Ero stanco del lungo appostamento e infreddolito. Vedevo, poco lontano, la mia duplicazione, cioè il mio doppio di copertura, che si agitava più di quanto la cautela avrebbe consigliato. Il viale era molto frequentato, la città, di provincia, si riversava quasi tutta sui caffè all’aperto, e sembrava che non dovesse arrestarsi mai il movimento di chi passeggiava annoiato e di chi guardava questo passeggio annoiato allo stesso modo. Ma, osservando bene, qualcuno che si comportava in modo diverso lo si poteva individuare. Dopo tutto eravamo lì proprio per questo. Il tipo in questione era un giovane studente con la barba. Di per sé la cosa non era strana. La barba erano pochi gli studenti a portarla e quasi tutti provenivano da studi all’estero. Il nostro soggetto sembrava non portare attenzione al passeggio ma sorbiva il proprio caffè e leggeva un libro. Di tanto in tanto alzava gli occhi dalle pagine, sempre quelle, e guardava in una certa direzione, sempre quella, come se aspettasse qualcuno. L’informazione, come al solito in questo paese disorganizzato, era stata approssimativa. Un ragazzo di destra con frequentazioni fasciste in Italia. Nulla di più. Poteva voler mettere su un contatto anche qui o, viceversa, poteva essere andato in Italia inviato da un’organizzazione di destra agente in combutta col governo – non ne conoscevamo ma se ne ipotizzava l’esistenza –, non c’erano indicazioni né in un senso né nell’altro. Erano già tre giorni che lo studente – chiamiamolo così – era sotto controllo. Più o meno allo stesso orario sedeva allo stesso caffè con lo stesso libro davanti agli occhi e, di tanto in tanto, sollevava lo sguardo sempre verso lo stesso punto del viale alberato. E se tutta questa fatica fosse stata una inutile perdita di tempo? Adesso, dopo quattro giorni, avevamo individuato la casa dove abitava, con i genitori e una sorella, questo si seppe interrogando i vicini e ce lo vennero a riferire dei compagni anziani che affiancavano il nostro gruppo. Ma non si sapeva nulla di più. Il lavoro poteva continuare all’infinito. Poi, improvvisamente, la svolta. Dal lato opposto a quello costantemente controllato dal nostro studente, arrivò un tizio in abito scuro, dall’aspetto sembrava proprio un poliziotto. Lo studente era contento di vederlo. Gli passò il libro dopo una breve chiacchierata. Il nuovo arrivato, col libro sottobraccio, si alzò quasi subito e senza nemmeno salutare se ne andò. Seguito dai compagni lo si vide indirizzarsi verso la sede locale della polizia, non distante dal viale alberato. Il nostro studente aveva assolto al suo compito e adesso prendeva un’aria soddisfatta, sorrideva quasi come se parlasse a se stesso. Una sera, poco tempo dopo, sotto casa, l’ospite inatteso gli presentò il conto.


129. – C’è stato un timido tentativo di manifestazione antifascista proprio in centro, nella capitale. Un breve e sparuto assembramento, una veloce distribuzione di volantini in cui non si accennava nemmeno a una risposta contro il governo e le sue procedure antilibertarie, ma solo alle condizioni di vita dei lavoratori sempre più precarie e difficili. La polizia è arrivata con notevole ritardo e non è riuscita a fermare nessuno dei manifestanti. La nostra preparazione armata difensiva non è stata fatta entrare in azione, non ce n’è stato bisogno. C’è stato qualcosa di voluto in questo ritardato intervento repressivo? È un ben strano fascismo quello che stiamo combattendo. Mi aspettavo qualcosa di molto più duro di quanto accade in Italia, invece non c’è stato niente. Qui si mantiene tutto sotto silenzio. In un popolo che ama parlare, il silenzio obbligatorio è la peggiore condanna e, almeno per la tradizione greca, è l’antitesi della democrazia, il vero e proprio fascismo. Io speravo in qualche affrontamento più radicale che ci avrebbe dato modo di misurare, fra le altre cose, la nostra capacità di uno scontro sul territorio. Sono rimasto deluso. Nessuno scompiglio, nessuna seria scossa che prelude alla durezza dell’intervento repressivo. Ognuno se ne è andato per i fatti propri. La polizia ha raccattato sul terreno alcune copie del volantino e non si è accorta nemmeno che alcuni erano stati attaccati al muro con la colla qualche ora prima. Dopo abbiamo saputo che sono stati arrestati dei compagni conosciuti come ex sindacalisti o ex militanti del partito comunista. All’intenzione di caricarli come responsabilità della manifestazione si è risposto con due esplosioni di scarsa entità. La rivendicazione non è riuscita nemmeno a circolare in ambito ristretto. Poche copie, subito scomparse. Grande delusione, non solo per me.


130. – Sul terrazzo erano in tre. Parlavano concitatamente, non so di cosa. Certo era argomento che doveva concernere i loro più vivi interessi. L’uomo più anziano portava un vecchio cappotto verde che aveva visto tempi migliori. Gli altri due erano in giacca e cravatta, non proprio eleganti ma decorosi, tipo impiegati comunali. Nessuno dei tre era impiegato presso alcunché, lavoravano tutti per il governo nuovo, sobillatori prezzolati. Per essere più precisi, provocatori. Il vecchio parlava nei luoghi pubblici da fascista, i suoi due compari lo contraddicevano con moderazione. Spesso, nei caffè, sonnolenti di solito, la loro presenza causava una certa ondata di chiacchiere, opportunamente riportate alla polizia. Il risultato era una qualche schedatura e un maggiore controllo di coloro che si erano lasciati andare a critiche contro il governo. Ma adesso, sul terrazzo, tutti e tre sembravano intenti a tessere la trama di qualcosa d’altro, e lo facevano all’unisono. Non era possibile, in quella bellissima giornata invernale, capire il loro progetto né le nostre informazioni potevano esserci d’aiuto. L’indomani lo scenario solito cambiò. I tre figuri non si fecero vedere nel bar del centro e non tennero banco con le loro diatribe fasulle. Passarono due settimane e il vecchio si rifece vivo nello stesso bar, da solo. Alcuni compagni, nel frattempo, erano stati fermati e torturati a lungo. La nostra fonte attribuì la denuncia al terzetto, la tortura a uno specialista coadiuvato dal vecchio. Di certo, almeno uno di questi tre aveva fatto un salto di qualità, si era messo a fare un lavoro più pesante. L’ospite inatteso lo raggiunse all’uscita di un cinema, non indossava il logoro cappotto verde.


131. – Mi era venuto un certo senso di disgusto per il magnifico panorama che mi stava, opprimente, sotto gli occhi. Lo stupendo paesaggio non mi arrecava nessuna gioia. Che mi importava di esso? Pensavo ai miei compagni in carcere dopo essere passati per le mani di questi energumeni convinti di essere dalla parte del diritto e della legge. Le rovine che offuscavano la mia vista, le dolci colline storiche dell’Attica, che mi ricordavano il miele sognato da bambino, adesso mi spingevano alla ribellione. Ciechi, ero circondato da ciechi che guardavano i propri piedi mentre camminavano con occhi vuoti di luce, ciechi che non vedevano l’abiezione e la vergogna in cui erano precipitati. Sottoposti alla ferocia dei pochi, cercavano di evitare i colpi peggiori e si adattavano al meno peggio. Buttavano loro un pezzo di pane e si affannavano ad andare al lavoro. Spesso, di fronte alla biblioteca americana, mi soffermavo a guardare la gente, l’orgogliosa gente che aveva dato inizio alla nostra civiltà, di cui anch’io ero debitore. Davano l’impressione, con i loro occhi orbi, di essere capre in punto di morte. Queste considerazioni ingiuste mi scuotevano da cima a fondo e mi incattivivano, facendomi correre il rischio di diventare non un portatore di libertà, ma uno dei tanti massacratori in circolazione. Dalla parte giusta, questo è ovvio. Oppure non è così facile questa considerazione nella sua apparente ovvietà? Guardavo un tizio che guardava il più famoso monumento dell’antichità. Aveva un aspetto povero e il collo come una cicogna. Guardava attentamente. Ecco uno che non è cieco, mi dissi, almeno c’è qualcuno che vuole vedere. Ma vedere cosa? Forse anche lui era cieco e guardava nel vuoto, e poi, a ben considerare, guardava al passato. E il presente? Se gli avessi posto questa inopportuna domanda, forse anche lui mi avrebbe guardato con i suoi occhi bianchi, privi di luce. Un altro tipo, dalla faccia legnosa, adesso guardava me, forse incuriosito dal mio vagare impreciso, i baffi lunghi e bianchi gli conferivano un atteggiamento austero, un censore antico, almeno all’aspetto. Di certo un’altra capra in procinto di chiudere gli occhi dopo avere guardato me. Forse si preparava quietamente a registrare la mia fisionomia di turista fuori tempo, forse non si preparava a niente, stava quasi certamente riflettendo sui fatti suoi, come sbarcare il lunario con la pensione di fame che doveva avere. Forse anche lui arrotondava fornendo piccole indicazioni a pagamento a chi di dovere, per poche dracme. Forse.


132. – Questo lungo lavoro miope mi sta riducendo a un operaio ben addestrato. Ho una visione molto limitata di quello che sto facendo, penetro solo la superficie delle mie azioni. La maggior parte di quello che faccio è un surplus di senso cercare di definirla azione. Acquisisco e, man mano, realizzo una conoscenza di quello che va fatto stranamente lucida, minuziosa, come un continuo cesellare la stessa opera, senza fare troppo rumore, senza farmi sentire. Mi considero un po’ fantasma e un po’ il riflesso di un’ombra. Aspetto. Ecco la mia costante e snervante attività in cosa si può riassumere. E non è vero che sia una cosa facile. Non sto sottovalutando le difficoltà del mio lavoro, sto solo evidenziandone le ripetitività e le possibili alienazioni. Per portarlo a buon fine occorre una non facile pratica del mondo, di questo mondo in particolare. Uno strano paese in preda a uno strano fascismo. Non è per niente semplice seguire per molti giorni qualcuno che sospetta di essere seguito. Spesso il sospetto è solo un’ipotesi ma è necessario darlo sempre per scontato. Ho seguito per molti giorni un personaggio dalla faccia piatta, coriacea, con un naso pettegolo, insignificante nell’insieme e trascurato alla prima impressione. Non mi dette mai l’idea di avere scoperto di essere seguito. Né io me ne accorsi da qualche attacco contro il nostro gruppo. Semplicemente, senza dare segni d’impazienza, continuò le sue abitudini. La solita passeggiata mattutina, il solito incontro con un uomo che non sapevamo chi fosse, il quale si limitava a sorridergli e a stringergli la mano. Non si scambiarono mai nulla, né un oggetto né una parola. Eppure il vecchio passava informazioni allo sconosciuto, non su di noi ma su di una tipografia clandestina di cui anche noi sconoscevano l’esistenza. Quando i due tipografi vennero arrestati i nostri personaggi scomparvero. Mi ricordo che lo sconosciuto, l’ultima volta che l’ho visto, s’era tagliato i capelli a spazzola. Le informazioni riguardo l’arresto dei compagni tipografi arrivarono nello stesso giorno in cui perdemmo di vista i due. Solo quasi un mese dopo il vecchio si rifece vivo nel suo solito percorso. Sapemmo poi che un altro gruppo di compagni aveva mandato da lui l’ospite inatteso.


133. – Sono stato tre giorni in un capanno in campagna nel nord del paese. Primavera, tempo buono. Mangiare terribile, meglio non pensarci. Nel capanno eravamo in tre, tutti aspettavamo un segnale che tardava ad arrivare. Perché questo ritardo? Cosa poteva essere successo? Qualcosa era andato storto? Oppure si erano semplicemente dimenticati di noi? Procurarsi altre provviste, acqua in particolare, non era possibile. Il mio zaino era ormai quasi vuoto, oltre a poca biancheria, e una camicia, c’era il mio parrucchino biondo. Tanto ridicolo da darmi una sensazione di stupida improvvisazione. Eppure, sotto un berretto, quel parrucchino aveva svolto bene la sua funzione. Al quarto giorno fummo prelevati. L’azione da realizzare era stata rinviata e non c’era stato modo di prenderci prima. Tutto qui. Passare tanto tempo ad aspettare almanaccando su tutte le possibilità più nefaste, per poi non arrivare a niente, è una dura lezione che molti gradassi dovrebbero apprendere, tutti coloro che si immaginano l’azione come una continua corsa verso le barricate. Per contro, quando l’azione si concretizza, sempre essa si comprime in un istante, un momento in cui tutto si riassume e si consuma nell’esperienza della qualità. La coscienza diversa esce da questa bruciante esperienza con una immediatezza completamente trasformata, e tutto il fare precedente, le fatiche, le inutili pratiche, i solitari commenti dubitativi, scompaiono improvvisamente calamitati nell’azione.


134. – Un tipico banchetto greco, in uso ancora nei paesi. Danze e costumi. Pesce fritto e insalata con la feta. Tutto in regola. Melanzane nel latte e spaventosi spaghetti gonfi come un cadavere di dieci giorni. La taverna era sul mare e aveva una decina di metri di sabbia che la separavano dal bagnasciuga. A festeggiare, fra gli altri, anche le ambizioni insoddisfatte di un sergente dell’esercito, utilizzato, secondo le informazioni in nostro possesso, come tecnico della tortura. L’ospite inatteso venne dal mare su due piccole barche di legno, si accostò per l’ultima volta al boia in divisa e poi prese il via su di una macchina che aspettava davanti alla porta della taverna. Il banchetto ebbe termine.

135. – Il piccolo studio di avvocato era angusto. Come spesso accade somigliava al signore che lo utilizzava come punto d’incontro per alcuni camerati del paese, qualcosa senza pretese, per carità, una serie di scambi di opinioni sui destini del nuovo governo e su quello che si poteva fare per aiutarlo. Dal di fuori si notavano solo tre finestre in un palazzo un po’ vecchio ma quasi al centro. Le tende erano sempre abbassate, per questo si potevano appena scorgere di tanto in tanto le ombre di coloro che arrivavano e si sedevano oppure si alzavano per andare via. Il palazzo, piccolo e piuttosto maltenuto, era della metà del secolo precedente, quando costruivano con la pietra viva, non con i mattoni. L’aspetto era tozzo e robusto, quasi volesse mostrare più muscoli del necessario. L’avvocato era invece piccolo, mingherlino e completamente calvo. Portava sempre una cartella blu di velluto vecchio e abbastanza sporco. Camminava, questo individuo ributtante, come se saltellasse e non era quasi mai solo. Civilista, esercitava nella capitale ma non sembrava cercasse molta clientela, più o meno apparteneva a quella fauna politica che alligna in ogni sottobosco del potere, in maniera atroce nei regimi fascisti. Le informazioni lo davano per un organizzatore periferico di consenso, non sembrava avesse velleità politiche dirette, cercava di vivacchiare all’ombra di qualche potente più o meno piazzato nella nuova categoria civile di appoggio ai militari. Di notte entrammo nello studio. Un compagno aveva fatto pratica con le chiavi per aprire una serratura non proprio complicata. Chi era in grado di leggere fra di noi passò una buona mezz’ora a sfogliare la carpetta dei clienti e le copie dei rapporti che il personaggio indirizzava alla centrale di polizia della capitale. Non sembrava che lavorasse in profondità. Non c’erano denunce, la sua specialità era una sorta di organizzazione capillare dei contadini, una specie di sindacato giallo o, meglio ancora, una specie di caporalato e di campierato come usava nel secolo scorso in Calabria. Ma tutto alla luce del sole, senza infingimenti o sotterfugi di sorta. Il nostro uomo penso fosse in buona fede, era solo uno stupido servitore di aguzzini e nella sua ottusità non se ne rendeva conto. Improvvisamente, quella notte, lo studio prese fuoco restando completamente distrutto.


136. – Sono sempre stato per le cose spicce. Se avevo davanti un cretino, prima o poi, mi sentivo correre l’obbligo di farglielo capire, se non proprio di dirglielo. Se qualcuno diceva una sciocchezza mi prendeva un irrefrenabile prurito per sottolinearlo e fargliela pesare come segno della sua ignoranza. Dove mi trovavo non potevo lasciare libero sfogo a questa mia acrimonia ribelle. Dovevo accettare le incertezze, le approssimazioni, le titubanze. Ero riuscito ad addormentarla un poco questa mia smania e ne pativo le pene. Certe volte mi scervellavo per trovare una risposta pacata e non corrosiva, poi mi accorgevo di essere io stesso un imbecille e finivo per restare zitto. Questo esercizio di autocontrollo, contrariamente a quanto si crede, non mi rendeva più forte, al contrario mi indeboliva. Dovendo fare attenzione a ogni gesto o parola di ripulsa, finivo per risultare io stesso incerto e inadeguato a quello che bisognava comunque fare. A volte mi mancava l’aria. Affliggersi per le stupidaggini altrui è da stupidi – mi dicevo – quindi sono in buona compagnia. Poi cercavo di affrontare un problema teorico un poco più complesso del semplice modulo organizzativo per gruppi che la resistenza aveva adottato diciamo spontaneamente, e mi ritrovato di fronte a un muro. Che affanno per tutti, alcuni disponibili e incapaci, altri incapaci e di malagrazia. Lasciavo a metà la discussione, avviata su inutili binari privi di sbocco, e uscivo a fare due passi. Se questo accadeva di sera, i miei due passi potevano essere pericolosi – i controlli non erano asfissianti come si potrebbe pensare, ma c’erano – e quindi finivo per tornare indietro e andarmene a dormire. Era la situazione a produrre questo stallo? Non lo so. Era la condizione scheletrica di resistenti? Non posso saperlo. Certo c’erano anche i problemi di lingua, ma principalmente mi sembra di poter dire, a distanza di quarant’anni, che i principali problemi erano di chiusura mentale. Non ci si voleva mettere teoricamente in gioco, non si voleva ragionare con la propria testa e non si ammettevano i propri limiti teorici – evidentissimi anche solo ascoltando poche affermazioni apodittiche – e si preferiva chiudersi a riccio, rinunciare al confronto e andare avanti cercando di cementare nella pratica l’unità del gruppo.


137. – Un’esistenza sospesa nel vuoto e nell’imprevisto. Ogni giorno bisognava inventarsi un comportamento nuovo, adeguato al compito da portare a completamento. Non è facile mettere a tacere il tumulto del cuore quando si vorrebbe agire diversamente, ora e subito, e si è costretti a frenare i propri istinti immergendosi nella monotonia di una pratica di bilanciamenti e di corrispondenze. La crudezza di certi comportamenti non era mai evidente in tutte le sue sfumature. Sia per carenza informativa, sia per incapacità nostra di valutazione, alcuni aspetti repressivi ci sfuggivano in fittizie relazioni, in immagini non chiare, sfumate ognuna in una gradazione irrisoria di responsabilità. Dove bisognava arrivare per essere moralmente certi di un evento repressivo da colpire? Spesso mi trovavo davanti a una indicazione incerta, approssimativa, in bilico tra la delazione e la semplice chiacchiera, entrambe attribuite come atteggiamenti colpevoli alla stessa persona. Spesso in luoghi rinchiusi nell’asfissia della provincia non si poteva sempre individuare in una indicazione quanto di malevola cattiveria avesse avuto il suo peso, se non proprio quanta gelosia o invidia. Cercando sempre di riacquistare la coscienza normale della realtà e di non lasciarsi invischiare in beghe di cortile, la decisione non era affatto facile. Ciò richiedeva un supplemento di verifiche, di accostamenti, di individuazioni, di ripensamenti, di controlli. Tutto questo lavoro pesava sul nostro gruppo più di ogni azione vera e propria. Almeno pesava enormemente sulla mia responsabilità di anarchico. Non mi sentivo di contribuire a colpire le idee, per quanto confuse o prolifiche di effetti disastrosi esse fossero, mentre ero più che disponibile a colpire i fatti repressivi particolarmente efferati, le torture in particolare. Ma questa distinzione, a parte che non sempre poteva fondarsi su affermazioni attendibili, non correva il rischio di apparire troppo filosoficamente arzigogolata? Non era essa una sorta di inganno che la mia coscienza immediata giocava a me stesso per consentirmi di avanzare, di contrabbando, le mie distinzioni anarchiche, la mia pretesa di essere un liberatore e non un qualsiasi resistente in grado di fornire un aiuto circoscritto a un popolo sotto il fascismo? Non lo so.


138. – Mi ritraevo da queste considerazioni che potevano portarmi troppo lontano. Mi immergevo allora con rinnovata energia nella ricognizione quotidiana, nella preparazione della prossima azione. In questo modo l’obiettivo mi si imponeva con tutta la sua pesantezza oggettiva. La valutazione delle responsabilità tendeva così a passare in secondo piano, come se fosse una possibile causa di distrazione. Questo obiettivo finiva per oggettivarsi, per diventare la sola cosa da valutare, da studiare in tutti i suoi aspetti. Per evitare di essere assalito dalle mie solite dicotomie morali, tagliavo netto, non accennavo alle particolari considerazioni della mia coscienza. Solo nel caso in cui le informazioni ricevute e quelle da noi raccolte non avevano veramente che pochissimo fondamento, il lavoro si concludeva o con una rinuncia o con un intervento leggero, un sabotaggio alle cose o una lettera di spiegazioni cercando di mettere il tipo di fronte alle proprie non molto serie responsabilità, suggerendogli di cambiare vita. In genere questo modello d’intervento, considerato minore, otteneva un effetto immediato. Ma molti compagni non erano d’accordo, per loro l’intervento dell’ospite inatteso era sempre l’unica conclusione preferibile. Non sono mai stato d’accordo con questa tesi radicale. Applicare in modo uniforme una pratica di bassa giustizia mi sembra un orribile appiattimento della coscienza rivoluzionaria, somigliante molto alle tacche che i pistoleri facevano una volta nel calcio della propria arma per ogni nemico eliminato. Sentivo spesso queste affermazioni e vedevo che erano in molti a condividerle. Di regola costoro, compagni miei a tutti gli effetti, anche se non anarchici, partecipavano con scarso interesse alle discussioni teoriche e agli stessi approfondimenti rammemorativi delle azioni portate a completamento. E, di solito, considerazione importante, erano tutti con una smodata passione per le armi. Sarà stato un caso? Non lo so. Penso che una relazione ci deve essere su questo connubio, non bene chiarita ma ci deve essere. Chi ama una protesi non è un uomo coraggioso, in genere è dalla protesi che si aspetta il coraggio che gli manca.

139. – Riflettere su quanto è accaduto, su quanto mi è accaduto, in molti luoghi, in molti remoti tra loro luoghi del mondo, non è lo scopo di queste note. Esse sono parola rammemorante, non riflessione su fatti accaduti a me o, peggio ancora, ricordi. Che siano accadimenti poco comuni è un modo errato di considerare le cose. Ancor prima di lasciare definitivamente il mio lavoro di dirigente industriale riuscivo ad assentarmi per settimane e per mesi. In fondo il mio rapporto stava andando a rotoli e non mi importava di non rispettare i miei impegni. Badavo a quello che solo io potevo assolvere, per esempio la gestione finanziaria dell’industria, i nuovi investimenti e i rapporti col fisco. Qualche giorno di lavoro, di tanto in tanto. Nel frattempo mi preparavo a tagliare i ponti con un mondo di ordinario orrore, quello che avevo vissuto quotidianamente per diciassette anni. Non che avessi scoperto nei miei nuovi impegni, fossero essi i miei interventi clandestini in Grecia, o le conferenze e i comizi anarchici che andavo facendo in tutta Italia, un mondo senza ombre, un meraviglioso mondo della libertà, non ero illuso fino a questo punto, ma capivo che non potevo più restare nel mio mondo precedente, occorreva andare avanti, gettare il mio cuore oltre l’ostacolo. Ed è quella scelta di quarant’anni fa che mi ha portato ora, a settant’anni inoltrati, in un carcere greco, mentre di notte stendo queste note con la mia mano non più ferma come una volta, ma col mio coraggio intatto anche se incapsulato in un corpo vecchio e assai malandato. Avrei, di volta in volta, potuto rimanere dove mi trovavo, in Palestina, in Grecia, in Irlanda, in Africa, ma sono sempre andato avanti, cercando quello che forse non era possibile trovare e cogliendo ogni traccia di somiglianza, anche remota. Ogni azione era un vivere la mia vita tutta in una volta, sgangheratamente, ma una, nella qualità, in modo che questa entrasse nel mio corpo con la sua innata violenza, senza infingimenti o prese di distanza. A volte, finita l’azione, era la gioia di una comprensione di me stesso mai attinta prima, a volte era una sorta di costernazione smaniosa di dire, sempre a me stesso, il senso di quello che avevo realizzato agendo. Rammemorare. Ecco il punto.


140. – Nell’agire spesso incontravo, al mio fianco, l’ospite inatteso. Non ci si fa mai l’abitudine nel vederlo all’opera. Stroncare, sradicare, distruggere una vita, questo il suo modo d’essere, la sua esistenza inattesa, da nessuno desiderata, imposta come odioso ma necessario servizio di bassa giustizia. Avervi a che fare richiede una lunga preparazione, non tecnica, che questa è la minore delle preoccupazioni, ma personale, intima, morale. La sua presenza turba e affascina nello stesso tempo. Qualcuno che fino a un attimo prima era un essere vivente, pieno di vita, capace di odiare, amare, progettare, procreare e tutto quello che il tempo a venire poteva proporgli, improvvisamente, a causa dell’incontro con l’ospite inatteso, non è più in grado di fare nulla di tutto questo, giace per terra stroncato, come un pupazzo con i fili rotti, uno straccio, una massa inerte di carne che andrà in putrefazione in pochi giorni. Dove è andata quella potenzialità dirompente, nel bene e nel male? È andata in fumo, l’ospite inatteso l’ha colta e portata via con sé. Questa transazione repentina e rapinosa non consente un’abitudine se non a macellai professionisti della guerra, non a compagni che lottano per la libertà. L’azione convoca spesso l’ospite inatteso e lo mette di fronte a mostri sui quali si è lavorato preventivamente. Torturatori, delatori che hanno permesso l’uccisione di molte persone, responsabili di crimini atroci, mandatari di altre atrocità ancora più grandi. Bene. Tutto questo è a monte. Sta alle spalle dell’ospite inatteso, ma di fronte a lui sta quella povera cosa per terra, accasciata come un cappotto vecchio insieme a tutte le sue speranze, le sue illusioni, i suoi affetti e i suoi misfatti. Un demonio caduto non è più un demonio. Un nemico caduto non è più un nemico. Ci si può consolare che quel demonio, quel nemico, non produrrà mai più i danni che ha causato fino ad allora. Ma è giustificazione sufficiente? No, non lo è. L’ospite inatteso va via, dopo aver fatto il proprio lavoro, ma lascia una traccia nel cuore, una via sanguinosa che nessuna giustificazione può sanare. E questa traccia si somma alle altre tracce. Per sempre.


141. – C’è qualcosa di automatico in un giudizio dicotomico, da un lato il male, dall’altro il bene. La vita non è mai così chiara. Certo, ci sono dei punti estremi nella linea che ripartisce in due il bene e il male che non è possibile ignorare, ma per quanto evidente questa collocazione estrema, il mostro da una parte e il sant’uomo dall’altra, forse che quest’ultimo potrebbe arrogarsi il compito di una bassa giustizia? No, non può essere questa la risposta. La decisione è sempre angusta e povera di aperture eventuali, ha a disposizione pochi elementi e su questi poggia come su di un piedistallo inevitabile. Le conseguenze fanno parte di un meccanismo congegnato in modo da mettere a tacere il dubbio. Ma questo non si lascia mettere da parte, sospinto indietro risorge sempre, come se nessuno lo potesse spegnere del tutto. Nel mostro più osceno, nel torturatore a freddo, nell’agente dei servizi che mi frugava con un punteruolo nei genitali, c’è solo questa oscena volontà di far male? Il fatto che l’ospite inatteso gli abbia portato via un quarto della testa ha risolto il problema del mio dolore e della mia vita ma non ha neanche sfiorato l’altra parte della questione. Chi era questo torturatore? Mi basta saperlo nemico? Non solo mio ma di tutto un popolo disperso, privato della propria identità oltre che della propria terra? No, non mi basta. Mettere una pietra sopra a questa esperienza e andare avanti. Bene. Ma perché tanta fretta? Per paura che dentro di me, e dentro i miei compagni, scatti un meccanismo capace di aprire una piccola fessura al dubbio? Tutto allora si riduce a chi spara per primo? Ma non è questa, nuda e cruda, la logica della guerra? Eppure nulla può convincermi diversamente che l’opera dell’ospite inatteso sia una grande responsabilità, non legale o giuridica, che questi aspetti non sfiorano neanche il mio problema, ma morale. La vita è un germe che ha mille connessioni, spegnendola non si chiudono i conti con le colpe di colui che soccombe sotto i colpiti dell’ospite inatteso, ma si recidono i rapporti che quel germe aveva con altri germi vitali, rapporti che dall’altro capo subiscono una punizione quasi certamente non giusta, in ogni caso non tenuta presente nella documentazione che precede l’intervento di bassa giustizia e che apre pertanto il grosso contenzioso del dubbio. Questo chiedo all’ospite inatteso che adesso, in questo carcere greco, in pratica alla fine della mia vita, si siede la notte ai piedi del mio letto. E non ho risposta. Non posso aggiungere alla mia domanda la sciocca e insulsa giustificazione di essere sempre stato dalla parte del liberatore o dell’operatore di bassa giustizia. E non è il rimorso di qualcosa di ingiusto – per quanto grande e insopportabile sia questo qualcosa – che mi sollecita a prendere questa notte un problema del genere. Piuttosto è lo sbalordimento che provo, che ho sempre provato, di fronte alla cecità di coloro che pure dovrebbero porsi questo stesso problema. Può anche darsi che se lo pongano e io non ne so niente, ma non mi sembra, qualcosa sarebbe trapelato. Molti sono annegati nell’entusiasmo, nell’ammirazione di se stessi, io non mi sono mai sentito nei miei panni, ho sempre avvertito un profondo senso di disagio davanti a questi problemi. So che nessuno ha perso o vinto e che non si sono mai pareggiati i conti. So che, insistendo da questo punto di vista, diciamo meramente contabile, si doveva fare ricorso all’ospite inatteso molto di più, quasi ininterrottamente e in massa. Cosa, di per sé, tecnicamente impossibile. Ma anche ammettendo la sua possibilità, sarebbe stato giusto? Non lo so. Nell’azione questi problemi non si pongono, si agisce e si va via. Ma qui sono davanti alla mia definitiva rammemorazione. Troppi anni sono passati e troppi compagni sono morti perché questo problema non possa, qui e ora, emergere nella sua più alta dignità morale. La seduzione dell’azione abbattuta, allora, non ora, dalla tristezza della necessità di andare avanti. Il sogno della libertà per tutti, sporcato dalla protervia della ferocia, oppure dalla stupida acquiescenza, dei pochi e dei tanti. La coscienza di un lavoro preventivo ben fatto, tale da escludere eventuali errori o eccessive approssimazioni. Niente da fare. Il dubbio torna a emergere, non solo questa notte. Uno straccio per terra, poco prima vivente, carico di colpe più o meno infamanti, una grande distanza passa tra questi due condizioni. La prima palpitante – anche se di ignominiose intenzioni – la seconda carne per i vermi. Niente da fare. Il dubbio torna a emergere.


142. – La stabilità delle certezze è cosa vana. Non la si deve forzare a fondo se non la si vuole sbriciolare. E di un poco di certezza abbiamo bisogno tutti. Per evitare la vertigine dell’indecisione – mortale compagna del mio lavoro – devo quindi adattarmi, accettare il vuoto che a volte prende a circondarmi e fermarmi su questioni concrete, concretissime. Devo fare in modo che il tempo si assesti e che mi circondi un’aura di completamento portato a buon fine. Tutto quello che c’era da fare è stato fatto, anche l’acqua della vicina fontana è stata osservata attentamente, come il selciato della strada a strane e incongruenti rotture e i rappezzi del marciapiedi. Mi devo immergere completamente in questo inventario e collegarlo con l’altro, altrettanto impietoso, della mimica facciale, delle caratteristiche somatiche, dei tic nervosi, dei gesti ripetitivi, dei gusti, quale caffè, quale giornale, quale rivendita di tabacchi e altre cianfrusaglie. Da questi piccoli accorgimenti da archivista dipende un’azione, in caso contrario tutto si consegna nelle fragili mani dell’improvvisazione, splendida visione ma cattiva consigliera. Non ci sono misteri in questo lavoro preventivo che non debbano essere chiariti, portati allo scoperto. Lasciarli dove si trovano significa bloccare l’azione o trasformarla in un suicidio collettivo. Ma come si fa a valutare l’importanza di un particolare all’apparenza minimo e trascurabile, evitando appunto di considerarlo tale, ponendo sullo stesso piano di valore tutte le sfumature? La stessa ricostruzione dei diversi aspetti dell’azione deve essere, a sua volta, come un nuovo particolare, del tutto avulso dagli elementi che lo compongono, sottoposto ad analisi destrutturate dello stesso tipo. Si costruisce a partire dai particolari e, raggiunta una completezza d’insieme in quella che è l’azione, si passa poi a scomporla nelle sue parti per tornare alle componenti iniziali, perfino all’informazione a monte di tutto questo lavoro. Non c’è un momento dell’andirivieni in cui si può affermare che si è fatto abbastanza, si deve fare tutto. Ora, questo tutto, essendo un insieme tecnico, freddo e distaccato, ha poi, per ultimo, bisogno di un ulteriore passo avanti, il coraggio di portare a buon fine l’azione, e questo passo non fa parte dell’inventario precedente, è qualcosa di assolutamente diverso.


143. – Cerco di ottenere sempre una approvazione all’unanimità quando si tratta di mettere mano a organizzare un’azione, anche la più semplice. Affiggere in centro un manifesto scritto a mano contro il governo fascista, in questo paese, può costare caro. La polizia arriva, magari non è veloce come il fulmine, ma arriva. Anche la gente è veloce a leggere. Bisogna pertanto scrivere testi brevi, qualche rigo appena, per non fare correre al lettore un rischio più alto del necessario. Abbiamo discusso sulla struttura di questi testi. La botta contro il regime deve essere data alla fine del testo, non può essere all’inizio, e in carattere più piccolo, il carattere più grosso deve riservarsi al problema da affrontare. Un rialzo dei prezzi, un parallelo abbassamento dei salari, chiusura di alcuni laboratori – qui non ci sono vere e proprie grandi industrie, esclusi i cantieri navali, ma questi hanno un controllo interno totalmente in mano al regime. In fondo la forza propulsiva rimane in mano agli studenti. Ma i più esposti sono scappati all’estero, specialmente in Francia. Solo pochi sono in clandestinità e non hanno quasi rapporti con le presenti cellule studentesche d’azione. Sono un anarchico e ho parlato a lungo di organizzazione clandestina, ma sono solo discorsi fra noi, resi difficoltosi anche dal problema della lingua. Ho sollevato un po’ maldestramente il problema dell’ospite inatteso, della commisurazione dell’impiego di questo mezzo in relazione al danno e al pericolo causato da una certa persona o da un’organizzazione del regime. Ho dovuto, dopo poco tempo, rendermi conto che non potevo essere compreso, così, su due piedi, mentre si stava lavorando a completare l’impianto preventivo di un’azione. Dovevo scegliere un altro momento, ma quale? Qui si lavora costantemente e un’azione per essere studiata e attuata, piccola o grande che sia, richiede da un minimo di una settimana a un mese. Da un viaggio nella capitale, da altri compagni, ho appreso una interpretazione distorta dei miei problemi, come se avessi dei dubbi sull’intervento dell’ospite inatteso in ogni caso e comunque. Non mi è parso il caso di entrare in approfondimenti privi di sbocchi pratici. Ho detto che non avevo dubbi, erano solo ipotesi critiche di lavoro. Null’altro.


144. – A volte la logica dell’efficienza mi pare falsa e mi disgusta. Come potrebbe essere diversamente? Ho passato lunghi anni sui libri per accorgermi che la teoria non può essere messa in pratica se non attraverso una profonda trasformazione dell’uomo. Nella sofferenza e nell’oppressione, tutti – o quasi – si adeguano e sognano, chi la liberazione, chi una maggiore oppressione per gli altri e quindi un più consistente privilegio per sé. Logica angusta ma inevitabile. L’avvento del fascismo in questo paese è stato un avvenimento poco traumatico, i guai sono venuti in corso d’opera e la gente quasi non se ne è accorta. Poi, a poco a poco, ha in un certo senso fatto l’abitudine a obbedire e a mettere da parte i sogni di libertà, sogni nella maggior parte dei casi fumosi e astratti. Di questa confusione il potere fascista in carica si fa scudo e giustificazione. Le trame che si ordiscono non raggiungono mai il tessuto oppressivo del Portogallo o della Spagna, qui non c’è stata, adesso, sul finire degli anni Sessanta, una vera guerra civile. C’è stato un golpe militare, più o meno accettato e imposto con il sostegno o l’acquiescenza americana. Ognuno – tranne i più esposti a sinistra, che sono quasi tutti andati via – si è chiuso nel conforto familiare, ha pensato di ricostruire così le virtù native di un antico popolo, come se da qualche parte si fosse custodito il fuoco sacro di un tempo. Così tutto è piombato nell’anonimato. Chi mette appena fuori il naso dalla massa amorfa viene indicato a chi di dovere e subito censito, controllato. In caso di maggiore pericolosità viene catturato, spesso clandestinamente, torturato e costretto a confessare complotti e partecipazioni che nessuno conosce perché nella gran parte dei casi non esistono. Ecco l’importanza dell’informazione per portare avanti la lotta, ed è proprio qui il punto più delicato. Mancando un’organizzazione solida di resistenza ci sono molti gruppi, più o meno in contatto, ma la gestione informativa lascia a desiderare. Questa è una terribile minaccia che incombe sulla nostra attività, perché insistendo nel lavoro necessario ad approfondire, o addirittura a procurare di sana pianta l’informazione, si accentuano i rischi al di là di quel livello che dovrebbe essere accettabile.


145. – Il professore era arcigno e sgarbato, così ce lo avevano descritto gli studenti. Faceva lezioni di matematica ma, spesso e volentieri, scivolava via sul terreno sdrucciolevole dell’analisi politica. Era un sostenitore entusiasta del nuovo regime che trovava troppo leggero, specialmente sul piano della lotta contro i movimenti studenteschi, non proprio ufficialmente visibili, ma sempre in atto, con azioni di disturbo, volantini e manifesti scritti contro il fascismo. La relazione informativa, venendo direttamente dagli studenti era, questa volta, più dettagliata. Alto, capelli brizzolati e pizzetto da poliziotto, il professore era scapolo e sembrava privo di relazioni femminili riconoscibili. Il tragitto dalla casa alla scuola era breve e non si fermava mai a parlare con nessuno, né lo si vedeva andare al cinema o al caffè. Nei giorni del pedinamento ci fu solo qualche piccola variante perché si era fermato a fare la spesa nei negozi vicini e a comprare il giornale. La casa era in un palazzetto a tre piani. Il professore abitava all’ultimo piano, una balconata sporgeva sulla strada e dava luce a due stanze. Ma la sua attività si limitava a una banale propaganda fascista fra una lezione e l’altra, oppure andava più in là? Era questo il punto. Quelli che si lanciavano in lodi sperticate del nuovo regime erano tanti, legione, non si poteva attaccarli tutti, e poi i limiti e i difetti del fascismo non tardavano ad apparire anche all’occhio meno esercitato, specialmente erano molto evidenti nell’ambiente degli studenti. Fu un caso a farci scoprire un’appendice fuori misura nel lavoro propagandistico dell’insigne docente. Nei tanti appostamenti vicino casa sua vedemmo una sera arrivare un uomo che conoscevamo, un poliziotto addetto proprio al controllo politico degli studenti. Evidentemente veniva a prendere direttamente alla fonte le notizie che stavano da qualche tempo portando in questura e in carcere molti ragazzi accusati di attività sovversiva. In particolare c’erano state delle perquisizioni, anche in una casa vicina a quella dove viveva il nostro gruppo. La pericolosità del professore era in questo modo chiara. L’ospite inatteso qualche giorno dopo lo aspettò sulle scale di casa sua.


146. – Un compagno portava tre notizie. La prima era che avevamo a disposizione un carico di dinamite, circa quindici chili, la seconda era una documentazione riguardo il numero tre del regime, la terza era che si doveva studiare un piano dettagliato per attaccare due auto che ogni mattina, percorrendo la strada del ministero, portavano a casa questo personaggio. Non si trattava di un errore, proprio così, lui lavorava di notte e tornava a casa di mattina. Quest’ultimo punto, che all’inizio sembrava trascurabile, divenne un elemento chiave del fallimento dell’azione. La mattina il percorso era controllatissimo e pieno di gente. L’idea di caricare un’auto e di farla sostare lungo l’itinerario – possibile per la circolazione dell’epoca che non si può paragonare a quella di oggi – avrebbe coinvolto sicuramente molte persone innocenti, passanti, bambini, ecc., insomma l’ipotesi venne scartata subito. Inoltre, mancavamo di un detonatore elettrico per l’azione a distanza. Quando finalmente questo venne trovato si cercò di studiare un collocamento della vettura sotto casa del personaggio, ma la cosa, dopo brevi verifiche, si rivelò impossibile perché era costantemente piantonata con cambi ogni quattro ore. Si aspettavano un attacco. Dopo alcuni giorni di appostamenti ci accorgemmo che l’auto che lo riaccompagnava a casa seguiva almeno tre percorsi alternativi, prendendo due traverse secondarie e tornando sempre sulla via principale ma imboccandola da differenti punti di entrata. Dopo tanto lavoro questa operazione venne sospesa, forse altri gruppi l’hanno ripresa in mano successivamente, ma non ne sono sicuro. L’ospite inatteso rimase inoperoso ed era questa una di quelle volte che avrebbe assolto il proprio compito senza che avremmo trovato nulla da eccepire. O forse no?


147. – Il fallimento dell’azione di cui ho detto sopra mi fece molto riflettere. Veniva dopo che si erano portate avanti ben altre azioni e in un momento in cui il movimento si stava preparando a dare il colpo di grazia al regime con l’insurrezione di novembre. Non avevamo la capacità di colpire un obiettivo più grande, e questo era evidente, ma non era anche evidente che colpivamo obiettivi più piccoli proprio perché questi soli erano alla nostra portata? Come dire che ci accontentavamo delle briciole, e se queste briciole le avessimo ingigantite noi, solo per darci la possibilità di agire? Ecco una riflessione rigurgitante di amarezza. In effetti non potevo dirmi sicuro che le cose non stessero proprio in questo modo. Per quanto si facesse attenzione e si mettesse il maggiore scrupolo possibile nella selezione delle informazioni primarie e le si sottoponesse a controlli e corrispondenze maniacali, il dubbio rimaneva sempre. Un pesce piccolo è sempre molto diverso da una balena, per questo semplice motivo è più facile pescarlo. Quanto di questa facilità faceva aggio sulla sua responsabilità? Non lo so. Agendo con questa produzione in serie di basso livello si continuava ad avere l’impressione di svuotare il mare con un cucchiaio. Queste riflessioni – che dovevo mantenere per me – costituivano un autentico supplizio. Continuavo a impegnarmi nel lavoro ma non potevo non tenerne conto. Poteva l’ospite inatteso bussare alla porta sbagliata? E se questo era possibile, e in teoria lo era perché nessuna analisi quantitativa può semplicemente tramutarsi in conclusione qualitativa, me ne sentivo personalmente responsabile. I massacratori in uniforme potevano fronteggiarsi degnamente e moralmente con massacratori senza uniforme? La mostruosità della domanda albergava nel mio cuore e vi alberga ancora, a distanza di quarant’anni. Non c’è mai stata in me una scossa di vento capace di fornirmi, come improvvisa illuminazione, la certezza di essere nel giusto. L’ideale libertario, palpitante e luminoso, correva quotidianamente il rischio di sporcarsi irrimediabilmente. Un solo errore e mi sarei sentito un massacratore. E la possibilità di commettere questo fatidico errore mi portava ad accentuare a un livello maniacale le precauzioni e i controlli, a volte al di là dello stretto necessario, se non a negare l’evidenza di comportamenti non solo sospetti ma platealmente conniventi – torturatori accertati in primo luogo. Ciò rendeva angosciosa la mia attesa e incerti i rapporti con i miei compagni. Molti di loro non accettavano la mia richiesta di supplementi di indagine, sostenendo che aumentava il pericolo di essere scoperti e che si avevano in mano certezze sufficienti per fare intervenire l’ospite inatteso. Non capivano il mio dramma e spesso lo scambiavano per incertezza se non per pusillanimità. Mi vedevo così costretto a cedere a un punto che pensavo non ancora sufficiente e ad assumermi spesso il rischio maggiore nell’azione proprio per dimostrare che non avevo paura e quindi tranquillizzarli.


