Titolo: Lezioni (fuori luogo) di filosofia. Bergamo
Note: Prima edizione: dicembre 2013
SKU: pensiero-000027
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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    Introduzione

    Prima lezione: 12 febbraio 1990

      Testi

      Tracce del commento

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      Tracce del commento

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    Seconda lezione: 20 febbraio 1990

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    Terza lezione: 27 febbraio 1990

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      Tracce del commento

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    Quarta lezione: 8 marzo 1990

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    Quinta lezione: 15 marzo 1990

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    Sesta lezione: 17 marzo 1990

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    Settima lezione: 21 marzo 1990

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    Ottava lezione: 2 aprile 1990

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    Nona lezione: 12 aprile 1990

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    Decima lezione: 13 aprile 1990

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    Undicesima lezione: 18 aprile 1990

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    Dodicesima lezione: 21 aprile 1990

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    Tredicesima lezione: 25 aprile 1990

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    Quattordicesima lezione: 2 maggio 1990

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    Quindicesima lezione: 7 maggio 1990

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    Sedicesima lezione: 15 maggio 1990

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    Diciassettesima lezione: 18 maggio 1990

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    Diciottesima lezione: 19 maggio 1990

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    Diciannovesima lezione: 31 maggio 1990

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    Ventesima lezione: 4 giugno 1990

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    Ventunesima lezione: 7 giugno 1990

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    Ventiduesima lezione: 15 giugno 1990

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    Ventitreesima lezione: 21 giugno 1990

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    Ventiquattresima lezione: 28 giugno 1990

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    Venticinquesima lezione: 30 giugno 1990

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      Tracce del commento

Introduzione

Queste lezioni (fuori luogo) di filosofia sono state da me tenute, durante la mia permanenza nel carcere di Bergamo, ad alcuni compagni di detenzione.

Arrestato il 2 febbraio 1989, nel corso di una rapina alla gioielleria Plebani, via Pignolo, insieme al compagno anarchico G. S., rimasi in via Gleno, luogo dove sorge il carcere “modello” di Bergamo, fino al 6 febbraio 1991, quando venni scarcerato per l’applicazione dell’indulto di due anni, concesso nel dicembre 1990. Detto tra parentesi, questo indulto mi è stato successivamente revocato, nel 2007, e mentre scrivo queste righe mi trovo a scontare il residuo pena di un anno e due mesi in detenzione domiciliare, dopo una prima parte passata nel carcere di Trieste.

Come sempre mi è capitato, anche a Bergamo, non appena i detenuti vennero a conoscenza della mia laurea in filosofia, mi chiesero subito se potevo fare loro alcune lezioni. Si può dire che non c’è stato carcere, tra le decine dove ho scontato i miei tanti periodi di condanna, dove non abbia ricevuto questa richiesta. Pure avendo anche una laurea in economia nessuno mi ha mai chiesto di fare qualche lezione di economia. Bisognerebbe riflettere su questa stranezza.

Non cominciai subito dopo la condanna in primo grado, ovviamente dopo il regolamentare periodo di isolamento, perché la biblioteca era gestita, in larga parte, da alcuni di Prima linea, con lo stesso Corrado Alunni a coordinare il tutto, e stavano sviluppando una ricerca economico-statistica sui detenuti presenti nel carcere. Quando furono in maggior parte trasferiti altrove o, come accadde ad Alunni, iniziarono a lavorare, alcuni compagni a me più vicini, mi chiesero di cominciare queste lezioni.

Autorizzate dalla direzione, ma senza la presenza di un educatore, come invece è previsto dal regolamento, i partecipanti erano in tutto sei, me compreso.

Il reperimento dei testi merita un cenno a parte. Alcuni vennero forniti dal compagno anarchico Luigi Brignoli, morto se non vado errato nel 1996, a cui avevo spedito un elenco pregandolo di interessarsi. Ricordo qui che lo stesso, cogliendo l’occasione, fece dono al carcere di un tavolo di riunione e di sei sedie per la biblioteca, di un migliaio di libri della sua biblioteca e dei relativi scaffali. Alcuni libri li avevo io a casa, e me li sono fatti portare a colloquio dalla mia compagna Jean Weir, altri, infine, specie quelli in francese e in inglese, mi vennero spediti da compagni residenti all’estero. I numeri di “Aut-Aut” mi furono forniti direttamente, insieme a tante altre annate, dalla stessa redazione della rivista, la quale mi era stata vicina anche in occasione del mio primo arresto, avvenuto nel lontano 1972.

La struttura delle lezioni era semplice: un intervento preventivo mio seguito dalla lettura di un testo e dal dibattito chiuso da un commento mio. Qui non mi è possibile dar conto del dibattito perché in carcere non avevano autorizzato la registrazione delle lezioni.

Questo è tutto. Dei risultati è inutile parlare, non li conosco. Il mio sforzo l’ho fatto con passione e interesse e, per quel che mi riguarda, mi è stato utile per le mie ricerche, spero che anche qualcosa sia rimasta negli altri cuori, costretti all’atroce tortura della reclusione.


Trieste, 3 giugno 2008

Alfredo M. Bonanno

Nota

Riguardo le citazioni, in alcuni casi, ho preferito usare edizioni più aggiornate e corrette al posto di quelle disponibili all’epoca.

* * * * *

“Il passato è, certo, un fatto e un oggetto, ma come ogni altro da noi, come l’altro io che ci parla, il libro che l’altro scrive e che entra nel nostro dialogo come un io, come opera d’un uomo, con la sua personalità staccata e pur legata alla nostra, distante e prossima”.