148. – Nel momento dell’azione si scatena un silenzio terribile. Poiché non c’è unità di tempo che possa misurarla, in essa non ci sono accadimenti veri e propri così come siamo abituati a considerarli nella quotidianità, come fatti. Solo i fatti si succedono nel tempo, l’azione è un unico elemento che si scatena nella qualità dell’agire e qui assorbe la totalità dell’esistenza di chi agisce. Si potrebbe dire che anche il respiro viene sospeso in quell’esperienza silenziosamente totale. Certo, ci sono elementi che successivamente si prestano alla sua scomposizione temporale e progressiva, ma si tratta di un ricorso al gioco rammemorativo che può essere realizzato con le parole. Lo sgomento assoluto di quell’unità di essere soltanto ciò che si è non può ripristinarsi se non con un ulteriore coinvolgimento, in una tensione nuova, nata da un nuovo oltrepassamento, insomma in una nuova azione. Molti recalcitrano davanti a queste affermazioni mie – solo mie, si badi bene – ma nell’agire, queste anime candide che celebrano, o pensano di celebrare alla divinità del rispecchiamento, si comportano allo stesso modo. Essi entrano nel momento unico e non misurabile della qualità e realizzano il loro rapporto con questa concentrazione assolutamente caotica dell’essere, del proprio essere. Essi sono quello che sono anche se non lo ammetteranno mai, tornando all’apparenza di sempre, vittime e carnefici della compravendita fattiva. Questa condizione universale è sospesa per un attimo fuori del tempo e questa sospensione incide crudelmente le carni di chi la sperimenta, anche se non è disposto ad ammetterlo. Se nella preparazione ero a volte costretto a stringere i pugni e serrare i denti per mandare avanti il mio lavoro, una volta nell’azione questo non era più necessario. Dopo si avverte una leggerezza, quasi uno sbalordimento, una distensione muscolare imprevista. L’atrocità perfino scompare, risucchiata nell’atto compiuto, completo in sé, senza sbavature, incapace di sdegno o di acquiescenza. La rammemorazione dà vita a un fantasma che mima qualcosa che sta altrove, che è stato altrove, che non può essere racchiuso nelle parole rammemoranti. L’ospite inatteso può venire descritto in questo modo, se è stato presente nell’azione, ma non può essere in questo modo conosciuto. Rimane racchiuso in quel feroce silenzio che nessun rumore, anche mortale, può turbare.


149. – L’ansia, l’angoscia del non riuscire, non la paura vera e propria così come se l’immagina la gente, ma proprio lo sforzo tremendo di autocontrollarsi, tutto questo appartiene a prima dell’azione, fa parte della pantomima del fare e qui trova mille accorgimenti per attutirsi e rendersi innocuo. Eppure l’azione nasce dal fare e nel fare, quindi questi accorgimenti non sono banali espedienti estemporanei e compassionevoli. È in questa fase che le mie riflessioni si sono ingigantite portando a me stesso un contributo notevole e agli altri solo occasioni di dubbi o di perplessità. Non approvavo la leggerezza con la quale si affrontavano – a volte, non sempre – il lavoro preparatorio e quasi sempre, o per meglio dire ogni volta, gli errori commessi. Questo problema degli errori, precedenti e susseguenti all’azione, era essenziale ma veniva sempre rinviato, come se l’affrontarlo potesse contribuire non a rafforzare ma a disgregare il gruppo. Per me era esattamente il contrario.

* * * * *

“FAUST
Nella sventura! Disperata! Penosamente a lungo raminga sulla terra e ora prigioniera! Come una malfattrice rinchiusa fra pene orribili in carcere la soave infelice creatura! Fino a questo! A questo! – Traditore, spirito indegno, questo mi hai tenuto nascosto! – Ma fermati, fermati! Rotea pure rabbiosamente nelle orbite gli occhi diabolici! Fermati e tienimi testa con la tua insopportabile presenza! Prigioniera! Nella sventura senza rimedio! Abbandonata a spiriti maligni e all’umanità giudicante e senza cuore! E tu intanto mi culli fra stolidi passatempi, mi nascondi il suo crescente strazio e lasci che perisca senza aiuto!
 
MEFISTOFELE
Non è la prima.
 
FAUST
Cane! Bestia immonda! – Tramutalo, Spirito infinito, tramuta di nuovo questo verme nella sua figura di cane, come spesso negli indugi notturni gli piaceva saltellare davanti a me, insinuarsi fra i piedi dell’innocuo viandante e saltargli sulla schiena dopo averlo fatto cadere. Tramutalo di nuovo nella sua forma prediletta, perché strisci per terra sul ventre davanti a me e io lo calpesti, l’infame! – Non è la prima! – Strazio! Strazio! Anima umana non può concepire che più di una creatura sia caduta in questo abisso di sventura, che la prima nell’angoscia della sua agonia non abbia fatto abbastanza per la colpa di tutte le altre dinanzi agli occhi di colui che perdona in eterno! Io sono sconvolto fino al midollo dalla sventura di questa sola, e tu sogghigni tranquillo sul destino di migliaia come lei!
 
MEFISTOFELE
Ed ecco che siamo di nuovo ai confini del comprendonio, là dove a voi uomini si volatilizza il cervello. Perché fai società con noi, se non la sai portare fino in fondo? Vuoi volare e non sei a prova di vertigini? Siamo stati noi a venirti intorno o tu a noi?
 
FAUST
Non digrignarmi in faccia i tuoi denti voraci! Mi fai ribrezzo! – Grande, magnifico Spirito che ti sei degnato di apparirmi, che conosci il mio cuore e la mia anima, perché incatenarmi a questo compagno d’ignominia, che si pasce del danno e si bea della rovina?
 
MEFISTOFELE
La finisci?
 
FAUST
Salvala! O guai a te! La più atroce maledizione su di te per i secoli dei secoli!
 
MEFISTOFELE
Non posso sciogliere i lacci del Vendicatore, aprire i suoi catenacci. – Salvala! – Chi è stato a trascinarla alla rovina, io o tu?
 
FAUST
(Si guarda intorno selvaggiamente)
 
MEFISTOFELE
Vuoi dar di piglio alla folgore? Meno male che non è stata data a voi sventurati mortali! Schiacciare il primo innocente che incontrano è il modo di sfogarsi dei tiranni quando sono in imbarazzo.
 
FAUST
Portami laggiù! Dev’essere libera!
 
MEFISTOFELE
E il pericolo a cui ti esponi? Grava ancora, sappi, sulla città il debito di sangue versato dalla tua mano. Sul luogo dove cadde l’ucciso aleggiano spiriti di vendetta spiando il ritorno dell’assassino.
 
FAUST
Ancora questo da te? L’assassinio e la morte del mondo su di te, mostro! Conducimi laggiù, ti dico, e liberala!
 
MEFISTOFELE
Ti condurrò e quel che posso fare, ascoltalo! Ho forse ogni potere in cielo e in terra? Annebbierò i sensi del guardiano, impadronisciti delle chiavi e conducila fuori con mano d’uomo. Io starò all’erta. I cavalli fatati saranno pronti e vi porterò via. È quanto posso fare.
 
FAUST
Su, andiamo!”

(J. W. Goethe, Faust)

Centocinquanta – Centonovantanove

150. – La stazione degli autobus è uno dei luoghi più controllati della grande città. Il fascismo ritiene che i movimenti in arrivo, specialmente quelli degli studenti, vadano controllati. I tanti poliziotti in borghese, disseminati nelle varie panchine come in attesa di partire o di qualcuno che deve arrivare, stanno con gli occhi e le orecchie aperti. Non ci sono mosse di impazienza o di irritazione. Questo loro lavoro è metodico e quotidiano. Le nostre informazioni ne hanno individuato una decina che si alternano nei diversi giorni della settimana. Sembra un lavoro di seconda mano, sorprendere volti già noti o individuare discorsi contro il governo, ma non è così. Abbiamo notato che spesso qualcuno di loro telefona da una cabina della stazione e descrive un ragazzo o un gruppo di ragazzi, riportando la località di provenienza dell’autobus. Questa telefonata si collega con una macchina della polizia priva di contrassegno che inizia un pedinamento con risultati che non è facile prevedere. Questo gruppo di poliziotti che lavora alla stazione dell’autobus ha qui anche un piccolo ufficio, in fondo a sinistra, ufficialmente destinato a deposito bagagli. Non si è mai concluso niente con le ricerche fatte in questa sede, forse a causa delle carenze informative, forse per la non estrema pericolosità dei personaggi. L’ospite inatteso è rimasto inoperoso.


151. – Il massacro non è necessariamente un fatto quantitativo, attiene ad alcune caratteristiche di ferocia e di gratuità che non hanno attinenza con quanto l’ospite inatteso falcia. Dietro il colpo radicale, per cui la vita se ne va via, stroncata, ci sta lo spettro più tremendo del perché. Perché la meschinità umana fa tanti proseliti? Perché semina e raccoglie tanto e tanto frutto dalla propria idiozia? Eppure il massacro è là, buio, freddo, duro, inaccettabile, ingiustificabile. L’urto improvviso contro la inverosimile mollezza della carne umana, una povera cosa, presuntuosa e arrogante, stupida e carica di altri massacri, ma pur sempre viva, palpitante di desideri, di speranze, di sentimenti che non avranno più futuro. L’ospite inatteso taglia alla radice con la sua falce, non si dà pensiero di questi aspetti per lui marginali. E anche per me, marginali. Sì, ma non inesistenti. C’è una bruttezza intrinseca nell’agire tranciante dell’ospite inatteso che non può essere mitigata dalla fondatezza della decisione presa antecedentemente, da una scrupolosissima verifica di vari bilanciamenti di responsabilità. Qui non si tratta di contabilità, il problema è diverso. La bruttezza sanguinosa permane laida, brutale, immediata, irrevocabile, anche se viene a prendere corpo nell’azione, cioè nella qualità. Ora, questa contraddizione o esiste o non esiste, non ci sono vie di mezzo. Agendo non ho bisogno di portare con me la contabilità che ha preceduto la mia azione, se lo facessi appesantirei l’azione bloccandola sul limitare stesso della soglia di oltrepassamento. Ecco perché esiste un lungo lavoro del fare che deve precedere l’azione, ed ecco perché questo lungo e faticoso lavoro non è mai soddisfacente né può mai giustificare il massacro. Ma dall’altro lato, nell’azione non c’è massacro. L’ospite inatteso agisce nella purezza, non controbilancia o pareggia, non appiana torti, anche se la sua opera, vista a posteriori, nella stessa rammemorazione, può essere considerata opera di bassa giustizia. Agendo nella qualità non ci sono più i fatti che all’azione hanno portato, questi rimangono al di qua, si accumulano e gridano la loro presuntuosa giustificazione. Ma questa non mi convince. Non mi convince a posteriori, nella rammemorazione, mentre mi accorgo che i miei compagni sono là a far tornare i conti. Questa ricerca si è rivelata fondata, quelle corrispondenze sono state bene affrontate e controllate. Che me ne importa? Un demone instancabile mi lavora dentro, sento che la carne del boia è uguale alla mia carne, che non ci sono diversità nel sangue che si va rapprendendo velocemente, è sempre lo stesso sangue della bestia umana versato da altra bestia umana. Dopo l’azione, bruciante e immacolata nella sua completezza qualitativamente libera, giusta, bella, dopo c’è il massacro che torna davanti ai miei occhi. Il luogo del massacro, una scala in penombra, una stanza, una strada affollata, l’atrio di un portone, la confusione di un caffè, l’atmosfera equivoca di una qualunque bettola di quartiere, il retrobottega di un calzolaio, la biblioteca di un professore, l’aula di un docente. Luoghi che entrano nella rammemorazione e colgono dentro di loro lo straccio senza vita di un qualcuno che ora è soltanto carne per i vermi. Ma la risposta incoraggiante arriva sollecita. Era un torturatore, un boia, uno strumento odioso della repressione, pronto a tagliare, bruciare, scalpellare, dissanguare, elettrificare, massacrare. Sì, so tutto questo, ma non mi convince. So la fondatezza e l’accortezza degli atteggiamenti preventivi, so la necessità che si faccia qualcosa per un popolo sottoposto ad asfissiante repressione, e so che l’ospite inatteso fa bene il suo lavoro. Eppure c’è qualcosa che mi sfugge, attorno al quale mi continuo ad arrovellare senza tregua.


152. – Al di là del prato, la chiesetta. Lo spazio erboso possedeva qualche raro alberello e due panchine. Non lontano un piccolo camposanto. Si potevano sentire le campane del microscopico ma lungo campanile con relativa cuspide rotonda. Sedevamo in due, da diversi giorni, seguendo con gli occhi i circospetti movimenti di alcuni giovani che ci erano stati segnalati come attivisti di destra. Muscolosi, stupidi esemplari di certo fuori tempo e perfino fuori luogo. Avevamo saputo che la dittatura tollerava questi gruppi, peraltro non numerosi, ma non li sosteneva né a livello finanziario né come protezione nei confronti di eventuali eccessi repressivi. Alcuni di loro erano stati in Italia, dove i servizi di questi figuri evidentemente erano più richiesti dalla strategia della tensione dell’epoca. Al vespro la voce delle campane ci dava il segnale di sgombero, non c’era più nulla da vedere. Questi ragazzi, la maggior parte studenti nella grande città non lontana, si riunivano in un locale a pianterreno vicino alla chiesetta. Di notte un’improvvisa esplosione fece saltare la porta di legno del locale e danneggiò l’interno. Non c’era nessuno dentro, come avevamo avuto cura di accertarci. Era un segnale. Un volantino venne distribuito in città incitando, come sempre, alla rivolta contro il regime. Non ho mai saputo nulla delle indagini poliziesche. I giornali non hanno pubblicato nulla. Queste azioni, che se generalizzate potevano sortire un buon effetto, venivano sistematicamente soffocate nel silenzio. Alla fine, di fronte a questo muro di gomma che il fascismo innalzava davanti a queste azioni, molti di noi arrivarono alla conclusione – semplicissima – che in ogni caso l’unico mezzo per dare un senso alle nostre azioni di attacco non era il volantino e che tanto valeva che le azioni stesse si radicalizzassero sempre più colpendo responsabili fascisti di particolare peso. Lo sguardo diventava sempre più diretto all’ospite inatteso, il suo intervento considerato sempre più risolutore.


153. – Ancora i miei dubbi, non sulle azioni, ma sul loro senso profondo. Ora riuscivo a parlare in modo coerente, anche se troppo conciso e per sommi capi. Sentivo dentro di me stesso una innaturale soddisfazione, come se il fare si congiungesse tenacemente con l’agire chiudendo l’arco della mia tensione libertaria, il mio anelito qualitativo. Questa sorta di soddisfazione surrogata mi prendeva e mi costringeva a ridurre il mio anelito critico, era essa a un tempo un lume per andare avanti e un freno che mi impediva di scendere in profondità nei miei pensieri problematici, scindendo ciò che condividevo in pieno da ciò che accettavo come male minore, come compito ingrato che bisognava comunque portare a compimento. A volte – nelle fasi di preparazione – mi sentivo il cuore leggero, la mente si cullava serena nella premura artificiosa delle cose da fare e ne cercava altre, più attente, più dettagliate, in grado di cementare certezze e fornire garanzie all’azione. Non ero tanto indiscreto da mettere in discussione l’azione in sé, dove ritrovavo il mio oltrepassamento nella qualità, la mia personale esperienza della coscienza diversa. Era dopo che non riuscivo a rammemorare coerentemente il tutto. Il fare precedente, l’azione e le considerazioni rammemorative. C’era in me una incertezza continua che frustrava le mie conclusioni. Lasciarsi alle spalle un mucchio di stracci è sempre un’esperienza sconvolgente che non riuscivo a fare mia. L’ospite inatteso mi forniva riflessioni che non collimavano con le mie teorie e neppure con i miei fatti, anche se dovevo riconoscere che la sua presenza nell’azione non faceva una grinza, anche se convenivo – quasi sempre – che fin dal primo momento, quindi in piena costruzione fattiva delle condizioni preventive, era a lui che si stava mirando, era la sua opera che si stava attendendo. Respiravo un’aria lugubre che tutti cercavano di giustificare come necessaria, sacrificio inevitabile nelle condizioni repressive in cui viveva un intero popolo e contro le quali dovevamo combattere. E quest’aria impediva la mia personale aspirazione al sogno di libertà. Il prezzo che andavo pagando mi sembrava eccessivo, in ogni caso mi appariva troppo appiattito su un registro massimalista, capace solo di ricorrere al massacro. La fredda e impassibile stupidità inanimata che ci stava davanti tutti i giorni non ci impediva forse di cogliere sfumature di azione che avremmo potuto modulare diversamente?


154. – Quale ruolo volevo svolgere, in fin dei conti? Distinguere va bene, ma fino a quale punto? Non corre il rischio, la distinzione – come le mie vecchie letture di Benedetto Croce mi avevano insegnato – di impantanarsi nella sua stessa agilità di proseguimento? Occorrerebbe un senso dell’equilibrio che non molti posseggono e che, in ogni caso, è qualche volta foriero di difetti più che di pregi. Chi ha poco cammino da fare è bene che arrivi alla fine del percorso, tanto il panorama che potrebbe soffermarsi ad ammirare cambia poco. Forse avevo il difetto di portare con me troppo del mio passato? Non è facile rispondere a questa domanda senza farsi prendere dal panico. Si può esistere nel tempo senza tempo? Oppure la paura di perdersi in un vago e indistinto nulla ci fa camuffare continuamente in qualcosa che ha tutta l’apparenza di esistere, ma solo l’apparenza? Controbattere le ombre con un’altra ombra, cosciente di sé quanto si vuole, alla fine corre il rischio di costruirsi una maschera cinica e mediocre. L’efficientismo ha bisogno di queste due componenti, e in esse si avvoltola giustificando i propri teoremi. Efficienza e mediocrità, due componenti che si sposano benissimo insieme, anche se molti affermano il contrario.


155. – C’è stata sempre dentro di me una forza distruttiva che metteva in forse qualsiasi carriera avessi intenzione di intraprendere. Il rifiuto di uno stato, quale che fosse, definitivo e dettagliato, metteva in discussione qualsiasi progetto di avanzamento, niente gradi, di qualsiasi genere, nemmeno rivoluzionari. Non ho mai saputo con certezza se c’era in me un rifiuto consapevole o qualcosa di immotivato, forse di profondamente nascosto, quindi di cui non sono mai stato in grado di lamentarmi. Nessuna luce che mi indicasse una strada privilegiata. La libertà non ha con sé illuminazioni artificiali, né la strada che ad essa conduce è lastricata di cattive intenzioni. Essere perentoriamente affermativi non produce che nuovo fare, quantità industriali di massacri, certezze e tronfie affermazioni di sé. I dubbi appartengono a un’altra categoria. Convivere con essi è difficile, particolarmente quando la notte ci si rigira nel letto senza potere prendere sonno.


156. – La pratica della morte porta con sé un distacco irreparabile con gli accadimenti quotidiani. Questi sembrano improvvisamente scadere d’importanza, calarsi in una loro dimensione provvisoria che è quella del parlare, dell’accumulare giustificazioni, di mantenersi sempre sul filo dell’onda, un gioco di equilibrio ridicolo e superficiale se commisurato all’irrimediabile distacco. Le cose da fare vanno certamente fatte e le si considera valide in se stesse, conchiuse in una loro inattaccabile fondatezza, mentre non sono che l’annuncio approssimativo e incerto di qualcosa di freddamente fondato in cui non c’è vaneggiamento possibile. Fare, limitarsi al fare, è un dispetto atroce all’agire, per cui mi trovo qua, a lottare contro il fascismo. Ma non mi limito a fare, vado oltre i limiti della quantità, trovo la mia strada verso l’oltrepassamento. Considero tutto ciò con quell’attenzione distaccata che caratterizza la voglia dei preparativi. Mettere in ordine gli oggetti, uno dietro l’altro, controllare la loro efficienza, ripetere fino alla nausea l’esito delle corrispondenze e dei controlli. Poi, l’azione. Io sono qua per agire, e per me agire significa entrare in contatto diretto con la qualità, essere quello che sono e poi, con le nuove bruciature sulla pelle, riflettere grazie alla rammemorazione. Ognuno a modo suo riflette sull’azione appena compiuta. La mia riflessione rammemora la qualità ma non tralascia il fare che ha preceduto l’azione, non vuole giustificare tutto nel fuoco dell’agire e non vuole contrarre tutto nella misera meschinità del fare. Alla fine i miei dubbi mi danzano nel cervello una pantomima pericolosa. Trasfigurano le correlazioni del fare, le deformano e vi inseriscono valutazioni morali che ad altri sembrano fuori luogo. Perché a me non sembrano tali? Perché in esse trovo un fondamento ideale che ad altri è nascosto o che vedendolo lo reputano trascurabile? Nuvole filosofiche remote? Non credo. Rispondo spesso con furibondi impeti di rabbia, vorrei scartare questi dubbi, cogliere o farmi donare dal destino un’ottusità che non posseggo.


157. – In certi profondi recessi di me stesso rinvengo uno stupore che mi sconvolge. Perché tutto questo sangue? Perché questi massacri? Io so perché sono qua, anche se so che non realizzo quello che vorrei realizzare. Ma gli altri? I massacratori di professione perché massacrano? Per acquisire il potere? Non credo, coloro che materialmente torturano e uccidono sono spaventapasseri esecutori, bassa manovalanza. Forse per soldi? Può darsi, ma non credo che questi mostri abbiano gratifiche esorbitanti, diciamo un tanto a testa decapitata. Per amore della ferocia, per l’odore del sangue, per vedere, sentire, la carne cedere, mostrare la sua penosa inconsistenza? Per il piacere di prendere una vita e di cancellarla, sfigurandola, per farsi beffe dell’universo azzerando questo stupore nascosto nello strato più profondo di un essere umano? Forse perché hanno paura di quello che questo stupore può produrre di meravigliosamente sovversivo, perché pensano che lasciandolo agire, lasciandolo vivere, quello stesso stupore azzererebbe, annullandolo, il mondo che giustifica e regge la loro spaventosa vuotezza, vita anch’essa ma animalescamente ronzante come un grosso calabrone? Vita che batte e respira come tutta la vita umana in questo mondo popolato di massacratori, ma che è miseramente vuota se ha bisogno di riempirsi di crudeltà e perversione sadica per sentirsi vivere. Fuori del massacro questa loro vita è una vescica vuota, brutalmente rivestita delle sembianze umane solite, più o meno somiglianti a tante altre, eppure profondamente diverse. Loro vivono di massacro io corro il rischio di inaridirmi di massacro. Il loro è un riempirsi di contenuti orrendamente quantitativi, come una scatola dove si nascondono gli oggetti che non devono essere visti perché oscenamente impudichi. La mia avventura è prima di tutto un’avventura nella qualità, vellutata e indicibile, tutta mia, che non ha nessuna relazione con un compito qualsiasi diretto a rimettere le cose a posto, a portare a compimento un’opera di bassa giustizia. Tutto questo viene prima, nella fase preparatoria, e viene dopo, nella fase rammemorativa. Eppure quei tre momenti non riesco a vederli come nettamente separati tra loro, ed è per questo che mi pongo queste atroci domande, per questo mi sottopongo a terribili analisi che scuotono non il mio convincimento di portatore di libertà, ma la mia vita.


158. – Ho sempre dato di me l’immagine di un decisionista, questo è sempre stato un buon metodo per sollecitarmi all’impegno, per andare oltre l’ostacolo, per impedirmi ogni genere di titubanza. Ma non sono un decisionista. Non sono mai riuscito a coagularmi in un solido e stabile concetto di me stesso. Come in una fuga di specchi mi sono posto sempre una serie infinita di possibilità, anche se poi ho avuto la forza di andare avanti lo stesso, lasciando a volte che le cose decidessero al posto mio senza sospendere però la mia attenzione sul loro evolversi, cioè senza lasciarle evadere in un caotico confondersi privo di senso. Ciò non è mai avvenuto senza una profonda inquietudine che rifletteva a tratti la straordinaria mobilità del mio modo di essere, aggressivo e capace solo di scegliere la via più ardua da percorrere. Per questo, molti momenti di incertezza, mai nell’azione ma sempre nel fare preparatorio, li ho vissuti con un certo senso di ansia se non di vergogna, pur conoscendoli come moti spontanei del mio animo turbolento e guizzante, desideroso di fare e afferrare mille cose nello stesso tempo. Ho pensato spesso come una duplicazione dell’essere mio, specialmente quando la sera prima di un’azione mi sentivo portato a scrivere non le mie impressioni ma approfondimenti filosofici che nulla avevano a che fare con l’azione ormai al centro di tutti i miei sforzi. Perché? Perché questo non stare né in cielo né in terra proprio quando c’era il massimo bisogno di tenere saldamente i piedi per terra? È che non ho mai amato molto coloro che della fermezza e della stabilità di sé, dei propri piedi, se ne facevano, e se ne fanno, un punto di orgoglio. Poi l’azione. Bruciante, vissuta fino in fondo. Mia, assolutamente mia, in cui non c’era né tempo né spazio per la riflessione né – ancora meno – per le titubanze. L’azione, centro e coagulazione di tutto il fare precedente, motivo, causa e obiettivo del mio impegno rivoluzionario, incredibile nella sua nettezza, che mi riempiva pienamente, che mi completava. E dopo? Dopo la rammemorazione. Ecco il punto. Anche adesso. Queste parole sono rammemorative, non sono sforzi della memoria o giochi di agiografica giustificazione. Sono elementi che non vorrebbero prendere troppo posto, non certamente più di quello che presero all’epoca in cui primamente mi vennero in testa, ancora sotto l’effetto elettrizzante dell’esperienza qualitativa da poco conclusa. Non vorrebbero farsi notare, queste parole rammemorative, specialmente queste, con il taglio che vanno prendendo, a distanza di quarant’anni, sentendomi finalmente libero di parlare apertamente. Esse mi riempiono di stupore, eppure non sono nuove, non mi mettono davanti a un ripensamento critico o a qualcosa di errato che oggi vedo e allora non vedevo. No, quello che vedo oggi è uguale a quello che allora vedevo. Quello che sento fremere dentro di me è lo stesso disgusto che provavo allora. Non c’è modo di mitigare questo disgusto né con l’abitudine né con la fondatezza dell’opera di bassa giustizia. La mia barba si è fatta completamente bianca e i miei occhi non vedono più bene, eppure il mio cuore è ancora lo stesso, forte e solido come una volta. Non ho paura. Il disgusto è qualcosa di diverso, non attiene alla paura, appartiene al rifiuto che tutti abbiamo – nessuno escluso – per l’opera dell’ospite inatteso. La notte, in questa cella di un carcere greco, mi sveglio e lo vedo seduto ai piedi del mio letto. Aspetta che il mio corpo si decida ad andare con lui. Ma non è questo il punto. Lo interrogo su tanti accadimenti del passato, qui in Grecia, o altrove, in Palestina, in Irlanda, in Italia, in Africa. Ma non mi risponde. Non può parlare. Può fare solo una cosa, sa fare solo quella, falciare. E allora sono io che gli parlo e gli accenno qualcosa di questa rammemorazione. Lui sa benissimo ciò di cui gli sto parlando, io un po’ meno, spesso ero la sua azione e spesso non lo ero, a volte ero lui stesso e a volte no. Ma queste faccende di dettaglio non mi riguardano e so che non interessano nemmeno a lui. C’è una specie di fascino, un’attrazione misteriosa nell’ospite inatteso, contenuto profondamente nel suo silenzio e nella sua paziente attesa. Non ho l’animo di buttargli in faccia il mio sdegno, sarebbe ingiusto. Gli parlo di dubbi, dei miei dubbi, e di come una vita possa, in un attimo, trasformarsi, accartocciandosi in un cumulo di stracci. Gli ricordo queste spaventose esperienze e il suo silenzio mi irrita, mi irrita molto.


159. – Niente in un’attività clandestina è genuino, non esiste uno stile corretto, un modo di condurre le cose migliore di un altro. C’è una parentela organica con le recite e con l’attività teatrale, solo che qui si perseguono scopi diversi, i pagliacci recitano una tragedia, i ruoli sono coperti sempre da una maschera ma sostanzialmente sono invertiti. Lo scopo è sbarazzarsi della riconoscibilità, della sempre possibile individuazione. Ciò è norma di cautela ma, a lungo andare, modifica anche il proprio modo di essere. Si diventa servi del gesto, della superfetazione, dell’aggiunta. Tutti gli atteggiamenti vengono sottoposti a controllo costante e quindi ogni capriccio o spontanea manifestazione dell’animo, così connaturato agli esseri umani, è condannato a sparire o a essere guardato con sospetto e, per quanto possibile, cacciato via. L’artificialità cola così nella vita quotidiana e la deforma, apre brecce nello stesso modo di pensare, che diventa prudente e sospettoso nelle minime sfumature, mettendo in mostra crudelmente ogni debolezza, ogni mancanza di solidità. La padronanza dell’apparire duplica la serie di ombre in cui si viene, di volta in volta, incorporati, ma tutte insieme queste ombre non hanno vita propria se non in funzione di uno scopo esterno, l’obiettivo rimane l’azione che risulta del tutto avulsa da ombre e fantasmi.


160. – La simmetria delle operazioni formali continua a ritmare la mia vita. Mi vado convincendo che radicarmi in questa brutale realtà mi garantisce dall’avvolgermi in una problematica distruttiva per il mio stesso convincimento. Ogni dubbio ha in me un certo livello di potenza, cresce, da dimensioni minime, sale di intensità, sfugge o cerca di sfuggire alla sterilità delle domande senza risposta, poi si affloscia per timore di coagularsi in un idolo alchemicamente in grado solo di giustificare se stesso e nient’altro. Non è vero che questo continuo chiedermi il senso di quello che sto facendo dipende dal fatto che la mia attività, il mio agire, si colloca ai confini dell’esperienza umanamente concepibile come qualcosa di normale. Sono restio proprio ad abbandonarmi alla normalizzazione di tutto questo, ed è qui che nasce il dubbio, ed è qui che sono costretto a combatterlo, senza per questo uscire dai confini ultimi del ragionamento freddo e provvisto dei contrassegni della logica dell’a poco a poco. Nella vita il momento dell’azione è un’apertura al destino, da cui viene fuori la possibilità di dialogare con quest’ultimo, di intendere il suo vigore e il suo fondamento sul niente di una completezza che è solo immaginabile non identificabile con certezza, almeno non con la certezza della fattività


161. – Sono irriducibile, non ammetto che mi si ponga di fronte a fatti compiuti, voglio concorrere io a condizionarli fisiologicamente, cioè a realizzarli, a dotarli di materialità. Che qualcosa mi venga incontro dall’esterno, contenuti e documentazioni ineccepibili, per carità, non mi basta, non mi produce una metamorfosi cambiandomi in una casella postale priva di cuore e di coscienza. Non ammetto un’adesione laconica, anche se sono costretto ad acconsentire a una limitazione delle mie lussureggianti obiezioni. Mi rendo conto che abbandonarmi ad esse, alla loro capacità labirintica di ramificarsi, mi porterebbe lontano, causando, prima di tutto a me stesso, sofferenze e ossessioni. Eccomi quindi davanti a un movimento fattivo ampio, fluido, che però non prende il sopravvento. L’afflato ritmico sono io a imporlo e non mi lascio condizionare da una ripetitività da caserma. Sono io l’argine alla mediocrità di me stesso che queste forme di garanzia intendono costruire, alla lunga con il mio stesso consenso, e forse senza che me ne accorga in tempo. In me c’è un timbro che non accetta conventicole onnicomprensive, sono sempre estraneo alle uniformizzazioni forzate. Un reietto che ha sconfinato nel campo delle regole e dei teoremi. Non appena possibile, cerco un’altra strada, sempre e in ogni modo.

162. – Non ho davanti ossessioni ma un solo obiettivo, pormi domande in merito alla fondatezza dell’azione. Non voglio restringere l’agire né frenarlo, ma sono attento a cercare i limiti della sua compatibilità con le mie scelte morali, perché di questo si tratta. Non sono però posato qui in attesa che qualcuno metta i puntini sulle mie i. Non sollecito una revisione, un’autorità più alta, un setaccio morale proveniente dall’esterno, in grado di rappacificare le mie perplessità. Non voglio nemmeno irritarle o esacerbarle gratuitamente. So che esistono, e tanto basta. Vedo attorno a me qualcuno col respiro corto, come se temesse di cadere in ambasce simili alle mie, peraltro da lui non conosciute in dettaglio, non essendomi mai accostumato a metterle in piazza. E vedo anche che malgrado l’ansimare questo qualcuno va avanti lo stesso, senza sospiri e senza sospensioni se non di giudizio, a quel che sembra. Potrei dare una piccola spinta, ma sarebbe una esacerbazione cerebrale, con ricadute tutt’altro che ipotetiche, forse gravissime. Non sono Amleto né Don Chisciotte. Sono chiuso all’educazione e all’obbedienza, movimenti importanti in condizioni come le mie ma che mi mettono il sangue in subbuglio, meglio mantenere gli occhi aperti e la determinazione di agire sempre disponibile all’apertura, all’oltrepassamento. Niente può snaturarmi di più di una accettazione acritica di quello che mi viene posto sotto gli occhi, la mia esecuzione di un progetto è sempre critica, anche se non ricorre mai all’impazienza o al delirio di chi si sente debole. Sono forse forte, anche senza saperlo? Non credo. Solo che non voglio che queste mie debolezze, se tali possiamo definirle, appaiano sciocche o patetiche. Hanno una loro profondità che le nasconde agli occhi superficiali di chi sta all’erta per scoprirle dappertutto, non solo dentro di me.

163. – Riservo le mie perplessità alla rammemorazione. Qui la parola, chiamata a dire l’azione, può anche fare uno sforzo per attingere i limiti di quest’ultima, non diventarne soltanto l’esaltatrice. Non c’è bisogno di qualcuno che legga sopra le righe, e la parola in questi frangenti è istintivamente portata a farlo, a ingigantire le conseguenze di un momento bruciante che in se stesso completo racchiude l’essere e l’apparire, quindi è assolutamente niente, una volta che viene sottoposto alla penetrazione ermeneutica del dire. Il rischio di avvertire l’ansia e la travolgente euforia di un potere di vita o di morte è grandissimo, occorre quindi mantenere i piedi a terra, e questo metodo disingannante deve poggiare sul lavoro fattivo precedente, remoto all’improvvisazione, senza lasciarsi impressionare da ridondanze o effetti scenici che in queste occasioni non mancano mai di arrivare come contorno. L’eccesso è nemico della retorica, è al di là di ogni effetto in se stesso proprio in quanto fuori di ogni limite estremo. Se l’azione ha una caratteristica è proprio quella di essere conseguente a un oltrepassamento. Ammettere equivoci di onnipotenza sarebbe una sorta di svilimento, una vigliaccheria, come chi urla nella notte per farsi coraggio. Messo piede nell’oscurità del cammino percorso dall’ospite inatteso non c’è maniera di fare un passo indietro, bisogna andare avanti. Si tratta di un’ascesi senza remore e senza giustificazioni, un faccia a faccia micidiale che non conosce terapie contro il di già accaduto, di cui la rammemorazione è chiamata a dar conto.


164. – Nascondersi dietro le stravaganze è un buon metodo, ed era quello scelto dal nostro uomo. Assumeva atteggiamenti da poeta, da avventuriero, da pirata, in un clima tutt’altro che accessibile a questi camuffamenti. In tale parvenza di luce c’era invece, nel suo modo di fare, una sorta di maggiore oscurità che rendeva più inaccessibile l’inquadramento, per noi necessario, del suo modo di vivere. Innocuo? La documentazione diceva di no. Ma questo universo ridotto alle poche righe di un comunicato segreto non era sufficiente. Occorreva andare più a fondo. E qui trovavamo la copertura di un apparire troppo scoperto. In un clima in cui tutti sembrano vivere con la testa in giù questa persona camminava col naso per aria. Era sempre contento, canticchiava fra sé, saltellava perfino, di tanto in tanto. Era spensierato veramente? Eppure frequentava qualcuno in sospetto di delazione. Solo sospetti, null’altro. L’amico di una spia è necessariamente spia lui stesso? Chi può dirlo? Forse quella vita superficiale e giocherellona era una copertura oppure era proprio quel suo modo di essere che gli impediva di accorgersi della colpevole attività del suo amico. Amico di caffè, beninteso. Non sapevamo altro. Gli sforzi per approfondire il comportamento del pagliaccio ci condussero però a vedere meglio le pratiche indegne del suo amico. L’ospite inatteso fece visita a quest’ultimo, lasciando senza amico il primo che non per questo ridusse la sua innata contentezza di vivere.


165. – Manco da un paio di mesi – tornato in Italia per tenere a bada il mio datore di lavoro – e ritrovo, più o meno, tutto come prima. I militari sono sempre al potere, la gente sembra sempre non accorgersi di nulla, i compagni fanno sempre il solito lavoro e si pongono sempre meno domande. L’atmosfera sembra più insonnolita. Uno studente greco di sociologia si è suicidato a Genova qualche mese fa. Siamo alla fine del 1970. Qui è stato dichiarato fuori legge lo studio della sociologia. Strana accortezza di un sistema cieco per tante altre cose. Chissà perché? Non è facile capirlo. Perché è stato abolito l’ordine degli avvocati? Chi lo sa? La mente di un militare ha recessi insondabili, le sue paure sono inaccessibili a una mente abituata a ragionare con canoni sia pure minimi di libertà. Lavoriamo attorno ad alcuni insegnanti universitari di cui sappiamo la loro simpatia per il regime. Non sono molti, appena tre, ma le possibilità di errore sembrano limitate. Non si sbilanciano nei loro discorsi cattedratici, ma pare che esercitino pressioni indirette nelle chiacchiere private e all’interno degli istituti. Questo lavoro si propone un po’ alla cieca, non possiamo eseguire i soliti pedinamenti, che non ci direbbero nulla, e nemmeno attingere informazioni fra gli studenti. In questo campo sono altri gruppi che lavorano e dai quali aspettiamo notizie che non arrivano. Ho conosciuto da lontano questi tre figuri, sembrano di un anonimato assoluto. Né giovani né vecchi. Non saprei definirli bene, per quanto mi sforzi di farlo. Alla fine sono rimasti al loro posto, continuando a insegnare anche dopo la fine della dittatura. Ognuno convive con i propri cadaveri.


166. – Il risultato più visibile di questo regime oppressivo è che l’aria della Grecia, così bella e così vicina a quella del mio paese d’origine, la Magna Grecia, è diventata asfissiante, spessa a respirarsi, carica di sospetti e cose non dette, soltanto intuite a metà, lasciate da parte per paura. La paura generalizzata genera un clima di vigliaccheria contro il quale è difficile lottare. Ogni fare, una volta progettato, appare zoppo, incapace di assumere significato plausibile. C’è troppa distanza tra il pensare nel chiuso di una stanza, dove sembra che l’utopia aleggi rimbalzando continuamente nelle pareti e nelle porte ben chiuse, e quello che invece si respira fuori, nei grandi passeggi, nelle enormi piazze, come pure nei piccoli paesi sperduti e privi quasi di vere e proprie comunicazioni con la grande città. A quel che mi dicono – la mia ignoranza del greco persiste imperterrita – i giornali fanno pena. Il controllo della stampa è assoluto. Appiattimento e volgarità nello stesso gusto artistico ed estetico. Nessuna opera d’arte viene alla luce in questo periodo, tutti sembrano aspettare la stella cometa, ma si sono stancati perfino di guardare il cielo.


167. – Ero io a collocarmi stabilmente in questa dimensione precaria e litigiosa con me stesso, oppure era un mio momento che vivevo staccato dalle mie amate carte, dalla mia quotidianità, dalla mia famiglia? Non sapevo decidermi. E questa ambivalenza mi portava a interrompere la mia partecipazione alla lotta, tornare in Italia, poi riprendere, poi ancora una volta tornare per riprendere. Avevo dentro di me una confusione, uno stupore costante? Oppure era nella normalità dell’impegno questo ritorno a tratti, dovuto a motivi di lavoro non ancora conchiusi? Non saprei. Più avanti nel tempo, quando mi trovavo in Palestina, non avendo questi impegni intermittenti, non andando avanti e indietro, come facevo in Grecia, avevo però le stesse riflessioni tormentose, uguali e forse anche più dettagliate e difficili da spiegare. Discutendo con i compagni andavo scoprendo più cose in quello che facevano di quante ne avessi immaginate prima, cose piacevoli e cose spiacevoli. In ogni caso, poco attingeva – da queste riflessioni – il mio problema di sentirmi portatore di libertà per un popolo ridotto in schiavitù, deportato, immiserito, inebetito in gran parte, oltre a essere spesso nelle mani di politici e di uomini di Stato stranieri che prima di tutto curavano i propri interessi. A volte, il succedersi degli accadimenti trasformava tutto in un turbine di ansia e di fretta, come se il terreno mi slittasse sotto i piedi. Non potevo né volevo lamentarmi della stanchezza estrema ma mi rendevo conto che in queste condizioni le strutture organizzate possono fallire per cattiva condizione di salute dei propri partecipanti, non per carenze tecniche delle ricerche e delle informazioni. Qui, al contrario degli anni precedenti in Grecia, le informazioni erano molto più dettagliate e i controlli e le corrispondenze potevano ridursi di durata e di intensità. Non che diventassero frettolose, non questo, ma potevano assolversi meglio e in meno tempo. Anche le azioni erano più vicine fra loro, si realizzavano più obiettivi e il lavoro dell’ospite inatteso era più intenso per quanto non sempre conclusivo. A volte, qui, l’obiettivo aveva dimensioni che non potevano essere abbracciate completamente, quindi ci si doveva accontentare di raggiungere la parte che era più a portata di mano. Questo genere di azioni tendevano a svilupparsi in una durata cronologicamente non precisabile a priori, perché si trattava sempre di unità fuori del tempo e dello spazio, ma che incidevano nella nostra esperienza diversa – e, per quel che mi riguarda, particolarmente nella mia capacità rammemorativa – in modo più complesso e più articolato. Coinvolgermi in azioni più ampie, come quelle di cui sto parlando, con la partecipazione di molti compagni, era per me un’esperienza nuova, mi sentivo sospinto da un empito di rivolta che contrastava con la mia solita determinazione costruita a tavolino e fondata su una seria documentazione. Non che questi aspetti venissero tralasciati, anzi erano necessariamente meglio approfonditi, ma ero io che nell’azione scatenavo sentimenti distruttivi che non avevo mai provato. Forse questa strana condizione era in parte sollecitata dal fatto di trovarmi spesso di fronte uomini in uniforme, comunque di sicuro appartenenti a corpi dell’esercito. Mi sentivo alleggerito da un peso. Era una stupida constatazione ma, a rifletterci sopra, a distanza di tanto tempo, aveva la sua importanza. L’ospite inatteso non colpiva improvvisamente un uomo quasi sempre disarmato, almeno all’apparenza, non lo coglieva nell’intimità di una casa o nella solitaria stradina del suo percorso quotidiano, ma affrontava uno scontro armato. Certo, anche l’ipoteticamente disarmato e solitario torturatore, il boia, l’informatore della polizia, avevano spesso un altro genere di armi e non erano quasi mai impreparati di fronte a quello che stava per accadere loro, ma erano comunque stracci che si accartocciavano, carne che si apprestava a diventare putridume. Il militare cadeva anche lui come uno straccio e sarebbe stato di lì a qualche giorno pasto per i vermi, ma mi causava, nel suo impatto con l’ospite inatteso, una serie diversa di riflessioni. Mi sentivo più aggressivo, al limite della ribellione – condizione non ottimale di scontro – e questo mi scaricava per molti aspetti delle tante tensioni che mi procurava sempre l’intervento dell’ospite inatteso.