(E. Garin, La filosofia come sapere storico)

Prima lezione: 12 febbraio 1990

Riguardo l’accumulo, l’oggettualità*, la produzione di oggetti, l’immediatezza, la struttura e tutti gli altri aspetti relazionali del livello modificativo dell’effettualità**, dirò nel corso di queste discussioni tutto quello che ci sarà da dire. Più che altro, il discorso si svilupperà su di un duplice piano, sul funzionamento relazionale della modificazione e sull’innesto di questi movimenti all’interno dei protocolli di campo. Occorrerà rendersi conto bene di questo primo livello dell’effettualità, coglierlo cioè nel suo stesso modificarsi, nel suo farsi oggetto, spiegare perché questo movimento complesso e articolato trovi più facilmente una spiegazione in termini di campo, cioè in termini convenzionali, ma anche spiegare come queste spiegazioni non sono altro che ulteriori oggetti, a loro volta accessibili solo attraverso spiegazioni in termini analitici. Più o meno un ricorso all’infinito che annulla il processo, come accade in qualsiasi altro tentativo di specificazione, il quale si deve arbitrariamente arrestare ad un certo punto.

Il movimento circolare descrive l’apprensione*** relazionale del senso da parte del meccanismo accumulativo. L’accumulo non è progressivo, nell’ottica del campo questa è una deformazione corrente, in quanto la quantità viene rielaborata sulla base di certe scelte protocollari di fondo. Queste scelte, grosso modo, costituiscono una vera filosofia dell’a poco a poco, ricavata dalla logica relativa e analitica, ma allargata anche a considerazioni teleologiche e finalistiche. L’empirismo o il pragmatismo**** stessi, con i loro atteggiamenti positivisti, risentono non meno di altre concezioni protocollari di questa situazione, trattando il dato di fatto sicuramente come un oggetto, e questo sarebbe anche giusto, ma inserendolo in un finalismo naturalistico, l’altra faccia della medaglia dello storicismo.

Testi

*«È ora tempo di definire la natura della classificazione brentaniana, quindi quella del concetto di coscienza intesa come atto psichico.

«Guidato dall’interesse classificatorio a cui abbiamo accennato, Brentano stesso conduce la propria indagine distinguendo le due classi di “fenomeni” – quelli fisici e psichici – che egli assume come fondamentali. Egli ottiene così sei definizioni, di cui solo due sono per noi interessanti, in quanto in tutte le altre svolgono una funzione deleteria certi equivoci ingannevoli che rendono insostenibili i concetti di fenomeno, in particolare di fenomeno fisico, e quindi anche di percezione interna ed esterna.

«Delle due definizioni da noi privilegiate, la prima indica direttamente l’essenza degli atti o dei fenomeni psichici. Essa si impone in modo inconfondibile considerando esempi qualsiasi. Nella percezione viene percepito qualcosa, nella rappresentazione immaginativa qualcosa viene rappresentato in immagine, nell’enunciazione qualcosa viene enunciato, nell’amore qualcosa viene amato, nell’odio qualcosa viene odiato, nel desiderio qualcosa viene desiderato, ecc. Questa “modalità di riferimento della coscienza a un contenuto” (come Brentano spesso si esprime in altri passi) è appunto, nella rappresentazione, la modalità del rappresentare, nel giudizio, la modalità del giudicare, ecc. Come è noto, il tentativo brentaniano di classificare i fenomeni psichici in rappresentazioni, giudizi e movimenti affettivi (“fenomeni dell’amore e dell’odio”) si basa su questa modalità di riferimento, che Brentano distingue appunto in tre tipi fondamentalmente diversi (a loro volta ulteriormente specificabili).

«Il fatto che si ritenga la classificazione brentaniana dei “fenomeni psichici” più o meno adeguata, oppure che si arrivi a riconoscere che essa ha per l’intera psicologia quella fondamentale importanza che il suo geniale autore pensava dovesse esserle attibuito, non è qui molto rilevante. Solo una cosa va sottolineata per l’importanza che essa detiene per noi, vi sono diverse modalità specifiche essenziali del riferimento intenzionale o, in breve, dell’intenzione (che rappresenta il carattere descrittivo generico dell’“atto”). La modalità in cui una “mera rappresentazione” di uno stato di cose “intende” questo suo oggetto, è diversa dalla modalità del giudizio che assume questo stato di cose come vero o falso. E diversa da entrambe è anche la modalità della presunzione e del dubbio, della speranza o del timore, della soddisfazione o dell’insoddisfazione, del desiderio o della ripugnanza; della decisione di un dubbio teoretico (decisione giudicativa) o di un dubbio pratico (decisione volitiva nel caso di una scelta i cui termini si equivalgono); della conferma di un’opinione teoretica (riempimento di un’intenzione giudicativa) o di una intenzione volitiva (riempimento dell’intenzione volitiva), e così via. Certo, se non tutti, almeno la maggior parte di questi atti sono vissuti complessi, e molto spesso le stesse intenzioni sono multiple. Le intenzioni affettive si basano su intenzioni rappresentazionali o giudicative, ecc. Ma è indubbio che, dissolvendo questi complessi, perveniamo sempre a caratteri intenzionali primitivi che, nella loro essenza descrittiva, non possono essere ridotti a vissuti psichici di altro genere: ed è inoltre indubbio che l’unità del genere descrittivo “intenzione” (“carattere d’atto”) esibisce diversità specifiche che si fondano nell’essenza pura di questo genere, precedendo così, come un a priori, la fattualità empirico-psicologica. Vi sono specie e sottospecie di intenzioni essenzialmente diverse. In particolare è impossibile ridurre tutte le differenze tra gli atti di un tessuto di rappresentazione e di giudizi, ricorrendo semplicemente a elementi che non appartengono al genere “intenzione”.

«Il riferimento intenzionale, inteso in sede puramente descrittiva come peculiarità interna di certi vissuti, rappresenta per noi la determinazione essenziale dei “fenomeni psichici” o degli “atti”, cosicché consideriamo la definizione di Brentano, secondo cui essi sono “fenomeni che tengono in sé intenzionalmente un oggetto”, come una definizione essenziale, la cui “realtà” (nel senso di una volta) è naturalmente assicurata dagli esempi. In altri termini, al tempo stesso in una formulazione puramente fenomenologica: l’ideazione effettuata sui casi particolari esemplificativi di tali vissuti – ed effettuata in modo tale da escludere qualsiasi posizione esistenziale e qualsiasi interpretazione empirico-psicologica, tenendo conto solo dello statuto fenomenologico reale di questi vissuti – ci presenta l’idea generica, puramente fenomenologica, di vissuto intenzionale o atto, nonché le sue specificazioni pure. Che non tutti i vissuti siano intenzionali è dimostrato dalle sensazioni e dalle complessioni sensoriali. Una frazione qualsiasi del campo visivo dato alla sensazione, comunque possa essere riempita da contenuti visuali, è un vissuto che può comprendere in sé contenuti parziali di varia specie, ma questi contenuti non sono in qualunque modo intenzionati dall’intero, non sono degli oggetti intenzionali.

«Ciò che mostra come questa definizione non possa costituire un adeguato punto di partenza per le nostre ricerche è il fatto che essa presuppone un concetto di rappresentazione che andrebbe anzitutto rielaborato, tenendo conto della varietà degli equivoci che sono propri di questo termine e della difficoltà di individuarli. Ma a questo proposito il punto di avvio più naturale è offerto dalla discussione del concetto di atto. In ogni caso, con questa definizione viene al tempo stesso espresso un principio importante, che stimola per il suo contenuto a nuove indagini e a cui dovremo ancora ricollegarci».

(E. Husserl, Ricerche logiche, tr. it., Milano 1968, pp. 158-161).

Tracce del commento

Almeno per me, la grande differenza, che mette in ombra la memoria pura e semplice, non è la reminiscenza ma la rammemorazione. Questa opera ha riflessi che non corrispondono a quello che la memoria caparbiamente conserva. La memoria derubrica l’azione in fatto, la rammemorazione cerca di fare valere gli aspetti qualitativi dell’azione. La sensibilità del gioco rammemorativo è indubbiamente più grande e non deve essere schiacciata sotto il peso, stavo per dire la pedanteria, della memoria. Chi si è affaticato tanto nello studio delle tecniche di memorizzazione sa bene che la memoria può produrre un intero mondo fondato su uno scambio uniforme e costante, maniacale fino alla nausea, tra passato e presente, senza che qualcosa di dissonante venga fuori, come se tutte le caselle dello scaffale d’archivio fossero sempre al loro posto, gli stessi fascicoli con le cordicelle unte di una volta maneggiati da un giovane di vent’anni provvisto di occhi vispi e capaci di leggere senza occhiali. Per accedere alla cosa occorre svuotare il mondo del suo contenuto, prima di tutto dalla sua smania di possesso, fino a sollevare alto il segno del vuoto, della mancanza, della sconfitta. L’assenza è questa strategia che non realizzo congiuntamente mai per lo stesso motivo per cui non realizzo nemmeno il movimento inverso. Sono un barbaro che balbetta e che cerca qua e là di segnare i nuovi parametri dell’assenza, ma questi non sono preclusivi e fermi come quelli che mi hanno allevato e dato forza prima, ora sono paletti permeabili, simboli di sconfitta. Se solo per un attimo affermo con piena volontà quello che voglio fare, cioè se smetto barbaramente di balbettare, ecco che riconquisto completo il mio decisionismo e vinco di una triste e squallida vittoria, mentre la mia sconfitta qualitativamente pregnante si allontana e mi ritrovo triste e desideroso di una nuova avventura. I vecchi vincoli tornano a bussare alla mia porta e sono portatori, come sempre, di garanzie e tutele, vogliono realizzare a mie spese il loro sogno di dominio e mi rinchiudono in un consenso che è perfetta misura della mia prigione.

Testi

** «Io non assumo ciò che essa mi propone in quanto essente simpliciter, in quanto presuntivamente o probabilmente essente. I modi di validità operanti nell’esperire ingenuo, il cui compimento ingenuo è costituito dallo “stare sul terreno dell’esperienza” (senza peraltro che ci si ponga mai, attraverso una particolare iniziativa e attraverso una particolare decisione, su quel terreno), nell’ambito di questa esperienza, io li pongo fuori validità, mi vieto questo terreno. Ciò non investe le esperienze del mondano nella loro singolarità soltanto. Già ogni singola esperienza ha, per essenza, “il proprio” orizzonte universale di esperienza, il quale, benché non esplicito, comporta la costante convalidità della totalità aperta e infinita del mondo essente. Proprio questo valere preliminarmente, che mi porta attualmente e abitualmente nella vita naturale e che fonda la mia intera vita pratica e teoretica, proprio questo preliminare essere-per-me “del” mondo, io mi inibisco; gli tolgo quella forza che finora mi proponeva il terreno del mondo dell’esperienza, e tuttavia il vecchio andamento dell’esperienza continua come prima, salvo il fatto che questa esperienza, modificata attraverso questo nuovo atteggiamento, non mi fornisce più il “terreno” sul quale io fino a questo momento stavo.

«Così attuo l’epoché fenomenologica, la quale, dunque, eo ipso, mi vieta anche l’attuazione di qualsiasi giudizio, di qualsiasi presa di posizione predicativa nei confronti dell’essere e dell’essere-così e di tutte le modalità d’essere dell’esistenza spazio temporale del “reale”.

«Così io neutralizzo tutte le scienze riferentesi al mondo naturale e, per quanto mi sembrino solide, per quanto le ammiri, per quanto poco io pensi ad accusarle di alcunché, non ne faccio assolutamente alcun uso. Non mi approprio di nemmeno una delle loro posizioni, anche se sono di perfetta evidenza, non ne assumo nessuna e da nessuna di esse ricavo alcun fondamento – beninteso, fintanto che esse vengono concepite, come avviene appunto in queste scienze, quali verità concernenti la realtà di questo mondo. Le posso assumere soltanto dopo aver loro applicato le parentesi, in conseguenza del fatto che io ho già sottoposto alla modificazione della messa in parentesi qualunque esperienza naturale, alla quale in definitiva rimanda ogni fondazione scientifica, come a un’esperienza che manifesta l’esistenza. Vale a dire: soltanto nella modificazione di coscienza della messa in parentesi del giudizio, dunque non come quelle proposizioni che sono nella scienza, dove reclamo una validità che del resto io stesso riconosco e unisco.