168. – Tanti sforzi per raddrizzare la storia. Faccenda impossibile. Le storture appartengono all’uomo e sono necessarie alla sua costruzione vitale, a tutto ciò che pensa e fa. Chi può dirsi certo di andare per la via diritta? Un nonnulla fa prorompere la burrasca nel lieve e superficiale accordo che ognuno mette insieme tra fare e giustificazione del fare. Nel fare si massacra e si giustifica il massacro. Ci si può confortare con le illusioni? E i boia albergano anche loro illusioni? E perché no? Hanno anche loro famiglia, frequentano altre persone, leggono il giornale, perfino qualche libro che insegna come affilare meglio la mannaia. Insomma respirano anche loro. Pur essendo uniti con altri individui della loro specie, nella cosiddetta comunità di lavoro – se di lavoro si può parlare (e perché no?) – vedono pure degli estranei e nei riguardi di questi ultimi devono pure inalberare un discorso quale che sia – parlare di sport, per fare un esempio – non certo buttare loro in faccia quali sono le tecniche migliori per obbligare qualcuno a dire quello che non vuole dire. Insomma anche i torturatori hanno una presenza, vivono nel mondo che ci ospita tutti nella sua quotidianità, mangiano più o meno quello che mangiamo noi, pensano che il proprio mestiere, per quanto spiacevolmente fuori del normale, è in fondo un mestiere come un altro. E sono stupidi strumenti di chi sta dietro di loro, in divisa con più strisce e orpelli ridicoli, in toga ed ermellino, in carriera di capo che ordina e non si sporca le mani di sangue. Himmler, visitando per la prima volta un campo di sterminio, si sentì male e dette di stomaco. Occorre una preparazione specifica per fare il boia, non è un mestiere per tutti. Azzeriamo il torturatore. Ecco, costruiamo una rete documentatissima che conduce, a poco a poco, per vie indirette, a localizzarlo, isolandolo nelle sue faccende quotidiane fuori dal posto di lavoro e lontano dalla mannaia. Isoliamolo, guardiamolo in faccia. Ha una faccia ributtante? Non sempre, con buona pace di Lavater. Siamo spesso noi a prestargli una faccia odiosa. Quasi sempre ha una faccia come milioni di altre facce. Un naso normale, un paio di occhi normali in cui noi vediamo una glaciale freddezza che forse non c’è, una bocca piena di denti, o forse con pochi denti. Può un torturatore essere sdentato? No, deve avere denti da squalo. Costruiamo così un ritratto fasullo che ci aiuta a realizzare la nostra impresa diretta a mettere fine alla sua attività. Inaspriamo la sua condizione di isolamento perché non possiamo pensare a un mostro simile perfettamente inserito in un contesto sociale, con amici, moglie e figli, con problemi di famiglia, intento a correggere i compiti a casa della numerosa prole. Dobbiamo isolarlo. Guai se le nostre corrispondenze dovessero svellere questa pietra tombale e portare alla luce una duplicità di comportamento. Macellaio sul lavoro, accuratamente intento a ripulire dopo l’uso i suoi strumenti affilati, padre di famiglia poi, tornando a casa. Se scoprissimo questo duplice comportamento la nostra originaria determinazione potrebbe soffrirne, potremmo pericolosamente tentennare nel momento decisivo. E allora, tagliamo via, mettiamo da parte, nascondiamo per pudore verso noi stessi. Tanto la sua responsabilità rimane immutata, è sempre lui, quello che ci cammina tranquillamente davanti per strada e che fra poco verrà avvicinato dall’ospite inatteso, è sempre il torturatore. Non è stata una ricerca la nostra, di già l’informazione di partenza bastava a stigmatizzarlo, è stata un creargli attorno un vuoto e in questo vuoto intervenire. Siamo di fronte al mostro, all’apice dell’impudenza repressiva, alla negazione di ogni principio di legalità e di umanità, siamo di fronte a un pericoloso meccanismo nelle mani di irraggiungibili assassini, quindi accontentiamoci di renderlo innocuo, di metterlo fuori uso. Perché porsi tante domande? Certo, sarebbe stato meglio arrivare anche ai capi del torturatore, a quelli che con le mani pulite e il cuore tranquillo sorridono mentre la mannaia massacra messa in movimento da un subalterno opportunamente addestrato nel mestiere di boia. Ma, non potendo arrivarci, colpiamo lui, tanto è lui che ha tagliuzzato, slogato, sventrato, stuprato. Che vogliamo di più? Smettiamola una buona volta di lanciare occhiate oblique al mucchietto di stracci sporchi che l’ospite inatteso si lascia dietro dopo il suo intervento. Smettiamola una buona volta.


169. – In fondo al massacro, a qualunque massacro, si gioca una commedia dell’arte, ognuno veste i suoi panni e insiste nel ruolo che ha scelto. Certo, alla base di questa scelta, dalla parte della rivoluzione, ci stanno i princìpi della libertà. Ma la semplice contrapposizione di questi princìpi a quelli dell’oppressione non basta, occorrono strumenti e fatti, e su questi occorrono costruzioni e verifiche, tutto un universo quotidiano di obbligazioni che avviluppano e soffocano imponendosi con la loro ineluttabilità. Come farne a meno? E in nome di che cosa farne a meno? In nome dell’anarchia? Insomma, qui si tratta di andare incontro a problemi che non sono per nulla gli stessi che si esaminano nel chiuso di una stanza, sfogliando le pagine di un libro, qui si tratta di vedere la vita nella sua concretezza, e in particolare la vita di alcune persone che hanno scelto di essere responsabili di atrocità senza nome. E bisogna mettere questa vita sotto il microscopio, esaminandola nel suo svolgersi più stupido e anodino, presupponendo – anche in base a informazioni degne di rispetto – le attività atroci di cui si discute. Ma nel microscopio è messo un uomo che ha le proprie caratteristiche umane simili a tante altre, cammina, si siede, gesticola, parla, si arrabbia o ride come milioni di altri uomini. Eppure è quello che sta sotto il mio microscopio e da queste analisi non viene fuori nulla delle sue atrocità, viene fuori al contrario una familiarità di comportamenti contro la quale occorre stare in guardia, diffidare. E così imparo a guardare oltre, ma non vedo niente se non puntualità di incontri, simultaneità di frequentazioni, ripetizione di gesti e di percorsi. Questa lunga e perigliosa analisi è diretta a spianare la strada all’ospite inatteso, non serve a giustificare moralmente il suo intervento. Questo aspetto, per me essenziale, mi sfugge e appartiene a qualcuno con cui non ho contatti se non cauti e approssimativi. Ciò mi estranea dal mio lavoro, sono lasciato solo con i miei compagni a limare e perfezionare un’azione di cui non padroneggio la fonte. Queste sono le condizioni del lavoro, prendere o lasciare, non si possono cercare informazioni che solo altri posseggono. L’unica cosa che si può fare è oltrepassare tutto nell’azione. Ogni personalizzazione del mio impegno nell’ambito del fare deve così essere bandita, considerata un eccesso di zelo, un lusso pericoloso. L’approvazione del lavoro portato a buon fine, pronto per realizzare l’azione, non mi sembrava una risposta adeguata. In genere, prima di concludere, un altro compagno, lo stesso che aveva fornito le informazioni, prendeva contatto con noi ed esaminava i risultati ottenuti, l’insieme dei pedinamenti e dei controlli. A fare questa verifica – peraltro priva di potere giudicante – erano diversi compagni che si alternavano, forse a seconda della parte da cui proveniva l’informazione originaria. Questo non l’ho mai saputo né i compagni del mio gruppo lo sapevano meglio di me. La divisione delle responsabilità in compartimenti stagni è una delle condizioni essenziali della lotta clandestina. Eppure le mie domande, ormai poste solo a me stesso, nella mia crescente solitudine, persistevano nel pretendere un loro spazio sempre più ampio. I nostri massacri perché si assolvevano da soli? Perché avevano l’impronta che li contraddistingueva come opera di giustizia, sia pure bassa? Perché cercavano di pareggiare i conti con gli oppressori e i loro soprusi? Troppo facile, troppo semplice. Nessuno può pareggiare un conto a nome di un intero popolo, anche colpendo il più alto possibile. Lo stesso tentativo non portato a buon fine di colpire il numero tre del regime fascista greco non avrebbe, se realizzato, modificato di molto le mie perplessità o dato una risposta alle mie domande. Anche adesso, la sera, prima di prendere sonno, guardando l’ospite inatteso seduto ai piedi del mio letto, mi sento come un macigno sul petto. Non è una questione di rimettere in discussione le scelte della mia vita, che sarebbe vana euforia di impotenza, ma è il pensiero che va da solo a quelle lontane esperienze, alle entusiasmanti azioni compiute, alle brucianti risposte della qualità avvertite pienamente sulla mia pelle e che ancora riescono a dirmi qualcosa. Ma questo qualcosa è rammemorazione e rammemorare è fare uso di parole, aprire il proprio cuore all’esperienza diversa e farla parlare. E lei continua a dirmi che un mucchio di stracci che prima era un uomo vivo è sempre un mucchio di stracci. Ma quale può essere un altro modo per impedire a un mostro di continuare ad azzannare?


170. – Mille accorgimenti non bastano, occorre mettere su il mestiere, imparare a dissimulare, a vivere mischiati alla gente ma nascostamente, anonimamente, un’arte della mimetizzazione che sembra facile ma costa non solo fatica ma deforma la propria cognizione di sé. Ciò alla lunga comporta una frustrazione profonda, la perdita, o comunque la frammentazione, della propria personalità, l’acquisizione di un multiforme aspetto capace di adeguarsi alle tante e sempre diverse situazioni. Dare spettacolo di sé in modo che gli altri non si accorgano dell’artificio, essere un attore capace di recitare parti diverse ma sempre sul medesimo filo, chi osserva da lontano e sembra prestare attenzione o fare qualcosa d’altro da quello che in effetti sta facendo o osservando attentamente. Una follia codificata, strettamente da osservare con la massima serietà possibile, come se tutti quegli atteggiamenti – sempre cangianti a seconda dell’obiettivo da raggiungere – fossero una vita concreta da vivere e non un gioco assurdo e spietato, preparatorio di una conclusione di già scontata in partenza. Non potevo considerarmi battistrada di un’idea, come avevo sognato, dell’idea di libertà, non avanzavo, eseguivo fino in fondo, fedelmente e al meglio delle mie capacità, quello che io stesso, dentro certi limiti, avevo contribuito a decidere di portare a completamento. Ogni sogno di libertà finiva così per racchiudersi nel piccolo involucro di un montaggio di particolari, importanti dettagli di un lavoro più grande, ma di cui non padroneggiavo né la partenza, l’impulso iniziale, né la conclusione, scontata quasi sempre con l’arrivo dell’ospite inatteso. Andavo quindi raccogliendomi sempre di più nel mio guscio e cercavo di riordinare i miei sogni condizionandoli alle limitate prospettive di realizzazione che avevo davanti. Non potevo compiacermi di capovolgere l’ordine delle cose, il rischio assumeva proporzioni incombenti di tale entità da spaventarmi. Avrei dovuto affermare le mie tesi? Sostenere la fondatezza dei miei dubbi? No, non era possibile. Sarebbe stata una vigliacca defezione. L’andare avanti, nella fase preparatoria, per contropartita diventava sempre più un supplizio. Inspiegabile se non ad azione compiuta. Nell’azione tutto scompariva, assorbito dall’impatto con la qualità. Non c’era nient’altro che me stesso nell’azione, la valutazione dell’obiettivo e le osservazioni che l’avevano reso attivamente percepibile, si fondevano tutte insieme nell’attimo fuori del tempo in cui ero io l’azione, ero io l’essere che è e non può non essere. Non c’erano più perplessità o titubanze, solo l’azione, la reale verità dell’agire nella sua pienezza, la libertà totale nell’attimo, la completezza della giustizia, non un semplice pareggiamento di disequilibri. Ma l’azione è, per il semplice fatto che esiste, fuori del tempo e dello spazio, destinata a dissolversi. Dopo, nell’attimo stesso in cui si è come sospesi tra l’oltrepassamento di già avverato e la conclusione che riapre le porte del fare, del solito fare quotidiano, obbediente alle regole e agli indugi dozzinali, ecco che la vita di un uomo, qualche volta l’esistenza di un oggetto, era soltanto un mucchio di stracci o un mucchio di macerie. E questo momento rammemorativo non era semplice fatuità morale, era concretezza di metodo e di obiettivi. Perché la vita degli uomini deve fondarsi sempre sui massacri? Perché, in un modo o nell’altro, dobbiamo concorrere tutti, senza esclusioni ad alimentare il lago di sangue che calpestiamo ogni giorno senza accorgercene? Va bene che questo lago è sotterraneo e quindi il nostro indaffarato calpestio si affanna su di una zolla infame di melma che lo nasconde e che ci consente di tenere i piedi all’asciutto. Ma noi sappiamo. Nessuno si pone il problema. Meno di tutti se lo pongono coloro che si credono immuni e al sicuro, nelle loro conventicole, nelle loro università, a chiacchierare di filosofia, di storia, e non sanno che anche loro sono provveditori di massacri, non solo coloro, tanti, che massacrano per mestiere, e coloro, pochi, che massacrano in nome della libertà. A quando una distinzione plausibile? A quando il momento in cui l’ospite inatteso potrà rimanere senza lavoro? Questi pensieri erano i miei di tanti anni fa, ma non potevo articolarli, la mia familiarità con il personaggio armato di falce, nella sua persistenza periodica, me lo impediva. Se ne sarà accorto? Non lo so, non l’ho mai capito. Fino a qualche mese fa, prima di entrare in questo carcere greco, ritenevo di no, ora non ne sono tanto sicuro. L’ho interrogato, la notte, quando si siede ai piedi del mio letto, ma non ho avuto risposta.

171. – Ospitare delle strane titubanze non è da me, non lo è mai stato, e non voglio ospitarle adesso. Mi incutono sgomento, come di un pericolo ignoto che non sono capace di affrontare, mentre di fronte al pericolo noto so sempre cosa fare. Una sola titubanza, anche adesso, praticamente alla fine della mia vita, ed è tutto compromesso, una bestia immonda si acquatta dentro di me e vi prende dimora. Si muove in zone inesplorate, dove non sono mai penetrato, dove giacciono pietrificati i mostri del mio passato, e la titubanza è fra queste mummie, essa si muove a suo agio, e me le indica, spiegandomi il loro significato. Così scompone dentro di me quello che tenevo fermo, solidamente legato in una unità indissolubile, scompone e seziona, analizza e spiega, spiega le mie incongruenze, le mie paure, le mie ritrosie, le mie rodomontate. Non è un abbandonarmi all’eventualità incerta del caso, adesso che giaccio qui, in questo letto di un carcere greco, non è un lasciarmi andare per debolezza o per dolore fisico – questi ci sono ma è come se li avessi messi tra parentesi –, non è di essi che sto parlando, sto accennando a quello che di spaventoso ho immagazzinato dentro di me, in teche ben allineate, separate per categoria di tempo e di luogo, etichettate per volontarietà e involontarietà. Inattese risoluzioni e ponderate decisioni, tutte lì, una dietro l’altra, rigidi risultati che mi guardano con gli occhi sbarrati e i denti stretti e non parlano. Le maschere sono prima o poi destinate a cadere, non possono reggere per sempre. C’è nell’essere qualcosa di essenziale che non c’è nell’apparire, non c’è maschera nell’azione, prima e dopo sì, occorre indossare delle maschere, per altro di differente foggia. Dentro di me si muove un remotissimo sentimento di repulsione, non per le azioni, che queste sono incise sulla mia pelle, sono il mio vero essere, la mia tutela contro l’angosciosa sopravvenienza dell’apparire, ma per gli infingimenti, le menzogne, i travisamenti – tutti strumenti necessari, per carità – e per le difficoltà di far capire le mie stesse rammemorazioni, sommerse dalle proprie difficoltà o involute sul gioco estraneo e malevolo delle parole.


172. – Come si fa a entrare nel vivo segreto delle cose? So bene come si fa ad entrare nell’azione, a coinvolgermi e ad oltrepassare la condizione immediata del fare, ma non so come questo fare possa – di sua natura parziale e incompleto – giustificare se stesso, fornire a se stesso le basi di un giudizio assoluto, quello stesso che pretende imporre la fondatezza morale di fronte a un altro fare, orrido prodotto dei massacri e delle torture, della repressione e del potere più occhiuto. Qui la mia capacità analitica non mi viene meno, anzi si acuisce e monta in cattedra, giudica e manda secondo che avvinghia. Ma io non sono Cerbero, sono un uomo che cerca la libertà, e la libertà, come la giustizia, è qualità che si trova nell’agire, non nel fare, come la verità, l’uguaglianza, esperienze che solo la coscienza diversa può fare proprie. E fuori dell’azione? Non sono quelle mie stesse capacità analitiche, di cui vado tanto fiero, a costruirmi attorno un muro di inganni, un terreno accidentato di trappole? Se le regole rigide, forse meno perché è un fare un po’ bislacco, se non proprio diverso, ed ha come scopo non quello di fornire risposte ma di proporre domande. Ecco, non è nemmeno di questo che parlo. Le mie riflessioni si indirizzano – e si indirizzavano – a metà strada, negli interstizi del fare e in quelli del rammemorare. Come è possibile la giusta valutazione – eminente espressione qualitativa che solo nell’azione si vive – concretizzarla prima dell’azione, in modo che costituisca fondamento e materiale da costruzione dell’azione stessa? Non può. Ecco la risposta. Non può e nonostante questa sua intrinseca impotenza, deve, non c’è altro da fare, deve arrivare a una giusta valutazione attraverso il fare, ben prima dell’agire. Ecco il punto dolente, la spina che non riesco a togliermi dal fianco, ecco la base e il nocciolo delle domande che adesso rivolgo all’ospite inatteso seduto ai piedi del mio letto. Ma lui continua a tacere. I suoi occhi vuoti sembrano guardare lontano, nel passato.


173. – La logica della vita dovrebbe essere straordinariamente spontanea, respirare, nutrirsi, riprodursi, amare, lasciarsi andare alle pulsioni più intime, alle sollecitazioni della fantasia, del sangue che pulsa nelle vene. Invece c’è il pensiero che resta sul colpo, che non retrocede, che rimane vigile e attento, che controlla e sottopone a vaglio e che conferma o rifiuta. La forza così si assottiglia, si affievolisce, e ciò mentre che sembra trovare migliore radicamento, più sostanziale punto di appoggio. Pochi pensieri centrali, attorno ai quali restano mille altri pensieri, attingendo da quelli giustificazione e luce, ma nessuna forma stabile. Non appena qualcuno di essi si cristallizza e pretende il dominio sugli altri, eccolo svilupparsi in un agglomerato ideologico buono a governare il mondo. Che ne è allora dell’originaria duttilità, fluidità, dell’empito che mi sconvolgeva davanti all’ingiustizia e mi faceva venire le lacrime agli occhi. Col tempo le lacrime sono scomparse ed è rimasta la fredda determinazione. L’ingiustizia va combattuta dovunque essa alzi la testa, dove essa schiaccia il povero e il debole, cioè dappertutto. Una scelta, ecco, bisogna fare una scelta, non potendo estendere a tappeto il proprio risentito intervento. Scegliere dove la repressione si veste degli orpelli più evidenti? Certo, ad esempio il fascismo greco è stato uno di questi luoghi, fuori di ogni dubbio. Ma veramente fuori di ogni dubbio? Oppure c’erano altri luoghi dove la ferocia umana si esercitava in modo più atroce e violento. Certo che c’erano. Perché allora la Grecia? Perché a portata di mano? Perché c’era modo di farsi garantire come presenza politica, cioè perché l’occasione di uno scudo politico rendeva materialmente possibile la presenza fisica senza destare sospetti o possibili equivoci? Anche questo è da mettere nel conto. Niente è massimizzabile in assoluto. Bisogna sapersi accontentare, prendere quello che è a portata di mano, non desiderare di andare verso l’impossibile. Eppure questi pensieri non possono essere elusi con questa conclusione di comodo. Non possono essere soddisfatti dicendo che comunque qualcosa è stata fatta, qualche mostro infame è stato tolto di mezzo, qualche strumento repressivo reso inservibile. Non possono. Rimangono a tormentarmi e non so farli tacere definitivamente. Se si trattava di accontentare la mia voglia di fare, comunque in ogni caso, perché non rivolgermi alle organizzazioni di aiuto umanitario operanti in zone dove c’è sempre bisogno di soccorso e di sostegno? Perché ho scelto di impugnare il mio amico K? Che senso ha avuto tutto questo? Per me, non per qualcosa fuori di me. Per le eterne domande che sommuovono l’animo mio e non trovano risposte. Ecco una risposta. Soddisfacente? Sì e no. L’azione è la vita che incontra l’essere che è, il mio essere nel momento unico della qualità. L’esterno scelto, la condizione repressiva vissuta da un intero popolo, la responsabilità di questo o quel massacratore, elementi esterni all’azione, che non entrano in essa, che non attengono alla qualità, che rimangono sempre fuori di me e del mio coinvolgimento assoluto nell’agire, senza essere capaci di fondersi con la qualità, con la mia personale esperienza della qualità. Elementi duttili, fluviali, plastici, non reali ma apparenti, che mi avvolgono nella soffice bambagia ideologica del fare, che mi trascinano in interminabili procedure e misure e corrispondenze e tutto il resto. Il tempo concreto, vissuto quotidianamente, scandito nella cronologica monotonia della iterazione spaziale è l’esatto contrario dell’azione. Io mi sono pertanto trovato a vivere in due universi separati nettamente, quello della sommatoria delle preparazioni e quello della completezza della realizzazione. Il mio pensiero, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, ricorre alle antiche dicotomie per cercare di comprenderle. La sera, in questa cella di un carcere greco, sul finire della mia vita, mi chiedo se ha senso quello che vado rammemorando. La vendetta o la liberazione? Questi due sentimenti, ambedue concordi e compresenti, non possono andare d’accordo. Non lo so. C’è una rapidità prodigiosa nella vita che rende difficile soffermarsi a riflettere su questi problemi. Anche adesso, che ho molte ore della giornata davanti a me, vuote, trovo difficile rammemorare una risposta. Eppure è indispensabile farlo.


174. – La vendetta è un gesto tranquillo che pone pace dove prima si dibattevano controverse motivazioni. Può riempire una vita o solo un breve momento di essa. Oppure può entrare come un condimento necessario in un intruglio non facilmente districabile. Essendo tagliata con l’accetta, o fuori o dentro, non fa altro che dimostrare sciocca e vana ogni perplessità, ogni dubbio quasi un insulto. Non può però, né poteva, essere soddisfacente. Occasione sì, metodo e progetto no. C’è in essa qualcosa di troppo contingente, quasi di avventato, che non può camminare di pari passo con un lavoro metodico e ad ampio respiro, preparatorio non di un’unica occasione ma di molte. La figura del vendicatore fa il paio, in venatura ridicola, con quella del liberatore. Se ho sognato quest’ultima non ho nemmeno ipotizzato la prima. E poi l’azione, in sé, nell’accentuarsi spasmodico della propria totale completezza, non può poggiare su di una giustificazione esterna come la vendetta. Sarebbe come se ci si volesse vendicare facendo e non lo si volesse più agendo. Un controsenso, un cercare e un non trovare o un trovare una cosa diversa per cui la rammemorazione smonterebbe pezzo per pezzo l’ipotesi vendicativa ridicolizzandone il fondamento emotivo. Il contenuto dell’agire sta nella qualità e questa non può essere la ricerca della completezza propria, altrove irreperibile, non comunque individuabile in un semplice mettere le cose a posto, in una sorta di partita doppia che alla fine deve per forza fare tornare i conti. L’azione è l’eccesso dell’essere che è, di cui sperimento la pienezza nell’attimo in cui la vivo, anche se non pareggia niente, anche se resta al di sotto del torto subito – e come non potrebbe restarci quando a subire questo torto è tutto un popolo? – oppure aleggia un al di là di esso, giganteggiando nell’estrema rarefazione che porta con sé la visita dell’ospite inatteso. La coscienza diversa, ne ha di estremamente acuti, inarrestabili quando si destano, indomabili, inspiegabili. Eppure l’azione produce un effetto esplicativo che si distende e complica nella rammemorazione. Può questa appendice maledetta assurgere a un improvviso fervore vendicativo, tanto da influenzare il fare e l’agire successivo? Non può. Se lo fa torna daccapo all’accidente occasionale, ripresentabile ma non in grado di fornire un indirizzo di comportamento. Ecco perché mi chiudevo sempre di più in me stesso, oppresso da un peso che non potevo condividere con i miei compagni, con i quali comunque continuavo a lavorare alla preparazione quanto mai accurata, quasi maniacale, dell’azione prossima da realizzare. Anzi, più questi dubbi mi travagliavano e mi mettevano in una strana esacerbata inquietudine e più mi attaccavo ai minimi aspetti di ciò che comunque andava fatto. Era una sorta di tacito compatimento della mia condizione dimidiata che, seppure assurgeva a completezza nell’azione, tornava a spezzarsi nell’inevitabile rammemorazione. Tutti ammiravano il mio modo di lavorare, meticoloso all’eccesso, preoccupato sempre di più dei particolari e nessuno notava lo sbalzo repentino dell’oltrepassamento che mi rendeva pieno di essere me stesso. Penso che qualcosa del genere succedesse anche agli altri, l’azione è permeazione della qualità perché la vive, non ammette mezze misure, ma può essere vissuta e non capita. Questo strano connubio produce una mancanza di rammemorazione. Dopo la tensione dell’agire, dopo l’esperienza – per alcuni – incosciente della qualità, si ritorna quietamente al fare, mettendo una tacca positiva sul calendario individuale delle cose da fare. Una commedia degli equivoci.


175. – La perfezione del fare, il pensiero di portare a perfezione, cioè a completezza, ciò che per sua natura è destinato a restare strumento preparatorio e parziale, tappeto rosso su cui fare avanzare con passo sicuro l’ospite inatteso, mi rodeva sempre di più. La stessa ammirazione dei miei compagni per le mie capacità organizzative mi recava fastidio, prova comunque del fatto che non potevano capire i miei problemi e i dilemmi in cui mi dibattevo. Questo riconoscimento diventava barriera invalicabile per ogni desiderio mio di spiegarmi, di cercare, di andare verso una chiarificazione, di rappresentare nella rammemorazione il mondo anarchico dei miei sogni. Attoniti ascoltatori, ben presto sperduti con lo sguardo assente, oppure attenti a seguire particolari di poco momento. Il dito e la luna.


176. – Mi sorprendevo a custodire pensieri sorprendenti, uno sull’altro, come una serie di gradini costituenti una scala che agevolmente poteva condurmi all’inverosimile. Tranquillamente pensavo possibile un aspetto odioso nella mia intrapresa. Appartato nel mio costruire trappole avevo la sensazione di essere una specie di enorme ragno del tipo più velenoso, non un combattente a viso aperto. In Grecia questa sensazione era più forte, qui tutto richiamava alla mente un potere forte ma invisibile, la vita sembrava scorrere tranquilla, anche se asserragliata in una parsimoniosa povertà per la grande maggioranza della gente. Eppure quel potere militare, apparentemente illuminato, catturava e torturava in segrete degne delle inquisizioni di una volta. Ciò mi rimbalzava in faccia violentemente tutte le volte che qualche uomo dabbene, in giacca e cravatta, veniva indicato come un mostro feroce e sanguinario. A questo indegno essere bisognava contrapporre qualcosa capace di fermarlo nella sua maligna capacità. Non gli si poteva proporre un discorso chiarificativo diretto a fargli capire l’abominio della sua opera, non una intimità discorsiva ma una rottura violentemente definitiva, ecco la conclusione a cui si arrivava, e a cui con difficoltà anche io addivenivo facendomi forza. Il meccanismo mi si rivelava contorto e semplice nello stesso tempo. Un lavoro preventivo, l’azione, la rammemorazione. Perché agli altri non venivano pensieri distruttivi simili ai miei? O se venivano, perché non li manifestavano? La nostra connivenza d’elezione era un fondamento solido, non raccogliticcio, ma è pensabile vivere esperienze del genere senza questa comunità di intenti, e allora perché solo io mi arrovellavo inutilmente proponendomi problemi privi di soluzione? Dovevo accettare la ripetizione standardizzata o rinunciare al mio sogno di liberazione, irrealizzabile quest’ultimo come ogni giorno il mio fare si incaricava di farmi sapere? A questa alternativa, corretta, il mio fondamento morale si ribellava, io stesso arretravo con orrore. Se avessi interrotto la mia attività – come nei fatti accadeva di tanto in tanto – senza riprenderla, un altro mi avrebbe forse sostituito ma, nel contempo, quasi certamente, qualche boia avrebbe continuato il suo lavoro indisturbato. Questa equazione non risolvibile ma sospettabile di fondatezza, mi scombussolava, di fronte all’interrogazione definitiva arretravo sul terreno di minore pericolo. Se il mostro andava fermato era giusto che incontrasse l’ospite inatteso, e ciò anche se la petulanza delle mie riflessioni non accennava a diminuire. Questa fondatezza, questa giustizia, collocate nel fare, vegliate da altri, anch’essi immersi nel fare, non le ritrovavo nel lampo lancinante dell’azione, qui la qualità mi diceva altro, non teneva contro del bilancio preventivo, mi metteva davanti all’essere me stesso senza ritardi e senza persistenze, senza anticipazioni e senza rinvii. L’improvviso palesarsi dell’ospite inatteso era tutto contenuto nell’attimo in cui l’azione è se stessa fino in fondo, fino alla completezza della qualità di cui è costituita. La smania successiva di collegarla al grande fare preventivo in un discorso articolato ma solo parzialmente percepibile, cioè nella rammemorazione, si smarriva in mille congetture artificialmente costruite. Può l’abominio estremo pareggiarsi con l’azzeramento del mostro che quell’abominio realizza? Chi può assumersi il peso morale di questo pareggiamento dei conti? Non certo un liberatore. Ecco il punto. Ero venuto per un altro compito e questo mi si andava rivelando inattingibile. Ero chiamato a svolgerne uno differente, più modesto e forse più urgente e indispensabile, ma ingenerosamente urtavo contro uno scoglio morale. Non mi lamentavo o cercavo di ridurre al minimo le mie responsabilità incrementando le colpe altrui, solo che non volevo essere io a tenere in mano la bilancia, anche perché pendere su di un piatto di essa – quello che sta dalla parte giusta, per carità – significava porre in esso tutto il peso dell’ospite inatteso, la sua irreversibile radicalità. No, non erano bizze filosofiche le mie, ci doveva essere per forza qualcosa di più profondo alla base. Il problema, dopo lunghe riflessioni, mi si presentò sotto le spoglie di un contrasto tra libertà e castigo. Un portatore di libertà non può essere un castigatore. Oppure sì? Oppure la libertà consiste in un progressivo mettere le cose a posto, tagliando le erbacce più nocive e più visibili? No. La libertà è la qualità dell’azione e non ha nulla a che vedere con i calcoli quantitativi del fare. Impossibile questa sovrapposizione.


177. – Mi sentivo spietato con me stesso, desideroso di cogliermi in fallo, mentre gli altri accudivano alle mie stesse faccende con la continuità che viene dalla pratica e non si sforzavano altro che di fare corrispondere il modulo alle verificazioni necessarie ad andare avanti. Non così per me. Non mi concedevo respiro né finzione, non accettavo moduli che per metterli alla prova e per trovarli magari corrispondenti a quanto di necessario andava fatto, ma il punto stava proprio in quella prova, in quel verificare una o più opportunità diverse. Il contrasto con il fare dei miei compagni non era apertamente visibile perché la maggior parte di queste mie ambasce era custodita gelosamente dentro di me e, ormai scaltrito, non ne facevo più parte agli altri, nemmeno in sede di rammemorazione. Anzi, queste riflessioni successive all’azione, per me fondamentali, avevo in un certo senso fatto in modo che restassero solo una mia faccenda personale, non cercando più né confronto né scontro. Mi rendevo conto che dentro di me albergavano, distinti e mobili, due persone. La prima, fattiva, accumulatrice, capace di lavorare ore e giorni a mettere insieme i pezzi staccati di quello che poi poteva diventare un’azione, sottilmente smussando gli ostacoli, limando le imperfezioni, presupponendo i pericoli, rimuovendo a priori le possibili obiezioni, la seconda, dubbiosa, revocante in chiave discorsiva, in cui l’ennesima domanda posta non era l’ultima, l’intero lavoro. La simultaneità di queste procedure specificavano meglio il mio modo d’essere qualcuno che andava ancora cercando qualcosa, mentre gli altri davano a se stessi la splendida certezza di averlo trovato questo qualcosa. Una finzione la loro? Oppure era la mia, una finzione? Chi può dirlo? Anche oggi, mentre stendo queste note, non so rispondere a domande poste così nettamente. In fondo, penso che tutti siamo fatti così, solo che ognuno cerca un modo suo, personale, per trovare la forza di andare avanti, e in un lavoro come quello in cui c’entra l’ospite inatteso, questo modo è particolarmente complesso perché deve confrontarsi con la struttura morale che giganteggia dentro di noi, detta le sue regole, propone i suoi dubbi, aspetta impaziente le risposte alle sue domande. Furbescamente, ognuno sa come affrontare questa barriera intima che minaccia di mettere a soqquadro la propria vita, ma nella maggior parte dei casi, si tratta di accorgimenti da commedia degli equivoci. Suggerire una interpretazione favorevole alla propria struttura morale è molto facile, ma rischia di risultare inadeguata, magari efficace nell’immediatezza, poi, dopo l’azione, nella fase rammemorativa, del tutto inadeguata. Ecco perché molti facevano, agivano e tacevano, con mio grande stupore. Abbassavano la testa e preferivano pensare alla prossima fase lavorativa, al prossimo impegno fattivo. Era un modo per non accettare possibili debolezze? Una maniera per farsi forza al di là di quello che era loro consentito di possedere come coraggio, proprio perché la situazione l’esigeva e non consentiva occasioni nemmeno sfiorate da qualche tentennamento? Può darsi. Il fare è lotta quotidiana, aspra, dura, lotta che richiede un impegno pertinace, senza cedimenti, senza remore, senza rimorsi. Quello che questa lotta costruisce, elemento per elemento, è la condizione essenziale perché l’azione sia resa possibile. Senza questa premessa lavorativa non c’è azione che non sia un suicidio. Negli occhi azzurrognoli e quasi senza espressione di uno dei tanti boia da me conosciuti, nella sua faccia ossuta, nella sua pelle rigata dai solchi inevitabili del mestiere, nei gesti del suo andare al lavoro – come se andasse in fabbrica – o in quelli del suo tornare a casa, in famiglia, non c’era – per restare nell’esempio – traccia dell’informazione ricevuta, per noi unico punto di appoggio, unica e sola garanzia, un polo verso cui dirigere la nostra bussola fattiva. Dovevamo trovare altro, misure, corrispondenze, ripetizioni, distanze, frequenze, tic, e molte altre piccole cose, raccogliere questo universo fattivo e farne una possibilità di accesso per l’azione. Procedendo nel fare, nell’accumulo di questi dati, ci si allontanava dalla valutazione etica, si rimaneva con tutto quello che oggettualmente si era potuto raccogliere e mettere a disposizione dell’ospite inatteso. Nient’altro. E questo a volte non mi bastava.

178. – Per curare il fare, questo fare così esigente e dettagliato nei minimi particolari, bisognava restringere e obbligarsi a vivere in funzione delle sue scansioni, escludendosi dalla vita vera e propria che gli altri conducevano, amicizie, amori, semplici simpatie, un banale dialogo con qualcuno incontrato per strada, tagliare ogni curiosità che non rientrava nel modello prefissato da controllare e ricostruire di sana pianta ogni volta, come se nulla fosse stato fatto prima, perché nulla può essere ripetutamente applicato alla cieca. Bisognava partire ogni volta da zero, garantendosi così un’esistenza appartata, schiva, che spesso gli sconosciuti consideravano sdegnosa o paurosa di contatti personali. Insomma, il fare di cui ci occupavamo aveva in sé la serietà dei preparatori di cadaveri e la follia degli attori, conteneva cioè uno straordinario miscuglio di serietà e di ridicolaggine, di pedissequa e ortodossa aderenza allo schema modellistico collaudato e di invenzione da realizzare su due piedi di fronte a una evenienza non prevista. Un commercio di ripetizioni e di piccole vanità, di somme da fare corrispondere in termini numerici e di fatue soddisfazioni per bilanciamenti che tornavano esatti con sincera sorpresa a volte, con una sorta di accostumanza modesta e dolente altre volte. E il perpetuo struggimento di approfondire meglio? Appiattito dalle stesse lodi per i risultati raggiunti? Chi poteva vedere chiaro in queste contraddizioni? Spesso, un’occhiata sospettosa, un gesto di spavento, un segno che qualcosa aveva rotto il ritmo dell’intervento e l’insieme del lavoro correva il rischio di diventare più pericoloso o di fallire in pieno il proprio obiettivo. Ciò mi forniva una sorta di diversivo desiderato, almeno bene accolto. La necessità di provvedere a una duplicazione dei controlli, a una diversificazione delle corrispondenze, oppure di sospendere un certo modello d’intervento preparatorio per cercarne uno nuovo, portava aria diversa. Uno sconvolgimento e nuove sollecitazioni producevano allora una inquadratura altra dell’obiettivo, e non era raro il caso che ciò conducesse a un ulteriore approfondimento della stessa informazione di partenza. Certo, a volte, questo sconvolgimento era del tutto basato su impressioni false e su presupposti solo immaginati, ma non importava, era comunque una ventata nuova. La diversa figura che si veniva così consolidando, anche se a causa di sovrapposizioni irreali, assumeva di per sé una corposità più consistente, produceva un impegno fattivo degno di maggiore considerazione. Il nuovo fantasma costruito prendeva nuove fogge, assumeva persino contorni più chiari di responsabilità, richiedeva, almeno per me, un minore arrovellamento. Mi risultava più semplice e più profondamente conosciuto, mi diventava più familiare, mentre era solamente lo stesso boia di prima visto da un’angolazione diversa. Ma chi può dire in questi processi qual è l’angolazione giusta? Ogni volta un intero lavoro poteva essere buttavo via per un semplice gesto mal compreso, per un casuale incontro con uno sconosciuto, per un segnale o un cenno del capo. Questi fili, così esili, legavano insieme un enorme lavoro applicativo ad un progetto che sarebbe stato altrimenti irrealizzabile. Bisognava quindi fare attenzione a non vedere le madonne a ogni angolo di strada, a ogni persona affacciata a una finestra, a ogni macchina in sosta sul bordo della strada che il personaggio di regola percorreva per andare e per tornare dal proprio aureo lavoro. Con tutti i suoi limiti, alcuni dei quali riguardavano solo le mie perplessità personali di liberatore disilluso, mentre altri erano condivisi da tutti i compagni del gruppo, era grazie a questo percorso accidentato del fare che si arrivava all’azione, non esisteva un altro itinerario che non fosse, di per sé, banalmente suicida. E questo vivere una penosa ambivalenza – per altro spesso nemmeno rilevata dagli altri – scompariva nel momento dell’azione. Qui, l’oltrepassamento era vissuto in pieno da tutti i partecipanti. L’esito complessivo del progetto realizzato nel corso del fare quotidiano, diventava nell’azione un istante di contatto con la qualità, una esperienza diversa, una coscienza diversa, un consolidarsi puntuale e ogni volta inatteso dell’essere che è e non può non essere libero nell’agire. L’ospite inatteso non aveva nulla a che fare nel lungo lavoro fattivo precedente, come ha poco a che con la presente rammemorazione.


179. – Una cosa sembrava accomunare tutti questi personaggi che si succedevano sotto il microscopio del nostro modello di predisposizione attiva, essi sembravano sperduti nella vita stessa che conducevano, esclusi da una fruizione comune, sia pure la labile fruizione a cui tutti si accostumavano. Più essi cercavano di adeguarsi alla media del comportamento comune, abito, modo di camminare, tranquillità nella scelta o nella variazione dei percorsi, frequentazione di luoghi pubblici, e più sembravano acquisire un tono particolare, una specie di sottolineatura, come se fossero ectoplasmi e quindi apparizioni prive di radici. Erano quasi sempre soli, non avevano figli da accompagnare a scuola o da riportare a casa, né mogli da condurre da qualche parte. I loro incontri, e ce n’erano tanti, erano sistematicamente con altri individui della medesima specie, riscontrabili subito non appena si accostavano a loro per una certa attenzione, o meglio circospezione, nel valutare i dettagli di ciò che era a portata di mano. Anche l’età aveva qualcosa di standardizzato, non erano né giovanissimi né vecchi, attorno ai trenta o quarant’anni, vestivano quasi tutti con una correttezza povera ma austera, più o meno come i beccamorti, ed era così che potevano facilmente cogliersi relazioni che altrimenti sarebbero sfuggite a un controllo non proprio sofisticato come era il nostro, abbastanza artigianale seppure accurato, tenendo conto dei mezzi disponibili all’epoca. Erano questi stessi personaggi a imporsi un riserbo senza sbavature, un’autovigilanza arcigna e inappuntabile in modo da fare credere a tutti di essere proprio quello che non erano. Il risultato, almeno per il nostro occhio esercitato, era esattamente l’opposto. Nel caso in cui, per motivi che quasi sempre restavano ignoti, erano costretti a cambiare itinerario o locali frequentati, manifestavano un impaccio e un disagio evidentissimi, come se fossero avviliti di non riuscire a integrarsi nella gran massa della gente che non provava fastidio alcuno ad andarsene in giro senza una meta. Li si vedeva così avviliti, irritati che quasi ci si metteva in allarme pensando che potevano avere scoperto qualcosa sul nostro lavoro di controllo e di verifica, cosa che non accadeva quasi mai. Da parte mia non era facile distogliere l’attenzione da un controllo previsto e sostituirlo con un altro. Non ero – e non sono – portato a vedere dappertutto pericoli incombenti, ma dovevo in quelle occasioni pensare in molteplici modi, presupporre ciò che il vuoto e la solitudine del personaggio nemmeno faceva supporre possibile. Alla fine, dopo molte duplicazioni di controllo, in due casi del genere, si decise di non registrare con la dovuta attenzione queste variazioni, considerandole in blocco come casuali. Questa decisione, come tutte quelle che vengono prese una volta per tutte, causò due fallimenti che solo per fortuna non distrussero radicalmente il nostro gruppo. L’ospite inatteso era invece atteso e non poté portare a completamento il suo lavoro. Ne venne fuori uno scontro da cui uscimmo quasi indenni in un caso e con tre feriti gravi in un secondo caso.


180. – Il vecchio ponte di legno che univa due piccoli promontori che dalla periferia del paese si stendevano sul mare era, di solito, occupato da un paio di pescatori dilettanti. Dopo il ponte c’era una piccola scala rudimentale, ormai in rovina, da dove si poteva arrivare dietro la casa di uno di questi boia di cui discuto qui. Il suo percorso era quello diretto, quindi proveniva dal centro del paese e arrivava alla casa posta quasi sui promontori, non lontana dal ponte. Il punto di osservazione era sulla scala. C’erano state delle dissonanze. Una volta il personaggio era tranquillamente sceso fino al ponte e si era messo a parlare con un pescatore. Non l’aveva mai fatto. Ma il pescatore non destava alcun sospetto, era proprio il tipo classico di pescatore della domenica, paziente e lento nei movimenti, mai a guardarsi attorno, sempre con gli occhi fissi sul galleggiante. Al momento dell’azione i pescatori erano due e si rivelarono agenti di polizia. I nostri movimenti erano stati scoperti, o comunque qualcosa di strano era stato rilevato. Tutta la nostra capacità di copertura si rese necessaria per tornare indietro senza danni. L’ospite non era più inatteso.