«Non si deve confondere l’epoché ora in questione con quella richiesta dal positivismo (contro la quale, come dobbiamo esserci persuasi, urta il positivismo comtiano stesso). Per noi non si tratta della neutralizzazione di tutti i pregiudizi che turbano la pura effettualità dell’indagine, né della costituzione di una scienza “libera da teorie”, “libera dalla metafisica”, facendo retrocedere ogni fondazione alle datità immediate della esperienza obiettiva, e nemmeno del mezzo per raggiungere tali fini, del cui valore non si fa questione. Quello che noi cerchiamo sta in tutt’altra direzione. Per noi il mondo intero, quale viene posto nell’atteggiamento naturale, quale effettivamente ci si offre del tutto “libero da giudizio” e chiaramente si annuncia alla connessione delle esperienze previa eliminazione delle apparenze, sia ora posto fuori della validità: non provato, ma anche non contestato, esso va messo in parentesi. Egualmente tutte le teorie e le scienze, per buone che siano, fondate positivamente o altrimenti, in quanto si riferiscono a questo mondo, soggiacciono al medesimo destino».

(E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, tr. it., Torino 1965, pp. 65-67).

Tracce del commento

La ricchezza della parola è quasi del tutto incognita a chi la usa, essa sorprende sempre con le sue meravigliose conseguenze che continuamente traboccano dai limiti della spiegazione e della espressione a cui è chiamata. Confrontata con l’azione viaggia sul filo della inintelligibilità. In contrasto, l’ascolto è sempre prevalso sulla domanda di approfondimento della parola, come se questa molteplice serie di livelli non facesse parte del dire allo stesso titolo. In primo luogo c’è da notare che l’approfondimento, anche puramente semantico, mi causa turbamento, è come mettermi davanti a degli specchi che rinviano e deformano la mia immagine all’infinito. Ciò è dovuto, almeno in parte, al fatto che l’approfondimento mette a rischio la saldezza semantica del dire, il punto rammemorativo, ciò propone un rinvio della parola sull’azione e si ferma sul colpo, affermando possibile un intento perseverante sulla parola stessa, sul dire che è così ascoltato e interrogato nello stesso tempo. La questione può essere posta in due modi, come un ulteriore eccesso, una forzatura che intende andare al di là della parola prima che questa vada avanti a se stessa, come un soffermarmi prudente per valutare la portanza di quello che il dire propone in merito all’azione. Due posizioni antitetiche, le quali bene osservate non sono del tutto contrastanti, vertono entrambi su qualcosa d’altro che la parola rammemorativa, almeno in prima battuta, non dice. A prescindere da questa frattura, l’interrogazione in atto ha un apporto positivo alla rammemorazione in quanto squaderna la parola nelle sue intime componenti, molte delle quali non sono disponibili a essere conosciute. Da qui una crescente incertezza sul dire e un contrasto tra il dire e quello che la parola dice, che a sua volta apre un altro divario. Tra questi due elementi la parola domina il dire e lo regge sulla strada della coerenza di ciò che va detto come conseguenza di quello che è stato detto.

Testi

*** «Noi rigettiamo interamente e decisamente il biologismo metafisico, ossia la concezione del fondamento del mondo come élan vital, “vita universale”, ecc., come hanno sostenuto Bergson, Simmel, ed altri. Lo “spirito”, né come “spirito” conoscente, intuente e pensante, né come “spirito” emozionale e volitivo è una “fioritura della vita”, una “sublimazione” della vita. Nessun tipo e nessuna forma di regolarità noetica si può “ridurre” alla regolarità biopsichica dei processi automatici e (oggettivamente) teleoclini; quella è “autonoma”. I valori conoscitivi, inoltre, e i valori etici ed estetici non sono sottospecie dei valori vitali. Le regioni dell’essere e le sfere degli oggetti alle quali mirano intenzionalmente tutti gli autentici atti noetici (tra cui anche la regione dell’essere e dell’oggetto di tutte le cose e di tutti i processi dell’essenza della vita medesima) “sono” ed esistono tutte indipendentemente dall’essenza e dall’esistenza della vita e degli organismi viventi, solo così la vita stessa può ridiventare un oggetto della conoscenza oggettiva e dell’apprensione dei valori. Se ogni essenza e esistenza, o se la loro conoscenza fosse “relativa” (relativa nell’esistenza o nella conoscenza) alla “vita”, allora la vita stessa sarebbe inconoscibile. Ma proprio la sfera dell’attualità spirituale si articola in modo rigorosamente personale, sostanziale e in se stesso individuato, fino a Dio come la persona di tutte le persone. La persona umana non è affatto individuata primamente dal suo corpo, che in ultima analisi, piuttosto, solamente “appartiene” a essa, alla persona, e che può essere distinto da tutti gli altri possibili corpi come il campo del suo più immediato dominio; e non è nemmeno individuata dal contenuto dei suoi atti e dei loro oggetti, o dal “contesto” temporale del ricordo o da qualsiasi altro contesto delle sue esperienze vissute – ma tutto questo contenuto e contesto del flusso dell’esperienza vissuta è oggettivamente diverso per il fatto stesso che le persone in sé individuate, alle quali esso appartiene, sono diverse nel loro esser-così. La persona, quindi, si “innalza” e si “eleva” nella sua purezza al di sopra della sua stessa “vita” e di ogni altra “vita”, che è solamente una condizione dell’esistenza terrena e nello stesso tempo materia della sua conformazione.