181. – L’incontro con l’ospite inatteso è abbagliante, non nell’azione, che qui nemmeno lo si scorge nelle sue sembianze banali e ripetitive, ma dopo, quando l’incontro con la qualità cede il passo al fare necessario, a sua volta catalogato e previsto nei minimi particolari. Di fronte alla stroncatura radicale di una vita c’è sempre una qualche incertezza, come un’angosciosa insostenibile sospensione che nell’azione non può esserci, anzi è azzerata dalla esperienza diversa della qualità. C’è in questo raggomitolarsi su se stesso di un mucchio di stracci, di quello che prima era vitale, una irreparabile compromissione. L’ospite inatteso taglia alla radice, non consente di tornare indietro. Quando ciò non accade, come nel caso dello scontro armato con tre nostri compagni feriti, lui non ha potuto esercitare i suoi servizi, quindi è stato come assente, avulso improvvisamente dal contesto. Era una vita quella di un boia? Sì che lo era. Che non fossi personalmente in grado di accettarla come tale riguardava solo me, che pensandomi al suo posto avrei avuto tanta vergogna da togliermela da me stesso quella vita insozzata. Ma essa, di per sé, sangue e nervi e carne, era pur sempre vita. In che relazione si poneva questa vita, colta al volo nel suo slancio presuntuoso e dilagante, stroncata a mezz’aria, con le colpe che l’affliggevano e di cui si era pure macchiata per come le informazioni in nostro possesso provavano e delle quali dovevamo pure fidarci? Su di essa quelle colpe esercitavano una violenza deformante, producendo un mostro che si accostumava nel proprio lavoro, finendo per considerarlo sotto l’occhio benevolo e superficiale delle cose che vanno fatte perché questi sono gli ordini dei superiori. Ma come si sposava quella mostruosità con la vita che la rendeva possibile? Doveva esserci un mistero. Come era possibile che un uomo arrivasse a torturare a freddo? Si poteva pensare a uccidere nel corso di uno scontro, nella foga di una lotta, in un’azione, ma a freddo come si poteva esercitare un lavoro simile a quello del macellaio sul corpo di un altro essere umano? Ciò poteva accadere solo rendendo ottusa e stupida quella vita, rendendola qualcosa di vitale solo in modo apparente. Lo stesso per gli informatori che solo in superficie pareva facessero un lavoro, diciamo, più leggero. In fondo il risultato era sempre lo stesso, sempre nella stanza dei torturatori finivano i loro indiziati. Quindi quella violenza abbassava quella vita, la rendeva indegna di essere vissuta. Ma dovrebbe estinguersi da sé, distrutta dall’interno dal profondo ribrezzo di se stessa, se la vita avesse coscienza di sé, ma non l’ha, è solo slancio animale a questo punto, lo stesso che tutti ci accomuna affratellandoci. Stroncare questo slancio aveva qualcosa a che fare con quelle responsabilità? Non ne ero tanto convinto. Pesava su di me come una condanna questo dilemma stentato e rigido, eppure capace di covare in se stesso tanti problemi da mettere in serio imbarazzo il mio fare e le riflessioni rammemoranti il mio agire. Mi impigliavo in simili ambivalenze, seppure non fino alla irresoluzione. A un certo punto, facendomi forza in modo sempre più violento, mi obbligavo a mettere da parte i miei problemi. Non era certo possibile prelevare il mostro e strappargli le unghie perché non potesse più fare il male che per lui era semplice lavoro quotidiano. Non si poteva certo parlare con lui convincendolo della sua vita indegna, quando era lui a considerarla una vita come un’altra, con un lavoro forse un poco più pesante di un altro, ma non troppo. Bisognava stroncare ogni indugio. Arrivare subito alla radice, non si poteva cincischiare mettendo in pericolo le nostre vite. Era anche una sorta di debito di lealtà non solo verso i compagni del nostro gruppo ma verso tutto un popolo oppresso. Come non vedere con chiarezza dove finivano in fumo i miei filosofemi? Era certamente così. Ma io non vedevo con chiarezza, al termine dell’azione, che una marionetta disarticolata, un mucchio di stracci, una massa informe priva di vita dalla quale bisognava allontanarsi il più presto possibile. La libertà aveva avuto la sua compartecipazione con la nostra coscienza diversa nell’azione, il momento bruciante era stato vissuto, l’ospite inatteso aveva fatto il suo lavoro, i miei dubbi risuonavano nel vuoto.


182. – Qualcosa di grave doveva essere accaduto, un sospetto nei confronti nostri, una disattenzione nel lavoro – di regola meticoloso – evidentemente era stata commessa. Una superficialità. Si era retto bene lo scontro e i due feriti non erano gravi, ma tutto il lavoro in quel posto era andato a monte. Almeno due obiettivi dovevano essere abbandonati, e con questo due mostri lasciati liberi di continuare il loro pregiato lavoro. Giusto il giorno prima dell’azione c’era stato un cambiamento di itinerario, cominciato con un ritardo al primo posto di controllo, si era poi materializzato in due passaggi saltati e in un accompagnamento a casa, apparentemente casuale, da parte di un collega. Nostra superficialità? Forse. In effetti, il lavoro preparatorio, diventando ripetizione e routine si fossilizza e quindi prende le forme dell’abitudine, dove alligna la mala erba della disattenzione. Eppure quelle modificazioni che avevamo avuto sotto gli occhi avrebbero dovuto risultare evidenti, ma non lo furono. Perché? Alla lunga si rimane sbigottiti di quanto sia facile autoingannarsi, di come si sia disponibili a chiudere gli occhi davanti all’evidenza se questa minaccia di revocare in dubbio il modello d’intervento collaudato e considerato come perfettamente efficiente. Eppure la critica successiva, a mio giudizio, anche se abbastanza estesa all’interno del gruppo – subito rientrato nella capitale – non fu adeguata. Tutto, o quasi, venne attribuito al caso e a qualche non attenta esecuzione del modello di controllo. Sarebbe stato il momento per revocare in dubbio, non dico in modo assoluto ma anche parzialmente, l’intero intervento nel suo procedere ormai ripetitivo, ma non fu così. Dopo qualche giorno una nuova informazione ci mise in moto proprio nella capitale. Il meccanismo ripartì senza problemi, come se nulla fosse accaduto. I compagni feriti vennero sostituiti da altri compagni ai quali vennero spiegate fino alla nausea le procedure e tutto si concluse in questo modo. La mia onestà scontrosa non riusciva a farmi decidere per un attacco frontale del problema, cioè per un modo chiaro di mettere le cose sul tappeto, le mie preoccupazioni e i miei dubbi. Così giravo attorno alla candela come una falena. Una vita nell’ombra non ha molti momenti conviviali in cui si possa parlare liberamente, questi sono sempre riservati allo studio delle cose da fare e alla verifica o alla duplicazione delle cose già fatte. Il meccanismo è così rigido da assorbire quasi tutte le energie disponibili, almeno mi sembrava in questo modo, per cui a volte restavo in me stesso, chiuso, scontroso, tentando in ogni modo di acconciarmi alle cose da fare e cercando, nello stesso tempo, di non perdere lo slancio verso la libertà che sentivo battermi in petto. E le cose da fare? Scuro, taciturno, non mi tiravo certo indietro. Fare, ecco il punto, fare quanto necessario. Alla fine del fare, l’agire. Dopo il rammemorare. Continuo a farlo ancora, in questo carcere greco, dopo tanto tempo, e l’ospite inatteso, seduto la notte ai piedi del mio letto, non mi assedia certo di domande. Lui non ha mai fatto domande, ha formulato solo risposte, una sola risposta, sempre la stessa, una risposta radicale. E forse, perché no?, ha avuto sempre ragione lui. Ogni risposta sua, in effetti, e qui sta il mio ingenuo errore, è al di là del giusto e dell’ingiusto, in ciò consiste la sua radicalità fiera e imperturbabile. Non si può discutere con lui, bisognerebbe farlo a priori, all’interno della scelta dell’obiettivo. Ma fermatevi un attimo a riflettere. Che cosa è un obiettivo nell’accezione qui usata? È una persona che ha delle responsabilità particolarmente odiose. Un torturatore, esempio classico, che sembra alleggerire il problema e non lo alleggerisce affatto. Ma quando un torturatore diventa un torturatore? Dopo una tortura, dopo dieci, dopo cento o mille? Chi lo sa? Giusto dire che basta uno schiaffo o una bruciatura di sigaretta in una qualche cella sotterranea della polizia per potersi parlare di tortura? Giusto. Ma allora l’elenco coinvolgerebbe più della metà dei poliziotti non solo di questo paese sotto il fascismo ma di ogni altro paese, anche quelli cosiddetti democratici. Per forza bisogna possedere un modello di scelta più attento e appropriato. Ed è proprio questo livello che il nostro lavoro non riusciva ad attingere. Questa parte decisionale spettava ad altri. Da qui tanti dei miei dubbi. Validi? Non lo so.


183. – Tutto era silenzio sotto la luna. In questo chiassoso paese il silenzio quando cade è come se fosse accaduta una disgrazia, come se tutti fossero rimasti attoniti a guardare fisso davanti a sé. Era notte inoltrata e il personaggio non era ancora rientrato a casa. Faceva evidentemente straordinari. In questi momenti, spesso, momenti non eccezionali di attesa e di esercizio acuto della pazienza, cercavo di non pensare alle mie personali riflessioni. Con una tecnica che avevo appreso come giocatore di pocker professionista, mi fissavo su di un solo particolare e lo studiavo in tutti i suoi aspetti, anche minimi. La fresca notte di maggio favoriva questo esercizio, ma non potevo perdermi nella contemplazione della notte stessa, come meraviglia in sé compiuta, dovevo dimenticare il bianco chiarore lunare, fissarmi su di una porta della strada, una semplice porta a due battenti, come ce ne sono a milioni dalle mie parti. Non era la porta della casa del personaggio ma un’altra porta, distante una decina di metri, posta sullo stesso lato della strada. La notte e il suo silenzio non c’erano più, ora c’era soltanto la porta, verde, di legno scrostato e invecchiato, una qualsiasi porta di una qualsiasi casa terrana di un qualsiasi paesino greco dell’Attica. Improvvisamente, dietro un cancelletto, l’abbaiare di un cane avvertiva che qualcuno stava avvicinandosi all’angolo della strada. Pochi secondi di tensione. Il nostro uomo apparve tranquillo con il suo solito passo leggermente claudicante. Avvertii l’estrema stanchezza che la tensione accumulata per giorni trasmetteva al mio corpo, gravava sulle mie membra, si fermava come una nebbia nel mio cervello. Sentivo adesso, man mano che l’uomo ci veniva incontro, il fruscio delle foglie di un albero che doveva trovarsi dietro il cancelletto dove il cane continuava ad abbaiare. L’ospite inatteso entrò subito in azione, il personaggio non aveva scampo, non si avvide nemmeno di ciò che, impietosamente come la nemesi, gli veniva incontro spingendo un carretto a mano, di quelli che si usano per il trasporto delle verdure. Sotto un telo c’era il mio amico K.


184. – Nell’alba senza colore il vento soffiava corruccioso, come se volesse punirci del disturbo arrecatogli lasciandoci alle spalle un piccolo mucchio di stracci. L’ospite inatteso aveva ancora una volta svolto il suo lavoro. Era l’ultima azione a cui partecipavo. Durante il suo svolgersi fuori del tempo l’eterna certezza della qualità mi aveva colpito come tutte le altre volte, un breve colpo di frusta sulla pelle, una incisione sanguinosa, irreparabile. Adesso, andando via verso l’automobile che ci avrebbe portato lontano, nella grande città, in salvo, la pioggia e il vento insistevano a battere con violenza ostinata su tutto l’universo e su quel miserando pugno di stracci che ci eravamo lasciati dietro. I resti miserevoli di un uomo miserevolmente vissuto. Questo era il giudizio positivo che con ogni forza cercavo di inchiodare sul mio cuore. Davanti, nello scorrere veloce della strada, un vuoto senza tempo, senza accadimenti, solo lo sbatacchiare dei fari a dritta e a manca. Le siepi di rovi secchi si alternavano a muriccioli a secco, tirati su alla meno peggio. Andavo via. Ogni tanto un piccolo tabernacolo con un lumicino dentro, proprio sull’orlo della strada. Segni di una fede anch’essa fatta di minutaglie e di paccottiglie. Ma non avevo anche io lavorato con minutaglie non dissimili, con particolari altrettanto trascurabili e risibili? Non avevo con materiali miseramente fattivi costruito una trappola dentro cui fare cadere un mostro per strappargli le unghie? Adesso mi sentivo come un uccello bagnato che andava via sperduto con un timido volo. Tutti tacevano nell’auto che correva macinando chilometri. Tutti avrebbero dovuto essere contenti del lavoro di tanti giorni felicemente concluso, ma non mi sembrava tangibile questa contentezza, forse non c’era. L’opera radicale dell’ospite inatteso porta con sé sempre una serie di riflessioni sulla vita che non sono piacevoli per nessuno. Rompere questo silenzio sarebbe stato come sghignazzare su quel misero mucchio di stracci che ci eravamo lasciati alle spalle. Una vigliaccata. Ognuno, e mai come quella sera ne fui certo, portava in cuor suo una pesantezza non facile da sopportare, quella di vivere.


185. – Terra d’occupazione. Un esercito d’occupazione, particolarmente ottuso, come vi riesce solo l’esercito britannico per la sua secolare pratica di colonizzazione camuffata da attività commerciale. L’Irlanda del Nord, in particolare Belfast, era una terra avvolta nel filo spinato. Ogni strada della città era bloccata e si poteva entrare a piedi solo attraverso una porta ruotante posta nel centro della carreggiata e dopo una accurata perquisizione. L’IRA non aveva la forza di affrontare una insurrezione armata né tanto meno l’aveva l’INLA, il gruppo di cui facevano parte alcuni anarchici. Anche qui il compito nostro era di dare lustro alla libertà, facendo vedere come fosse possibile attaccare il nemico occupante e le basi dei suoi sostenitori, la minoranza privilegiata protestante. Tutt’altro che una guerra di religione. Era una lotta di classe ben visibile, essendo la classe dominante esclusivamente costituita dalle famiglie protestanti che si tramandavano la gestione del potere con la tutela dell’esercito di occupazione britannico. La cattedrale di Belfast aveva sul lato destro e dietro le spalle un prato dove si trovavano centinaia di piccole croci bianche ognuna con il nome di un membro dell’IRA o di altre organizzazioni di resistenza ucciso dagli Oranges (cioè, quasi sempre dall’UDA) o dagli occupanti britannici. La sede della resistenza, il partito vero e proprio, si trovava a Dublino, il materiale – in particolare l’esplosivo – passava a camion interi dalle tante piccole strade di campagna che collegavano le due Irlande, strade che non potevano essere costantemente mantenute sotto controllo. Ogni stazione di polizia, ogni pub, ogni luogo pubblico, ogni albergo, ogni cinema, insomma quasi tutto quello che poteva ricordare una vita normale di una qualunque città non in stato d’assedio, era circondato da barili vuoti di petrolio riempiti di cemento solidificato. Le strade vicine avevano tutte dei dissuasori di velocità. Questo più o meno il quadro della situazione in cui si trovò ad operare per quasi tre mesi il nostro gruppo. Le informazioni venivano direttamente da Dublino e riguardavano, prima di tutto, i traditori, poi gli infiltrati e gli informatori, poi i picchiatori agenti all’interno dell’esercito e della polizia locale. Quest’ordine aveva una sua logica fondata sulla pericolosità. Il punto più dolente erano i traditori, coloro che sotto tortura avevano denunciato militanti e famiglie di militanti. I britannici radevano al suolo le case di questi poveretti e imprigionavano tutti, i bambini piccoli venivano affidati a famiglie protestanti, se appena un po’ più grandi portati in Gran Bretagna e messi in orfanotrofi inglesi o scozzesi. I peggiori erano questi ultimi, tutti nelle vicinanze di Stirling. Nei paesi si viveva ancora. La grande città era morta. Il centro del turismo distribuiva camere in alberghi di lusso al prezzo simbolico di una sterlina, ma non c’erano richieste. Quasi sempre questi traditori cercavano di infiltrarsi, cioè di ritornare nei gruppi di appartenenza, e non era facile scovarli. In fondo era la loro unica possibilità di sopravvivenza. Andare fuori allo scoperto, cioè cominciare a disinteressarsi di tutto dopo una visita alla centrale di polizia o a una delle tante caserme dell’esercito, equivaleva ad autodenunciarsi. Ma queste infiltrazioni si scoprivano quasi tutte dopo un certo tempo a causa delle disgrazie che colpivano i compagni conosciuti da questi traditori. Le pattuglie britanniche arrivavano nelle case in pieno assetto di guerra e distruggevano tutto, utilizzando alla fine i bulldozer per radere al suolo le case, per altro faccenda abbastanza semplice trattandosi di case popolari quasi sempre a schiera e fabbricate con fondamenta in legno e materiale simile a cartone. Risalire al traditore non era quindi difficile e, da un altro punto di vista, era semplice controllare l’indicazione di massima, proveniente da Dublino. Ciò riduceva ma non azzerava le mie annose perplessità. Il più delle volte questi individui erano esseri di già distrutti, macilenti, ingialliti dalla paura, quasi febbricitanti. Andavano incontro alla loro sorte con una specie di rassegnazione. Più che altro era il loro tentativo – quasi sempre inutile – di riciclarsi per continuare a fare del male, che li collocava in un’ottica particolarmente odiosa. Possedevano un nuovo domicilio, ammobiliato in maniera standard dai nuovi datori di lavoro, in tanti casi non c’era nulla in questi luoghi squallidi, collocati in quartieri periferici in palazzi a più piani di abitazione popolare, nulla che ricordasse la personalità di chi vi abitava. Era evidente che questa gente era morta ancora prima della visita dell’ospite inatteso. Continuava a muoversi per inerzia ma senza speranza. Un triste destino.


186. – La tipologia di questi traditori non era mai interessante, poveri disgraziati immischiati in questioni più grandi di loro, laidi per la mancanza di fermezza davanti al pericolo, alla tortura. Ma quanti di noi saprebbero rispondere coerentemente con i propri princìpi davanti al dolore estremo, le membra slogate, i genitali tagliuzzati, gli occhi bruciati? Quanti? Non molti. La loro sfortuna era di essere caduti nel ricatto. Di essersi messi al servizio dei torturatori, di non avere avuto il coraggio preventivo di spaccarsi la testa nel muro. Salvarsi in qualsiasi modo, in questi casi, è quasi sempre cedere alle prime avvisaglie della tortura, rendendo gli altri edotti di una disponibilità subito messa a profitto. Nessuno di quelli che hanno saputo affrontare una tortura vera e propria poteva essere ritenuto a priori in grado di vestire i panni laidi del traditore. Questa gente sa quali persone manipolare, quali sono morbide e quali no. Non perdono tempo con i più resistenti. Dopo un po’ desistono e si rivolgono ad altri. Quello che fa schifo nel traditore è pertanto la sua debolezza di fondo e la sua messa a servizio. La possibilità poi di mettere subito in relazione i guai causati con la causa di questi guai, rende la ricerca molto circoscritta. Anche volendo utilizzare il personaggio in altri luoghi, le informazioni del movimento erano bene organizzate e lo individuavano quasi subito. Non mi risultano tentativi di modificazione chirurgica facciale. Gli stessi utilizzatori di questi disgraziati non ne tenevano evidentemente gran conto. Si limitavano a fornirli di una identità diversa, tutto qui. Ne ho visto uno bagnato, intirizzito, non aprire l’ombrello, come se non gli importasse più di niente. Un segno piccolo, se si vuole, ma indicativo, come di chi non dà più importanza alle cose quotidiane della vita. L’animo avvilito e immiserito di questi residui di una illusione non li forniva di alcuna energia, né i loro committenti provvedevano a proteggerli in qualche modo. Per loro erano limoni spremuti di cui forse era possibile trarre qualche ultima goccia di succo, nulla di più. Questo personaggio di cui ho detto sopra, tutto bagnato, aveva una faccia da bambolone e gli occhi spiritati da matto, faceva pietà ed era cosciente del destino che l’attendeva.


187. – Seguivo da un pezzo uno di questi individui, dietro di me la duplicazione del controllo faceva il suo lavoro. Camminavamo in silenzio senza un apparente obiettivo, tranne quello di evitare le strade del centro, tutte sotto controllo con il filo spinato. Sapeva dove stava andando? Aveva qualcosa da fare? Oppure camminava solo aspettando il suo destino? Non era facile capirlo. Potevano essere tutte e tre le cose. Gli avevano suggerito un campo d’azione? Oppure avevano semplicemente detto di tornare a frequentare gli stessi ambienti di una volta? Chi poteva saperlo? Vista la scarsa considerazione in cui questi disgraziati erano tenuti, tutto era possibile. In effetti era uscito da un misero albergo di periferia, dove aveva preso dimora da un paio di giorni. Quelle poche volte che sollevava lo sguardo sembrava guardarsi attorno spaesato e incerto. Aveva preso la direzione per uscire dalla città e camminava lentamente appoggiandosi a un ombrello attentamente chiuso. Avrei potuto fermarlo e chiedergli perché? Perché questo orrore? Ma non potevo. Perché sarebbe stato inutile in quanto non sapeva neanche lui il perché e poi potevano esserci delle duplicazioni a controllare se qualcuno lo accostasse. Insomma, era un’idea assurda. A un certo punto cominciò ad accelerare il passo e a voltarsi più frequentemente indietro. Alla fine entrò in un pub, un posto qualsiasi non uno frequentato dai cattolici. Doveva comunque essere un posto particolare perché era difeso dai soliti blocchi cementati, più radi in periferia. Che cosa stava pensando della propria vita? Come se la immaginava? Pensava a un futuro fuori da quell’universo di guai in cui si era cacciato? Era meschino e avvilito oppure non si rendeva nemmeno conto di stare scivolando a poco a poco verso la propria fine? Uscito dal pub riprese la strada verso est, cioè verso l’uscita più vicina della città. Poi improvvisamente entrò in una chiesa. Era una piccola chiesa cattolica francescana. Vi rimase qualche minuto. Pensammo subito che voleva defilarsi uscendo da qualche porta secondaria perché ci aveva individuato. Non lo so. Non credo. Uscì dalla stessa porta centrale da cui era entrato. Tornò a voltarsi indietro e ci guardammo, non poté rendersi conto di quello che stava per accadere. Incassò la testa nelle spalle e riprese a camminare. L’ospite inatteso l’aspettava all’angolo della strada a qualche centinaio di metri dalla chiesa.


188. – Occorre una certa considerazione per attaccare, occorre rendersi conto che chi viene attaccato merita l’attacco, vuole continuare a fare male agli altri, vuole difendersi perché ha una visione sia pure spregevole del futuro. Ma non è così con questi traditori. Sono larve umane, fango, melma dove non si può riscontrare un qualsiasi segno di vitalità. Occorre vestire di motivazioni bene articolate le proprie azioni per colpire gente come questa che non ha più niente a cui aggrapparsi, fantasmi svuotati da individui ancora più spregevoli di loro. La verità nuda è triste. Hanno fatto del male, tanto male, ora sono dei disgraziati che quasi si augurano di finire presto la loro vita in un modo o nell’altro. Fuggire. Altrove. Me lo sono chiesto, ma tranne il caso di cambio di identità, per altro non comune, la maggior parte è quasi senza un soldo in tasca. Su di loro, difatti, oltre ai documenti non è stato trovato mai niente o quasi. L’azione conclusiva aveva in questi casi una qualità così debole da non fare neanche avvertire la differenza col fare. Sembrava una semplice continuazione del lavoro preparatorio, non un salto di qualità. L’ospite inatteso era quasi fuori luogo, eccessivo con la sua costante radicalità priva di sfumature, sempre uguale a se stessa. Una ingiustizia? No. Questo no. Una vendetta? Forse, ma non ne sarei tanto sicuro. Carogne? Certamente. Ma ha un senso dare la caccia alle carogne? Me lo sono chiesto a lungo. Anche qui, pure in un contesto molto diverso da quello greco. I motivi delle mie perplessità erano legati a una sorta di livellamento che realizzavamo in collaborazione con i nostri veri nemici, i veri responsabili di quello scempio. Loro svuotavano una persona come un sacco e facevano un’oscura pressione sulle sue debolezze, poi raccoglievano frutti immediati. Non insistevano più se non per la forma, una sorta di gioco al massacro molto spiacevole. Sapevano benissimo la fine che quei disgraziati avrebbero fatto, non gliene importava niente, erano rifiuti umani. E qui si collocava il mio dubbio. Perché annientare quello che loro avevano di già azzerato? Perché questa trista connivenza con i veri responsabili? Certo, anche questi ultimi, molto più raramente, entravano nel mirino delle nostre informazioni di movimento, allora era un altro discorso, più articolato, più difficile, ma più soddisfacente. Eravamo più vicini alla fonte del danno, alla vera fonte, non semplicemente alla seconda battuta, eravamo proprio all’origine. Molti di questi personaggi, di cui avevamo la descrizione, erano specialisti che vivevano sempre in caserme dell’esercito o della polizia, non avevano famiglia e non possedevano una vita normale. Raramente uscivano e mai da soli, almeno in due, e non si allontanavano molto dal loro nido di topi. Di uno in particolare, allogato nella caserma Nord di Belfast, avevamo una descrizione accurata, foto, nome e tutto il resto, perché proveniva da un’altra città, dove si era reso responsabile di una famosa domenica di sangue, insieme ad altri personaggi della sua risma, tutti del primo reggimento paracadutisti britannico. Solo pochi mesi [2010] fa il governo presieduto da Cameron, a conclusione della seconda inchiesta, dopo quasi quarant’anni, ha dichiarato “ingiusto” quello che è stato fatto a Derry. Trasferito a Belfast non faceva eccezione, nessuno lo vedeva in giro, non c’erano riscontri per il nostro lavoro preparatorio. A quanto ci risultava non aveva una famiglia né coltivava interessi culturali o sportivi. Non andava al cinema né al pub. Insomma era un’unica cosa col suo lavoro, un vero soldato. Un repressore a tempo pieno. Un lavoro da schiavi per rendere schiavi altri uomini o ucciderli. Improvvisamente venne avvistato una sera, nei pressi della caserma Nord, da solo. Il caso si collocava con le attenzioni continue che rivolgevamo a questa caserma, luogo conosciuto di torture. Cominciammo il nostro lungo ed estenuante lavoro di controllo, doppiato e triplicato. Dopo venti giorni non avevamo concluso nulla. Non potevamo nemmeno attrezzarci per un intervento improvviso, troppo pericoloso. Poi ci fu un altro avvistamento, lo vedemmo entrare in una casa alla periferia Nord, non lontana dalla caserma e nemmeno vicina. Le corrispondenze, più volte confermate, dettero risultati accettabili. Quasi ogni settimana si recava in quella casa da solo, incredibilmente sicuro di sé e contro ogni regolamento di copertura che questi specialisti applicavano con grande attenzione. L’ospite inatteso lo aspettò nei pressi della casa e chiuse definitivamente il conto. Per me fu una delle azioni più soddisfacenti.


189. – Una costernazione continua mi guastava la tranquilla rammemorazione che mi sarebbe stata necessaria. Una riflessione finalmente condotta fino in fondo, senza infingimenti o titubanze. Al fondo della realtà pacata e riflessiva ci stava comunque quel mucchio di stracci, quell’improvviso crollare di qualcosa che prima era e poi non era più. Un pupazzo si era sostituito a un essere vivente. Il pupazzo ormai non era che un ricordo di quello che era stata una vita sbagliata, debole o feroce, comunque sbagliata, ma un ricordo per me che non riuscivo a togliermi davanti agli occhi la visione della postura del pupazzo. Ognuno di questi mucchietti di stracci aveva un modo suo di accartocciarsi, alcuni fermi sul colpo, altri stirandosi come stessero per svegliarsi a nuova vita, pochi movimenti, occhi sbarrati, sospiri profondi o smozzicati. Che c’entrava tutta questa pantomima di muscoli e di nervi, di sangue e di carne, con la vita, sola responsabile di quello che in essa c’era di infame e di sbagliato? Erano due cose nettamente separate. Gli splendori spavaldi e le angosce paurose della prima non erano altro che posture da spaventapasseri nella seconda fase. Nel mezzo l’azione si era realizzata, un attimo estremo, vivo questo, capace di farmi cogliere senza intercapedini di sicurezza la qualità. Ma non potevo legarmi a essa, se non volevo andare oltre il punto di non ritorno, sperdere al vento della noncuranza le mie responsabilità di fronte ai miei compagni e al comune progetto che ci eravamo impegnati a portare avanti. Ecco, nell’alveolo dell’azione sarei stato perfettamente pieno, della pienezza della qualità, sarei stato finalmente me stesso, senza tasselli interni da nascondere come vergogna, libero finalmente come avrei voluto che tutti fossero, vero finalmente di quella verità che non è semplice rispecchiamento ma essere che è, giusto, bello, insomma, sarei stato io la mia azione come gli altri sarebbero stati la loro, ognuno vivendola a modo suo perché differenti erano i percorsi individuali dell’oltrepassamento. Ma ciò non era possibile. Conclusa l’azione, solo un mucchio di stracci o di macerie, un andare via lasciandosi alle spalle l’opera dell’ospite inatteso, puntuale e precisa come al solito. Poi la fatica della rammemorazione, come lisciare contropelo un gatto. La notte mi svegliavo e rinchiudevo in me stesso l’esperienza appena vissuta obbligandola a discorrere con me, o meglio con il mio tentativo di rammemorazione. Un bagno diaccio, un confronto pauroso. Indossare una maschera dovevo, quella dell’impassibilità di fronte all’evidenza di una frattura che dentro di me si andava facendo sempre più ampia, di fronte a domande sempre più incalzanti. Perché? Mi sentivo impregnato di un tanfo di obitorio, di foglie appassite, di umida terra smossa da poco, di interramenti freschi non ancora consolidati. Una solenne pazzia. Non vedevo la miseria che mi era stata davanti? Non avevo per giorni controllato i suoi movimenti agghindati da persona come tutte le altre? Non avevo desiderato che il risultato del mio stesso lavoro e di quello dei miei compagni andasse a buon porto? E quale poteva mai essere questo buon porto se non il mucchio di stracci, il cumulo di macerie? Quale altra conclusione possibile? Se mi fosse stata data la scelta di evitare la fine così presagita, desiderata e scontata, avrei forse fatto in modo di pervenire a una diversa conclusione? Avrei bloccato l’arrivo dell’ospite inatteso? No, no di certo. Anche adesso, alla fine della mia vita, quando di notte mi sveglio nella mia cella di questo carcere greco e trovo seduto immobile e silenzioso ai piedi del letto l’ospite inatteso, non ho nessuna risposta diversa, neanche un muscolo del suo scarno volto impassibile si muove. Gli parlo delle mie antiche ubbie, non si muove, non accenna a darmi sulla voce, non risponde. Aspetta. So io benissimo che cosa aspetta. So che non si stizzisce mai, che non conosce la fretta e che è la pazienza personificata. Aspetta me. Non che io possa, ancora una volta, partire insieme a lui per l’ennesima azione, non questo, non è così assurdo, è molto razionale e implacabile nel valutare le mie attuali condizioni fisiche molto precarie. E me che aspetta. Non si accontenta delle mie chiacchiere, so bene che non ha mai amato le chiacchiere. Semplicemente aspetta.


190. – Le opportune disposizioni dei britannici non comprendevano quasi per niente l’impiego di informatori nel senso classico della parola. I traditori non potevano veramente dirsi tali, non apportavano informazioni, ma venivano semplicemente buttati via. Qualche raro esemplare era comunque presente, specialmente nei paesi e nei centri più grossi, dove non esistevano gli apparati di blocco e le barricate di Belfast ma solo i dissuasori di velocità e i barili di petrolio pieni di cemento. Qui, nei pub cattolici, dopo attenta e lunga osservazione, si potevano individuare gli informatori. Pochi e difficili da cogliere al lavoro. Del tutto inesistenti i provocatori da bettola o i confusionari sobillatori, stridevano troppo con la tristezza generalizzata, col clima cupo e irrespirabile dell’occupazione, una delle peggiori che io abbia mai visto. Tornando agli informatori, il nostro gruppo, nello spazio di quattro mesi, ebbe due segnalazioni, ambedue in cittadine abbastanza lontane tra loro. Apparentemente la tecnica impiegata da questi due personaggi era la stessa. Sedevano nei pub, in ore diverse della giornata, e ascoltavano isolati senza mai intervenire in nessuna discussione. Non sollecitavano nessuno a esprimersi, servivano solo da cassa di risonanza. Mi ricordo che il primo che individuammo, sempre su indicazione del partito con sede a Dublino, sembrava dormire davanti al proprio bicchiere di birra scura. Non alzava nemmeno gli occhi da terra. Non incontrava nessuno, non leggeva giornali né sembrava preoccupato. Una figura di operaio irlandese, con tanto di coppola d’ordinanza, lo sguardo spento, stanco, come se avesse da poco finito il proprio turno di lavoro. Lo aspettavamo seduti a un altro tavolo mentre la duplicazione del controllo attendeva fuori, opportunamente appostata. Il personaggio aveva un cane, un setter bonaccione e anziano, che si sedeva paziente sotto il tavolo ad aspettare che il suo padrone decidesse di spostare altrove il suo posto di osservazione. Quando lo faceva, unica stranezza, entrava in una chiesa e lasciava il cane davanti al portale, questi, abituato, si sdraiava quieto e aspettava il ritorno del padrone che, di solito, restava dentro per pochi minuti. Anche in chiesa, come poté accertare la duplicazione del controllo, non parlava con nessuno, si segnava con l’acqua benedetta e inginocchiato a un banco diceva qualche preghiera. Dovemmo aspettare più di dieci giorni per individuare il suo contatto. Un altro personaggio, per strada, nei pressi di un parco. Si incontrarono e cominciarono a parlare fitto fitto. Quest’ultimo prendeva appunti su di un taccuino, un poliziotto sotto ogni profilo, perfino il cappotto borghese in dotazione ai poliziotti irlandesi, regolarmente protestanti. Restava da decidere su come e dove fare intervenire l’ospite inatteso. Io proposi di intervenire sul poliziotto prima, lasciando il nostro personaggio in balia delle decisione dei suoi capi. Il gruppo però finì per votare l’intervento sull’informatore. In questo modo il poliziotto venne perso di vista. L’azione si concluse subito dopo un ennesimo incontro nei pressi del solito parco. L’ospite inatteso lasciò un mucchietto di stracci vicino ad un’accuratissima aiuola mentre il cane guaiva leggermente accucciato senza neanche essersi preso paura del lieve rumore prodotto dal silenziatore. Allontanandoci in auto intercettammo il poliziotto che aveva raccolto le ultime testimonianze. Andava a passi spediti verso la sede del suo lavoro. Anche il secondo progetto si può considerare, con diverse disposizioni di tempo e di luogo, una duplicazione del primo. Questa gente era proprio fabbricata in serie. Anche stavolta non ci fu nemmeno bisogno di individuare la casa. Dai pub frequentati si arrivò dopo pochi giorni allo scambio di informazioni con un altro poliziotto nei pressi e poi dentro una stazione di autobus. Il nuovo personaggio era tetro e monotono come il primo, aveva un cane e non frequentava chiese. Non so se fosse o meno un buon cattolico né il motivo per il quale facesse quell’orrendo mestiere a favore degli occupanti, non so nemmeno se fosse un irlandese, visto il silenzio poteva benissimo essere uno dei tanti scozzesi impegnati nell’esercito e nella polizia. Aveva un viso tranquillo, come il primo, solo che ogni tanto veniva improvvisamente sfigurato da un improvviso ghigno, subito represso. L’ospite inatteso lo colse sull’autobus, dove lo aveva lasciato da poco il suo contatto. Sembrava un fantoccio buttalo lì per caso, senza nessun motivo. E quale poteva mai essere questo motivo?


191. – Vivevo in questo periodo in un mio mondo particolare, illuminato da un sole di libertà che non aveva nulla di concreto. Procedendo in quella direzione, insistendo in opere di bassa giustizia, la libertà non sarebbe mai sorta all’orizzonte. Ero io che mi crogiolavo alla luce rosea e vacua di una perpetua aurora, l’inizio di un giorno che tardava a venire. Le ombre, invece, molte ombre, erano lì, davanti a me, palpabili, inevitabili, orride. Potevo accogliere e ponderare i miei dubbi ma questi non venivano mai veramente affrontati di petto, in fondo io stesso non lo volevo per non turbare il purissimo sogno della mia vita. Così cercavo di non disturbare la realtà quotidiana, fatta di corrispondenze ed equilibri, controlli e attenzione particolare data a tutte le sfumature. Questo daffare mi impediva di dare spazio alle mie perplessità mentre l’azione in se stessa, nel suo realizzarsi, mi coglieva sempre d’improvviso, un violento strappo a tutte le considerazioni quantitative e un tuffo fuori del tempo nel più profondo essere della qualità. Qui il sole era sempre alto e sempre illuminava il mio agire anche in piena notte, nessuna angoscia, solo la sensazione di pienezza e di completezza, alfine raggiunta nell’azione. Penso che lo stesso doveva accadere ai miei compagni, anche se non sono mai riuscito a farli entrare nelle mie rammemorazioni né loro, penso, se ne preoccupavano più di tanto. C’erano dei momenti, quando si tornava da un’azione, con l’ospite inatteso perfettamente conscio dell’opera sua, in cui mi sentivo solo, mentre l’ombra del crepuscolo calava sui miei occhi anche in piena mattinata. Pensavo alla precarietà della vita, alla corsa che tutti facciamo ogni giorno solo per arrivare all’ultimo incontro, quello decisivo, all’ultimo battito del cuore, all’ultimo grido strozzato in gola, certi e sorpresi nello stesso momento di quello che deve essere un momento di particolare intensità. Una luce che si spegne? Un sospiro di sollievo? Oppure un ansioso rammarico? Chi può saperlo? Questi pensieri mi si trasferivano dentro senza volerlo. Mi sentivo incapace di dare loro un risposta. Un mistero era là, a portata di mano, e io non sapevo coglierlo. Ciò mi era insopportabilmente doloroso. Mi schiacciava malgrado i tanti discorsi dettati dal fervore militante. Un mostro di meno. Quante torture evitate. Simili a quelle che io stesso ho subito e altre ancora, a me sconosciute. Un mostro come quello non aveva diritto alla vita. Frase degna di meditazione. Ma chi ha diritto alla vita? Chi si comporta bene. Ma che vuol dire comportarsi bene? Applicare le regole? Niente torture. Secoli di carcere, esecuzioni secondo le leggi e tutto il resto. Questo vuol dire comportarsi bene? Un boia che uccide dietro un pezzo di carta firmato da un giudice è meno responsabile di un altro boia che uccide torturando perché così gli è stato ordinato a voce? Andiamo, siamo seri. E, se dobbiamo essere seri, allora ben poche persone resterebbero in vita. Dov’è la linea di separazione? Chi si incarica di tracciarla? È essa netta? Oppure è tracciata a caso, un po’ storta, qualcuno dentro e qualcuno fuori? Un faticoso discorso, a portarlo alle estreme conseguenze. Chi decide? Chi esegue? Invece sembrava tutto facile, da quella parte, a monte, si accumulavano informazioni – esatte per quanto si vuole ma sempre prodotte dall’umana approssimazione – contro un avversario temibile che produceva nuovi fantocci man mano che quelli in circolazione venivano messi fuori uso dall’ospite inatteso. Non si trattava pertanto di conseguire un risultato né di incidere su di un comportamento perverso. Sempre nuovi mostri venivano fabbricati nelle scuole di specializzazione – i britannici sono maestri in queste cose come in tante altre – e messi in circolazione. Nuove informazioni, nuove corrispondenze, controlli, pedinamenti, un lavoro immenso di attenzione minuziosa, poi, alla fine, l’azione conclusiva, l’arrivo dell’ospite inatteso. Questo taglio radicale – con lui si concludeva il nostro lavoro – azzerava non solo una mostruosità umana – e solo l’uomo può essere mostro a questo livello – ma ogni considerazione critica. Ogni domanda restava priva di risposta.


192. – Anche nel nostro gruppo c’erano compagni decisi sulla validità di quello che facevano e compagni incerti. Solo che questa incertezza si celava a volte dietro un risolino arguto a labbra strette, come se avessero capito tutto e tutto tollerassero in mancanza di meglio. Certe discussioni non procedevano fluide ma a tratti, come a sbuffi, come qualcosa che bolle da tempo in pentola senza arrivare a cottura. Di tanto in tanto mi sembrava di scorgere qualche sguardo obliquo nei miei confronti – straniero e non padrone della lingua, molte sfumature mi sfuggivano – qualche sguardo, insomma qualcosa diverso dall’ordinario. Non che ci fossero animosità astute e cattive nei miei confronti, ma certe mie considerazioni non erano digerite e forse sollevavano troppi problemi. C’era in gioco anche l’esca della curiosità. Come potevo sollevare dubbi e poi aderire alla perfezione al lavoro a cui tutto il gruppo era chiamato? Poteva esserci qualcosa di poco chiaro. In effetti, fino al momento della mia partenza, non ci fu mai una discussione approfondita. Anche oggi, a distanza di tanti anni, non ho chiare le idee. Penso ai tanti interventi dell’ospite inatteso e mi chiedo se tutti quei mucchietti di stracci, tutte quelle macerie, avessero esattamente il senso che davamo loro. Una estrema intimità con la morte non degenera in una profonda incomprensione della vita? Dopo tutto il vero compito di ognuno di noi è quello di vivere, ma è vita quella che si coagula, sia pure per periodi di tempo intermedi, cioè né lunghi né continui, nel preparare il terreno alla morte? La mostruosità di alcuni uomini, di alcuni compiti, di alcuni servizi dello Stato o di liberi battitori, massacratori a pagamento, non è forse una pianta maligna che bisogna a qualunque costo estirpare? A qualunque costo? Certo, una valutazione dei costi è pur sempre necessaria. Non si può essere mostruosamente in grado di abbattere i mostri, in questo modo si operano delle sostituzioni, o meglio si duplicano i massacri. Occorre quindi un discernimento. Inattuabile questo discernimento nella foga della lotta clandestina? Inapplicabile nelle condizioni in cui si è costretti a operare in un paese occupato da un esercito straniero? Forse. Oppure ci sarebbero state delle alternative che non sono state prese in considerazione? Una maggiore attenzione alle informazioni? Una cernita più accurata? Obiettivi selezionati meglio? A volte non c’era stato il rischio di colpire il bersaglio più a portata di mano? Non si erano, a volte, realizzate delle azioni tanto per appuntarsi una metaforica stelletta in più sul petto? Non lo so. Non dico che questo sia effettivamente avvenuto, dico che ne ho alimentato il dubbio per anni. Essendo una unità clandestina di combattimento dovevamo pur dar segno di vita. Lavorare, accumulare controlli e corrispondenze, realizzare azioni, fare intervenire l’ospite inatteso. Che cosa d’altro poteva mai fare un’unità clandestina di combattimento? Guardarsi le unghie? Ma chi ci dava questa autorità suprema, delegata da noi, dopo un lungo e coscienzioso lavoro, all’ospite inatteso? Non certo le informazioni ricevute dal movimento di Dublino, quasi sempre limitate alle generalità, a mere indicazioni di luogo e a qualche fotografia, oltre, ma non sempre, a una breve cronistoria delle malefatte del personaggio. Ce la davamo da soli acclarando i comportamenti mostruosi con le nostre indagini, con le nostre rigorose duplicazioni, con il lavoro di giorni e di settimane? Non mi pare. In fondo, pensavamo di trovare questa autorità nell’azione, ma anche questa era una mia idea accennata e subito apparsa, perfino a me stesso, inaccettabile. Se nell’azione mi sentivo colto dalla qualità, finalmente libero di essere quello che veramente ero, l’obiettivo mi si delucidava, come si può dire, sotto le mani. Ma questi brevi lampi non aggiungevano molto al lavoro precedente, erano un mondo a parte, retto da intuizioni sue, inapplicabili nel lavoro precedente e poco comprensibili nella stessa rammemorazione. Quindi l’autorizzazione era nel convincimento di avere davanti un mostro indegno di appartenere alla comunità degli uomini, che tutti ci riunisce, non solo i portatori di libertà, come me, ma anche gli schiavi e perfino chi fa muovere il mondo del fare sfruttando il lavoro degli schiavi. Ebbene, quel mostro andava posto davanti all’ospite inatteso perché si era egli stesso, con il suo fare, posto fuori da questa comunità. Una maniera di confortarsi di fronte all’incomprensibile.

193. – È lontano il tempo delle reprimende focose, dei moti dell’animo sollevati dallo sdegno per le consolazioni passeggere di chi si barcamenava dietro improbabili discussioni e distinguo da legulei quando nel mondo, dappertutto, c’era tanto da fare, tante ingiustizie da correggere, tanti torti da riparare. È lontana la meraviglia del perché tanti spiriti tiepidi parlavano bene e razzolavano male. Sono vecchio e mi rendo conto del perché quei paurosi si nascondevano il capino sotto l’ala, lo spettacolo dei massacri è altro dall’apprenderlo per sentito dire. Vederlo, guardare quello che l’uomo può fare dell’uomo, è qualcosa che genera un dolore profondo, violento, una trasformazione irreparabile che grida continuamente vendetta, che non si acquieta ai discorsi e che chiede sangue per sangue, massacro per massacro. Non per conto altrui, per sostituirsi a un popolo martoriato, che questo prima o poi trova la sua strada per agire, ma in proprio, per provvedere all’amarezza senza limiti del proprio cuore, per fare quello che va fatto, non per correggere o controbilanciare, ma per agire. Entrare nell’azione liberamente non è facile, occorre prepararsi se non si vuole andare incontro a un disastroso suicidio. Occorre preparazione e pazienza, cercare i contatti e le strade giuste. C’erano all’epoca almeno due canali in Italia che si rifacevano uno al PSI e uno al PCI e che davano una mano clandestinamente. Io li ho usati tutti e due. Non bisognava fare niente di eccezionale, solo andare in un posto dove ci si poteva procurare una preparazione, se non la si aveva, una preparazione militare, oppure aggregarsi a gruppi già operativi clandestinamente sul luogo. Palestina, Grecia, Irlanda, continente africano. Non pretendo di ricostruire qui le mie memorie, non mi interessa, voglio discutere con me stesso problemi che ho lungamente meditato e che non ho mai smesso di portare con me come un fardello via via più pesante. Questi problemi, ricchi di molte sfaccettature, si possono riassume nella domanda così formulata, si ha il diritto morale di dare la morte? Un cane rabbioso va abbattuto. Ma un mostro, un torturatore, una spia, una indegna persona che assolve al compito di boia prezzolato, con tutto quello che si può costruire a loro carico, sono arrabbiati ma non sono cani. Sono esseri umani, vederli come bestie da abbattere diminuisce la mia umanità. Ne ho osservati tanti di questi mostri, li ho visti camminare, sedersi a un tavolo di caffè, parlare, soffiarsi il naso, guardarsi attorno, grattarsi un orecchio, insomma fare tutto quello che gli uomini fanno di solito. E io ero lì a osservarli, attentamente, cercando di cogliere qualcosa di speciale, un segno nei loro occhi, una smorfia nella loro faccia, una espressione sprezzante, un gesto inconsueto. Quasi sempre niente di tutto questo mi veniva incontro. Il tanto dolore arrecato da questi mostri non aveva lasciato uno stimma specifico sul loro corpo, non c’erano segnali particolarmente ributtanti. Quasi sempre erano uomini normali, né troppo belli né troppo brutti, orribilmente nella media. Si sarebbero detti tanti impiegati al catasto, quanto di più ovvio può produrre la vita di un uomo. Eppure erano mostri che venivano da un lavoro mostruoso, portato avanti in luoghi adatti, con strumenti adeguati, e andavano a casa a riposare. Oppure facevano il percorso inverso, dalla casa al lavoro. Altre volte erano mostri che indicavano ad altri mostri chi bisognava colpire, succhiando informazioni e trascrivendole perché venissero utilizzate con l’unico scopo di procurare dolore, paura, terrore. Tutto questo in nome dell’ordine e della legalità di Stati che si fregiavano a volte del titolo di democrazia e altre volte di quello di dittatura, sempre in nome e per il benessere del popolo. Ero troppo teso per raccogliere queste testimonianze con la dovuta attenzione. Una volta individuato il personaggio il nostro lavoro non riguardava la sua persona ma il modo in cui intercettarlo, quindi bisognava provvedere a una sterminata serie di riscontri, quotidianamente, senza sosta, duplicando e a volte triplicando le osservazioni in modo da essere certi di alcune corrispondenze, di abitudini, incontri, percorsi e tutto il resto. Un lavoro penoso e rischioso che qualche volta debordava in routine, ma impediva di osservare l’uomo dietro la mostruosità della maschera che si era ormai solidificata. Alla fine, nell’azione, l’ospite inatteso era proprio questa maschera che colpiva. Un mucchietto di stracci.


194. – Un sole trionfatore della barbarie repressiva non può rinvenirsi nella melma in cui si è pur costretti a sfangare se si vogliono togliere via le parti peggiori, le più immediatamente dannose e rivoltanti, anche se in fondo il marciume vero e proprio, la fonte di ogni mostruosità perpetrata nelle sentine delle polizie e delle caserme si trova altrove. Ma come attendere a quest’altra mostruosità, di gran lunga peggiore e responsabile? Questa parte cancrenosa e maleodorante se ne stava rintanata in garantite stanze supersicure, mentre zombi deprivati di ogni barlume di intelligenza e di coscienza venivano sguinzagliati per realizzare quel terrore su cui in fondo poggia qualsiasi potere. Queste figure pubbliche erano a conoscenza delle attività mostruose che si portavano avanti sotto i loro ordini diretti o indiretti? Eravamo sicuri che questa conoscenza ci fosse, anzi che esistesse un avallo segreto, una sollecitazione a operare sempre più ferocemente per mantenere l’ordine costituito. Questa certezza veniva sbandierata nelle modeste rivendicazioni delle azioni portate a buon fine, qualche povero volantino, subito cancellato dalla circolazione, letto di nascosto con risultati inesistenti, specialmente nella parte destinata a sollecitare la rivolta. In fondo, per concludere, questi supremi responsabili delle nefandezze degli esecutori materiali erano al sicuro e le nostre informazioni lo confermavano non riguardando mai – tranne un solo caso per la Grecia – le loro persone. Mi chiedevo come potessero vivere nella propria tranquilla cerchia difensiva sapendo cosa accadeva su loro ordine ai piani bassi o nei sotterranei. Che uomini erano? Era questo il potere? Oppure l’avevano reso così loro perché preso di controbalzo e non per le vie democratiche? Ma simili cose non accadevano anche nelle democrazie? Sono stato torturato adesso, nella democratica Grecia, e non oso pensare quel che mi avrebbero fatto se mi avessero catturato quarant’anni fa. Una questione di sfumature? Un problema di livelli di tortura? Non credo. Torturare un essere umano è degradante e può farlo solo un mostro, un mostro educato a queste tecniche mostruose. Ma uccidere un mostro del genere è un’azione giusta? Certo che lo è, mi ripetevo ogni giorno, mentre lavoravo costantemente e duramente a realizzare le condizioni necessarie per fare in modo che queste uccisioni si realizzassero. Ecco il punto attorno a cui girano queste angosciose considerazioni tardive. Sono passati tanti anni, troppi, e la sera, in questa cella di un carcere greco, mi chiedo se quelle azioni avevano un fondamento giusto. E un informatore? E un provocatore? Ho descritto a lungo queste figure, come anche quella patetica del traditore nella condizione irlandese, e non sono arrivato, nemmeno ora, a una soluzione, a una risposta, soddisfacente per me. Non è il rammarico o la prudenza che mi dettano queste perplessità, le ho sempre avute anche quando ero giovane e ora che sono vecchio non sono né rammaricato né prudente, la prova si ricava dal luogo dove mi trovo. No, c’è qualcosa d’altro, qualcosa nascosto in quei mucchietti di stracci che l’ospite inatteso si è lasciato alle spalle. Qualcosa che prima era vivo e un attimo dopo – un singolo attimo – era morto. Qualcosa quindi che concerne la vita e la morte, un lungo silenzio succeduto a un lungo parlare. La vita parla e giustifica se stessa, fa in modo da fornire un fondamento a qualsiasi cosa, anche alle peggiori nefandezze, la morte si limita a tacere. Quest’ultima non prende le giustificazioni della prima, non le ascolta, non se ne cura, taglia alla radice e va avanti. Questa certezza di sé – insostituibile e impensabile diversamente – sconvolge qualsiasi domanda, essa non può fornire risposte. Ho interrogato più volte l’ospite inatteso, non ha mai parlato, non mi ha mai spiegato il perché del suo compito. Il perché mi appartiene, anzi dovrebbe appartenermi, infatti la sua presenza era una conseguenza del lavoro preparatorio collettivo. In fondo il mucchietto di stracci era causato da quel lavoro, senza il quale l’opera dell’ospite inatteso sarebbe stata impossibile. La risposta dovrebbe quindi venire da me, non da lui, sono io che ho partecipato alla costruzione di quelle corrispondenze e di quelle duplicazioni e che, a un certo punto, le ho considerate sufficienti per sostituire una vita – mostruosa e miserabile quanto si vuole, ma pur sempre una vita – con un mucchietto di stracci. Non posso girare attorno a questa mia responsabilità interrogando all’infinito l’ospite inatteso. Il suo silenzio mi strazia il cuore.


195. – Questa produzione in serie di condizioni mortali mi causava un rigetto sempre più acuto invece di portarmi a quell’assuefazione di mestiere che mi sarei atteso. Un avvilimento della coscienza, forse, che immediata, e quindi con tutti i suoi limiti, si ribellava a un adeguamento indispensabile, uno sgomento della vanità del mio lavoro, sognato fondamentale, anticamera della rivoluzione, scoperto invece circoscritto e dipendente dalle decisioni degli altri, almeno di coloro che fornivano le informazioni di partenza. Questo avvilimento era una mia debolezza, oppure apparteneva alla specificità del lavoro? La morte è sempre accanto a tutti, giusti e ingiusti, giovani e vecchi, ma qui non si trattava della morte che accompagna la vita, ma di quella che le attraversa la strada e la riduce in briciole. Il caso distribuisce equamente i pericoli e la morte segue, con scarti minimi, la legge dei grandi numeri, ma qua era tutto diverso. Il limite dell’incontro era predisposto con accuratezza, studiato in tutti i particolari, sollecitato e realizzato. Non c’era possibile scampo – tranne rare eccezioni – se il lavoro preventivo era eseguito secondo le regole, e il nostro compito era appunto quello di applicare queste inflessibili regole, perché nulla di imprevisto potesse accadere, perché anche il minimo scarto venisse escluso. E tutto questo daffare alla lunga generava un sentimento gelido e sotterraneo, una tremenda necessità, un apparentamento funebre da cui non ci si poteva distaccare. Ogni tassello era un passo avanti verso l’incontro fatale, verso l’oscura necessità dell’ospite inatteso. E questa scadenza ineluttabile la vedevo avanzare un poco tutti i giorni, passo dopo passo in ogni pedinamento, in ogni controllo, in ogni duplicazione, ineluttabilmente, mentre nella mia mente si accumulavano, paralleli ai fatti oggettualmente verificabili, le corrispondenze, i dubbi e le perplessità che mi toglievano il respiro. In che modo gestire il tempo che mi separava dall’incontro conclusivo, dall’oltrepassamento nell’azione, dove avrei avuto solo il mio incontro con la qualità, una coscienza diversa atta ad agire nell’attimo conclusivo. Fuori di ogni dubbio e di ogni perplessità. Ma dopo? Rammemorando l’azione? A questo punto mi sentivo stringere la gola da una inesprimibile sensazione di inadeguatezza. Ma non era solo avvilimento, era anche stizza e fastidio. La volontà mi trascinava via, mi travolgeva in un fare che molteplici elementi mi facevano considerare fondato, giusto, necessario, l’azione mi riconfermava la mia esperienza qualitativa, ma poi venivano i dubbi, dal momento che ci lasciavamo alle spalle un mucchio di stracci, un pupazzo contorto, un cumulo di macerie. Eppure quella volontà di fare, quel carico di lavoro, era mio, ero io stesso che in esso mi identificavo, lo avevo liberamente riconosciuto indispensabile. Ma le domande riaffioravano. Non avevo giustificazioni, non mi lasciavo trascinare, ero io a decidere. Ma che decisione era la mia? Non ero avviluppato in un insieme di fili che mi tenevano stretto, responsabilità verso i miei compagni, coscienza delle atrocità commesse dal personaggio oggetto delle nostre particolari attenzioni, rispetto e insostituibilità delle regole? Non potevo fare a meno di questi elementi connettivi senza tradire la fiducia dei miei compagni e senza mettere a rischio la loro e la mia vita. Il meccanismo che avevo contribuito in tutta coscienza a fare funzionare, adesso mi spingeva con tutta la sua forza bruta, ripetitiva, cieca, e contro di esso non potevo opporre nessuna eccezione alle regole, queste andavano rispettate, ed esse – apparentemente estranee e asettiche – venivano a sboccare proprio nel terreno operativo da cui uscivano, successivamente, come fiori tardivi, i miei dubbi. Anche nei luoghi dove le condizioni oggettuali apparivano più limpide – come in Palestina – questi dubbi non si sbloccavano, rimanevano sempre davanti a me mentre guardavo la linea rossastra del crepuscolo seduto ai margini del campo che in quel periodo ci ospitava. Provavo pietà per quel popolo misero e diseredato, costretto a vivere una vita da cani in condizioni indescrivibili, ma il mucchio di stracci che avevamo proprio quella mattina lasciato nella capitale, in una strada alberata della parte Est, non si toglieva davanti ai miei occhi. Una vita azzerata, sia pure quella di un mostro responsabile di atrocità senza parole, poteva controbilanciare le sofferenze che avevo sotto gli occhi? Non lo so. Ancora oggi, non lo so.


196. – Qui, in Palestina, giocano vecchi e nuovi motivi. Gli affari e la ricchezza presente, se non di tutti – che le classi in Israele sono rigidamente identificate nella comunanza fittizia della religione – almeno in alcuni si contrappongono ai ricordi atroci delle secolari persecuzioni, fino a quella nazista, la più organizzata ed estesa. Ma anche in Russia o in Africa si sono dati da fare, anche se con minore organizzazione ed efficienza. L’animo degli attuali persecutori è indurito e atterrito. Indietro non possono tornare, specialmente i sefarditi, che poi sarebbero i più miserabili e i più feroci. Ma almeno questi ultimi, costituendo la massa d’urto della polizia e in parte dell’esercito, sono ben visibili. Gli aschenaziti no, sono loro che dirigono la repressione e la nostra lotta è contro di loro che si indirizza particolarmente. Gli specialisti dei servizi sono quasi tutti stati addestrati dagli americani e non hanno niente da invidiare nei riguardi dei servizi britannici, reputati fra i migliori del mondo. Solo che qui lo scontro è più a viso aperto, non ci sono i moduli e i sotterfugi della guerra fredda, qui ci si incontra e ci si scontra nelle strade, nei locali pubblici, negli stadi, in mezzo alla gente. Questo permette di ridurre la differenza che permane riguardo la disponibilità dei mezzi e l’efficacia della preparazione. Malgrado la diversità del terreno dell’affrontamento, anche qui i miei dubbi persistono. Anzi, posso dire che proprio qui hanno attinto un intuito finissimo per le sfumature e riescono a penetrare, silenziosi e vigili, in certezze che consideravo da tempo inattaccabili. Estremamente crudele la rivincita che gli Ebrei si stanno prendendo nei confronti della loro storia, e a farne le spese è un intero popolo costretto a lasciare la propria terra, il proprio lavoro, la propria casa. Le reciproche maledizioni segrete e le sollecitudini di aiuto rivolte al reciproco odio che tutti insieme, sotto spoglie diverse, li accomuna, non spostano di un millimetro le responsabilità degli uni e la miseria degli altri. Ognuno si sente parte di un suo diritto, da un lato quello di espropriare lo spazio per vivere, dall’altro di non farsi soffocare nei campi di concentramento simili a quelli nazisti. E i nostri gruppi sono qui per aiutare i più miseri, i diseredati, gli abbandonati e inseguiti, i rinchiusi, a liberarsi. Ma cosa fare? Ecco il punto. La preparazione, per altro portata a completamento necessariamente in un altro Stato, ci ha dato alcuni mezzi ma non ci ha – né poteva farlo – messi in grado di individuare gli obiettivi. O tutti questi obiettivi sono buoni, quindi si equivalgono, e allora è un massacro, un colpire nel mucchio, e la cosa non può essere accettata, almeno da me, in questi termini, oppure occorre possedere mezzi per selezionarli. E questi mezzi sono nelle mani dei pochi dirigenti delle varie organizzazioni di resistenza. Ciò causa in tutti un certo imbarazzo, in me anche una sorta di turbamento. Il mio essere anarchico si irrigidisce e cerca di capire il perché di questa necessità e di trovare una possibile via alternativa. Non ci sono né vie né risposte. Occorre accettare le informazioni di massima, come dappertutto peraltro. Non si tratta di una forzatura o di un affronto, né di una imposizione partitica, si tratta di una gestione delle informazioni impossibile da strutturare diversamente. Quindi, nessun pensiero nascosto, nessuna riserva mentale ideologica. Chiarezza da tutte le parti. Il lavoro che tocca a noi, ai nostri gruppi, è la ricerca delle condizioni necessarie per fare intervenire l’ospite inatteso. Spesso la selvatica ruvidezza campagnola in cui si era costretti a vivere veniva troncata dalla necessità di un lungo lavoro nella grande città, oppure viceversa, dalla vita in città si era costretti ad abituarsi a una mimetizzazione in campagna, operazione che richiedeva procedure del tutto diverse. Una particolarità specifica era la possibilità di uno scontro aperto, un conflitto a fuoco in pieno centro o in aperta campagna, condizioni impensabili in altri luoghi. Ma questa variante, almeno per me, era sempre la benvenuta perché mi tirava fuori dai miei personali dubbi e non mi poneva problemi di responsabilità nella scelta dell’obiettivo. Quasi sempre lo scontro era determinato da un errore nel lavoro di raccordo, da una mancata corrispondenza, da una duplicazione non perfettamente sincronizzata. Ciò mandava a monte l’azione individuale e spesso la nostra azione doveva modificarsi in una difesa o in un ripiegamento con il minore danno possibile. Raramente l’ospite inatteso rimaneva inoperoso.


197. – La vita era nell’animazione dissennata di quel pupazzo di stoffa, di quel mucchietto di stracci? Era forse nel tagliuzzare da macellaio provetto la carne di poveri disgraziati? Oppure nell’indicare agli specialisti quale fra tanti s’era macchiato del grave delitto di coltivare opinioni contrarie a quelle del governo in carica, più o meno legittimo? La vita non poteva essere questa stupida e sordida programmazione di massacri e di orrori. Era forse la nostra scelta la vita? Era nel nostro quotidiano impegno a inseguire, misurare, controllare, verificare e poi agire di conseguenza? Oppure era – culmine dell’incredibile – la somma delle nostre idee di libertà? Si celava nel mio sentirmi portatore di libertà? No, assolutamente no. Ogni volta la Parca tagliava il filo e si ricominciava daccapo. Ma in questo modo si possedeva la forza di conoscere la vita? Oppure si tagliava dove meglio e più facilmente si poteva tagliare? E ciò visto che comunque si doveva eliminava la mostruosità che si aveva davanti. Il tempo era messo fuori anche lui nell’azione, tutto si concentrava nell’attimo, quello sì qualitativamente carico di libertà, di verità, di giustizia. Ma dopo? Dopo bisognava travasare in un altro lavoro, preparatorio di un’altra azione, la ricerca della vita. Come se le mie domande invece di trovare risposte venissero allocate in un prossimo futuro, vicino, in pratica di già cominciato, visto che tra un’azione e l’altra non c’era soluzione di continuità. Altri pedinamenti, altri giorni e altre settimane passate nel verificare corrispondenze e duplicazioni. Il buio, il silenzio, il rifiuto di fare chiarezza, erano, tutti insieme, il fondamento della nostra forza per andare avanti. Il senso dell’opportunità mi suggeriva di rinviare, ma rinviare che cosa? La domanda principale era – e resta anche oggi – che cos’è la vita? Era vita quello che l’uomo che seguivamo si portava dentro? l’uomo che le informazioni ci indicavano come un gelido mostro specialista nel rompere le ossa, uno per uno, nel corso della sua opera di torturatore? Era vita la sua? Lo vedevo bene, dopo tanti giorni, vedevo i suoi movimenti, i minimi gesti, le affettazioni che tutti possediamo e che ci contrassegnano, vedevo il suo sguardo – quasi sempre remoto e spento –, vedevo la sua figura sparire sulla soglia di casa, oppure entrare la mattina al lavoro in posti che a tutta prima davano più che altro l’idea di uffici governativi. Era questa la vita? Pensavo alle sue consuetudini – in genere erano quasi sempre persone abitudinarie e solitarie –, alle sue brighe quotidiane sul lavoro, agli ordini che riceveva, alla reazione che doveva pure avere davanti a ogni nuovo caso che gli portavano nella stanza di lavoro. Ero certo che doveva avere una qualche reazione, di fastidio, di sazietà, come ogni burocrate che vede accumulate sul proprio tavolo le pratiche da sbrigare. Oppure no, nemmeno questo barlume di esistenza brillava nel suo muscolo motore, nemmeno questo segno animale di vita. Certo, mi conveniva accentuare questo disinteresse, questo distacco, immaginarlo privo di emozioni, una macchina fatta di carne e sangue, ma solo una mostruosa macchina. Però sapevo che non era così. Né le sue eventuali reazioni negative potevano assolverlo dalla responsabilità dell’opera sua, né potevano in caso di assenza renderlo colpevole, solo in questo caso. Erano problemi miei, non suoi. Lui si limitava a fracassare, a smembrare, a tagliare, io sapevo tutto questo, avevamo tutti noi del gruppo letto le informazioni dettagliate, sapevo se torturava, se informava, se tradiva, se provocava, sapevo anche che era un uomo vivo e che alla conclusione della nostra azione sarebbe stato un uomo morto. Ciò mi causava, prima dell’azione non nel corso di essa, un continuo martellare del cuore, una sorta di attesa angosciosa che potevano portarmi ad accorciare pericolosamente i tempi, proprio per uscire dalla mia personale condizione di preoccupazione ansiosa. Malgrado tutto questo ribollire del sangue nelle mie vene, mi costringevo a seguire rigidamente la scansione ritmica dei tempi di controllo, delle operazioni preparatorie, insomma di tutto quello che era necessario per preparare il terreno all’arrivo dell’ospite inatteso. I miei dubbi restavano tali, quella che avevo davanti era una vita mostruosamente vivente, l’azione che avremmo realizzato l’avrebbe trasformato in un pupazzo accartocciato. Dopo di che l’ospite inatteso sarebbe andato via come sempre, senza una parola.


198. – Come mai un dialogo con la libertà può trasformarsi in un dialogo con la morte? Che rapporto c’è tra la morte e la libertà? Finché gli uomini resteranno estranei alla seconda è della prima che bisogna parlare. Chiudere gli occhi perché stanchi di massacri inconcludenti significa dare via libera ad altri massacri, alimentare la caverna sotterranea dove si raccoglie il lago di sangue. Che vale prendersela con la cattiva natura umana, col mistero della sua progenie remota immersa nei saccheggi e negli stupri? È all’ora e subito e che bisogna guardare, ed è quello che mi obbligavo a fare, fissandomi in quell’ora e subito adesso così remoto nel tempo, quando non ero il vecchio che sono oggi. Ma il dialogo con la morte è ininterrotto e non riesco a persuadermi dell’oblio di ogni cosa passata perché passata. Essa è qua, accanto a me, insieme all’ospite inatteso, e posso prenderla in considerazione perché essa mi parla mentre l’altro tace nel suo glaciale silenzio privo di dubbi. Da cosa nasce la ferocia? Dalla paura, è stato detto. I potenti inferociscono perché temono di perdere il potere e commissionano i più turpi progetti perché quel potere venga garantito. In questo modo tutto sembra semplice. La diffidenza ombrosa di chi nascostamente addestra e arma la mano di mostri prezzolati rende difficile cogliere il punto esatto dove comincia l’esecuzione e termina la committenza. Non che ci sarebbe stato più facile e più coscienziosamente corretto colpire nella piena conoscenza di questo spartiacque, questo no, ma avrebbe forse potuto allargare la responsabilità eliminando l’esistenza di pretese mani pulite, colpevoli soltanto di gestire il potere con fermezza e decisione per il bene supremo dell’ordine pubblico. No, non è così, sono tutti mostri miserabili e orrendi massacratori, solo che è possibile colpire solo la base della piramide mentre l’apice resta al sicuro. Ecco una delle idee che maggiormente costernavano la mia quotidianità clandestina. Sapevo dove risiedevano i committenti, in caserme superprotette, oppure in ville solitarie custodite da alti alberi da fusto, custodie e contrassegni di status. Questi alberi, che spesso andavo apposta a vedere la sera, dopo il lavoro, si stagliavano neri e maestosi nel tramonto così ricco di fuoco e di riverberi, come se volessero sfidare i miei sogni. Avvertivo dentro quei signorili rifugi una tristezza senza limiti, la tristezza della tresca silenziosa, dell’angoscia di chi trama nell’ombra, di chi delega opere di bassa macelleria. Che mostri abitavano là dentro? Quanto avrei desiderato entrare con la compagnia dell’ospite inatteso e fare piazza pulita. Invece ero costretto a limitarmi a lavorare all’altro capo della filiera, dal lato del becero e ottuso esecutore materiale. Questa ripartizione è stata sempre un male cronico, irrimediabile, ed era da considerarsi una ingenuità – peraltro pericolosa – la mia passeggiata serale. Nascondendo i miei dubbi, dopo i primi approcci maldestri e non meglio riusciti, davo mostra di non curarmene affatto. I miei dialoghi con la morte restavano chiusi dentro di me e, alla lunga, avevano anche smesso di rendermi impaziente. Ogni sera pensavo all’ultimo mucchietto di stracci che ci eravamo lasciati alle spalle e mi chiedevo che cosa era stata la sua vita e come poteva essere stata così stroncata di netto nel corso della nostra azione. Non c’era nessun rammarico in me, nessun rimorso, ero contento di avere combattuto la mostruosità con mezzi che non potevano essere altri, perché dettati e imposti dalla ferocia stessa che si stagliava davanti a noi. Il dubbio era sempre quello della vita. Io avevo lavorato perché il filo della vita, di una vita, venisse tagliato dall’ospite inatteso. Senza il mio lavoro questa azione sarebbe stata estremamente improbabile, un vero e proprio gioco d’azzardo, un suicidio. Invece, grazie al lavoro mio – e dei miei compagni, costituenti insieme il nostro gruppo – quasi sempre tutto andava liscio, l’azione si svolgeva secondo canoni conosciuti a priori, affidabili. Nessuna incertezza per quel filo tagliato, nessun dubbio sembrava sussistere nel nostro gruppo riguardo il pupazzo sghembo che ci eravamo lasciati alle spalle dopo l’arrivo dell’ospite inatteso. Tutto era coperto e reso equivalente e bilanciato dalle responsabilità della vita che aveva animato quel pupazzo sghembo, nessun problema. Solo i miei dubbi e il silenzio assordante connaturato all’ospite inatteso.


199. – Il personaggio rientrava in una angusta viuzza storta e sudicia. Nemmeno una casa degna di questo nome. Il mestiere di informatore non doveva essere pagato bene, oppure era un dilettante che forniva indicazioni a tempo perso, per la pura soddisfazione di fare del male. Il movente ideologico sembrava assente, almeno a quel che recitavano le informazioni. Una casupola, una via piccola sterrata – questo di per sé non costituiva un’eccezione – ma non sembrava abbattuto o disperato. Passava le sue giornata al bar e per strada, al centro, parlando e più che altro ascoltando. Non faceva fatica a persuadere i suoi interlocutori. Non capivo quel che si dicevano, altri compagni mi fornivano indicazioni in merito. Chi glielo faceva fare? Perché quell’ansia di mettere nei guai la gente? Non era un ragazzino sprovveduto ma un uomo di una certa età, magari disilluso e amareggiato, ma questo non era certo un buon motivo né una giustificazione. Di cosa viveva nella sua solitaria miseria? Di un’elemosina dei suoi committenti? Non erano domande che dovevano interessarci. Saremmo entrati troppo nel territorio del suo essere vivente, mentre dovevamo mantenerci soltanto alla sua attività di informatore, prezzolato o meno non aveva importanza. Non dovevamo nemmeno considerare la validità e gli effetti del suo lavoro indegno, dovevamo solo attenerci al nostro compito. Misurare, controllare, fare corrispondere, duplicare. Questa considerevole diminuzione del nostro incarico, da un canto rendeva il lavoro più agevole e più adeguato alle nostre possibilità non certo elevate, ma da un altro canto ci spingeva a considerare il personaggio qualcosa di simile al fantoccio morto che sarebbe stato di lì a qualche giorno. Essenzializzazione e razionalizzazione ci privavano di una valutazione umana della persona che davanti a noi camminava, respirava, pensava, faceva il suo sporco mestiere. E questo, a mio avviso, mi sembrava una perdita di coscienza rivoluzionaria. Anche l’ultimo mostro, il più abietto fra gli esseri umani, prima dell’incontro con l’ospite inatteso, aveva diritto a essere preso in considerazione come uomo non come un mucchio di stracci. Abbandonando questo principio, per comodità di esecuzione del nostro compito, ci abbassavamo noi al livello di esecutori di decisioni prese altrove, ci immergevamo completamente nel fare quotidiano che quella esecuzione doveva preparare al meglio. Molti aspetti venivano così fatti cadere come superflui, non degni di sprecare il nostro tempo e la nostra fatica. Mi sentivo assediato da questi problemi e cercavo di smussarli per quanto possibile, cercando a volte, quando mi era possibile, di imprimermi nella mente le sembianze dell’uomo oltre che il suo comportamento o i suoi contatti e i suoi spostamenti. Mi accorgevo che queste sbavature mi davano più convincimento e più forza, non è vero che mi rendevano più debole, assistevano la mia convinzione e la mia passione, per quanto mi rendessi conto che non potevo imporre agli altri le stesse mie scelte, per non parlare in termini di dubbi o di titubanze. Così il personaggio prendeva, a volte, non sempre, una vita sua più consistente, più concretamente visibile e, qualche volta, perfino sfumature non comprese nell’informazione di fondo da cui eravamo partiti, prendeva una forma più netta e illustrava una responsabilità più specifica. Ma non era questo il mio scopo. Era un altro, era quello di farlo vivere davanti ai miei occhi, con tutti i suoi aspetti disgustanti, le sue paure, le sue prudenze, le sue sfacciataggini, le sue ingenuità. Ciò mi dava la certezza di entrare nella sua mente per capire l’abiezione del suo compito, come poteva pensarlo, sopportarlo, giustificarlo e perfino gloriarsene, non lo so. Molte volte mi è sembrato di capire che questa gente non fosse mai soddisfatta del proprio lavoro, specie gli informatori e i provocatori. I traditori – di cui l’esperienza era limitata solo all’Irlanda – erano una specie a parte, non erano uomini, erano larve in attesa di morire, ed erano pienamente coscienti di essere stati abbandonati a se stessi. Solo i torturatori avevano una sorta di valutazione del proprio lavoro, almeno è questa l’impressione che ne ricevetti quando cercai di capirli appena un poco più come uomini. L’ospite inatteso era assolutamente imparziale.

* * * * *

“ATROPO
Questa volta la più vecchia
l’han chiamata per filare;
tenue filo della vita,
quanto dai da meditare.
 
Perché fosse flessibile e morbido,
scelsi il lino migliore di tutti;
perché fosse uniforme e sottile,
l’ho lisciato con dita sapienti.
 
Se volete scatenarvi
nelle danze e nel piacere,
state attenti! Il filo ha un limite,
si potrebbe poi spezzare.
 
CLOTO
A me in questi ultimi giorni
affidarono le forbici;
la nostra vecchia non si comportava,
dicevano, in modo edificante.
 
Tirava in lungo all’aria ed alla luce
fili che non servivano a nessuno,
e gettava recise nella tomba
le speranze di splendidi successi.
 
Anch’io nella mia foga giovanile
centinaia di volte mi sbagliai;
oggi, per non fare passi falsi,
le forbici le ho chiuse nell’astuccio.
 
È un vincolo che accetto volentieri,
e guardo questo luogo come amica;
voi in queste ore senza rischi
datevi pure alla pazza gioia.
 
LACHESI
A me, sola ragionevole,
è toccato di far ordine;
il mio aspo, sempre all’opera,
mai è corso troppo in fretta.
Arrivano i fili, si avvolgono,
a ognuno io traccio la via,
non lascio che alcuno s’imbrogli,
ciascuno si adatta al suo corso.
 
Se mancassi una volta soltanto,
tremerei per le sorti del mondo;
contar le ore, misurare gli anni,
la matassa la prende il Tessitore.
 
LA PAURA
Fumose torce, lampade offuscate
balenano in questa confusione;
e la catena, ah! mi tiene avvinta
in mezzo a questi volti ingannatori.
 
Andate via, ridicoli irrisori!
Il vostro ghigno suscita sospetto;
tutti quanti i miei nemici
questa notte mi perseguitano.
 
Ho scorto qui un amico che ha tradito,
la sua maschera l’ho riconosciuta;
e quello, che voleva assassinarmi,
sguscia via perché l’ho smascherato.
 
Vorrei fuggire non importa dove,
via nel mondo, via da qui;
ma laggiù la morte incombe,
e mi trattiene tra fumo e orrore.
 
LA SPERANZA
Vi saluto, mie care sorelle!
Voi vi siete divertite,
ieri e oggi, a travestirvi,
ma lo so, vi svelerete
tutte quante già domani.
E se a noi pare sinistro
il bagliore delle torce,
poi verranno giorni lieti
e potremo a piacer nostro,
ora insieme ed ora sole,
correr libere nei prati,
riposare o lavorare,
come garba, senza affanni,
non mancare mai di nulla,
appagare i desideri,
sempre e ovunque benvenute;
certo anche il sommo bene,
qua o là, lo troveremo.
 
LA PRUDENZA
Due dei massimi flagelli,
la Paura e la Speranza,
ho isolato e incatenato;
fate largo! Siete salvi.
 
Guido il colosso vivo
che s’inerpica instancabile
per i ripidi sentieri,
con la torre sulle spalle.
 
E sui merli della torre
c’è una dea con grandi ali,
sempre agili e protese
al successo, ovunque sia.
 
Un nimbo di gloria la cinge
e irraggia dovunque lontano;
il suo nome è la Vittoria,
dea di ogni attività.
 
MEFISTOFELE
Resta qui, infelice! Sedotto
da un laccio d’amore difficile a sciogliere!
Chi da Elena fu paralizzato
non torna facilmente alla ragione.
Guardandosi attorno
Se guardo in su, in qua, in là,
tutto è immutato, intatto;
i vetri colorati sono, direi, più foschi,
le ragnatele sono assai di più;
l’inchiostro si è rappreso, la carta si è ingiallita,
ma ogni cosa è rimasta al posto suo;
persino la penna è ancora qui
con cui Faust si impegnò col diavolo.
E in fondo al calamo c’è ancora
una goccia del sangue che gli trassi.
Un pezzo unico, la fortuna di trovarlo
l’auguro al principe dei collezionisti.
E la vecchia pelliccia pende dal vecchio gancio,
mi ricorda tutte le panzane
che allora insegnai a quel ragazzo,
e di cui forse ancora si ciba, ormai cresciuto.
Mi viene proprio voglia, affumicata
e tiepida coperta, di indossarti
per impettirmi di nuovo a professore,
di quelli che presumono di aver sempre ragione.
I dotti sanno ancora come fare,
il diavolo non più, da tanto tempo.
 
CORO DEGLI INSETTI
Benvenuto! Benvenuto,
caro vecchio padrone!
Volteggiando e ronzando
ti abbiam riconosciuto.
In silenzio uno alla volta
tu ci hai seminati;
ora a mille e mille, padre,
siamo qui a ballare.
Il furfante nel cervello
ogni cosa tiene chiusa,
fanno prima a venir fuori
i pidocchi dal mantello.
 
MEFISTOFELE
Che gioia e che sorpresa queste nuove creature!
Seminate, col tempo si raccoglie.
Scuoto ancora una volta la vecchia palandrana,
e qualcosa qua e là svolazza via. –
Su! Fuori! Affrettatevi a nascondervi
in centomila angoli, miei cari.
Là, tra le vecchie scatole,
qui tra pergamene affumicate,
tra cocci polverosi di decrepiti vasi,
nelle occhiaie di quei teschi.
In un simile caos di vita imputridita
grilli ce ne sarà per sempre. Vieni,
(si infila nella pelliccia)
coprimi le spalle un’altra volta!
Oggi sono di nuovo il principale.
Ma chiamarmi così non serve a niente;
dov’è la gente che mi riconosca?
 
FAMULUS
Che rimbombo! Che tremori!
La scala oscilla, tremano i muri;
variopinti vetri vibrano,
scorgo lampi di maltempo.
Salta il pavimento, e in alto
spiove calcinaccio smosso.
E la porta inchiavardata
è schiantata da una forza prodigiosa. –
Là! Spavento! C’è un gigante
nella vecchia pelliccia di Faust!
Ai suoi sguardi, ai suoi cenni
mi si piegan le ginocchia.
Fuggo? Resto? Cosa faccio?
Ah, che sta per capitarmi!
 
MEFISTOFELE
Avvicinati, amico! – Ti chiami Nicodemus.
 
FAMULUS
Si, Eccellenza! È il mio nome – Oremus.
 
MEFISTOFELE
Lasciamo perdere!
 
FAMULUS
Sono contento che mi conosciate!
 
MEFISTOFELE
Lo so bene, attempato studente,
signore ammuffito! Anche il sapiente
studia continuamente, perché non sa far altro.
Si crea così un castello di carte,
modesto, ma nemmeno il più saggio lo termina.
Però il vostro maestro è ferratissimo:
chi non conosce il grande dottor Wagner,
il primo ora nel mondo della scienza!
È il solo che lo tenga tutto assieme,
e ogni giorno ne accresca la sapienza.
Studenti e ascoltatori, avidi di sapere
ogni cosa, gli si affollano intorno.
È l’unico che brilla dalla cattedra;
usa le chiavi al modo di San Pietro,
schiude il mondo degli inferi e dei superi.
Egli arde e sfavilla avanti a tutti,
non c’è fama, non c’è gloria che basti;
anche il nome di Faust viene oscurato,
è lui il solo, il vero scopritore.
 
FAMULUS
Perdonate, Eccellenza, se vi dico,
se posso osare contraddirvi:
di tutto ciò nemmeno l’ombra;
la modestia è la sua modesta parte.
Dell’incomprensibile scomparsa
del grande uomo non sa darsi pace;
dal suo ritorno implora conforto e guarigione.
Come ai tempi del dottor Faust, la stanza,
intatta da quando egli è lontano,
è in attesa del padrone antico.
Io non mi azzardo quasi a entrare.
Quali stelle governano quest’ora? –
Le mura mi sembrano tremare;
sussultarono i cardini, cede la serratura,
se no neppure voi sareste entrato.
 
MEFISTOFELE
E il maestro dove s’è cacciato?
Conducetemi a lui, o portatelo qui!
 
FAMULUS
Ah! troppo severo è il suo divieto,
non so se posso osare.
Da mesi e mesi attende alla grande opera,
vivendo in un silenzio impenetrabile.
Il più sensibile degli uomini di scienza
a vederlo sembra un carbonaio,
la faccia nera dalle orecchie al naso,
gli occhi rossi a furia di soffiare,
in ogni attimo teso allo spasimo;
lo stridio delle pinze è la sua musica.
 
MEFISTOFELE
E vieterebbe proprio a me l’ingresso?
Sono l’uomo che affretta il suo successo.
 
Ho appena preso posto qui,
e si muove là in fondo un ospite a me noto.
Questa volta è di un gruppo modernissimo,
la sua impudenza non avrà confini”.

(J. W. Goethe, Faust)

Duecento – duecentotrentuno

200. – Non potevo sfogarmi neanche a scrivere, che non c’era né tempo né luogo per poterlo fare, e poi sarebbe veramente sembrata una bizzarria da intellettuale. Vedevo davanti a me un meccanismo abbastanza bene oleato, specie in Palestina, ma bisognoso di migliorie. Era la mia avventatezza ideologica a farmele sognare? Oppure esse potevano veramente realizzarsi? Nessuno poteva rispondermi e nessuno mi rispose mai. Per questo inevitabile silenzio ricevevo all’interno di me stesso continue e solenni sollecitazioni sotto forma di domande, quelle che qui ho sollevato più volte. Quell’uomo che adesso era entrato in chiesa – siamo in Irlanda – e aiutava il sagrestano a mettere da canto le sedie col fondo di paglia intrecciata, era un traditore. Un solenne avvertimento era arrivato da Dublino. Diverse case erano state trattate con la ruspa, rese pianeggianti, alcuni compagni torturati a regola d’arte e imprigionati nelle carceri speciali gestite dall’esercito britannico. Non si poteva guardare quell’uomo mentre spostava le sedie, eppure io ero là, inginocchiato nella chiesa, intento a osservarlo. Un disgraziato, un operaio senza più lavoro, senza una famiglia, senza un futuro. Non mi faceva pena perché sapevo quello che la sua debolezza aveva causato, ma ero intento a osservarlo attentamente come uomo, come essere umano schiacciato da un meccanismo più forte di lui. Il sagrestano non doveva sapere nulla perché l’avrebbe cacciato e penso che la stessa cosa avrebbe fatto il parroco se non altro per non avere preoccupazioni. Si era saputo di preti che avevano rifiutato l’assoluzione a individui dello stesso genere, rifiutati da tutti, magari dai rappresentanti del loro Dio. Chissà se quel fantasma umano che tenevo d’occhio aveva avuto la forza di fare a meno di intermediari? Non mi sembrava, aveva l’aria di girare attorno al sagrestano per informarsi sulla rigidità del parroco. Miserie di chi sa di essere a un passo dal proprio destino. Adesso stava indirizzandosi verso l’uscita, non era andato in sagrestia e nemmeno in uno dei tanti confessionali, aveva evidentemente lasciato perdere la sua speranza di redenzione, se non altro ultraterrena. Mi sembrava ancora più curvo e dimesso, aveva un atteggiamento di cane bastonato che scappa via per non prenderne ancora. Fuori i compagni lo avevano agganciato subito. Io passai in fase di duplicazione, dato che potevo essere stato notato in chiesa. Adesso lo vedevo da molto lontano. Camminava senza voltarsi indirizzandosi verso la periferia, s’era calato sugli occhi il cappuccio del cappotto perché cominciava a piovigginare, una acquerugiola uggiosa e fredda che faceva venire voglia di lasciare perdere questo povero disgraziato e andarsene via a bere qualcosa in un pub. Si vedeva chiaramente lo sforzo penoso che faceva per andare avanti, per tornare a casa. In mattinata era stato al posto di polizia Est della città, forse perché obbligato a firmare qualche documento, oppure per chiedere una qualsiasi copertura, una sia pure tenue garanzia sulla vita. Sapevamo per certo che non rilasciavano né coperture né garanzie, abbandonavano questi disgraziati al loro destino. Ecco adesso perché le sue spalle erano ancora più curve sotto la pioggia fredda e fastidiosa. Sapeva di essere seguito? Non l’ho mai capito. Nel caso di questi traditori sono arrivato col tempo a convincermi che dovevano avere avuto una sorta di premonizione di quello che li aspettava, e in loro, nella loro angosciosa solitudine, privi di tutto, a volte buttati fuori dalla stessa famiglia – obbligata a farlo – erano consapevoli di vivere i loro ultimi giorni. La cosa, a ben riflettere, diventava non più una vera e propria azione, un incontro con la qualità, un momento esaltante da vivere nella profondità del proprio essere, piuttosto un’esecuzione. L’ospite inatteso rimaneva tale, sorprendentemente non aspettato, perché nemmeno in punto di morte l’uomo è veramente convinto che tocca proprio a lui morire, pensa sempre che l’esperienza della morte sia quella dell’altro, non la sua. Ciononostante non era una vera azione. Il personaggio stava andando a casa e non si voltava mai indietro, io che gli venivo incontro, potevo adesso vederlo da vicino in faccia, sotto il cappuccio, vidi i suoi occhi dolenti, come se essi stessi chiedessero di farla finita una volta per tutte. L’ospite inatteso non colse nemmeno questa sfumatura che mi era pure sembrata tanto evidente.