«L’agens, invece, che determina le reazioni formali e vitali (movimenti automatici, manifestazioni espressive, azioni), che nella nostra sfera della coscienza vitale diviene a noi stessi cosciente in modo imperfetto e inadeguato (per esempio, nel sentimento della vita con le sue specificazioni istintive, ovvero negli impulsi di morte e nelle sue specificazioni istintive), e che al contempo dobbiamo porre come reale al fine di spiegare tutto ciò che di ameccanico si può rilevare nei processi vitali oggettivamente esaminati; questo agens è per noi un solo e identico reale e – quel che qui interessa – è distinto sia essenzialmente che esistenzialmente e dinamicamente dallo spirito e dalla sua articolazione personale. Tra spirito e vita, tra persona e centro vitale, non esiste un legame di unità sostanziale, ma solo dinamico-causale. Solo per il fatto che riteniamo dimostrabile questa relazione tra spirito e vita, persona e centro vitale – dimostrabile dalle forme di collegamento secondo il senso, forme essenzialmente diverse dei “liberi” processi spirituali, e ancora dalla natura automatica, solo oggettivamente e teleologicamente significativa (ma non conforme al senso), dei processi psicovitali –, solo per questo è possibile e necessario supporre per i centri personali e per gli agenti vitali anche un’articolazione essenzialmente diversa della molteplicità e dell’unità. Infatti, ove fossero sostanzialmente identici (come insegna, per esempio, la Scolastica tomista), allora ci sarebbe solamente l’aut-aut: o, supposta un’unità originaria dell’entelechia della vita, anche lo spirito è in tutte le persone realmente lo stesso spirito, oppure ci sono altrettanti centri di vita fra loro indipendenti, quanti sono gli spiriti che senza dubbio esistono indipendentemente l’un dall’altro. Se invece esiste solamente il collegamento dinamico tra spirito e vita, allora potrebbe anche darsi che, nonostante la sostanzialità personale degli spiriti individuali, la vita sia in tutte le persone (in un senso ancora da accertare) metafisicamente una sola e identica vita – sebbene variamente articolata nelle sue direzioni dinamiche può essere determinata con maggior precisione mediante autentiche essenze e idee del regno organico».

(M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, tr. it., Roma 1980, pp. 140-143).

Tracce del commento

La ragione si muove agevolmente fra questi tentativi di perfezione, resta attonita di fronte alla perfezione stessa. Se la parola rimane legata alla ragione, rammemora un tentativo finalizzato al possesso, al godimento di un utile, deve quindi capovolgere il proprio dire, non affermare la qualità, ma descrivere l’assenza, secondo le abili movenze della rammemorazione, per cui l’inquadramento risulta indiretto, presenza suscettibile di trasposizione, affermazione che in fondo nega se stessa, simulazione che si conferma, monumento e giro di boa, descrizione animata che ricorda il silenzio della solitudine nel deserto. La reale grandezza della qualità toglie via tutto il resto, nessuno può capire come essa è veramente se non ha vissuto l’azione, il solo imitarla alla fine è nauseante. Una confessione che prende alla gola, che mi impedisce di respirare, che testimonia la difficoltà di andare avanti verso la cosa. Il tutto respinge accettando completamente, una colossale congiura del silenzio, sono perché sono, il pensiero annega nel suo contrario, non si contraddice e nemmeno si afferma. Vorrei che il mio pensiero una volta pensato mi si volgesse contro, mi attaccasse, insomma mi facesse capire che gli ho dato la vita, l’ho illuminato sforzandolo a deformarsi nella intenzione realizzata. Non è così. L’incarnazione è a volte stupida convenienza, offerta comoda che impedisce di affondare il coltello, che mi convince a desistere. Spesso il desiderio di fare mi porta oltre le mie capacità, mentre l’immaginazione mi impedisce di vedere i limiti di quello che in effetti posso fare. Mi ritrovo così, a volte, a fare ciò che non avrei mai osato pensare e che, di regola, nessuna persona perbene farebbe mai. Guardandomi, come si suole dire, dall’esterno, mi sembra di vedere un altro che fa, progetta e sogna, e quell’altro sono io. C’è in questo mio continuo sdoppiarmi una sorta di luce che solo io riesco a vedere, in lontananza, credo che sia un modo tutto mio di avvicinarmi alla cosa. Altri la chiamano freddezza, ma è un termine che non c’entra per niente.

Testi

**** «Si resta meravigliati nel vedere quante discussioni filosofiche apparirebbero destituite di ogni significato quando fossero sottoposte a questa prova di cercare la loro conseguenza concreta.

«Non può esserci in alcun luogo una differenza reale che non ne produca un’altra altrove. Non ci può essere, nel dominio della verità astratta, una differenza che non si traduca in una differenza in un fatto concreto, come nel comportamento determinato da questo fatto, differenza che, in qualche luogo, in qualche tempo e in un determinato modo, si impone a qualcuno.

«Tutta la funzione della filosofia dovrebbe consistere nello scoprire che cosa ci sarebbe di diverso, per voi e per me, in determinati momenti della vita, a seconda che fosse vera questa o quest’altra formula dell’universo.

«Niente di nuovo nel pragmatismo, assolutamente niente. Socrate ne era un adepto e si esercitava in esso, Aristotele lo praticava sistematicamente. Per mezzo di esso, Locke, Berkeley e Hume hanno stabilito importanti verità. Shadworth Hodgson insiste sul punto che le realtà sono per noi ciò che crediamo che esse siano e nient’altro. Questi precursori del pragmatismo, tuttavia, lo hanno utilizzato solo in modo parziale; hanno preludiato a esso. Solo ai nostri giorni il pragmatismo si è generalizzato, ha preso coscienza della missione universale che gli spetta e aspira a un destino di conquistatore. lo credo a questo destino e spero che, alla fine, riuscirò a farvi condividere la mia fede.

«L’atteggiamento del pragmatismo è noto da molto tempo perché è lo stesso atteggiamento dell’empirismo; ma esso lo presenta, a quanto mi sembra, in forma più radicale, e tuttavia tale che solleva meno obiezioni di qualunque delle forme assunte finora dall’empirismo».

(W. James, Aspetti essenziali del pragmatismo, tr. it., Lecce 1967, pp. 134-135).

Tracce del commento

La lucidità rammemorativa esercita lontano la sua portata, lontano dai cerchi ristretti di qualsiasi antropologia, si allarga oltre la localizzazione e ne contraddice le linee documentative, oltre la durata e ne mina il prima e il dopo. La rammemorazione non fissa patti con la parola, né questa con quella, non accetta nemmeno i limiti della dissimulazione pia, cioè diretta all’ottimo obiettivo della liberalizzazione. L’immaginazione non ha limiti, questo è il suo limite, a un certo punto la parola non può più alimentarla e, anche nel rammemorare, si dissecca. In quell’angolo oscuro dell’abisso, l’aspetta il vento nero della notte. Anche il portatore di liberazione si dissecca, sussulta, si dibatte, reagisce, ma le sue braccia si fanno scarne e piene di buchi, non ama ammetterlo, la sua grande avventura è una sconfitta. Non si può dire che una serie di riflessioni e coincidenze di lettura mi abbia spinto al sospetto verso la chiarezza. Forse questa idea è nata nel corso della mia vita solidificandosi nei momenti in cui la mia esistenza si sentiva più minacciata da una qualsiasi realizzazione di successo, una conquista di quelle che per la loro voluminosità è difficile buttare in una qualche pattumiera.

Seconda lezione: 20 febbraio 1990

Tutto il senso deriva dall’orientamento dei flussi all’interno del quale si separa dalla tensione. Su questo movimento sappiamo di già quasi tutto, bisogna osservarlo adesso nel suo carattere universale. Nella percezione, da parte della coscienza immediata, c’è una condizione di paura e di sospensione che consente l’orientamento. Questa condizione appartiene soltanto alla coscienza immediata, non alla coscienza diversa. Fin quando la diversità resta in piedi il flusso unificato non torna ad orientarsi, mentre si sviluppano movimenti di ulteriore riunificazione. Ma le pressioni sulla diversità sono tante da rendere impossibile una permanenza relazionale a livelli superiori. La diversità, ad un dato punto, è obbligata a scegliere, tra il dare ascolto alla coscienza immediata, che nello stesso momento continua ad agire nell’ambito della modificazione, o il dare ascolto a se stessa, decidendosi per il salto nella cosa.

Comunque, a parte questa condizione di scelta, della quale parleremo più avanti, qui ci interessa l’universalizzazione del meccanismo accumulativo. La vicenda effettuale dell’uomo non ammette eccezioni, dal momento che questo particolare oggetto si è sviluppato nell’ambito dei movimenti relazionali, si sono a loro volta determinati due altri movimenti, uno interno all’oggetto stesso, diretto a specificare quantitativamente le condizioni in base alle quali si realizzava un sistema di autopercezione, una sorta di coscienza rudimentale, in grado di usufruire subito dei risultati dell’accumulo, e uno esterno, che si può complessivamente identificare con l’effettualità. Anche altri oggetti, relazionalmente diversissimi ma posti su movimenti tutto sommato simili, avevano sviluppato un apparato di percezione* e quindi dato inizio ad una loro effettualità molto rudimentale. Agli inizi, la comune rudimentalità, accomunava queste coscienze forse più di quello che oggi possiamo immaginare, ma l’uomo aveva di già in corso di perfezionamento movimenti effettuali superiori, tutti suoi.

Non c’è quindi senso nel mondo che non sia stato separato dalla propria tensione dall’uomo. La realtà nel suo dispiegamento, non conosce una separazione del genere, la cosa è senso e tensione insieme, non è possibile individuare dove finisce il senso e comincia la tensione o viceversa. L’effettualità spezza la cosa, la modifica nella sua fase inferiore, ottiene quindi il senso vero e proprio, cioè comincia a far collezione di contenuti, comincia a dare i nomi alle cose, tradendone l’intima realtà e modificandoli in oggetti, processo che diventa sempre più complesso fino ad arrivare alla produzione vera e propria dell’oggettualità. Questo attacco dell’effettualità, nel suo insieme, è il vero e proprio processo di umanizzazione della realtà, che diventa così artificiale, proprio a causa della presenza dell’uomo che, in quanto immediatezza, sin dalla sua prima rudimentalità, è artefice, cioè facitore. Solo in movimenti più adeguati alla diversità, l’uomo diventa anche attore, cioè capace di agire.

In questa vicenda relazionale, una volta che la si considera nella sua complessiva capacità di modificazione, interpretazione e trasformazione, si comprende benissimo come il ruolo del tempo e dello spazio non è per nulla quello che viene invece proposto all’interno del campo. L’effettualità nel suo insieme non ha problemi di sviluppo, o di prima e dopo, ma tutto avviene nell’ambito dei movimenti relazionali che fanno riferimento alla totalità delle relazioni possibili. Il tempo è, come lo spazio, un’invenzione protocollare per rendere comprensibile alla coscienza immediata l’organizzazione dell’effettualità. È una codificazione accessibile in termini quantitativi, sorta dalla necessità di mettere ordine nella quantità che con il meccanismo dell’accumulo si rendeva disponibile all’interpretazione e alla trasformazione. Sarebbe errato anche ammettere che l’effettualità sia un eterno presente. La nozione di presente è sempre derivata dall’idea di tempo. Differente invece è il concetto di puntualità.

L’effettualità, compresa quella modificativa, è quindi assolutamente puntuale, cioè si riassume nel riferimento alla minima relazione possibile, quella che contiene tutte le relazioni della totalità del reale. La quantità, come la qualità, non ha necessità di estensione, i problemi di misurazione intervengono solo a livello di campo. L’immediatezza si organizza in base alle convenzioni e usa protocolli analitici per regolare la propria esistenza. L’unica differenza è che questi protocolli sono in grado di codificare in pieno la quantità, mentre non riescono che a fornire una tipologia rarefatta della qualità, essendo obbligati a rintracciarla attraverso i residui. Il processo di qualificazione, come si realizza nella forma, viene attinto solo attraverso la tensione recuperata per la riunificazione del flusso, modo estremamente critico di attingere la qualità, se si eccettua quello ancora più critico del salto nella cosa.