201. – Esenti da colpe? Chi può dirlo? Nessuno è esente da colpe, dopotutto si tratta di una questione di bilanciamenti. Gli ideali sono bandiere che oscillano al vento, ora li si vede garrire e ora si afflosciano. Il marcio insanabile non ha ideali, va avanti per forza propria, sospinto anche da interessi e orrenda predisposizione dell’animo. Dove si reclutano i torturatori, i serpenti a sangue freddo e a figura umana? Non lo so. Nell’esercito, nella polizia, nei tanti servizi più o meno segreti, questo è certo. Ma che tipologia ha un torturatore? Da cosa emerge quel marciume che lo fa spiccare fra gli altri in modo che i suoi superiori gli mettano in mano un malcapitato da spolpare fino all’osso? Bisognerebbe gridare forte che l’uomo, sì proprio l’uomo, è capace di tanta miseria, di tanta bassezza. Bisognerebbe che chi leggerà queste pagine – se un giorno qualcuno le leggerà – cercasse di penetrare questo mistero dell’animo umano. I concetti di giustizia qualitativamente intesi si percepiscono come scosse elettriche nella qualità, poi degradano in una casistica di comportamenti corretti, ma corretti sulla base di quale regola? La regola fissata dal potere? Un libro nero senza pagine scritte, tutto macchiato di sangue. Non si può leggere. Le sofferenze, il dolore, la morte di migliaia e migliaia di esseri umani non costituiscono altro che il sottofondo della storia, la chiave logica della filosofia. Non c’è una corsia per gli onesti e una per i disonesti, la traccia è confusa e tutta la società nel suo insieme tende a confonderla sempre di più. La vendetta corregge quello che può, una minima parte, ma non può fare tornare indietro la ruota dentata del suppliziato, i denti di questo meccanismo sono ormai entrati nella sua carne, ne hanno martoriato i nervi. Sfogarsi a parole è odioso. Conosco molti che lo fanno, sembrerebbero capaci di mangiarsi il mondo e sono soltanto codardi. Ma considerare le azioni contro questi mostri sotto forma umana è anche questa una forma di sfogo? Forse lo è. Il fatto che si concretizzi in un azzeramento individuale non sposta di molto il metodo nel suo insieme, il rendiconto complessivo di una mentalità che è connaturata al potere. Abbattendo alcune di queste carogne, le altre, in servizio permanente, saranno meno feroci? Avranno un po’ più di paura nell’affondare il coltello nelle piaghe del suppliziato? Ho sempre avuto i miei dubbi. Qui sotto c’è il mito educazionista che è duro a morire. La vendetta è altra cosa. Acco-stata nel suo realizzarsi e stretta nelle mani dà una risposta individuale, limitata ma significativa. Non si allarga al concetto di giustizia distributiva, non intende equiparare quello che la mostruosità umana in alcuni casi ha portato all’estremo del concepibile. Non si inebria di trionfi, non si gloria della propria ribellione. Riconosce i limiti ristretti del proprio lavoro e li valuta per quello che sono. Una risposta, possibilmente colpo su colpo – cosa impossibile di per sé – ma almeno in grado di avvicinarsi a questo risultato ideale. Una sfida. Nessun altro senso poteva avere la nostra lotta, una impossibile sfida. Una realtà atroce affrontata con coraggio e con mezzi a volte troppo limitati, comunque in grado di produrre certi risultati positivi. Una sfida lunga e difficile, giocata tutta o quasi sulla precisione delle rilevazioni preventive e sulla sorpresa. Andavamo incontro a incognite incredibili. Ogni volta, partendo dai pochi dati forniti, si ricostruivano movimenti di una persona che quasi sempre prendeva le sue precauzioni e non era certo disponibile a cadere facilmente in un tranello. Una guerra fatta quasi sempre con lapis e taccuino, oltre che con il mio amico K. Nessuno di noi si fermava un momento. Anche i miei dubbi e le mie perplessità – che avevo imparato a tenere per me – non facevano che spingermi a lavorare meglio, senza interruzioni, senza indugi. In questa attività senza tregua, culminante quasi sempre nell’azione, c’era una sorta di purificazione nostra, un sentirsi liberati dall’odioso compito di preparare il terreno all’ospite inatteso.


202. – Quante cose non bisogna sapere per potere agire. Spesso mi sono chiesto se sono più le cose che non bisogna sapere di quelle che si devono sapere. Agire è certamente preparazione, e qui si va parlando a lungo di questa fase, ma è anche oltrepassamento, momento in cui la volontà sospende il suo controllo progressivo sul fare e lascia libero l’agire. La consistenza delle informazioni era sempre considerata, dal gruppo, sufficiente per cominciare il lavoro. Ma non succedeva mai che da questo lavoro – lungo e meticoloso – sortisse una smentita dell’informazione di partenza, una sorta di dubbio sulla solidità di quello che veniva considerato il passato e il presente a carico del personaggio in questione. Le sue responsabilità non erano quasi mai dettagliate con riferimenti precisi – tranne nel caso dei traditori irlandesi – si riducevano ad affermazioni di massima, a sottolineature di compiti infami, a riferimenti generici a torture o a indicazioni di forniture informative che si dovevano peraltro sottoporre, solo in questo caso, a controllo visivo, allo scopo di individuare il contatto e colpire anche quest’ultimo. Ognuno ostentava una sicurezza di fondo che alla fine nessuno era in grado di controllare. Poteva capitare che nel corso delle verifiche si riuscisse a carpire una conferma indiretta e accidentale. Ad esempio, un mormorio di qualcuno che a mezza voce faceva sapere a uno sconosciuto interlocutore, per caso lì vicino, il lavoro del personaggio in questione. Ma anche queste affermazioni velenose, dette sommessamente tra i denti, che fondamento potevano avere? Non appartenevano forse al regno immenso e trasparente delle chiacchiere? Poteva anche capitare che l’uomo oggetto di studio andasse a lavorare in caserma o in polizia, se non altro in questo caso si era sicuri di avere davanti un soldato di occupazione o un poliziotto. Ma il resto? Ancora una volta la fondatezza dell’informazione di partenza. Qualche altra volta – ma si trattava di casi rarissimi – si poteva raccogliere la viva testimonianza di qualcuno che era passato per le mani del torturatore sotto osservazione, diciamo per un trattamento lieve di breve durata. In questo caso mi sentivo rincuorato. Almeno questo era il sentimento che provavo io. Per gli altri avvertivo una sorta di leggera soddisfazione, dato che non c’era mai modo di prendere il problema di petto. Ognuno cercava di salvaguardare la propria crudezza d’animo per non soccombere a pericolosi pietismi che avrebbero compromesso il lavoro e la nostra stessa incolumità. E io condividevo questa scelta pur continuando ad alimentare le mie domande prive di risposta. Man mano che il lavoro andava prendendo corpo e che mi avvicinavo all’azione anche il personaggio prendeva una nuova fisionomia, almeno per me. So bene – avendo riflettuto a lungo su questo punto – che quasi sempre era lo stesso mio lavoro a rendermi familiare quella figura. I riscontri, le duplicazioni, le corrispondenze, mi permettevano di vedere vivere quello che sul piano puramente morale consideravo un mostro da abbattere in qualunque modo. Ma io lo vedevo camminare, fermarsi, soffiarsi il naso, prendere un tè, insomma tutte quelle cose che facciamo quotidianamente. Dal mostro veniva fuori così l’uomo, e io cominciavo a vederli insieme tutti e due e a chiedermi come mai un torturatore potesse soffiarsi il naso come tutti gli altri, come gli stessi uomini che magari quello stesso giorno aveva disossato? Terribile domanda, costantemente priva di risposta. Come mai era possibile nella mia mente, continuamente dedita a portare avanti il mio lavoro, l’entrata e la sussistenza di un orrendo pensiero del genere? Vuota e nera domanda. Eppure insistevo, quasi con dolore, a registrare concomitanze paurose. Il personaggio aveva un certo modo di camminare e di fermarsi all’improvviso per accendersi una sigaretta che, visto da dietro, mi ricordava mio padre. Una fitta al cuore. Come era possibile una simile profanazione di un ricordo che era in me legato agli indefettibili sentimenti filiali d’amore? Era la vita del mostro che intravedevo in controluce, e che pretendeva di acquisire uno spazio dentro di me che con quel mostro stavo in contatto per giorni e giorni. L’ospite inatteso, fortunatamente, tagliava di netto questa pericolosa duplicazione d’immagine.


203. – Il desiderio, ma forse di più, il bisogno di un progetto più ampio, mi ronzava continuamente in testa, in modo intenso e preciso in Palestina. Qui le limitazioni al nostro lavoro erano minori e si aveva anche la possibilità, a volte, di sviluppare una semplice informazione fornita dal movimento in un’azione più complessa che la lineare individuazione e precisazione di un singolo individuo. Per quanto la controparte fosse più agguerrita che altrove, essendo uno degli eserciti più potenti e meglio equipaggiati del mondo, c’era spazio per azioni nella città, spesso non limitate a soli uomini dei servizi o agli informatori arabi passati al nemico. Questa situazione determinava a volte un intervento più ampio e la collaborazione di più gruppi. Lo studio e la preparazione richiedevano tempi più lunghi, a volte mesi, ma i risultati potevano essere più efficaci. Un piano poteva essere studiato con calma e metodo e non mancavano né le persone competenti né i gruppi disposti a collaborare a un’azione più ampia. La cattura di tre uomini dell’esercito fu una di queste azioni meglio riuscita. Richiese più di quattro settimane e l’impiego di circa trenta compagni, con una coordinazione centrale e la disponibilità di armi adeguate a bloccare un convoglio militare in movimento. Si tratta di una delle azioni più articolate e complesse mai tentate – escludendo quelle che si consideravano come attacchi suicidi. I riscontri non si limitavano pertanto solo a misurazioni e corrispondenze ma comprendevano anche una valutazione militare del territorio e lo spostamento di mezzi militari in un tragitto di circa un chilometro. Non si trattava di mettere fuori combattimento un mezzo militare in movimento, questo genere di operazione, pur restando molto complesso e difficile, è più semplice da un punto di vista organizzativo. Si trattava al contrario di bloccare una colonna in movimento, staccandone una parte, quella di coda, tramite una esplosione, e facendo prigionieri, cosa questa che era stata tentata precedentemente un’altra sola volta, ma con risultati negativi. Questi soldati, pur avendo ricevuto una conveniente preparazione militare, erano in fondo dei ragazzi e, una volta attaccati, almeno quella volta, non si dimostrarono all’altezza della loro fama. Dopo una risposta pro-forma si arresero subito uscendo dal blindato con le mani in alto. Nel frattempo, gli altri compagni tenevano a bada il resto del convoglio che a causa del terreno non poteva che bloccarsi o andare avanti. Per quanto possa essere considerata una eccezione alla regola, non ci furono né feriti né morti. L’ospite inatteso rimase inoperoso. I tre soldati fatti prigionieri vennero successivamente dal movimento scambiati con trenta compagni che si trovavano nelle carceri israeliane. L’ottimo risultato portò a una riconsiderazione del nostro lavoro e a una nuova progettualità. Ma, in breve, l’esaurirsi delle risorse, la perdita di alcuni compagni, la caccia spietata condotta dagli uomini dei servizi e l’accumularsi delle informazioni ci ricondussero alla solita attività. Il lavoro non tardò a riprendere come prima, uguale e preciso mentre si allontanava la possibilità di realizzare una coordinazione di tale ampiezza da potere ripetere l’azione sopra descritta. Bisognava pure andare nel senso in cui soffiava il vento, fare ciò che era necessario fare, colpire a capofitto dove andava colpito. Ecco quello che mi dicevo riflettendo sulle mie speranze deluse più o meno frettolosamente. L’ideale di liberazione assoluta doveva pure passare attraverso la strettoia di queste azioni periferiche, di disturbo, pungoli per gente abituata a colpire duro. Bastava guardare alla miseria generalizzata di un intero popolo costretto ogni mattina a mettersi in fila e andare a lavorare per i nemici appena con pochi spiccioli di paga, per rendersi conto che quelle azioni non solo correggevano una mostruosità cancellandola dalla lista del genere umano, ma costituivano un contraccambio per ogni sofferenza patita. Molti di questi miseri si sentivano allargare il petto venendo a sapere che un massacratore era stato colpito. Chi poteva mettere avanti obiezioni di fronte a questo sentimento di intima soddisfazione, di contropartita per le piaghe che il corpo di un intero popolo soffriva? Chi poteva arrogarsi il diritto di fermare la mano dell’ospite inatteso?


204. – Perché questi miei dubbi? Perché voglio tutelare la mia missione di libertà, arrogandomi una sorta di compito da tribunale supremo? Perché voglio proteggere la mia integrità ideologica? Dovrei essere io pertanto a decidere l’intervento decisivo, non una banale informazione pervenuta tramite il movimento. Forse sospetto che questo sistema stia a difendere l’inaccessibilità dei capi e quindi, come anarchico, la cosa mi fa stare male? Nulla è così remoto come qualcosa che non può essere sottoposto a verifica e io non posso verificare la definizione di fondo che caratterizza l’indicazione mentre posso fondare tutto il mio lavoro su un continuo dilagare di duplicazioni e corrispondenze. Dove sta la mia libertà di decisione se a monte colgo questo sbarramento definitivo? Eppure queste domande, per quanto pertinenti, non colgono nel segno. Si mantengono all’esterno, muovono una critica indiretta a un metodo fondato sulla divisione dei compiti, non penetrano nel vero nocciolo del problema che è quello della vita. Non è possibile pervenire a una decisione non radicale, non lo è perché di già nell’informazione di partenza è implicita una condanna, è previsto ineluttabilmente l’intervento dell’ospite inatteso. La stessa informazione di base scompare, essa non è l’esecuzione, l’esecuzione siamo noi col nostro lavoro dettagliato di controllo, è qui che prende corpo la specificità del personaggio che ci sta davanti e con il quale per un certo numero di giorni condividiamo molto più di quello che non si vorrebbe ammettere. La nostra ricostruzione, pedissequa e meticolosa, non riguarda lui, riguarda il suo fare, non la sua vita. Certo, è la sua vita il suo fare, dalla stanza delle torture alla propria camera da letto, ma non è di questa vita che parlo, mi riferisco a quella che, troncata, lo ridurrà a un cumulo di stracci. Questa sua vita reale, avvolta nel miserabile involucro del suo compito mostruoso, non viene fuori nei nostri percorsi, nelle nostre attenzioni particolari, nelle nostre lunghe misurazioni di tempi e visitazioni di luoghi. Essa resta acquattata e non respira, non guarda il cielo, non parla al proprio futuro, oppressa com’è dal peso spaventoso della pratica fattiva che l’avvolge e la contiene, come un guscio contiene l’uovo. L’unica via d’uscita che ha è quella della fine, dell’incontro con l’ospite inatteso. La costruzione di tutta la nostra azione culmina proprio in questo taglio che separa la vita dal mestiere e la separa nel momento stesso in cui la spegne definitivamente. Tutto quello che precede è fatto di lacci che il personaggio stesso stringe attorno al proprio collo, privandosi a poco a poco, nel corso dell’esecuzione del proprio mestiere, dell’umanità che lo contraddistingueva come tutti. Questi lacci gli rendono possibile il proprio fare, lo reggono e lo sostengono ma, nello stesso tempo, lo soffocano e, nel lungo termine, lo uccidono. Alla fine è un fantasma che mima una vita svuotata di contenuti, che tutti tengono a distanza perché ne hanno un misto di paura e di schifo, un essere appartato che si sta preparando egli stesso il proprio sudario. Dopo un certo tempo non può allentare questi lacci che lo soffocano, anzi li stringe sempre di più, diventa sempre di più quello che fa e fa sempre di più quello che diventa. È un cerchio mostruosamente vizioso da cui non può uscire. Solo apparentemente quindi la sua vita è l’oggetto del nostro interesse. In effetti noi siamo interessati a fenomeni apparenti del tutto alieni dai lacci che lo stanno soffocando, anzi non solo non ci preoccupiamo di questa spaventosa negazione vitale, ma non ce ne accorgiamo nemmeno, tranne qualcuno come me, che si pone problemi con sfumature differenti. In sostanza, posso parlare solo per me e non generalizzare, per quanto ho avuto a lungo il sospetto che anche gli altri compagni, sebbene in forma molto più nebulosa della mia, albergassero inconfessati dubbi abbastanza simili. C’è davanti ai miei occhi, attenti alle misure e alle duplicazioni, una continua angoscia che sento scuotere il personaggio nelle fibre più intime e che solo i lacci che lui si stringe al collo possono frenare. Forse è una mia illusione. Non credo che qualcuno di questi esecutori di ordini mostruosi, a un certo punto, non abbia avvertito l’avvicinarsi del proprio destino. La realtà condensata in tante aberrazioni non può che rimanere a far danni anche nell’animo più indurito. Il passo dell’ospite inatteso credo che sia stato sempre avvertito qualche attimo prima.


205. – Il conforto di una certezza non garantisce certezze future di uguale consistenza. L’ipotesi di partenza – l’informazione – per sua natura tende a sottrarsi a ogni verifica, è tale e basta, non può ammettere repliche, in caso contrario il lavoro di precisione che deve essere portato a termine tende a dividersi almeno in due versanti contrari con intenzioni inconciliabili. Attorno al personaggio in questione – ineluttabilmente al di là di ogni dubbio possibile – si consolida un’aura di tenebrosa responsabilità. L’informazione è, nello stesso tempo, la sua condanna, non ci sono possibilità che nel corso del lavoro qualcosa cambi riguardo la conclusione. Non ce n’è motivo, non ce n’è possibilità. Questo è un punto cruciale sul quale si impernia tutto il lavoro. La nostra unica responsabilità è quella di costruire metodicamente le condizioni oggettuali di un fare qualitativo che non può essere diverso da quello che è. I metodi sono sempre quelli e costruiscono la possibilità di avvicinarci all’azione nel migliore dei modi. L’oltrepassamento ci porta nella qualità, ma è anche una parentesi che non ha rapporto col fare precedente, ci mette tutti in gioco ed è l’aspetto attivo di un fare che altrimenti resterebbe sempre conclusione possibile, una continua verificazione all’infinito, senza scopo e senza completezza. Il nostro lavoro teatralizza un segno di condanna, una linea astratta di riferimento che prende vita a poco a poco ed è in questo crescere e autogiustificarsi che si radica l’azione. Certo, le oscillazioni ci sono e anche piuttosto significative, spesso il lavoro si arena in corrispondenze che non corrispondono, in duplicazioni che slittano in prospetti imprevedibili, incapaci di fornire maggiore sicurezza. Ma questi intoppi sono messi nel conto, il procedimento è anche costituito dal loro puntuale presentarsi e dalla loro rimozione. In fondo, nulla è aggiunto a conforto della informazione originaria. L’imponente apparato di verificazione è una superfetazione, utile per realizzare l’azione, ma è separata sia dall’informazione originaria sia dall’azione. Non voglio qui continuare a sottolineare la sua separazione da ogni successivo tentativo di rammemorazione, ciò va da sé. Il lavoro che ci occupa non è diretto ad accertare la responsabilità del personaggio, questo l’ho detto a lungo, ma si sposta in un’altra direzione, eminentemente pratica. L’informazione sussiste e non si modifica fino al completamento dell’azione, ma il fare che si colloca in mezzo porta a contatto chi lo esegue non con un simbolo astratto di mostruosità, contro cui tutti sarebbero disposti a scagliare una pietra, ma porta davanti a un essere umano. In questo modo l’interminabile sequenza dei fatti di verificazione acquisisce, per chi la pone davanti a sé come procedimento da portare avanti, un senso che non dovrebbe avere. Essa dovrebbe restare asettica, e mille sforzi sono compiuti da ognuno di noi, perché tale rimanga, ma la cosa non è possibile. Sorgono sensazioni e paure che subito si ramificano e prendono consistenza, l’essere umano è fatto così. Altro è l’idea astratta di mostruosità e altro è il mostro in carne e ossa, il quale prende sempre l’aspetto di un uomo comune. Nulla è infatti più comune della mostruosità più estrema. Queste sensazioni si sviluppano fino a rendere soffocante l’atmosfera che circonda una frequentazione del genere. I massacratori hanno l’aspetto di impiegati comunali, se muovono al ribrezzo, spesso, è prima di tutto per la loro capacità anonima di fare il mestiere di boia. Ci vogliono anni per abituarsi al loro aspetto soffocante, per non lasciarli subito al loro destino, per non abbandonarli, cosa questa impossibile perché significherebbe portarsi dietro una fetta importante del loro gioco al massacro, essere corresponsabili senza ombra di dubbio. Ogni sforzo è quindi necessario per perfezionare al più presto il lavoro di raccordo e di verifica, ma la fretta che i conati di vomito determinano è cattiva consigliera. È sconcertante dovere ammettere che ogni sforzo per lavorare alla preparazione dell’azione avvicina il personaggio astratto del traditore, dell’informatore, del provocatore, del torturatore, a una persona conosciuta e quindi a una sorta di rapporto umano che non può facilmente mimetizzarsi sotto la maschera impassibile del liberatore che rimuove un ostacolo. L’ospite inatteso, alla fine, è visto come un vero e proprio risolutore di dubbi impossibili. Una benefica certezza.


206. – L’informazione resta un segreto gestito da pochi. Individuato il personaggio, non è consentito parlare con chi non fa parte del gruppo della sua specialità e delle sue attività repressive. Alla fine, in ogni caso, sono in tanti a sapere qualcosa, nessuno a sapere tutto. Più volte, per caso, ho potuto constatare che alcune sfaccettature erano sfuggite alla fonte della nostra informazione. Sono a volte molteplici le attività di un mostro incaricato di particolari compiti difficili da portare a compimento. Quando un individuo del genere è messo su, lo si impiega al meglio delle sue possibilità. Il vero terrore è sempre molteplice e si modifica pur acquisendo una specializzazione che non si mette mai in discussione. La vita di un mostro del genere, pur all’apparenza normale sotto molti aspetti diciamo quotidiani, ha spesso delle scosse come se all’interno di essa ci fossero canali di particolare intensificazione. Il lavoro viene aumentato, lo si impiega in più posti e su un numero più alto di poveri disgraziati, lo si sfrutta al massimo. Ciò porta a una complicazione del controllo, a una ricerca a volte scombussolata e rimessa in discussione di sana pianta. Le difficoltà sorgono non tanto perché cambiano le abitudini o gli itinerari del personaggio, ma perché l’involucro della sua normalità, su cui in fondo si basano tutte le corrispondenze, è spezzato e si presenta incerto e molteplice. L’apparenza di normalità, una volta spezzata, perché nuovi incarichi si sono sovrapposti, dà sempre l’impressione di una sorta di copertura nuova, diretta a sviare eventuali costruzioni di attacco in corso. Quasi sempre non è così, ma non si può sapere mai, spesso occorre ricominciare il lavoro di sana pianta. In ogni caso la costruzione reale del personaggio assume un altro significato. Nessuna parte del lavoro di già fatto va però perduta definitivamente, la si deve mettere da parte e la si usa come duplicazione. Il personaggio ritorna prima o poi alle vecchie frequentazioni, è questione di tempo. Alla fine le filature e le concordanze concrescono e si intersecano, proliferano fra loro senza arrivare mai a qualcosa di trasparente, di assolutamente indubitabile. Non c’è un quadro definitivo dove il personaggio si colloca senza differenze. C’è sempre qualche sbavatura o qualche incertezza. Questi vuoti sono tanto più ampi quanto più la dimensione umana si è fatta strada di fronte alla miserabile realtà mostruosa. Nulla è mai definitivo, quindi c’è sempre una sollecitazione a procrastinare, a rivedere, ad avviare un procedimento capace di non fermarsi mai. È possibile che la vita, anche quella bestiale del mostro, non abbia un sussulto degno di essere registrato al di là di una semplice filatura oggettuale? Domanda sommamente pericolosa. L’alzarsi dei controlli e dei riscontri, in genere, corrisponde con l’avvicinarsi della conclusione attiva, ma a volte può verificarsi un ritorno a livelli accortamente prudenti, e ciò per svariati motivi. Il primo è quello già visto del cambiamento di attività del personaggio, oppure una radicale modificazione delle sue abitudini. In ogni caso, si deve pure arrivare al livello dell’azione, e questo a un certo punto richiede un salto qualitativo, un oltrepassamento che non può essere misurato in termini quantitativi perché non è un fatto come tanti altri, è un atto. Questo stacco ha la propria giustificazione solo in se stesso, in quanto azione, anche se si fonda sull’enorme lavoro fattuale realizzato precedentemente. Per questo motivo è l’assolutamente altro, non partecipa del fare e dei dubbi del fare, è certo, è completo, esso è l’azione di cui parlo da sempre ed è nell’azione che si realizza l’intervento conclusivo dell’ospite inatteso. Anche se l’insieme del lavoro svolto e l’azione costituiscono una connessione necessaria in quanto in mancanza del primo non ci sarebbe oltrepassamento, abitano due mondi differenti. Il tempo e il suo inesorabile scorrere, che caratterizza il fare, non c’è nell’agire. L’apparenza che delinea la figura eminentemente dettagliata del personaggio, non c’è nell’agire mentre riempie di sé il fare. La stessa rammemorazione, e qui mentre lavoro è in questa parte terza che colloco la mia attenzione di vecchio prigioniero, è qualcosa d’altro, non del tutto incompatibile con l’azione, ma non in grado di darne conto. Il compito dell’ospite inatteso resta sempre avvolto nel mistero del suo insondabile silenzio.


207. – Dove potremmo andare a finire se l’ipotesi di partenza fosse incontrovertibilmente vera? In un universo chiuso in cui tutto è connesso deterministicamente e si tiene sulla fondatezza di una fonte principale, senza dubbio radicata nella realtà ma non per questo assoluta. Se il vero è la mostruosità verificata quanto si vuole fino in fondo, non per questo diventa necessario. Allora alla base di tutto ci sarebbe una verità fondata sul bianco e nero, sulla separatezza senza soluzione, chi va all’inferno e chi in paradiso. Nulla di più sviante. Giusto eliminare la mostruosità, ma questa giustezza non sarà mai né necessaria né vera. La menzogna e l’orrore sono i due grandi ordini su cui ruota il mondo, diffondono le loro trame dappertutto e tutto colpiscono. La mano che ferma per sempre il massacratore è mano massacrante anch’essa? Come rispondere a questa domanda essenziale con un no secco? Non ne sono mai stato capace. Anche noi, combattenti della libertà, a contatto con l’immondo universo della melma, finiamo per sporcarci le mani di melma. Non ci sono due mondi nettamente separati, quello dei giusti e quello dei malvagi. Tra questa divisione ci sta un territorio di nessuno dove per agire occorre inoltrarsi senza paura. In caso contrario, astenendosi, si partecipa ancora più efficacemente al massacro. Uno può pensarsi esente da colpe quanto e come vuole, si tratta sempre di venire a patti con la propria coscienza immediata, quella che presiede all’applicazione continua della volontà di fare. Ma qualcosa incombe sempre come un presagio. La responsabilità del massacro. L’eliminazione del lago di sangue. Si è massacratori in prima persona proprio astenendosi, pulendosi accuratamente le mani e il cervello ogni mattina, pensandosi estranei ai massacratori di professione. Pensate ai filosofi e agli storici e al loro enorme e insostituibile contributo al massacro. Niente di più chiaro e innegabile, eppure queste brave persone si tengono – a loro dire – al sicuro negli scranni accademici. Non lo sono e lo sanno, e la loro cattiva coscienza puzza di morte più di una pericolosa vicinanza fisica con i massacratori di professione. Questi fanno il loro sporco lavoro, cercare di impedire questo lavoro orrendo, o almeno limitarne i danni, richiede un accostamento al massacro, una frequentazione dell’odore del sangue, e ciò porta inevitabilmente a una vicinanza disgustosamente deformante. Si possono avere due ipotesi, la prima accetta di macellare e basta, basandosi sull’informazione di partenza e sul lavoro di identificazione fattiva che da quella prende le mosse. L’altra ipotesi cerca di scolpire i tratti umani del massacratore, di capire come mai l’uomo può arrivare a torturare a freddo un proprio simile. Questa seconda strada apre una porta sull’ignoto dell’animo umano, sulla sua orribile nefandezza, sugli abissi di abominio che è capace di raggiungere. Questa porta consente di vedere un uomo dedito al massacro, non di alleviarsi l’animo sostituendo l’umanità di quell’uomo con la sua sostanziale mostruosità. Parlare di un mostro fa alleggerire il proprio carico di responsabilità, ma è alleviamento che arriva sempre in ritardo. Che senso ha giocare con le parole? Il mucchietto di stracci che ci si lasciava alle spalle era una vita umana, non quella di un mostro. Che quell’uomo, quando era vivo, facesse come mestiere il torturatore non lo può privare della sua umanità. Se noi lo priviamo di questa comune proprietà, che egli condivide con noi, è per alleviare il nostro peso, per sentirci più leggeri. Spostiamo così un peso gigantesco che ci siano caricati sulle spalle, ma è uno spostamento fasullo, una prestidigitazione. Non convince se non i deboli di spirito, coloro che hanno bisogno di un viatico quale che sia per andare avanti comunque, per chiudere gli occhi e non vedere. Ma quelli che vogliono capire, come me, che vogliono sollevare il velo che copre il filo di Atropo, non si possono accontentare. L’ospite inatteso non risolve questo genere di problemi, taglia alla radice e va via, porta con sé la vita che ha raccolto e non chiede spiegazioni. Il suo silenzio è lo stesso del destino. Ambedue risuonano nell’animo mio come un’eco di lontani spaventi.


208. – Il modo in cui riuscivo a scoprire che il mostro che mi stava davanti era un uomo come gli altri, che non aveva né artigli né zanne né beveva sangue umano, diventava a poco a poco un accostamento, una ridicola familiarità tutta segreta, che mi apparteneva come un vizio inconfessabile. Il processo del fare, nel suo complesso lavoro avente come scopo il perfezionamento preventivo di un ipotetico attacco distruttivo, era una macchina che mi portava con sé e non pretendeva affatto questo difetto di visuale. Non ero sicuro se anche i miei compagni avessero un problema del genere. Forse no, non li vedevo preoccupati né nervosi, li vedevo del tutto nelle cose da fare, da capo a piedi. Ero quindi io che mi accostavo all’uomo torturatore, che mi obbligavo a non darmi il comodo alibi della sua indiscutibile mostruosità, la mettevo da parte quest’ultima in modo che lui non si accorgesse del mio avvicinamento. La modalità del mio sguardo indagatore doveva per forza assumere una sfumatura diversa una volta che proditoriamente accorciavo le distanze. Certo, questo accorciamento era metaforico e non reale, in sostanza le distanze rimanevano sempre quelle di sicurezza, studiate a lungo e ormai applicate automaticamente. Ma l’accostamento produceva visioni che in altra prospettiva sarebbero state da me scartate come inutili fantasie. Se c’è una metamorfosi in corso essa è in me, non nel mio uomo, distribuisce diversamente la responsabilità, ne rinvia una parte considerevole ai committenti, senza per questo rendere quella del torturatore di turno più leggera o meno apprezzabile. Esaltando una responsabilità più ampia riuscivo a cogliere rapporti interni alla struttura nemica che nulla aggiungevano al mio indagare, ma che mi consentivano di accostarmi al mio uomo più profondamente. Entravo meglio nei meandri e nei misteri di una mentalità fuori di ogni compassione umana, gelida, che sarebbe stato pazzesco prendere in considerazione come attenuante. Non era questo il mio scopo. Cercavo di vedere in che modo poteva essere ricevuto da un uomo, per quanto imbarbarito dal mestiere di boia, l’ordine di esercitare le sue arti sul corpo di un povero disgraziato finito nelle sue mani. Mi rendevo conto che questo rapporto gerarchico non si fondava su grandi discussioni, bastava di certo un cenno allusivo, una sola parola, perché l’ordine venisse trasmesso, ed era pur sempre un comportamento umano, non erano automi o bestie, erano uomini che facevano quelle innominabili cose. Sarebbe illusorio pensare di capire questa mentalità, anche facendo lo sforzo di includere lo scopo da raggiungere, facendo parlare il torturato. Non sto cercando di giustificare niente, come dovrebbe essere ovvio a tutti, sto solo cercando di capire a quale livello di degradazione può arrivare un uomo, un uomo come tanti altri uomini, un uomo del tutto normale. E la sua normalità sta tutta nell’esecuzione della sua opera secondo certe regole, seppure non dentro certi limiti. Anche un boia ha le sue catalogazioni e i suoi metodi e anche chi gli dà ordine di applicarli ha i suoi e la differenza è quasi sempre risibile sfumatura. Il rapporto tra torturatore e torturato è un rapporto eminentemente umano, non ci sono bestie che vi si frammettono. Uno colpisce e l’altro riceve i colpi. In ambedue i casi funzionano due esseri umani, il primo padrone dell’altro in sua balia, il secondo che cerca di rendere quanto più sopportabile il dolore avventurandosi nel tunnel oscuro della paura e della morte. Certo, il boia ha lo sguardo giusto, e lo si vede anche nel corso dei controlli fattuali che si sviluppano per giorni e giorni, per settimane. Ma cos’è questo sguardo giusto? È un’occhiata che è capace di indagare la resistenza fisica dell’altro, per modulare progressivamente i mezzi da impiegare. E questo sguardo è uno sguardo umano, non ha nulla di ferino. Entra negli occhi altrui e indaga senza volerlo, come un riflesso condizionato. Ecco che il nostro uomo, così facendo, anche guardandomi negli occhi, e scrutando senza volerlo la mia capacità di resistenza, mette avanti il suo essere uomo, e torturatore, mi fornisce quasi la sua carta d’identità. È uno sguardo giusto ed è anche triste, non c’è spavalderia o tracotanza, come ci si potrebbe aspettare da chi è abituato a spezzare con le mani proprie, a pezzo a pezzo, la vita di un altro uomo. È anzi uno sguardo triste, come se anche i suoi occhi fossero consapevoli dell’abiezione in cui si è calato il possessore di quello sguardo. L’ospite inatteso non guarda mai negli occhi, il destino non ha di queste debolezze.


209. – Il personaggio che inseguiamo, e che cambia di volta in volta, lo si deve inquadrare bene partendo dalle informazioni iniziali, in genere stringate e categoriche. Poche indicazioni, una foto, la sua qualità nell’arcobaleno delle nefandezze umane. È il contatto col nostro lavoro che lo rende più concreto, meglio dettagliato, che fa fiorire in questo modo attorno a lui le sue abitudini e i suoi comportamenti quotidiani, le sue debolezze e le sue idiosincrasie. Trattandosi di individui che svolgono un lavoro altamente deformante dal punto di vista psicologico, sono pieni di paure, ricorrono a sotterfugi da adolescenti, se si guardano attorno con aria spavalda non riescono a nascondere un gesto di paura. Oppure incassano la testa nelle spalle e vanno avanti alla cieca, considerandosi candidati a un destino di morte violenta. C’è in loro una sorta di attrazione fatale per la conclusione, quasi corressero a braccia aperte verso questo destino, alcuni in modo chiaro – è il caso dei traditori irlandesi – altri in modo inconscio, incapaci questi ultimi di rendersi conto dell’atmosfera che li avvolge come un lenzuolo funebre. Mi è sembrato a volte di avvertire attorno al loro fare quotidiano una sorta di silenzio che nessuno poteva turbare, né movimento della vita circostante né improvviso sobbalzo dell’animo. È un segno simbolico di quello che sta prendendo corpo sia col nostro lavoro di raccordo e verificazione, sia col loro operare mostruosamente letale. Sono due flussi inesorabili che si incontrano e che non trovano modo di compenetrarsi. Ognuno resta avvolto nella propria imprescindibile ottusità. Da un lato il potere che si esprime al più alto grado della sua spudorata esistenza, dall’altro la risposta di libertà che non trova altra strada che quella di attaccare colpendo in maniera radicale. È qui il sigillo del rapporto intimo tra questi due movimenti. È inutile e impossibile pretendere l’estraneità, la distanza dal massacratore, qualcosa di oscuro è in marcia e si concretizza in un accostamento fisico e mentale. A poco a poco riconosco gli atteggiamenti del mio uomo e se lui non fosse chiuso nel bozzolo del suo destino potrebbe riconoscere i miei atteggiamenti. Lo fa? Lo fa e non se ne cura? Non lo so. A volte ho l’impressione che stia aspettando che una ventata di rapacità gli piova addosso. Ricordi minuti e lontani che adesso si accavallano gli uni con gli altri. Per altro queste note, così tarde, non aspirano nemmeno a essere una vera rammemorazione. Si fermano prima e premono su di un doloroso bubbone per fare uscire la cancrena che urge dentro. Mi capitava a volte la spontaneità di un gesto improvviso che mi lasciavo scappare, un segno che il mio colpo di soprassalto inviava all’altro senza volerlo, come per dirgli che ero là e che non sarei mai andato altrove, per un’altra strada, perché io ero il suo destino. La reciproca presenza lancia segnali continui e involontari. È questo forse il registro della comune umanità? Non posso saperlo, sono qui solo per registrare queste anomalie. La sua freddezza poteva essere anche sicurezza di sé, sorprendente noncuranza, ma anche sottomissione anticipata, accettazione supina. La mia gelida concordanza di controlli e duplicazioni poteva essere metodo ormai introiettato oppure semplice modello per nascondere le mie incertezze e le mie paure. Chi può dirlo? Questi incontri a distanza, ripetuti, anche se differenziati nelle modalità, finivano per avere un carattere iniziatico. L’uomo presentava la sua più intima miseria, io presentavo la correttezza presunta di un metodo oggettuale capace di assorbirmi senza fare una piega. Ognuno si alimentava della propria tracotanza. Da un lato il male e dall’altro il bene? No. Non esiste una distinzione netta di questo tipo. Nel mezzo c’era l’impudenza di due procedimenti paralleli, destinati a sfiorarsi senza capirsi fino in fondo. Il senso del fare diretto a costruire la dimensione attiva dell’attacco aveva i suoi limiti nella propria insostituibilità e nella propria indispensabilità. Il senso del torturatore si aggirava anch’esso in una attualità fine a se stessa, senza sbocchi attivi, destinata solo a rimanere cieca macelleria per conto del potere. Il nostro fare aveva come obiettivo l’agire nella qualità, la libertà prima di tutto. L’ospite inatteso è nell’azione che prendeva corpo. La qualità non è dicibile in parole, ecco perché qui parlo di qualcosa che non si può dire.

210. – L’insieme dei macchinosi procedimenti di controllo e di corrispondenza, dove si riassumeva quasi completamente il nostro lavoro, rischiava di farci perdere di vista lo scopo stesso della nostra attività. La trasformazione attiva era, nell’azione, un trauma troppo violento se accostato alla metodica fattività quotidiana della preparazione. Questa gradualità irreversibile, immutabile nelle sue grandi linee, era eminentemente un’espressione quantitativa e pertanto non aveva altro destino che quello di scontrarsi con la qualità dell’azione. Qui ogni valutazione di responsabilità non era niente o poco più di niente, lo stesso l’insieme delle procedure che ci avevano confortato prima. L’azione respirava la sua atmosfera fuori del tempo e della fattività. L’oggetto delle nostre attenzioni, che era stato prima uomo o mostro, a seconda delle singole considerazioni etiche che accompagnavano il nostro fare, era adesso l’azione in atto, un fantoccio accartocciato, un mucchietto di stracci, il passaggio veloce e anonimo dell’ospite inatteso, mentre per ognuno di noi l’azione incideva nella nostra pelle l’esperienza diversa della qualità. Là, dietro di noi, abbandonato nella sua improvvisa (e forse inaspettata?) distretta, stava un uomo. Che ne era della nostra consapevolezza? E della sua? Non lo so. Per buona parte avevo la sensazione fisica di sgravio di chi ha portato a termine un lavoro impegnativo, incerto e problematico. Per un’altra parte era proprio quello il momento – almeno per me – del pormi le domande più acute e prive di risposta. Quello che era avvenuto, l’intera azione nella sua puntualità fuori del tempo, era qualcosa che stava per intero fin nei primi nostri passi informativi. Lo schema, imprevedibile, dell’azione si rifletteva nel fare quotidiano e lo rendeva assillante e indispensabile. Ma, se la cosa stava così, perché avvertivamo la presenza della qualità nell’azione? Non era questa la prova di una nostra illusione, continuamente alimentata per sentirci tranquilli con la nostra coscienza di liberatori? Portavamo a buon fine una condanna che esisteva fin dall’inizio, non avevamo in nessuna di queste due fasi modo di padroneggiare né il nostro fare né il nostro agire. No. Non poteva essere così, in quanto in questo caso avremmo continuato all’infinito il fare quantitativo e non avremmo mai avuto accesso alla qualità, che al contrario sperimentavamo sulla nostra pelle. La stessa rammemorazione, persino queste tarde pagine, non avrebbero avuto modo di esistere e non esisterebbe neanche questa sera di agosto, orribilmente calda e opprimente in una piccola cella di un carcere greco. No. Ci sono state – è ovvio – delle lievi oscillazioni, in modo particolare in Irlanda, ma in fondo l’oltrepassamento era chiaro, la controparte stava là, davanti a noi, più o meno cosciente del proprio ruolo immondo – su questo ci sarebbe tanto da opinare, ma a che scopo? – e andava per la sua strada. Per quel che mi riguardava c’era uno squilibrio insanabile, ma tollerabile. Sentivo la necessità di un accostamento umano all’informe soggetto che mi stava di fronte, non tanto – cosa impossibile – per conoscere meglio e per approfondire le sue orrende colpe, ma perché non potevo accettare la coscienza immediatamente, sanamente oggettuale, che piena di sé dà la caccia al mostro sentendosi nel suo pieno diritto di farlo. Non era la gravità della colpa, riassunta approssimativamente nel messaggio informativo iniziale, che sollecitava maggiormente questo accostamento, e nemmeno il senso di pietà per le debolezze umane, di cui era ridondante l’esperienza dei traditori irlandesi, ma qualcosa d’altro. Era il procedimento stesso che mi obbligava a sentirli vicini come uomini non come mostri, e questa vicinanza cresceva pericolosamente – fino a un certo punto – con il prolungarsi del lavoro. La quotidianità permetteva una collezione di comportamenti umani, normali, che cancellavano o mettevano in secondo piano l’entità mostruosa servita dall’informazione iniziale con tutte le sottolineature possibili. Il procedimento faceva presa su di noi, ci coinvolgeva, ci accostava, ci rendeva consapevoli di una vita umana che viveva sotto i nostri occhi, per cui dovevamo continuamente fare appello alla definizione standardizzata di miserabile verme, se non proprio di mostro, man mano sempre di più mentre si avvicinava silenziosamente il passo dell’ospite inatteso.


211. – Non c’è dubbio che il procedimento preventivo all’azione, nell’insieme delle sue modalità, ha una influenza sul soggetto preso in considerazione. Ciò non tiene conto della eventualità – qui considerata marginale – di un insospettirsi del soggetto, ma soltanto dell’influenza della nostra opera di filatura, di verifica, di corrispondenza. La materia oggetto di questo procedimento subisce una modificazione che ricorda una sorta di riduzione alle sue componenti essenziali, attorno alle quali ruotano i comportamenti e le ripetizioni. Queste componenti sono di due tipi, quella proveniente dall’informazione che potremmo definire identificativa o catalogante, e quella che emerge nel corso dell’accostamento, che potremmo chiamare semplicemente umana. Questi due momenti non si contrappongono né si integrano, concrescono parallelamente, per cui più l’estremizzazione delle accuse è forte e più preme alle porte un residuo di umanità che vuole essere preso in considerazione. Questa è la maturità dell’azione, il suo completamento in cui c’è solo la qualità, cioè la verità in questo caso, senza ostacoli o infingimenti diretti ad accampare giustificazioni morali. La maturità consente un oltrepassamento netto, senza ritardi, non appena si sono compiute le operazioni fattuali necessariamente antecedenti. È lo scopo dell’azione, l’arrivo dell’ospite inatteso. In quel preciso momento il personaggio non è più che un bagliore della qualità, partecipa dell’assoluta nudità dell’azione priva di tempo e di luogo, anche se tutti gli sforzi precedenti sono stati diretti a precisare percorrenze e decorsi, cioè unità di tempo e di spazio. Nell’azione il personaggio non è più il torturatore o l’informatore di turno ma è il riferimento abbagliante che la qualità pone sotto gli occhi della coscienza diversa nel momento che la ospita. In essa non c’è più una separazione tra noi che misuriamo all’insaputa dell’oggetto misurato e questo oggetto che deve essere tenuto all’oscuro della misurazione. In quest’ultimo fuori del tempo tutto il mondo può rendersi conto di quello che sta succedendo. Le vecchie distinzioni tra la mostruosità al servizio della repressione e la libertà che vuole agire per trasformare la realtà orribile che le sta davanti cadono impietosamente. La precedente situazione fattuale ha un arcaismo che la contrassegna come appartenente al mondo in cui i fantasmi si sovrappongono e schiacciano la realtà col loro peso. Nell’azione non si hanno più le nozioni di indagato e indagatore, di inseguito e inseguitore. Non c’è più il mostro che deve essere abbattuto e chi lo deve abbattere, l’uomo integro nella sua corazza morale rilucente di cavaliere della giustizia. Ed è proprio l’azione che fa vedere come queste distinzioni appartengono a un universo separato e ormai oltrepassato. Qui non sussistono definizioni o regole capaci di circoscrivere ambiti e significati. La situazione attiva è qualitativamente neutra, indistinta, mentre dal punto di vista essenziale, suo proprio, cioè qualitativamente, è caotica, è il caos stesso che sbadiglia al momento in cui il fare è oltrepassato. L’informazione originaria è nella notte dei tempi, nelle catalogazioni del fare, non è accessibile alla qualità né appartiene ai moventi dell’ospite inatteso. Non si tratta di elusività, si tratta di essere dislocati altrove, e questo altrove ha chiuso con le informazioni e anche con l’insieme complesso e articolato delle corrispondenze. Il caos tutela se stesso evitando di mischiarsi con motivazioni oggettuali o psicologiche che non gli direbbero nulla e che, al contrario, cercherebbero di imporgli un qualche motivo organizzativo e metodologico. Nella rammemorazione, osservando questa condizione da una certa distanza, si deve ammettere che si è davanti – pur sempre restando nel caos della qualità – a una coerenza assolutamente unica. L’ospite inatteso è il messaggero silenzioso del destino, il suo scopo è prima di tutto di garantire la supremazia dell’ignoto, poi di arrivare alla radice di quell’attimo fuori del tempo che l’azione gli assegna, dove perfino il luogo fisico in cui finisce per giacere il mucchietto di stracci è inesistente, e il destino non può essere disturbato da un qualche movimento imprevedibile, da un motivo estraneo, da un ripensamento. Tutto ciò è prima di ogni cosa tempo e accade cronologicamente. L’ospite inatteso è estraneo e incomprensibile al tempo, il suo silenzio non ha scansioni.