Di per sé quindi, l’accumulo non è sottoponibile ad una indagine analitica**, cosa che difatti qui evitiamo di fare, ma lo diventa, e per intero, non appena si passa al campo e alle convenzioni. Le due indagini, parallele, sono una delle fonti più precipue di perplessità e d’inquietudine. Il senso, accumulandosi, non si espande fisicamente, nel modo che siamo abituati a vedere col nostro occhio reso miope dal senso comune, ma conquista un suo territorio puntuale in cui trova posto anche l’oggetto limite, l’elemento contraddittorio inserito dalla coscienza immediata, cioè il fine della completezza. È il modo in cui la coscienza immediata controlla l’accumulo e cerca d’introdurvi non solo un’idea progressiva ma anche un’occasione interna, non soltanto surrettizia, per far ricorso alle convenzioni di campo. Che il caso governi l’accumulo chiunque lo può constatare, sia pure dalle condizioni artificiali d’osservazione in cui si trova costretto. Non esiste disegno divino o terreno che regga quelle vicende che la convenzione chiama storia. Non esiste neanche un termine o un completamento alla raccolta. La sindrome del collezionista è una degenerazione particolarmente acuta dei protocolli.

Testi

* «Facendo riferimento ai princìpi trascendentali, si hanno buone ragioni per ammettere una finalità soggettiva della natura nelle sue leggi particolari, in vista della sua intelligibilità da parte del Giudizio umano, e della possibilità di connettere le esperienze particolari in un unico sistema. Ma che le cose della natura stiano tra di loro in rapporto di mezzo a fine, e che la loro stessa possibilità si possa comprendere a sufficienza solo mediante tale tipo di causalità, l’idea generale di natura, come insieme degli oggetti dei sensi, non ci dà nessun motivo di pensarlo. Si applica tuttavia con ragione il giudizio teleologico alla ricerca naturale, almeno problematicamente; ma solo per sottoporla, seguendo l’analogia con la causalità secondo fini, a princìpi di osservazione ed investigazione, senza pretendere di poterla spiegare. Esso appartiene dunque al Giudizio riflettente, non a quello determinante».

(I. Kant, Critica del Giudizio, tr. it., Torino 1993, pp. 331-332).

«Per decidere se una cosa sia bella o no, noi non poniamo, mediante l’intelletto, la rappresentazione in rapporto con l’oggetto, in vista della conoscenza; la rapportiamo invece, tramite l’immaginazione (forse connessa con l’intelletto), al soggetto e al suo sentimento di piacere e di dispiacere. Il giudizio di gusto non è pertanto un giudizio di conoscenza; non è quindi logico, ma estetico: intendendo con questo termine ciò il cui principio di determinazione non può essere che soggettivo».

(Ib., p. 179).

«Il colore verde dei prati è una sensazione oggettiva, in quanto percezione d’un oggetto del senso; la gradevolezza invece è una sensazione soggettiva, mediante la quale nessun oggetto è rappresentato: vale a dire, un sentimento, nel quale l’oggetto viene considerato come oggetto di soddisfazione (e non di conoscenza). Definizione del bello desunta dal primo momento. Il gusto è la facoltà di giudicare d’un oggetto o d’una specie di rappresentazione, mediante una soddisfazione od insoddisfazione scevra d’ogni interesse. L’oggetto d’una tale soddisfazione si dice bello».

(Ib., pp. 180-187).

«Chi giudica si sente completamente libero nei confronti della soddisfazione con cui si volge all’oggetto, per cui non riesce ad attribuire tale soddisfazione ad alcuna circostanza particolare, esclusiva del proprio oggetto, e deve quindi considerarla fondata su ciò che può presupporre in ogni altro: di conseguenza dovrà credere d’aver motivo di attendersi da ciascun altro una simile soddisfazione. Ne consegue che al giudizio di gusto si deve annettere, con la consapevolezza del suo carattere disinteressato, una pretesa di validità universale, senza che tale universalità poggi sull’oggetto; vale a dire, la pretesa ad una universalità soggettiva deve essere legata al giudizio di gusto. Definizione del bello desunta dal secondo momento. È bello ciò che piace universalmente senza concetto».

(Ib., pp. 187-188).

«La soddisfazione che noi, senza concetto, giudichiamo universalmente comunicabile, e quindi causa determinante del giudizio di gusto, non può consistere in altro che nella finalità soggettiva della rappresentazione di un oggetto, senza fini di sorta (nè oggettivi nè soggettivi), quindi nella semplice forma della finalità nella rappresentazione con la quale un oggetto ci viene dato, nella misura in cui ne siamo coscienti. Non può esservi alcuna regola oggettiva di gusto, capace di determinare tramite concetti che cosa sia il bello. Infatti, ogni giudizio che scaturisca da questa fonte è estetico, trova cioè il proprio principio di determinazione nel sentimento del soggetto e non nel concetto d’un oggetto. Definizione di bello desunta da questo terzo momento. La bellezza è la forma della finalità d’un oggetto, in quanto viene percepita in questo senza la rappresentazione d’uno scopo».

(Ib., pp. 196-197).