212. – Non era facile ridurre nell’accostamento l’urgenza d’umanità che veniva fuori, per consentire un certo distacco indispensabile all’accertamento delle corrispondenze. L’oggetto del nostro interesse prendeva sul serio il suo mestiere – tranne i casi dei traditori irlandesi –, informatori, provocatori, torturatori, tutti si calavano nel loro fare quotidiano e qui trovavano la forza per andare avanti. Dall’esterno non si poteva cogliere la vera natura di questi automi, o presunti tali, li si forzava al ruolo ripetitivo dell’esecutore di ordini, cieco e ottuso quanto mai, ma era un ruolo di comodo, che faceva comodo. In fondo, non era facile identificare la loro singola peculiarità, mancavano informazioni o alcuni di questi aspetti non erano ritenuti importanti, quindi non comunicati. Questi soggetti erano in fondo abbastanza isolati anche nel loro ambiente, non era dato sapere se avevano amicizie o frequentazioni personali fuori del lavoro, quando entravano in contatto con una persona subito la nostra attenzione si focalizzava anche su quest’ultima, sul tipo di condotta, se c’era trasmissione di materiale informativo, non avevamo interesse a scoprire se tra i due c’era un qualche rapporto umano, di amicizia, di fiducia, di rispetto. Questa gente non aveva un senso dei rapporti umani, era tagliata fuori, isolata, almeno queste erano le conclusioni a cui si arrivava dopo un certo tempo. Erano racchiusi a forza all’interno del loro mondo asfissiante in cui vigevano le dure leggi del sadismo e della segretezza. Qualche volta, da un cenno improvviso o da una insospettabile deviazione, appariva chiaro che davano dei colpi di testa per fare qualcosa di diverso, entrare in contatto col mondo esterno da cui in sostanza erano tagliati fuori. Queste eccezioni li conducevano in una sorta di territorio intermedio, anch’esso desolato e ambiguo, in ogni caso, per loro, parimenti insoddisfacente. Le incertezze e gli sviamenti, per quanto possibile, non li conducevano mai a uscire fuori dalle regole di fondo. Sapevano che ciò era inaccettabile e non speravano certo su di una magnanima concessione dei reciproci committenti. Un informatore – in fondo figura sfumata e intermedia – restava informatore per sempre, infido per gli stessi manovratori che dovevano ogni volta fare la tara sul materiale messo a loro disposizione. Penso che la vita di questa gente fosse dedicata col massimo sforzo a riuscire convincenti, produrre per loro significava convincere. Niente altro trovava posto nel loro mondo interiore. Ancora più ristretta e codificata la vita del provocatore, da cui si aspettavano risultati visibili in termini di coinvolgimento, persone da compromettere in falsi progetti di attacco contro la repressione. Del torturatore è meglio non parlare. Il suo mestiere, ancora più chiuso e atroce, parla da sé. In ultima analisi il loro rapporto gerarchico era anormale, non poteva seguire le vie regolari dove la responsabilità è direttamente scaricata in modo visibile sul superiore. Qui la gerarchia era sfumata in gradazioni allusive, dove nessuno metteva niente di nero su bianco, solo automatismi, cenni di acconsentimento e subitanee ripulse. Per tutta questa gente i loro superiori e quindi i loro committenti non erano mai esattamente identificabili. Spesso nelle tasche degli informatori si trovavano relazioni scritte che venivano indirizzate in maniera generica a reparti del servizio, come dal niente al tutto. Essi erano in un gradino, infimo, della gerarchia repressiva, ma non conoscevano esattamente la propria collocazione. La parte superiore di queste gradazioni era per loro un mistero e lo era anche per noi. Ciò li animava di una condizione psichica di perdenti. Erano sempre in attesa dell’arrivo di un accadimento che risolvesse una volta per tutte i loro problemi. Individui rassegnati al proprio destino? Certo non tutti. Per i non rassegnati c’erano ostacoli materiali che li inchiodavano alle loro procedure, erano quello che erano per la vita e per la morte. Questa condizione ineluttabile del singolo si riproduceva, a quello che riuscivo a capire, nell’intera struttura che confusamente stava alle loro spalle. Il fare che soffocava gli esecutori era lo stesso che soffocava la struttura complessiva e rendeva grottesco e terribilmente vago tutto il loro spaventoso lavoro. L’ospite inatteso arrivava silenzioso su questa vuotezza e la privava dell’ultima traccia di senso.


213. – L’insieme di questo mondo semisommerso è spaventoso, esseri apparentemente capaci di condurre una vita normale, come tutti gli altri uomini, sono invece immersi in una gelatinosa matassa che li avvolge costringendoli a giocare un ruolo odioso e in fondo marginale. Se non fossero aberranti le manie di grandezza dei pochi che tengono in mano i fili della matassa, non potrebbero dare vita a questa sorta di animale dalle cento teste, incapace di capire fino in fondo quello che sta facendo. Ecco quindi che le nostre osservazioni avevano come oggetto qualcosa che restava in sostanza sempre sospeso a mezz’aria, privo di ragioni e di scopi comprensibili che non fossero quelli della mera autoriproduzione. Ogni taglio – e le nostre azioni realizzavano proprio questo con l’arrivo dell’ospite inatteso – faceva saltare via una delle teste di questo animale cosmico, ma il resto si compensava riequilibrandosi, per cui il tutto sembrava non avvertire il colpo, almeno nell’immediato. Poiché non c’erano riscontri pubblici – non erano interventi che finivano nei giornali se non come attacchi criminali e banditeschi – e in ogni caso solo in parte – non c’era nemmeno un commento di regime. Le stesse nostre informazioni raramente indicavano qualcosa in merito ai risultati ottenuti o alle difficoltà procurate al nemico. Forse questo si chiudeva sempre di più nella propria segretezza e nella propria gratuita cattiveria, forse no. Chi poteva dirlo? Non si era comunque davanti a un meccanismo dotato di assoluta autoregolazione e i colpi, alla lunga, dovevano avere delle conseguenze, anche se non ci era dato conoscerle in dettaglio. Si andava avanti alla cieca perché si avevano reazioni psichiche solo dei soggetti su cui si continuava a lavorare, anche dopo un intervento radicale. E questi non davano quasi mai segni di turbamento. Continuavano le loro abitudini, restavano nel proprio piccolo mondo come pesci in un acquario. Un organismo chiuso non manda segnali al nemico e, per converso, neanche noi mandavano segnali diretti alla controparte. Le comunicazioni dirette alla gente avevano quasi sempre un contenuto generico e riguardavano un’analisi delle condizioni sociali e politiche in cui la nostra azione si sviluppava e di cui costituiva una sollecitazione a insorgere, sia pure piccola e a volte addirittura irrisoria. Per un altro verso, la nostra lotta era di conserva, ribatteva i colpi ricevuti e cercava di correre ai ripari dopo che il danno era stato fatto. Non potevamo prendere l’iniziativa, le informazioni erano la nostra molla fattiva e tranne casi rarissimi indicavano specifiche persone o contesti ristretti e determinati nel tempo e nello spazio. Sarebbe stato velleitario sfidare il potere militare in campo aperto. Qui sto riferendomi a condizioni repressive fuori del comune, particolarmente estreme, in cui la tortura raggiunge livelli di applicazione mille volte maggiori a quelli praticati nelle condizioni democratiche oggi correnti. Non ci illudevamo pertanto di cogliere di sorpresa questo animale cosmico in modo da mandarlo a gambe levate, potevamo punzecchiarlo, questo sì, creare una lunga guerra di logoramento, contrapporre colpo su colpo, ma non prendere decisamente noi l’iniziativa. E poi, questo mostruoso organismo era cosciente dei suoi mezzi e dei suoi limiti, in questo sottobosco di manovalanza specializzata in oscuri incarichi, sapeva dove pescare le nuove reclute, come e dove addestrale, come motivarle. Noi avevamo solo la bellezza dell’azione nella sua conclusione puntuale, che ci ripagava, quasi senza perdere un colpo, delle lunghe fatiche del fare preventivo. Mi rendevo conto che più i nostri personaggi erano pericolosi per l’estrema capacità nello svolgere il loro odioso compito e più riuscivano a passare inosservati, era facile confonderli nell’anonimato della folla, se erano veri specialisti non avevano mai l’aria aggressiva o iattante di chi presume di avere in mano la vita dei suoi simili. Elementi segreti di un lavoro segreto, erano in grado di rendere segreta persino la loro personalità, per cui spesso mi chiedevo come poteva quell’essere amorfo e anonimo che avevo davanti, con i suoi occhi acquosi e sfuggenti, essere un torturatore professionista. Ma l’ospite inatteso non accettava simili dubbi, andava subito alla radice del problema che, per lui, aveva una sola soluzione.


214. – Eppure questo apparato mastodontico che ci stava davanti era parte integrante del potere, quindi della legge e dell’ordine. Questi due concetti sarebbero privi di senso se non prevedessero quelle estremizzazioni che le persone per bene chiamano mostruosità. C’è un patto segreto tra i limiti che la legge raggiunge e il suo superamento, accettato e tenuto presente come indispensabile in certi casi. Alla base di questo patto c’è il concetto diabolico di segretezza, che tutti condividiamo. Non ogni cosa può essere fatta alla luce del sole, neanche le cose che fanno capo alla legge che, apparentemente, essendo uguale per tutti, dovrebbe da tutti potere essere vista in faccia. E invece non è così, la pura contemplazione della regola storna l’attenzione dalla fuoriuscita dalla regola e questo collocarsi in un altrove senza etichetta fa parte integrante della regola stessa. La legge non sarebbe concepibile senza queste aberrazioni. Tutti gli uomini di potere sanno che cosa succede nelle stanze segrete, sanno anche che questo accadere è in linea teorica condannabile dalla loro coscienza ma in pratica rende possibile la sussistenza del potere il quale si fonda proprio sui massacri, piccoli e grandi, sempre sui massacri. La capacità punitiva e intimidatoria è quindi intrinseca alla regola, non ne costituisce l’eccezione, il superamento di cui sopra riguarda la lettera non la sostanza. Un potere prigioniero della lettera è destinato a perire, e lo sa. Per questo i poteri forti hanno un superamento più ampio e frequente di quelli democratici, ma questi ultimi non sono esenti, anzi ricorrono a metodi più raffinati e forse più efficaci. Disturbare questo assetto di cose era il nostro compito perché troppo estremizzato e perché diretto a mantenere in piedi una repressione generalizzata di natura dittatoriale. Quando mi sono trovato a lavorare in Italia – paese cosiddetto democratico – le difficoltà erano maggiori, molti erano convinti che non bisognava disturbare l’andamento repressivo perché fondato sulle leggi di una democrazia antifascista. Tranne rari casi, l’ospite inatteso rimaneva in questo paese inoperoso. Di questi rari casi non è qui importante occuparsi perché ne ho parlato diffusamente altrove. L’opacità del potere democratico rende più difficile il lavoro informativo ma non vincola a un centro di gestione che è padrone assoluto delle fonti. Lavorando in queste condizioni, sempre col solito metodo degli approfondimenti e delle corrispondenze, ci si rendeva conto di come la sostanza delle cose – leggi e loro superamento – fosse in fondo la stessa. Ciò apriva un sospetto, che tutto l’apparato legalista, visibile e strombazzato, non fosse che una mascherata simile, e di valore rovesciato, a un qualsiasi potere militarista e dittatoriale. Seduto tranquillamente in un caffè frequentato da studenti, un provocatore o un informatore faceva lo stesso lavoro in Italia o in Grecia, in Irlanda o in Spagna. Attorno a lui lo stesso materiale umano disponibile, la stessa speranza di libertà, la stessa ingenua ricerca di qualche indicazione per agire. E questi pagliacci, incaricati dai loro mandanti di recitare una parte, si assomigliavano tutti. La mimetizzazione regnava sovrana nella vita di tutti i giorni. Anche noi l’applicavamo – per il giusto motivo, per carità – ma non facevamo così parte tutti della medesima recita, ognuno con i suoi ruoli da giocare fino in fondo? Non ero capitato male a proposito con il mio bisogno di libertà e con la mia passione di liberatore? Non correvo sempre il rischio di fare il gesto sbagliato, di avanzare col passo fuori luogo? Come potevo recitare un copione che non condividevo, anche se lo conoscevo alla perfezione? Non ero anch’io un pagliaccio, sia pure con un abito di pezze multicolori differenti? Gloriarmi per avere portato a termine il mio lavoro di filatura, di controllo, di duplicazione, non era un modo per darmi un fondamento di giustizia, per considerarmi dalla parte non sbagliata del mondo? Ero decente nel mio comportamento? Ero accettabile, per primo a me stesso? Certo che lo ero, sennò non avrei continuato, sarei fuggito via. Ma questa decenza era realmente fondata, oppure trovava la sua forza unicamente nel momento dell’azione, quando la qualità brucia la mia pelle e il mio cuore? L’ospite inatteso era fortunatamente refrattario a questa domanda.


215. – C’è qualcosa di spudorato in tutta questa gente, sotto diverse latitudini, solo in Africa la tipologia cambiava radicalmente, qui c’era quasi dovunque una innocenza barbaramente primitiva, una mancanza di doppia mentalità, almeno nelle mie personali esperienze che non sono state molte. Qui non si avevano specialisti ma dilettanti che mettevano in mostra la loro individuale contentezza nel servire padroni lontani, colonizzatori remoti ormai sulla via del tramonto. Le loro attività, a volte superficiali e scoperte, le pagavano direttamente e non ammettevano dubbi con se stessi, si aspettavano il proprio destino in un clima da ultimi giorni. Riassumevano le umiliazioni di un intero popolo – ad esempio nelle regioni montagnose dell’Algeria – e sopportavano il proprio lavoro come un supplemento di incertezza e di fatica che volevano rendere quanto più leggero e transitorio possibile. Fuggivano da se stessi, come in Uganda, in una posizione incerta, servivano un regime in corso di autodistruzione e cercavano di rendere comprensibile a se stessi quello che facevano, senza risultati accettabili. Non appena diventava visibile la filatura fuggivano via e abbandonavano la loro condizione di venduti per quella ancora più rischiosa di fuggiaschi senza un obiettivo e senza un luogo dove andare. Quasi mai l’ospite inatteso realizzava il proprio intervento, il tessuto africano era del tutto inadeguato, si sbriciolava nelle nostre mani, tranne qualche funzionario coloniale che ancora restava al suo posto, senza convincimento e a volte senza direttive. Qui gli scontri più seri erano tra movimenti di liberazione, ma noi ci tenevano lontani da ogni compromissione diretta. Ho rivisto molti anni dopo un vecchio compagno e la sua storia era una disillusione completa. È morto recentemente in un incidente d’auto. Le esperienze più significative restano quella della Palestina e quella europea. È qui che mi sono posto i problemi più contraddittori e laceranti perché è qui che l’azione dell’ospite inatteso è stata più ampia e dettagliata. In queste esperienze difendevo con i denti il mio attaccamento alla libertà eppure, giorno per giorno, ero costretto a cedere un poco di terreno. Difendevo così il mio ideale ma anche la mia sopravvivenza, sapendo bene che qui, in condizioni repressive organizzate al massimo livello, ogni errore poteva essere quello definitivo. Difendevamo quindi il nostro lavoro anche se da parte mia venivano sempre a galla i soliti dubbi. Gli spettri sfilavano nella loro oscena carrellata quotidiana e ci sentivamo obbligati a considerarli categorie di aberrazione non uomini. La devozione all’umanità che, come sogno comune, è simile alla speranza e pertanto tarda a morire, riaffiorava a tratti come una fede monoteista, ottusa e ripetitiva. Occorreva metterla da parte, fare finta di niente per non sentirsi degradati, per non essere abbassati noi stessi al ruolo immaginario di spettri, solo col segno cambiato. Troppo abbagliante, in alcuni casi, l’orrore della situazione per essere messo da parte o per poterlo sostenere. Ecco quindi la necessità di una via intermedia. Né uomini né mostri. Un atteggiamento rituale nei riguardi del nostro lavoro, forse non solo rituale ma devozionale. La visione di certi individui, il vederli camminare nella loro normale andatura di esseri umani, era spesso intollerabile se non li si accostava come uomini, incastonarli oggettualmente in quello che essi veramente erano – almeno nei dati informativi in nostro possesso – era troppo stomachevole, insopportabile. Esseri repellenti che bisognava accostare per documentarsi, accostandoli ci si trovava a contatto con uomini ai quali non si poteva sussurrare qualcosa, scrostare dal loro cervello il marciume che allignava dentro. Ogni volta, in modo acuto e doloroso, la scena dell’accostamento si ripeteva, noiosamente e penosamente, fino alla nausea. Era la ripetizione di un modulo in cui soggetti diversi erano posti sotto il microscopio della nostra attenzione fattuale. Solo l’individuo in questione sembrava non accorgersi di nulla – e a volte non si accorgeva veramente di nulla – per lui erano sempre segnali nuovi e imprevedibili. Oppure no? Ho spesso avuto questo dubbio. La ripetizione è una nevrosi ossessiva e ha due lati. Solo l’ospite inatteso ne era immune, fuori del tempo in lui batteva il cuore del destino.


216. – Tutti questi individui avevano fra loro uno strano affiatamento, anche in paesi diversi, assecondavano una ritualità gestuale che sorprendeva per la sua uniformità. Erano un poco come animali in gabbia, loro che trattavano esseri umani come animali. Avevano tutti, tranne i casi dei traditori irlandesi, una sorta di addestramento che a volte sembrava più un addomesticamento. La loro connaturata ferocia era indirizzata esclusivamente verso gli obiettivi prefissati dalla gerarchia, poi ricadevano in una sorta di sonnolenza quieta e diffidente quel tanto che rendeva necessaria una certa dose di attenzione nel nostro lavoro. Mi sono più volte chiesto se avessero avuto una maggiore caparbietà di attenzione nel prevedere il loro destino, o almeno nel guardare quello che si andava costruendo loro attorno, se così fosse stato il nostro lavoro sarebbe potuto diventare di molto più complesso. L’abiezione li schiacciava in una sorta di uniformità da cui non sembrava potessero distaccarsi, erano preti di una religione dell’orrore, consacrati a un’opera nefanda e mostruosa, e come preti si comportavano, non avevano nulla di vivo e di anomalo, nemmeno nella gestualità o nel camminare. Tenute presenti le dovute differenze – peraltro marginali – camminavano e gesticolavano quasi tutti allo stesso modo. La loro obbedienza al compito assunto era stupida ma comprensibile, non si diventa quello che loro erano se non attraverso una educazione alla sottomissione assoluta. Non c’era luce nei loro occhi, e forse nemmeno uno sguardo degno di questo nome, eccetto quella costante e sfuggente modalità di guardarsi attorno senza veramente vedere. Eppure, almeno alcuni di loro, cioè gli informatori, dovevano guardare bene la realtà che li circondava, essendo obbligati a individuare i soggetti adatti alla provocazione o da cui attendersi possibili informazioni, ma si trattava di un vedere a senso unico, preselezionato, incapace di modulazioni. Non erano occhi i loro, erano schedari o dossier pronti a essere usati per sovvenzionare il compito dei torturatori, lavoro quest’ultimo strettamente collegato a quello che facevano. Vedevano solo quello che volevano vedere ma questo lo vedevano a fondo, li si poteva quasi osservare mentre sussultavano davanti alla preda, finalmente acchiappata quasi al volo, ed è su questa che il loro sguardo smorto acquistava colore e profondità. Non erano animali da preda, ma sciacalli subalterni, incapaci di correre il rischio di una vera e propria caccia, pronti solo a ghermire un debole o a individuare un leggero segno di disponibilità. Finita questa improvvisa commistione, nel corso della quale la loro concentrazione era di una considerevole intensità, quasi si accasciavano nel ritorno alla normalità stupida e noncurante, come se una parte essenziale della loro vita si spegnesse. Il corpo quasi rientrava in se stesso, le spalle si incassavano, le mani non trovavano mai un posto dove fermarsi. Quasi sempre andavano via, cercando un’altra vittima o tornando a casa o recandosi al comando servizi speciali. Su questi ultimi luoghi non ho molto da dire. La loro sorveglianza era espressamente vietata dalle decisioni del movimento perché troppo esposta e pericolosa. La collocazione la si individuava per forza di cose perché i nostri personaggi facevano spesso ritorno in questi luoghi dell’orrore. La soddisfazione che a volte appariva sul loro viso era il segno di avere fatto una buona pesca o, per i torturatori, di avere ottenuto un buon risultato con il minimo sforzo. In questi casi tutti o quasi mi ricordavano i movimenti felici di un cane che è stato accarezzato dal padrone. Questa era l’umanità che ci si rovesciava addosso e con la quale eravamo quotidianamente costretti a fare i conti. Niente di lusinghiero nei risultati del nostro lavoro, ripetizioni e corrispondenze, tutto secondo le più classiche cautele dettate dalla prudenza. Eravamo come attori che sapendo a memoria la propria parte recitavano senza sforzo e senza preoccuparsi eccessivamente del copione. Brutte persone normali sfilavano sotto la nostra apparentemente imperturbabile attenzione, poi, dopo qualche giorno o qualche settimana – a seconda della complessità del caso o dell’importanza del personaggio –, arrivava l’oltrepassamento nell’azione. Fuori del tempo e dello spazio era il momento della qualità. L’ospite inatteso si presentava puntuale.


217. – Nessuno di questi esecutori era qualcosa di più di una semplice particella. Erano tutti inseriti, a diverso titolo, in un meccanismo più grande di loro che li inglobava ma non li qualificava, tendendo al contrario ad appiattirli, a ridurli a semplici rotelle dell’ingranaggio. Se fosse stato possibile interrogarli sullo scopo del loro lavoro non avrebbero saputo rispondere al di là dell’immediata collocazione nel rapporto che li metteva davanti allo sventurato di turno. Fare parlare qualcuno, per cui è obbligatorio torturarlo, raccogliere informazioni, per cui si deve stare con le orecchie aperte in certi ambienti, fare certi discorsi per sollecitare provocandole opportune risposte, per cui è necessario saper mettere insieme quattro concetti prefabbricati. Nulla di più. Si trattava di contenitori di melma che venivano usati più volte, mentre nel caso dei traditori irlandesi l’uso, in genere, era uno solo, prima di abbandonarli a se stessi. Per ognuno non esisteva una storia personale, singolarmente non erano mai esistiti, fantasmi o spettri, avevano avuto modo di transitare fra le pieghe di un orribile montaggio di spaventose idiozie umane. Questa condizione era talmente fatta propria da tali personaggi da produrre un fenomeno di acquietamento, una sorta di accasciarsi sulle proprie responsabilità per non soppesarle, per non tenerle presenti. Posso dire che in nessuno di loro c’era la coscienza di un futuro diverso da quel contaminato presente in cui si dibattevano senza saperlo o senza volerlo sapere. Mancando un qualsiasi riconoscimento nella gerarchia di potere che li amministrava, erano sempre sospesi a mezz’aria come se in un qualsiasi momento potesse intervenire una catastrofe a cancellarli in blocco per sempre, sperdendo perfino il ricordo dei loro compiti orribili. Certo, ognuno si dava una prospettiva a breve termine, in altre parole viveva alla giornata, ma questa era proprio l’attesa di cui ho fatto cenno, la visione intima e personale della possibile catastrofe collettiva. Hanno mai avuto il desiderio, il bisogno di capire il processo di cui erano prigionieri? Non lo so. Si sono posti i perché che ogni uomo dotato di coscienza deve per forza porsi di fronte a un fare assurdamente repressivo? Non è facile rispondere a queste domande che mi sono chiesto più volte. Capire, in fondo, è uno stimolo connaturato all’uomo, per quanto possa venire obbligato a ridursi allo stato di bruto. Eppure sono arrivato alla conclusione che loro non hanno mai cercato di capire, anzi sono stati contenti di questa rinuncia, in caso contrario non avrebbero potuto fare quel lavoro. Nulla è più esasperante di questa conclusione, ma nulla è forse più vicino alla realtà. Non capire la propria vita è qualcosa di più profondamente stupido del limitarsi a capire solo quello che si sta facendo, significa ripugnare a se stessi, fuggire di fronte alla propria realtà e rifugiarsi nella roccaforte di ciò che va fatto per forza perché si tratta di un ordine. È il fare stesso, a un certo punto, che nell’accumularsi della propria oggettualità impedisce la comprensione. Allo stesso modo è come se noi ci fossimo limitati a preparare il lavoro di precisazione e di corrispondenza senza mai pervenire alla concretizzazione attiva dell’oltrepassamento, senza agire. Saremmo stati degli stupidi automi senza essere in grado, in poco tempo, di dire quello che si stava pur facendo. A un certo punto, punto critico di rottura ma anche di sicurezza, il fare accumulativo andava fermato e ci si doveva trovare al di là, nell’oltrepassamento, chiudere la partita o chiudere noi stessi davanti a qualsiasi capacità di comprensione. Da questa immersione nella qualità veniva la nostra capacità ma anche la nostra necessità di capire. E comprendendo il nostro – o almeno, per essere più esatti, il mio – continuo domandare, perché? perché l’umanità che ci stava davanti, che sfilava tutti i giorni sotto i nostri occhi, con i suoi atteggiamenti ferocemente grotteschi da tristi pagliacci, si rifiutasse di capire. Nemmeno l’arrivo dell’ospite inatteso poteva definirsi un’occasione per loro – sia pure al limite – di capire. Era troppo separato, questo intervento, troppo qualitativamente diverso per essere la base di una futura comprensione. La morte non ha futuro, ha solo un presente fuori del tempo, essa nega il tempo e il luogo, azzera la vita, taglia il filo della Parca, non fornisce spiegazioni o insegnamenti da utilizzare in un prossimo futuro. Anche il mucchio di stracci che ci lasciavamo alle spalle non poteva servire da monito per gli altri personaggi del circo dell’orrore. La normalità del loro comportamento non veniva da questo mai turbata né si potevano scorgere i segni di una modificazione qualsiasi.


218. – Questi servitori nascosti di un potere infame avevano qualcosa in comune nella stessa varietà dei loro compiti, per quanto potessero essere lontane le rispettive opere di collaborazione alle quali si dedicavano. Chi più chi meno, addentro alla propria dedizione a una causa persa in partenza, erano tutti allo stesso livello di infima sudditanza, se si fossero confrontati tra loro – cosa impossibile perché quasi sempre nemmeno si conoscevano – si sarebbero trovati tutti ugualmente repellenti. Cioè potevano sottoporre ai nostri sguardi di osservatori attenti ad altri aspetti una sorta di normalità umana che risultava assai simile a quella di tutti, ma non si sarebbero potuti ingannare fra di loro. Possedevano difatti stigmate segrete, solo a loro note, che li avrebbero individuati implacabilmente. Avevano una velenosità intrinseca che non era facile cogliere e che guizzava via solo a tratti e veniva colta da noi con difficoltà. Come potevamo accedere a questo loro segreto? Non era possibile. Ancora una volta l’unica cosa da fare era ripiegare sullo studio codificato delle corrispondenze e delle duplicazioni. Per quanto i loro atteggiamenti intendessero assimilarli alla normalità del contesto che li ospitava, ci riuscivano sempre male a proposito. Se fisso adesso il ricordo – ma sarebbe meglio dire, a questo punto, la rammemorazione – su uno qualsiasi di loro, riassumo in me stesso una figura meschina che mi fa orrore, e questo orrore è maggiore proprio nelle figure più apparentemente normali, minore poniamo nei traditori irlandesi, circondati dall’aura ineluttabile della loro solitudine. Il succedere della fattività di questi personaggi – provocatori, informatori, torturatori – non era per noi accessibile direttamente, lo dovevamo dedurre da alcune informazioni, in genere iniziali, oppure da quello che vedevamo nei nostri quotidiani riscontri, ma non si potevano individuare con esattezza. Anche dedicando maggiori energie alle nostre ricerche non avremmo concluso molto di più cercando di capire cosa e chi il provocatore avesse provocato o l’informatore trasmesso. Ancora più chiusa la fattività oscena del torturatore. L’impressione generale era che questi soggetti svolgessero a tempo pieno il loro lavoro e che venissero scelti fra individui isolati, senza molti legami familiari, rifiuti della stessa società, sradicati o abituati a vivere come tali. Essi avevano così investita tutta la loro vita in quello che facevano. Le case dove vivevano, in genere in periferia, si somigliavano quasi tutte. Anonime, normali, abitazioni desolate, senza un segno di personalità o di animazione quale che sia. Questa condizione non deve essere confusa con una assoluta dedizione ma semplicemente era la conseguenza di una selezione operata in altro luogo da una gerarchia di specialisti abituati a individuare persone di questo genere arruolandole direttamente – cioè ufficialmente per quanto possibile – o indirettamente, cioè ricattandole. Ognuno ha quindi alle proprie spalle un cammino simile, oppure accostabile agli stessi procedimenti selettivi. Ne risulta la codificazione di una certa categoria di persone che non hanno nella società nessun ruolo, nessuna storia, nessun futuro. Naturalmente non abbiamo mai parlato con qualcuno di questi personaggi, era assolutamente vietato entrare in contatto diretto con loro, ma la stessa necessità di accostarli – almeno in me – causava una vicinanza non solo fisica ma psicologica. Li vedevo per giorni e a volte per settimane, non potevo non farmi un’idea della loro umanità perduta, del loro modo di pensare, di quello che i loro occhi vedevano. Che cosa vedono gli occhi di un torturatore che apre la pancia di un povero disgraziato e gli tira fuori a poco a poco le budella? Queste domande insidiavano le mie giornate e mi lasciavano andare a una conversazione intima con me stesso, diretta a capire. Ma come si può capire l’orrore? Si può solo gettare uno sguardo spaventato nell’abisso e ci si ritrae subito per la paura di essere attirati dentro quelle oscure profondità dove si muovono esseri mostruosi ma non per questo non umani. Lo spavento che prova chi guarda l’orrore è segnato in massima parte proprio dal constatare la propria parentela fondata sulla comune umanità. Aiutarsi ricorrendo a definizioni animalesche è un conforto per bambini, non un elemento di giudizio. Queste paure sono comunque prive di valore per quanto riguarda il lavoro di individuazione e verifica. L’ospite inatteso non ha occhi per l’orrore, taglia alla radice la vita che gli sta di fronte e si avvia verso il destino.


219. – Quale destino attendeva in nostra assenza i personaggi variopinti dei quali ci occupiamo? Avrebbero continuato la loro funzione preziosa per qualsiasi potere, magari cambiando casacca in tempo senza farsi prendere alla sprovvista. Raramente simile gente, che è abituata a lavorare nell’ombra, cade vittima di una sommossa popolare, questo accadimento nemmeno la sfiora, ritornano al loro compito abituale appena passata la sfuriata e tutto si ripresenta con mutate incombenze, ma si tratta di sfumature. Ai torturatori vengono un po’ limate le unghie, ma la loro preziosa esperienza è sempre messa a partito. Con la nostra presenza estranea e avulsa, da molti considerata anacronistica con una certa aria di sufficienza, si profilava una soluzione individuale, parziale, insufficiente, ma pur sempre meglio di niente. Questo nostro lavoro veniva da lontano e si proponeva sicuro di sé anche se doveva per forza di cose permanere nell’ombra. L’accostarsi era inarrestabile e la conoscenza che riuscivamo ad accumulare serviva ad abbattere una piccola parte di questi personaggi, parte irrisoria ma che costituiva un avvicinamento al nucleo centrale di ogni potere, la caverna dei massacri. È su questo luogo della melma politica che lavoravamo. Non avevamo molto da dire, anche in sede di rammemorazione, perché il soggetto non si prestava a molte considerazioni, a parte le mie perplessità e le mie tante domande senza risposta. Il conto che presentavamo arrivava puntualmente, questo era l’aspetto più importante ed è in questa direzione che si indirizzavano tutti i nostri sforzi. Al castigo – parola inadeguata ma pregnante per molti di noi – davamo il benvenuto e aprivamo la strada. Non c’erano recriminazioni se non nei casi di ritardo nelle verifiche e nelle corrispondenze o nei casi di carenza di informazioni. L’arrivo dell’ospite inatteso è interno all’azione e questa è imperiosamente altro dal fare accumulativo, indispensabile ma finalizzato a creare qualcosa destinato a sfuggirgli per sempre. Tutto il lavoro precedente all’oltrepassamento non poteva avere accesso all’azione, era misura, tempo, luogo, quantità. I sentimenti che animavano questo fare erano proprio quelli sopra riassunti nella parola “castigo”, ma l’azione era estranea al castigo, essa era la qualità vissuta direttamente, fuori del tempo e del luogo, il sogno della libertà finalmente realizzato, vissuto sulla propria pelle. E l’ospite inatteso era questa qualità, non un accadimento correttivo parziale, per quanto fondato e giustificato sull’enorme lavoro preventivo, sulla quantità e la misura. Non c’era l’alea sacra dell’operazione moralmente corretta, non c’era nulla da sacrificare nell’agire, era semplicemente un azzerare qualcosa che andava azzerato, senza riflessioni superflue di ordine morale. Le mie domande nascevano dentro di me prodotte dalla caligine della stanchezza quantitativa. Troppo l’accostamento, eccessive le valutazioni morali, molteplici le escursioni dietro la maschera della normalità per cercare l’uomo. In fondo, la qualità si essenzializzava in un agire puntuale, si riassumeva in un mucchietto di stracci, in un banale incontro momentaneo, in una identificazione terminale, in una conclusione, in un messaggio inviato al destino. Dall’oltrepassamento alla rammemorazione c’era solo un istante, come la luce fioca di una candela che accesa viene subito spenta. Non ci sono avvicinamenti progressivi alla morte, questi appartengono al periodo preventivo, all’accumulazione del fare, anche l’accostamento all’uomo e le mie tante riflessioni sulla dicotomia intollerabile tra uomo e mostro appartengono al mondo del fare, in fondo sono solo apparenze. La realtà è quel cumulo di stracci. È là l’essere totale del nostro agire, tutto quello che è stato fatto prima era un gioco di specchi, un avvicendarsi sospettoso di fantasmi. Le mie perplessità erano quindi legate a queste apparenze, non potevano – né hanno mai avuto la forza di accedere oltre neanche in tempi più recenti – essere parte dell’azione, l’avrebbero fatta implodere rendendo impraticabile l’intervento dell’ospite inatteso. I segni del mio personale massimo accostamento al binomio sopra citato non potevano essere rilevati dall’azione, anche se ovviamente entravano di forza nello sforzo rammemorativo, come stanno facendo in questa afosa sera di agosto in un carcere greco. Quel problema, importante, si lascia dire, sfiorare, toccare appena, ma non si lascia affrontare. Anche ora rimango profondamente immerso nel sonno dogmatico di una fondatezza morale del lavoro compiuto dall’ospite inatteso, ma ciò non sposta di una virgola o di un pezzettino di straccio quello che l’azione ha realizzato, l’abbattimento di uno dei tanti servi sciocchi e osceni del potere nelle sue forme più estreme e rivoltanti.


220. – Per questi spettri che seguivamo con tanta pazienza e attenzione nulla aveva importanza se non la loro dipendenza dalla gerarchia che li amministrava. Essa li faceva muovere e nello stesso tempo, come una terribile malattia, svuotava dal di dentro la loro vita. Funzionari altrettanto anonimi, nascosti nelle stanze del potere più infimo, si occupavano di loro e del ruolo che dovevano svolgere nel mondo. Nulla sapevamo di questo lavoro organizzativo, né la cosa poteva interessarci, per noi tutto il meccanismo – che presupponevamo stesse dietro – poteva muoversi per semplice forza d’inerzia. La consegna da recitare ci appariva, almeno vista dalla nostra parte, sempre la stessa, monotona e apparentemente non ricca di grandi avvenimenti. Bisognerebbe fare attenzione a tenere separati i traditori irlandesi e i torturatori di ogni latitudine. I primi venivano, come abbiamo detto, lasciati al loro destino, i secondi perseguivano scopi di cui solo a posteriori venivamo a conoscenza e quasi sempre solo in parte. Non c’erano in gioco grandi astuzie ma una ripetizione inavvertita difficilmente dominabile da parte loro che li esponeva continuamente a contrassegni e indicazioni di cui non mancavamo di fare tesoro. Per i torturatori qualche informazione suppletiva poteva arrivare nel corso dell’operazione di corrispondenza e duplicazione, ed allora erano spaventose segnalazioni di massacri feroci di cui cercavo, almeno per quel che mi concerneva, di trovare un segno qualsiasi nella figura spettrale che accostavamo, ebbene mai un segno ebbe ad apparire, tutto sembrava rientrare nella normalità. Non c’erano messaggi involontari né traumi visibili o sofferenze da cercare nei loro volti impassibilmente normali. Da questo punto di vista – cioè da loro a noi – nessun contatto, e questo valeva anche per le altre categorie di spettri dietro a cui passavamo le nostre giornate. Il meccanismo umano, fisico e mutabile, è probabilmente molto più angosciosamente profondo di quanto non pensano filosofi e psicologi. Considerazione debole e disperante, lo so, ma è proprio quello che mi viene in mente adesso considerando le mie passate esperienze e le mie tante conoscenze – sia pure a distanza – di questi spettri. L’uomo è un animale feroce che si adatta alla propria ferinità. Ci convive, se ne fa una ragione, trova modo di non pensare, carica di significato cose sempre in partenza e le sostituisce con quelle che dovrebbero torturargli la coscienza. In questo modo la sua ferocia è assolutamente normale. Questo meccanismo agisce su tutti ed è un modo per sopravvivere addormentando la propria coscienza immediata. In quegli individui spettrali questo addormentamento raggiungeva livelli altissimi e assolutamente necessari. Come avrebbero potuto continuare il loro lavoro se non avessero raggiunto questa acquiescenza? In fondo il modo di vedere il mondo, tipico di questa gente, è molto più diffuso di quanto si pensi. Il tagliaossa deve forse cullare più a lungo la propria coscienza di quanto non faccia il filosofo e lo storico, ma tutti contribuiscono in maggiore o minore misura a rifornire il lago di sangue. Così il mondo chiude gli occhi davanti al meccanismo orribile che lo regge e ognuno mantiene un equilibrio che chiama col nome altisonante di normalità. Chi si contrappone a questa normalità è un fuorilegge, e noi eravamo difatti dei fuorilegge. Attaccavamo in fondo questa normalità, non una mostruosità da fare ribrezzo. Anche noi però avevamo bisogno di poggiare le nostre giustificazioni etiche su questa mostruosità perché non si può attaccare la normalità, anche se è proprio la normalità, l’eccellente istituzione di potere, che rifornisce la caverna dei massacri. La nostra lotta era quindi una lotta di superficie, diretta a colpire la parte più visibile del sistema repressivo, quegli spettri animati solo dal desiderio di passare inosservati. Il resto, l’ordine delle cose, l’ineluttabile ordine del fare che costruisce il mondo quotidianamente sullo sfruttamento e sull’assassinio, come mai avremmo potuto intaccarlo? Non ne facevamo parte anche noi? Non certamente di quella mistura eccezionalmente putrescente che localizzavamo in un dato momento storico e in un dato luogo, ma di un ordine delle cose in generale. Nessuno può strapparsi da questo processo che tutti ci trascina, anche quelli come me che hanno lottato a lungo e che alla fine della propria vita si trovano ancora a lottare senza retrocedere di un passo. Nessuno uscirà vivo da qui. In caso contrario il mondo vecchio si distruggerebbe e sarebbe il momento della tanto sognata rivoluzione. L’ospite inatteso non si poneva problemi del genere.


221. – Vegliare continuamente per contrastare il potere e colpirlo nelle sue espressioni più estreme e brutali? È forse questo un ordine del mondo sostitutivo del precedente? No. Si assomigliano troppo, in più il secondo, il migliore, il portatore di giustizia e il livellatore di torti, sfiora soltanto l’abisso che pensa di contrastare a fondo, lo scalfisce in superficie perché non può affondare di più il proprio colpo, non ne ha i mezzi malgrado diffonda per quanto è possibile la sua voglia. Quale collocazione sarebbe più efficace? Non lo so. Molti mi hanno fatto vedere i limiti delle mie azioni e non ne conoscevano che una piccola parte, sarebbero stati molto contenti di illustrarmi i limiti di quella gran parte che non conoscevano. Eppure questa critica coi piedi per terra non mi convince. È troppo consolatoria volendo essere tagliente e perfino sarcastica. È la mia critica quella che coglie più a fondo il mio problema, è questa critica intima che mi sconvolge ogni angolo della mia persistenza sorda e tenace, sul limitare estremo di quella che prevedo come la fine che non tarderà certo a venire. Non sono mai stato contento del mio fare, lungo e faticoso, solo nella puntualità laconica dell’azione mi sono ritrovato nella pienezza del mio essere. Questa condizione, di cui anche ora mantengo viva la rammemorazione – seppure per altri incomprensibile – mi fa vedere bene i miei limiti e le mie lacerazioni, ma anche mi riempie di gioia e di pienezza. Il destino è stato generoso con me perché io non sono stato indulgente con lui. So bene che la mitezza del destino è indirizzata solo a coloro che sono di già esausti, che si sono racchiusi nella propria inconcludenza – anche se agghindata come a festa – e quindi non hanno opposto resistenza. Questa comprensione mite e balorda del destino non mi è mai appartenuta. Non ho avanzato né titoli di merito né giustificazioni. Nell’azione sappiamo insieme quello che sono e non possiamo vicendevolmente ingannarci. Non sono mai stato un portatore di bene ma di libertà, le due prospettive sono radicalmente diverse. Il destino ne è a conoscenza. Si poteva fare meglio, a volte mi chiedo, e si poteva fare di più? Può darsi. Ci sono stati dei casi in cui una più attenta organizzazione avrebbe evitato alcuni disastri ma questi non sono mai stati da attribuire a cattiva e determinata leggerezza. Per quello che mi riguarda il nostro fare produttivo era privo di lacune, non c’erano mancanze o superficialità, nel nostro piccolo – e a volte questa scarsa disponibilità di mezzi era veramente disperante – eravamo sempre una organizzazione piena di vita, di sogni, di speranze e anche di illusioni. Era a volte una grande responsabilità sentirsi sulle spalle il peso di tutto un popolo in via di annientamento. Ma non eravamo mai stanchi o sfiduciati. Non avevamo quasi mai la preoccupazione di travalicare nel terreno dell’eccesso ingiustificato. Forse qualche dubbio c’era per i traditori irlandesi, ma non in altri casi. Eravamo un granello di sabbia che sognava di bloccare un ingranaggio feroce e gigantesco. Questa coscienza del nostro lavoro, ancor prima di diventare coscienza diversa, nella immediatezza stessa, ci faceva sentire in possesso di un insostituibile filtro in grado di farci cogliere il male che ci sfiorava scivolando sotto i nostri occhi con forma di spettro. Eravamo noi a determinare il modo e il momento in cui il male – quel male lì, tangibile e circoscritto, ma non per questo trascurabile – andava cancellato, noi a fornire a noi stessi i mezzi perché questo piccolo accadimento prendesse corpo nella luminosità priva di dubbi dell’azione. Insomma, nell’oltrepassamento eravamo noi ad avere la nostra vita nella qualità e questa ci si presentava contemporaneamente come giustizia, verità e libertà. La conclusione del fare antecedente si protendeva così in un ambito qualitativo in cui la nostra coscienza diversa si apriva alla cognizione concreta di ciò che prima poteva solo essere o informazione preventiva o perfezionamento fattivo, controllo e corrispondenza. L’organizzazione spariva assorbita nell’agire. Ognuno di noi era l’essere che è e non può non essere, era lo spettatore e l’attore, il punto di riferimento e il punto di vista, l’incertezza diventata completezza certa. Ognuno di noi era contento dell’arrivo dell’ospite inatteso, era esso l’oggetto del nostro desiderio e l’obiettivo della nostra organizzazione. Solo dopo l’azione i dubbi, i miei cari dubbi, ritornavano a farsi pressanti. Ma questo era un problema mio.


222. – Questi spettri facevano parte di un’organizzazione specifica il cui unico compito era quello di terrorizzare. Ma il potere ha forse avuto altro scopo nella storia? Specificare questa organizzazione era una precisazione superflua o necessaria? Le due cose nello stesso tempo. Superflua perché il potere è sempre terroristico, necessaria perché bisognava individuare le persone precise che realizzavano determinati compiti estremi, particolarmente efficaci per ricondurre all’ordine gli elementi che a questo ordine non volevano sottomettersi. Tra la cosiddetta normalità amministrativa e questi estremismi da macellai si estende il territorio comunque sanguinolento del potere. Sono forze parallele che si reggono a vicenda e tengono in piedi lo stesso edificio. Non esiste in realtà che questi spettri possano avere una vita propria, sarebbe una contraddizione fra le più azzardate. Si muovono, intrigano, denunciano, massacrano, ma non sono uomini viventi, come tutti gli altri, sono di già fantasmi, apparenze pericolose, ombre proiettate nella caverna dei massacri. Essi si adoperano con i mezzi che sono loro propri perché la legge sia la legge, perché il sopruso codificato mantenga la propria caratteristica che è quella dell’autorità senza appello, prevaricante e radicata, contro la quale non esistono atteggiamenti legali difensivi, dotati di segno contrario. Se il compito di questi fantasmi fallisse il potere ne verrebbe scosso dalle fondamenta, il lago di sangue verrebbe sconvolto da un’ondata spaventosa, sono essi i pilastri del mondo. Allignano dappertutto, il resto è una questione di sfumature. Sottrarsi al loro potere è un desiderio, un pensiero, un moto dell’animo, nessuno lo può veramente. Se la cosa fosse possibile, e si potesse fermare questo lato oscuro del potere, semplicemente rifiutandosi di accettarlo in nome dello stesso ordine che lo giustifica e regge, il mondo resterebbe zoppo, crollerebbe a causa della mancanza di uno dei suoi pilastri. Questi erano i miei pensieri e questi sono ancora oggi, a distanza di tanti decenni. Il mondo ha anche adesso – sono stato torturato un anno fa nel momento del mio arresto qui in Grecia – questa superficie misteriosamente opaca che lo rende fattivamente accettabile. È questa melma che noi continuiamo a chiamare quotidianità, anche se la dittatura militare è scomparsa qui un millennio fa quando l’insurrezione è cominciata dentro il Politecnico. Non basta quindi un pensiero, mi devo liberare di questo lato infame del potere, esso sarebbe ridicolmente inefficace. Occorre combattere oggi come allora, come domani. Non ci vogliono grandi pensieri filosofici, questi a un certo momento devono cedere il passo a un fare progettuale propedeutico all’azione, in caso contrario resterebbero solo scontri fittizi, movimenti teurgici, impressionanti come pupazzi feroci e innocui. Quegli spettri si muovevano come uomini ed erano fantasmi, individuarli, viverci accanto per un certo tempo preparando un’azione, faceva capire la stupida normalità del mondo, immerso nel suo dissennato andirivieni sconsolato. Per noi era la stanchezza di un compito assurdamente ripetitivo e nello stesso tempo pericoloso anche se nulla lo lasciava intendere. Ma anche i fantasmi sembravano spossati, come se fossero costretti a lottare per mantenere quell’apparenza di normalità che era la loro nota dominante. Questa relazione comune non impediva la nostra suprema attenzione, la nostra totale disponibilità a cogliere ogni traccia appena dissonante, e non bloccava o ritardava il ritmo delle loro nefandezze. Sembravano sempre sul punto di alzare le braccia sconsolatamente in segno di resa e invece andavano avanti come se tutto fosse sempre una semplice modulazione della normalità. Era la loro normalità una sorta di acquiescente sonnolenza, un’accettazione preventiva e scontata della propria sorte? Chi può dirlo? Davanti a un fare soverchiante in impudenza e ferocia, davanti a qualcosa di tanto atroce che non potevano avere cognizione esatta delle conseguenze – e questo anche per quanto riguarda il lavoro dei torturatori – c’era solo l’ammutolimento o l’annichilimento totale della coscienza. Forse ambedue queste conclusioni, parimenti tristi e difensive, forse ineluttabili. Per loro era pronta l’epifania dell’ospite inatteso e forse se ne rendevano conto pure se niente traspariva dai loro sguardi e dai loro atteggiamenti, spesso distratti o genericamente interessati al niente della loro vita.


223. – L’ospite inatteso era il completamento al fare altrimenti incompletabile. Si poteva continuare all’infinito accumulando dati e misurazioni senza mai potersi dire pienamente soddisfatti. Allo stesso modo si potevano trovare molte giustificazioni per non intervenire, se non altro la più banale delle preoccupazioni, quella dettata dalla paura. L’arrivo risolutivo era pertanto la più potente espressione di un intervento correttivo di fronte al compatto ordine del mondo. E il torpore che era riscontrabile nei personaggi sotto osservazione corrispondeva alla modulazione normale di questo ordine che si presentava come disordine mentre era equilibrio precario del fare che insisteva su se stesso come modello realizzato da continuare a realizzare. Che quegli spettri fossero persone losche lo si poteva sentire nel pieno della loro normalità. Erano strumenti resi abili a svolgere un compito ributtante ma non presentavano maschere da carnefici, erano convincenti come qualunque altra persona, senza particolari contrassegni. Quasi mai abbiamo sentito la loro voce, un rauco brontolio finale, nulla di più. Ma nella preparazione nessuna potenza sembrava dare cenno di sé, nessun segno di vita se la parola è proprio questo segno. Di sicuro gli informatori e i provocatori li vedevamo muovere le labbra, perché parlare era parte essenziale del loro lavoro, ma le parole non arrivavano fino a noi, erano sussurrate, appartenevano a loro che le custodivano come un segreto o un codice. Il loro era un ruolo muto pure quando evidentemente parlavano. Anche i torturatori parlavano, o almeno se ne doveva supporre la possibilità. Eppure questa confraternita aveva una certa uniformità di comportamento, una miscela spaventosa di normalità testarda e abiezione ributtante. Tutti loro appartenevano al potere, erano strumenti del potere, non uomini animati da vita propria ma burattini mossi, spesso maldestramente, da burattinai folli. Il potere è una grandissima bolla di menzogne? Forse. Ma è anche qualcosa di più. Non è solo apparenza e inganno, è anche apparire e ingannare. Anche quegli spettri erano fatti apparire ed erano ingannati, veniva loro detto che il lavoro sporco che facevano aveva un valore. Ma reggere il potere è un valore? Essere uno dei pilastri portanti del potere, è un valore? No. Valore è la vita, solo la vita, e la qualità che fa cogliere il senso della vita, il suo essere che è e non può non essere. Ma queste controfigure, capaci delle peggiori nefandezze, erano esseri viventi? Solo nominalmente. L’inganno di fondo li aveva uccisi prima dell’arrivo dell’ospite inatteso. Ma poiché continuavano – sia pure da morti – a svolgere il loro terribile compito, massacrare, occorreva ucciderli una seconda volta. Era mai venuto in mente a qualcuno di loro di chiedersi se il fatto che il cuore pompasse sangue significava qualcosa di vitale, cioè costituisse il fondamento del loro vivere? Non credo. La base della loro apparenza era tutta racchiusa nel compito che svolgevano, inefficace quanto sanguinoso. Ingannati, ingannavano. Se non fossero stati ingannati non avrebbero potuto ingannare, si sarebbero in un modo o nell’altro smascherati miseramente. Quello che li rendeva forti e pericolosi era proprio questo miscuglio di un duplice inganno. Ecco da dove emergeva la doppia necessità. La loro di recitare fino in fondo la parte di massacratori, la nostra di recitare la parte dei liberatori. Ma liberatori di chi? Di un popolo oppresso. Certamente questo era il nostro convincimento. Ma eravamo nel vero? Oppure nell’illusione di essere livellatori di torti, riparatori di ingiustizie? Se la menzogna è l’ordine del mondo, il nostro fare era anch’esso inserito in quest’ordine, quindi era anch’esso menzogna. L’inganno dilagava inarrestabile. E così era, certamente, se non che il nostro fare – ingannevole e menzognero quanto si vuole – era necessario per preparare l’azione. Era pertanto l’azione a essere il caos correttivo dell’ordine del mondo, il momento puntuale del tutto estraneo a qualunque patteggiamento o accordo, a qualunque menzogna. L’esperienza della qualità si concludeva in se stessa, era essa il nostro scopo e l’obiettivo del fare preventivo. Nell’azione non eravamo più una parte della menzogna derivante dall’ordine del mondo ma la verità, la bellezza, la libertà, insomma l’ospite inatteso non aveva nulla a che vedere col nostro fare e con le mie domande, egli andava diretto alla radice.


224. – Questi personaggi che hanno occupato tanta parte della mia vita avevano tutti, in un modo o nell’altro, fatto un passo in più nella collaborazione al massacro. Questo passo li aveva abbassati al livello dell’ordine del mondo che, prima di ogni altra cosa, è rifiuto dell’umanità come coscienza e come morale. Erano entrati in qualcosa di più avanzato delle solite apparenze che regolano la vita di ogni giorno, avevano superato una soglia, quella dell’infamia, quindi adesso avevano assorbito le regole che tengono insieme il mondo del fare coatto, ferocia e distacco. Erano in un certo senso essi stessi queste regole, oppure ne erano la personificazione estrema e più condensata. Inappariscenti di per sé – come il loro lavoro richiedeva – avevano qualcosa di metafisico nella semplice brutalità, comprendevano fino in fondo che cosa è il potere, infatti, da perfetti bruti incapaci di distinguere, lo rendevano vivo e prospero. La loro stessa spossatezza era il segno migliore di questa profonda introiezione, erano fatti di potere allo stato più semplice e banale, senza superfetazioni e senza infingimenti e mettevano in mostra il disgusto che il potere causa. Avevano il cervello vuoto, la mente ospitava solo l’ordine del mondo, il massacro allo stato elementare, direi primordiale, senza le giustificazioni filosofiche e storiche che lo coprono in altre occasioni. Non erano in grado di pensare, pupazzi vuoti di pensieri e pieni di ordini, capaci solo di produrre una caligine che permetteva loro di andare avanti nel lavoro, una nebbia preziosa perché impediva di vedere l’apparenza di se stessi, lo svuotamento che avevano subito, l’inconcepibile competenza che avevano raggiunto la quale in caso diverso li avrebbe fatti inorridire. Fantasmi? Sì, ma in grado di fare in modo che il mondo potesse mantenere l’equilibrio precario del fare. Necessariamente esistenti, erano loro la personificazione della menzogna di cui si alimenta il potere. Ingannavano brigando, imbrogliando, spezzando le ossa di poveri disgraziati, e questa menzogna era solidificata nella pratica con cui alimentavano il lago di sangue. Anche l’apparenza uccide e lo fa in modo dissennato e feroce, malinconicamente dissennato, un modo capace di raggiungere vette fattive di eccellenza proprio perché costituito solo di ferocia allo stato puro, nessuna titubanza, nessuna preoccupazione, né preventiva né successiva. Il loro fare era pertanto un fare sonnambolico, come se fossero automi caricati a molla, erano loro la quintessenza del potere, la sua ottusa cecità, la sua stupida perseveranza, la sua incredibile mancanza di scrupoli. In una parola individui normali che erano stati convinti della normalità e, più di tutto, della necessità del loro lavoro. Svegli, anche per un solo istante, il mondo avrebbe subito un’oscillazione senza precedenti. Non il singolo spettro avrebbe incontrato l’ospite inatteso lasciando tutto il resto in grado di continuare perfettamente il suo terribile compito, ma l’ordine del mondo sarebbe apparso improvvisamente davanti al nuovo arrivato e avrebbe chiesto il perché del suo essere là. E l’ospite inatteso non avrebbe potuto rispondere. Lui non ha risposte, lui è sempre come il destino, muto e inconcepibile. Ma nessuno spettro può svegliarsi. Questa è un’ipotesi assurda che se pensata possibile vanificherebbe il mondo azzerandone l’ordine diretto al massacro. Difatti non poteva accadere questa ipotesi del tutto immaginaria, nemmeno nel caso limite dei traditori irlandesi, persi nelle nebbie della loro di già scontata inesistenza. Anche i miei inusuali problemi, i miei dubbi e i miei percorsi su terreni di perplessità non esplorati da altri, non erano che disposizione costante del mio essere che pretendeva presentarsi come liberatore e quindi sottolineava a se stesso le incongruenze di un fare inattuabile fino in fondo. Ma queste perplessità non mi conducevano a un possibile comportamento differente, le codificazioni restavano sempre quelle richieste dal lavoro preparatorio, anche se nell’esplosione attiva della qualità ognuno veniva bruciato diversamente dalla propria esperienza. Nessuna conclusione rammemorativa – dove le mie perplessità riprendevano forma – poteva essere condivisa da altri. Il cerchio si chiudeva e tutto ricominciava daccapo. L’ospite inatteso non trovava mai, nel suo lavoro conclusivo e radicale, un terreno preparato male oppure seguendo codici approssimativi o imprecisi.


225. – Questi fantasmi che seguivamo e codificavamo erano nella legge, completamente assorbiti nella legge, e nello stesso tempo la riconducevano alle sue conseguenze estreme, necessariamente paradossali. La loro esistenza aveva la legge come una sorta di ossatura implicita e quindi superflua. Non era mai in grado di affiorare a una qualche consapevolezza, a un livello superiore in cui della legge si intravedono i limiti e le puerilità. Ma non si trattava di un rispetto formale – anzi addirittura del contrario – in quanto esecutori di basse opere erano prima di tutto fuori della legge, nella sua veste meramente letterale. Nessun rispetto ma nemmeno una evasione coscienziosamente vissuta come tale. La loro vita era una continua pratica amministrativa, codificata regolarmente e abbandonata sul terreno accidentato della normalità. Non ero davanti a filosofi o storici, massacratori anch’essi, senza dubbio, ma tramite interposta persona, ero davanti a consuetudini millenarie imbottigliate a forza in apparenze umane, in grado di fare il proprio lavoro come qualsiasi altro normalissimo impiegato statale. L’ordine che si cela sullo sfondo provvedeva a fornire una intelaiatura di sostegno, alla quale essi si attaccavano desiderosi di un fondamento sicuro, mentre dappertutto erano visti come traballanti figuri non perfettamente accettabili, che lo stesso potere più che altro tollerava e cercava di nascondere il più possibile come una vergogna. Eppure questi spettri nella loro spossatezza e nella solitudine avevano il fascino del limite, cioè il livello massimo in cui la realtà fattuale, proprio perché misera e nuda, diventa quasi vera, come è vera la tautologia che nascondeva il loro continuo rincorrere una possibile copertura, un camuffamento felice di nasconderli. Non ho mai saputo nulla in effetti di loro dubbi o paure – e ce ne dovevano pur essere, ogni uomo ne ha, specie quando un meccanismo lo stritola e lo costringe a fare quello che loro facevano – ma avvertivo un senso di impotenza e di approssimazione nel muoversi a volte dissennato di costoro, oppure provvisto di una logica non facile da cogliere. Forse volevano mantenere una giusta e consapevole distanza, molto simile alle nostre corrispondenze e ai nostri cauti accostamenti. Ma ciò non produceva risposte, solo un’aria di dissipazione e di stanchezza, mentre al contrario le nostre distanze accumulavano fatti che, opportunamente codificati, avrebbero poi reso possibile l’azione. Tuttavia non potevamo sottovalutare questi atteggiamenti e considerarli come dilettanteschi. Avevamo di fronte dei professionisti – almeno quasi sempre. E allora, perché questa stanchezza e questa forma tangibile di dissipazione? L’unica risposta che sono riuscito a darmi è che era il loro lavoro la causa di tutto. La solitudine e la diffidenza producono simili storture professionali. Nessuno si salva. La nostra forza era tutta nel lavoro di gruppo e nel convincimento di essere nel giusto, anche se questa seconda parte restava a mezz’aria e riceveva il suo consolidamento solo nell’azione. A un certo punto del nostro lavoro di coordinazione e corrispondenza riuscivamo a cogliere l’incrinatura possibile in una barriera solida e certamente collaudata? Non lo so. Qualche volta, andando avanti, stringendo il cerchio, avvertivo – ma non tutti lo condividevano – come un aumento della spossatezza di questi fantasmi, come se molte sofferenze e ansie di natura personale fossero riuscite a farsi strada in quel residuo di coscienza immediata che in quanto uomini – e non mostri come con scarico di responsabilità molti desideravano chiamarli – dovevano avere. Costituiva questa sensazione un segnale diretto a noi, specificatamente, oppure agli esecutori ipotetici di un destino abbastanza facile da prevedere? Non voglio parlare di una concreta comunicazione, sia pure relegata in un segnale di mesto acconsentimento, voglio riferirmi a qualcosa di più impalpabile, un lieve passo di danza, uno sguardo umano sperduto nel vago universo della normalità, un movimento della testa come se ora volesse rientrare nelle spalle per nascondere la propria vergogna. Nessuna di queste ipotesi era riscontrabile né è stata riscontrata, ma io continuavo a notare leggere modificazioni di comportamento man mano che ci si avvicinava al momento dell’azione. L’ordine del mondo restava sempre lo stesso e quei fantasmi, pilastri estremi e indefettibili di quell’ordine, erano ormai pronti per l’arrivo dell’ospite inatteso. Nessuna accidentalità solo la voce della necessità, il destino non ha altro modo di farsi avanti.


226. – L’ordine si fonda sulle regole ma anche sulla necessità di uscire da esse per una escursione nel campo della mancanza di regole. Questa necessità è alla base dell’ordine allo stesso titolo del mantenimento delle regole e del loro rispetto legale. I due movimenti si compenetrano e si sostengono a vicenda. Prendere le misure di questi fantasmi era un lavoro che doveva tenere presente il principio appena esposto. Non potevamo considerare i personaggi che avevamo davanti né espressione della legge né esclusivamente fuorilegge. Nei loro eccessi più brutali c’era sempre l’ombra della legalità, come in ogni pretesa legalità c’è sempre l’ombra dell’abuso. Questi comportamenti sono vicini e travalicano l’uno nell’altro. Gli uomini dietro i quali spendevamo i nostri sforzi e le nostre giornate avevano sviluppato un perfetto adeguamento a questi continui travalicamenti, erano funzionari e mostri, legali e illegali, normali e anormali. Essendo tutte queste cose insieme non si ponevano più il problema di una soglia da superare. Forse se lo erano posti una o più volte, poi, nella lunga pratica del massacro, mai più. Questo è un accorgimento automatico che fa sentire abbastanza bene e riduce i rischi di cedere al nervosismo e alle perplessità. La loro lunga resistenza a certi comportamenti che avrebbero fatto inorridire chiunque altro era la loro più profonda vulnerabilità. Si collocavano così al centro di un territorio di concretezza normale che li obnubilava rendendo la loro vita un succedersi monotono – apparentemente sicuro – di gesti automatici. Tutto in loro era spontaneamente sottoposto a una preventiva selezione di controllo, parole, gesti, pensieri, desideri, speranze, illusioni. Il futuro era quindi appiattito in modo assoluto nel presente e non presentava variabili potenziali. Né disturbi né stimoli veri e propri. L’ordine delle cose li aveva catturati e li manteneva in una sorta di sospensione di giudizio dove ogni esacerbazione o ogni sensibilità erano convogliate e costrette a riassumersi nel fare il loro lavoro, nella collaborazione diretta al massacro. Nessun residuo possibile doveva esistere collocato da qualche parte, potenzialmente avrebbe disturbato l’ordine complessivo delle cose e questo sorprendente atteggiamento non poteva essere tollerato. Di certo – per quanto non avessimo prove in merito – la gerarchia li doveva guardare, questi spettri, con una particolare attenzione preoccupata. La valutazione tecnica dei risultati pratici raggiunti tramite il loro lavoro non poteva essere la sola valutazione possibile. Molti aspetti negativi dovevano per forza sorgere nell’attenzione dei mandanti. Ma quale era il vero rapporto tra questi mandanti e i risultati tecnici? Non credo che ci fosse un rapporto diretto. I risultati ottenuti venivano certamente usati da altre gerarchie con le quali non c’erano commisurazioni di ordine metodologico. In altre parole, questi ultimi utilizzatori guardavano a quello che veniva loro posto in mano, non ai metodi usati per ottenerlo. D’altro canto l’altra gerarchia, l’ordinatrice dei movimenti poco edificanti dei massacratori, non si curava molto della sorte di questa bassa manovalanza, pretendeva risultati e basta. Alla fine gli spettri erano praticamente lasciati a se stessi, incapaci spesso di calibrare la propria fattività ai risultati ottenibili. Così l’imprescindibile necessità del lavoro di questi personaggi, che costituivano l’oggetto delle nostre più accurate attenzioni, sfuggiva a qualunque controllo, sia preventivo che successivo. Erano cani rabbiosi che una volta sguinzagliati non potevano più essere richiamati indietro, ricondotti a una ipotetica docilità. Non bisogna considerare questa situazione oggettiva, come la vedevamo operante sotto i nostri occhi, un’alienazione che qualcuno avrebbe potuto correggere. Essa era il risultato più chiaro e conseguente delle regole che reggono l’ordine del mondo. Era, in altri termini, la necessità operante, la condizione migliore per vedere all’opera il potere, senza coperture e senza compromessi. Considerare questi esseri del tutto normali come mostri portava – e, per quel che mi riguarda, continua a portare anche oggi in mutate condizioni politiche – a capire la mostruosità di ciò che tutti chiamano normalità. Intaccare quelle entità fantasmatiche, perniciose ma non abnormi, era quindi intaccare uno dei pilastri del potere. Questo era il compito dell’ospite inatteso e a tale compito era diretta la nostra preparazione.


227. – Parlare di fantasmi e di spettri va bene. Questi uomini avevano perduto la condizione umana che una volta doveva pur contraddistinguerli. Parlare di mostri non va bene, è un alibi per giustificare la nostra ferocia con la ferocia maggiore del nemico. Uno scontro tra ferocie diversamente quantificabili è l’ultimo dei miei desideri e non è in nessun modo sostenibile. Tornando indietro col pensiero, mi rendo conto di quanto questo alibi abbia influito nel reggere il lungo sforzo per combattere quei fantasmi, ma non può essere giustificato. La loro efferatezza rientrava nelle regole della legge, era la legge, perché è della legge presupporre la possibilità di costruire il proprio fondamento su qualcosa di extralegale, un sostegno fuori dalle regole, segreto e garantito. Bisogna combattere la legge non l’anormalità, se ci si limita a combattere quest’ultima si arriva a un tentativo simile a quello del gatto che vuole afferrare la propria coda. In altri termini si cerca di colpire solo ciò che in modo illegale fonda la legge, consentendo a quest’ultima di trovare una nuova sistemazione diversamente illegale. Una questione di spostamenti, nient’altro. Le regole della legge coprono tutto il territorio del fare, anche il nostro – preparatorio dell’azione risolutiva –, si estendono dappertutto e non c’è altro che la loro ferrea applicazione. Non c’è nemmeno bisogno di giustificarle, esse sono l’ordine del mondo. Pensare che queste attività siano espressione di una degenerazione del potere che su quelle regole si fonda è un errore con un considerevole strascico di conseguenze. Lavorando alla individuazione dei nostri personaggi – spettri o fantasmi, quest’ultima terminologia riguarda la loro consistenza umana non l’anormalità del loro fare – ci facevamo carico della parte più estrema del potere, quella parte che non viene messa sotto i riflettori pubblici, senza per questo essere meno significativa e importante. Erano sofferenze e ansie che ricadevano su tutto un popolo, anche se ce ne facevamo carico in quanto piccolo gruppo poco numeroso e del tutto marginale. Per questo motivo, e per tanti altri che ho esaminato prima, ci chiudevamo a riccio sul personaggio di cui possedevamo solo poche informazioni di partenza. Questa guida non era che iniziale, poi veniva a mancare. Il segreto di ogni singolo spettro lo dovevamo scoprire da noi col nostro lavoro, continuo, insistente, duplicato fino alla noia, pericoloso. E ogni personaggio, pur permanendo nella sua normalissima uniformità era uno spettacolo a sé, aveva significatività proprie che dovevano essere messe in risalto in modo da costituire un quadro complessivo quanto più possibile completo. Spesso questo lavoro subiva rallentamenti causati, come abbiamo visto, da improvvise bizzarrie, ma altre volte eravamo noi stessi a decidere di accelerarlo, senza per questo venire meno alle cautele che il metodo imponeva di rispettare. Personalmente avvertivo una sorta di intollerabilità a circondare di attenzioni un personaggio che prima o poi aveva il proprio destino segnato. Correvo spesso il rischio di lasciarmi coinvolgere nell’ottica pregiudiziale di condanna morale e quindi di attribuire a un gesto provvisto di un significato banale contenuti che non poteva avere. A parte la pericolosità di un simile atteggiamento, c’era da dire che facevo correre il rischio anche agli altri compagni del gruppo di forzare il lavoro al di là di quanto strettamente necessario, di mandarlo a monte o di scatenare una serie di conseguenze conflittuali alle quali non sempre eravamo preparati in modo adeguato. Accelerare i tempi, nei limiti del possibile, era anche un modo inconscio di cancellare al più presto ogni accostamento necessario alla bruttura che avevamo davanti. Il ribrezzo aveva il suo peso e non c’era verso di cacciarlo via con un ricorso alla oggettualità fattiva da manuale del guerrigliero. Parallelamente a questa urgenza ce n’era un’altra di segno esattamente opposto. Gli accostamenti procuravano a volte una sorta di trasalimento, un segno di umanità che sembrava muoversi sotto la scorza della normalità dei massacratori. A volte emergeva la loro singolarità, in piccole cose – gesti, atteggiamenti, tic, sguardi – per cui era improvvisamente più difficile mantenere le distanze di sicurezza e la indispensabile oggettualità preparatoria all’azione. C’era pur sempre il pericolo che questi spettri svanissero nel più profondo delle loro normalità, prendendo corpo come uomini, beffando così tutte le nostre misure di accostamento cautelativo. In questi casi l’oltrepassamento nell’azione era la sola soluzione possibile. L’ospite inatteso risolveva radicalmente tutti i problemi che scomparivano nella qualità. La libertà radeva al suolo la regola e i suoi aguzzini. Un mucchio di stracci dietro le spalle.


228. – Una lotta sconsiderata la nostra, tutto sommato. Importante e fondamentale, per inviare il segno tangibile che un intero popolo non era morto, che reagiva alla tracotanza del potere, ma disarmonica e avventata. Eravamo di fronte alla nudità del dominio, al puro e semplice prevaricare, schiacciare, sbriciolare. Nessun compartimento stagno ci separava dall’abisso che ogni giorno camminava normalmente sotto i nostri occhi come se tutto fosse in regola e, forse, proprio perché tutto era in regola. La nostra sconsiderata impudenza metteva il dito nella piaga e la esacerbava. Nessuno sembrava accorgersene. Di queste azioni non c’erano che rivendicazioni fatte dal movimento, non certamente da noi. Ma che cosa sapevano i compagni che non avevano partecipato al lavoro fin dal primo momento? Solo che uno spettro era stato cancellato dalla sua esistenza apparente. Troppo poca e troppo lontana, direi remota, conoscenza. Queste azioni, nella calma piatta imposta dal potere repressivo nelle sue massime espressioni, si vestivano subito con i panni della leggenda che nessuno aveva visto concretizzarsi ma che in molti si raccontavano con quel tanto di ricamo fantastico inevitabile in queste cose. Una sorte si era conchiusa, il destino di un uomo aveva trovato il suo punto di arrivo, non c’era molto da dire. Noi che avevamo vissuto quell’azione e, prima ancora, preparato il lungo lavoro che l’aveva resa possibile, non avevamo nulla da dire. Le mie rammemorazioni – quelle scritte – sono tutte di molto successive, alcune, come le presenti, rasentano distanze epocali impressionanti. Incessantemente mi ponevo certo delle domande prive di risposta, intrecciavo il mio pensiero fattivo e preparatorio con i miei dubbi, ma erano spiragli che intravedevo come se fossero suggerimenti critici, il sogno di un fare più cosciente di sé, meno dipendente dalle informazioni primarie. Avevo davanti uomini normali che massacravano – cosa più che comune e diffusa di quanto la gente cosiddetta perbene non supponga –, che alimentavano la caverna del lago di sangue. Li guardavo nella loro intima spossatezza, mentre si atteggiavano a mettere in mostra una vita qualsiasi, ma io sapevo che erano soltanto spettri, residui indegni e miserabili di una coscienza scomparsa. Non avevano la speranza né di una vittoria né di una sconfitta. Il compimento del proprio lavoro li riempiva di indifferenza, erano manichini caricati a molla che a poco a poco si affievolivano senza per questo acquisire una qualche consapevolezza dell’orrore del ruolo. Non si trattava di mettere a nudo le loro colpe, queste erano fuori discussione, si trattava di assumerli in blocco come entità sporadiche e deprivate, incapaci di affermare una propria personalità, sottoposte tutte al medesimo trattamento uniformante. Le misure erano movimenti fattivi oggettuali, non penetravano negli spettri, rimanevano a distanza, si limitavano a registrare le loro corrispondenze, le concordanze, le eventuali discordanze e qualche volta duplicavano tutto questo lavoro per maggiore sicurezza. I fantasmi restavano prigionieri sullo sfondo. Anche gli accostamenti sporadici, che tanto mi mettevano in ambasce, erano occasionali e non funzionali, potevano anche non verificarsi o verificandosi passare inosservati. Il mio personale disappunto era dovuto al mio modo di vivere questo avvicinamento progressivo all’azione, un accostamento di tutt’altro genere. Dovevo rimanere inerte di fronte a queste mie sollecitazioni, ma non sempre ci riuscivo. Il flusso dei pensieri, nel corso del tempo in cui si svolgeva il lavoro preparatorio, tornava sempre con insistenza alla presenza dell’ospite inatteso, al suo arrivo nel momento dell’azione, al mucchio di stracci che ci saremmo lasciati dietro, a un uomo ucciso improvvisamente e irrimediabilmente. Lo so che è strano parlare della irrimediabilità della morte, ma questo pensiero è strano solo per chi non ha mai vissuto l’esperienza della morte improvvisa di qualcuno. Non erano solo perplessità sul fondamento giustificativo della nostra azione, erano ramificazioni dolorose che si sommavano le une alle altre. Domande che mi sarebbe piaciuto porre all’ospite inatteso, ma questo non aveva risposte per me.


229. – La consapevolezza dell’umanità di questi spettri la coglievo man mano che cresceva la necessità del controllo, l’incoercibile necessità preludio dell’azione. Se mi fossi mantenuto a distanza potevo continuare a vederli come ombre nella parete della caverna dei massacri. L’accostamento – per altro necessario – finiva per coinvolgermi emotivamente. Mi accorgevo che anche per i miei compagni doveva accadere qualcosa di simile se, aumentando le corrispondenze e le verifiche, ognuno finiva quasi per avere fretta di portare a termine il lavoro. Questa fretta aveva un significato, come se tutti cercassimo di chiarire le nostre perplessità in un colpo solo, un colpo decisivo. Molte le astuzie impiegate nel nostro lavoro preparatorio, ma questa sorta di accelerazione era un’astuzia non voluta, era interna al meccanismo stesso di controllo. In fondo la spossatezza riscontrata negli spettri poteva, a un certo punto, capovolgersi a dispetto di tutte le nostre metodologie di sicurezza e mettere in campo il proprio contrario, una risposta armata e organizzata. Se qualche tentativo di risposta c’è stato qualche volta – raramente – esso fu dovuto a un nostro errore o a una superficialità nell’applicazione del metodo, non a un ribaltamento della spossatezza dello spettro in questione in iniziative e risposte pericolosamente incisive, e ciò anche quando rimaneva incredibile che non si accorgesse di quello che gli si stava costruendo attorno. Una forma indiretta di acconsentimento? Un mettere da sé la testa sotto la mannaia? Non credo. Di più, notizia delle passate azioni doveva per forza essere trapelata, ma non erano visibili misure di tutela nuove o più efficaci, quasi queste – a parte l’arma personale di ogni singolo spettro – non fossero nemmeno prese in considerazione. Certo, l’ospite inatteso si presentava senza preavviso, ma l’enorme lavoro preparatorio poteva non destare neanche l’ombra di un sospetto? Per quanto la cosa possa sembrare incredibile, più o meno, con sfumature trascurabili che variavano a seconda dei luoghi e dei personaggi, era proprio così. Una sorta di rassegnazione? Me lo sono chiesto più volte. Non era possibile rassegnarsi a morire, almeno non per gente che viveva accanto alla morte, che procurava o aiutava la morte. Forse il motivo di questa spossatezza era più sottile e più profondo, era da ricercarsi proprio nel lavoro di questi massacratori e, perfino, ma mi sembra impossibile, nella coscienza di meritare una fine come quella che stavamo preparando. Di certo quest’ultima considerazione è parecchio verosimile per i traditori irlandesi, meno per gli altri spettri. Anche se questi ultimi insistevo nel vederli piagati da un pensiero se non di questo tipo, almeno simile. Eravamo noi a essere assediati da una incombenza enorme di cose da fare, loro erano la normalità, l’ebetismo della ripetitività. Sembravano animati da una sollecitazione a circuito chiuso. Il loro lavoro mostruosamente circoscritto ed efficiente, e poi la spossatezza di fronte a tutto il resto. Vivevano dentro una sorta di nebbia protettiva che li isolava dal mondo, erano appunto apparenza, e per questo motivo tanto spesso continuo a parlare di fantasmi, di spettri e di ombre. Capivano esattamente la responsabilità morale che li schiacciava? Secondo me no, ma non occorre capire per essere schiacciati da quello che si fa. Ci si abitua all’orrore dell’abisso senza fondo? Non lo so, forse anche il boia più addestrato può avere le sue vertigini. Ripiombavano a volte in un sogno di umanità senza torture e senza delazioni o provocazioni? Chi può saperlo? Erano queste domande senza risposta che mi tormentavano nei miei andirivieni senza lacune all’interno di una metodologia provata e riprovata fino alla nausea. Erano questi i miei dubbi sulla loro sostanziale umanità, nascosta sotto la patina rigida della normalità di aguzzini prezzolati. Forse tremavano dentro, oppure avevano già raggiunto l’inconsapevolezza catatonica del cadavere che non si preoccupa più di niente? In questo straordinario modo di mostrare la propria disponibilità a essere vulnerabili c’era una sorta di rassegnazione. Esausti, delusi, senza futuro, oppressi da irriguardose gerarchie, che cosa potevano fare gli spettri? Delusi e sfiniti aspettavano forse l’unica novità possibile, la soluzione definitiva, l’arrivo dell’ospite inatteso? Non so se queste mie domande sono fondate, posso solo dire che erano prodotte da ciò che mi passava sotto gli occhi.


230. – L’imponente massa della gerarchia ordinativa pesava sui fantasmi che si avvicendavano sotto i miei occhi di osservatore metodico e attento alla catalogazione. Ma questo peso, che gravava con tutta evidenza sulle loro spalle, era per noi, in particolare per me, solo una maligna ipotesi. Avrei potuto non tenerne conto e guardare alla singola peculiarità che era di per sé più che sufficiente a smuovere allo sdegno e alla rivolta. Ma io volevo vedere più lontano, volevo accostare quella irriducibile singolarità che mi sembrava di potere presupporre, la quale reagiva sempre in modo diverso a ogni tentativo di uniformazione. E invece ogni mio sforzo era quasi sistematicamente frustrato. L’uniformità coincideva con la normalità e questa con quella. Gli ordini venivano eseguiti perché i destinatari di questi ordini erano stati ridotti alla condizione di apparenze spettrali che rende possibile l’esecuzione al di là di ogni possibile dubbio. L’inverosimiglianza di questa condizione, pur sempre umana, era assolutamente sotto i miei occhi e la resistenza ad accettarla era una mia personale ritrosia non un meccanismo inceppato da qualche parte. Avevo davanti una registrazione protocollare e volevo insistere nello scrostare quello che ritenevo fosse una patina, ma più incidevo nell’osservazione e nell’accostamento e più ero costretto ad ammettere che non c’era una patina ma la compatta consistenza della normalità, assolutamente inattaccabile. L’umanità può tranquillamente raggiungere questi livelli di ottusa efferatezza senza disturbare definizioni deformanti. Il boia è un uomo come tutti gli altri che guarda nell’abisso come se si affacciasse dal balcone di casa sua. Egli è se stesso, un boia. Ne è però consapevole? Ecco, qui sta una domanda che non può avere risposta sicura. Chi lo sa? Certo, la spossatezza che riscontravo in questi spettri dava il segno – se non mi ingannavo mortalmente – di un sentimento perduto in lande desolate, dove anche le più credibili sensibilità umane erano andate a sminuzzarsi perché triturate dall’abitudine e dall’ordine costituito. Ma era questa spossatezza in grado di giustificare tutto? No. Era solo una segnatura che mi sembrava di potere reperire guardando con occhio più attento. Erano uomini trasformati in spettri, spettri sotto forma occasionalmente umana? Non lo so. Di certo erano cellule isolate dal mondo, inserite in un contesto fittizio, chiamate ad assolvere uno dei compiti essenziali del potere, la repressione nascosta, quindi più sanguinosa e feroce. Si può spiegare una condizione del genere? No, la si può accettare come un dato di fatto, un’escrescenza particolarmente verminosa della natura umana, ma sempre appartenente all’uomo e comprensibile – non giustificabile, questo è ovvio – nell’ambito di una spiegazione totale di ciò che è l’uomo, dei suoi abissi di orrore e delle sue capacità sublimi di dedizione. L’uomo è tutto questo, e sarebbe stupido – o comodo – considerare quegli spettri come dei mostri e noi, che eravamo lì per preparare la loro fine, come degli uomini. Non si è uomo solo quando si è della parte della libertà. Anche i massacratori sono uomini e abbatterli significa uccidere degli uomini. E questa esperienza è la cosa peggiore che possa capitare. Entra nelle vene come una malattia mortale e non ci si libera più di essa. Il silenzio è un motivo comune alla preda e al cacciatore, allo spettro e al misuratore di distanze. È un evento inaudito quando se ne fa l’esperienza per la prima volta. Lo spettro dava segni di vita, ma era essa una vita oppure era solo il riflesso spettrale di una vita? Pure accostandosi quanto più possibile nel corso delle misurazioni, questa vita dava segni di sé di natura automatica, non c’erano contrassegni di ciò che si potrebbe forse definire come vitalità, come voglia di vivere, come coscienza di essere vivi. Alla fine si doveva concludere che dallo spettro non arrivavano segni di vita. Ma come tollerare questo silenzio se non accettandolo come un acconsentimento alla morte, un desiderio – l’unico desiderio umano fino in fondo – di farla finita una volta per tutte? La preparazione di un’azione è sempre un momento vivo, pieno di sorprese e di tensioni in attesa dell’oltrepassamento. Nulla può essere paragonato a questo contrasto tra preda e cacciatore, a questo irragionevole rapporto fondato sulla mancanza di rapporti. L’ospite inatteso soltanto sapeva leggere in quel silenzio e ascoltarlo.


231. – La consapevolezza mia di trovarmi davanti a dei rottami di umanità mi derivava dalla serie di osservazioni supplementari che portavo avanti per rispondere alle mie perplessità. Lo schema rigido che mi veniva suggerito era quello dei massacratori che andavano eliminati. Ma i miei atteggiamenti nei confronti di questi fantasmi non potevano usufruire della visione diretta del massacro in corso, questa vasta operazione mi dovevo sforzare di immaginarla, oppure ricordare le torture personali che avevo subito e magari moltiplicarle all’eccesso. Ma con questo procedimento deduttivo che cosa cercavo? Una giustificazione al mio agire in corso di preparazione, un fondamento al mio fare circospetto e ripetitivo? Non potevo restare a guardare per giorni un personaggio che quasi certamente, recandosi al lavoro, o provenendovi, andava a torturare o aveva torturato. Era intollerabile, sarei stato portato dal mio carattere ad attaccarlo subito senza aspettare il rispetto di tutti i protocolli di sicurezza. Quanto sangue veniva a costare questa sicurezza, partendo dal dato di fatto fornito dall’informazione di cui eravamo in possesso? Toccare però quell’apparenza senza il rispetto delle regole di accostamento e verifica poteva farla dissolvere per sempre, permettendo altri e più sanguinosi massacri. Queste decisioni sembrano facili e scontate ma non lo sono affatto. Lo sguardo perduto nel vuoto, che questi spettri spesso lasciavano intravedere, aveva un senso, era provvisto di contenuto. Mostrava l’essenza intima del potere, la sua vacuità noncurante, la sua superficialità che tutto recupera e giustifica. Lo spettro era così un’espressione estrema e irrimediabile del vuoto. Esso era vuoto e guardava nel vuoto. Il potere è vuoto ed è pieno di vuoto. Il vuoto è l’assenza dell’essere, la pura e semplice apparenza. Tutti siamo in parte apparenza, e quindi siamo vuoto, ma se ne prendiamo coscienza e cerchiamo di oltrepassare questa nostra vuota immediatezza nel pieno dell’essere, cioè nell’azione, allora siamo quello che siamo e non possiamo non essere. Non c’è modo di scivolare attraverso questo vuoto fare a cui ci condanna la nostra stessa volontà se non attaccando, quindi agendo nella qualità. E ciò contravviene alle stesse procedure di accostamento, per quanto queste possano essere necessarie per arrivare all’azione. Certo, c’è una differenza fondamentale nel fare, per quanto tutto nel suo insieme possa essere ricondotto all’apparenza. C’è il fare coatto che sostiene e giustifica il potere assolvendo a volte al compito estremo di massacrare e torturare, elementi indispensabili del dominio, e c’è il fare che prepara il percorso nella foresta per arrivare all’oltrepassamento nell’azione. Non ci sono istruzioni sicure per evadere da una prigione ben sorvegliata come è quella che viene sigillata dalla continuità logica del fare, però ci sono indicazioni, segnature nel sentiero nella foresta. Bisogna sapere decifrare queste indicazioni spesso nascoste. L’azione è, in fondo, quello che non può mai accadere, che tutta l’impalcatura del fare congiura che non accada, ma poi, improvvisamente, accade. Se accade, se l’oltrepassamento si verifica, niente può fermare la qualità. L’ospite inatteso è nella qualità che opera, fuori del tempo e dello spazio, nella dimensione puntuale. Non è in grado di circoscrivere l’entità e le modalità del suo intervento, queste sono sempre varianti del fare preventivo. Non ha voce, quindi non può concedere dilazioni o contrattare riduzioni d’intervento. Egli non prova, non cerca, non tenta, non ha riserve mentali né perplessità. Non può fare domande né ha intenzione di informarsi sullo stato dei lavori in corso. Tutto questo nell’azione non esiste. Per la titubanza non c’è posto nella qualità. Qui tutto è quello che è. La libertà è la libertà non un palliativo diviso in briciole. La giustizia è la giustizia non un calcolo aritmetico. La verità è la verità non un rispecchiamento di ciò che è. La bellezza è la bellezza non una corrispondenza di armonie. L’ospite inatteso sa tutto questo nel momento in cui taglia il filo della Parca.


[Finito nel carcere di Korydallos (Atene) il 2 settembre 2010]

 
 

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