Tracce del commento

La necessità per la rammemorazione di cronologizzare e localizzare rende improbabile l’aspetto descrittivo di quel me stesso completo nell’agire, ma mi rende in grado di cogliere, nella presenza dell’adesso ciò che nell’assenza dell’allora non potevo cogliere. Non ho nulla da difendere e da accantonare, il biasimo delle tante condanne, che si riverberano nella mia condizione attuale di coatto [1989], è ridicola facezia di spiriti immondi, non mi preoccupa nemmeno. Ma questo aspetto appartiene alla ferocia stupida e abietta del potere, non è una novità, anche se mi sbalordisce ancora. Volare sulla realtà che mi incarcera, che limita la mia potenza, che mi diluisce nella perdita di ricchezza e di forza. Niente copre la vacuità, nemmeno i trattati di botanica di Salomone, paura e mancanza di coraggio, né ricco e né povero, l’assenza è assenza e un continuo tentativo di riempimento non la può colmare. Ho una ripugnanza per i meticolosi e gli equilibrati, una questione di stile. Malgrado e nonostante quello che sono, da un punto di vista che si può definire organico, io non sono ancora quello che sono. Lo devo diventare. Questa intuizione corrisponde più o meno all’idea di destino. Solo che volere diventare quello che sono è movimento che costruisce il destino, lo fronteggia temendolo o lo alletta desiderandolo, lo prova nei suoi dettagli, certo anche in base a quello che sono dal punto di vista organico. Io non sono coraggioso, ma posso diventarlo solo a condizione di esserlo, ciò non è senza conseguenze sul mio destino. Questo immenso lavoro, una volta che assurge al livello della coscienza, si contrappone al concetto di necessità e tiene in mano le possibilità che vengono offerte da ciò che impropriamente è chiamato destino. Il gusto della qualità è terribile, non mi salvo più dal desiderio che mi lascia in bocca.

Testi

** «Tutto ciò vuol dire che l’attualità eterna (senza passato e senza futuro) dello spirito non è concepibile mediante la logica dell’identità propria della vecchia metafisica della sostanza, bensì soltanto con la dialettica. Con la dialettica, beninteso, quale può concepirla la filosofia moderna: concetto non dell’essere oggetto del pensiero ma del pensiero nella sua stessa soggettività: a rigore, non concetto, ma autoconcetto. Se il pensiero come atto è il principio dell’attualismo, il suo metodo è la dialettica. Non dialettica platonica, e neppure hegeliana: ma una dialettica nuova e più propriamente dialettica, che è una riforma della dialettica hegeliana. La quale già si contrapponeva alla platonica perché questa era una dialettica statica delle idee pensate (o, comunque, oggetto del pensiero) ed Hegel nella sua Scienza della logica considerò la dialettica invece come il movimento delle idee pensanti, o categorie con cui il pensiero pensa il suo oggetto.

«Dialettica del pensato, dunque, e dialettica del pensare: quella dialettica del pensare il cui problema si cominciò a porre con Fichte, ma Hegel per primo affrontò con piena coscienza della necessità di una nuova logica da contrapporre all’analitica aristotelica, ossia alla logica del platonismo come di tutta l’antica filosofia. Hegel si propose il problema, ma non lo risolse, perché, a cominciare dalle prime categorie (essere, non essere, divenire) si lasciò sfuggire l’assoluta soggettività del pensare, e trattò la sua logica come movimento delle idee che si pensano e perciò si devono definire. Movimento assurdo, perché le idee si pensano e cioè si definiscono in quanto si chiudono nel circolo dei loro termini, e stanno ferme. Che è la ragione per cui le idee platoniche sono bensì collegate tutte tra loro, e obbligano perciò il pensiero soggettivo, che voglia pensarne una, a pensare anche tutte le altre, e a muoversi perciò dall’una all’altra senza posa, ma esse stanno ferme, come lo stadio su cui corrono i ginnasti.

«Stanno ferme, ma sono logo astratto, che bisogna ricondurre al reale, attuale pensiero. Che è in quanto non è, e non sta mai fermo, e si muove sempre; e definisce sì, e si specchia nell’oggetto definito, ma per tornare a definire altrimenti, sempre più adeguatamente al bisogno incessante nella cui soddisfazione è il suo realizzarsi. II pensiero è dialettico per questo suo divenire, che è, non pensata unità di essere e non essere, concetto in cui s’immedesimi il concetto dell’essere e il concetto opposto del non-essere, ma è realizzata unità dell’essere stesso del pensiero col suo reale non-essere. Noi possiamo bensì definire il concetto di questa unità; ma la nostra definizione non è un’immagine, o un duplicato logico di una realtà trascendente rispetto all’atto logico: è tutt’uno e una cosa sola con questo atto».

(G. Gentile, Introduzione alla filosofia [1933], Firenze 1952, pp. 26-27).

Tracce del commento

Hegel non è un lestofante manipolatore di cervelli, anche se qualche volta non lo seguo e la mia ignoranza annega nel mare corrucciato di alcuni movimenti di pensiero che sembrano prendermi in giro. Ma quante volte lo stesso sospetto mi ha preso alla gola nella matematica? Che potrei dire di Fermat?

Terza lezione: 27 febbraio 1990

D’altro canto, non si potrebbe introdurre la temporalità, e la relativa spazialità, evitando o criticando l’idea del fine o della completezza da raggiungere col meccanismo accumulativo. Le due cose devono procedere insieme, si tratta di convenzioni coordinate che si sorreggono a vicenda. Basta riflettere sul fatto che la negazione d’una ipotesi escatologica porta necessariamente alla negazione del processo lineare, con l’unica soluzione accettabile in termini anche di logica analitica, cioè la soluzione della circolarità. Cancellando il fine, si cancella immediatamente ogni idea di spazio e di tempo, ogni possibilità di sviluppo storico lineare. Pensare l’accumulo del senso al di fuori della linearità, pensarlo anzi munito di una falsa e contraddittoria ipotesi di completezza possibile, imposta dalla coscienza immediata, pone tutta l’effettualità nell’ambito relazionale, non più accadimento esterno, osservazione di qualcosa che sta fuori della coscienza, immediata o diversa, ma fatto e atto, senza esclusioni, quantità accumulata e recupero della qualità perduta. Così l’accumulo diventa il fondamento dell’oggetto, la sua oggettualità, ma diventa anche la scienza, il sapere, la conoscenza quantitativa e analitica, il grande serbatoio dove la convenzione di campo, può attingere per mettere a profitto il gran lavoro modificativo di già fatto dall’effettualità, in vista del lavoro interpretativo e trasformativo*.

La filosofia relazionale** invece conduce la quantità all’interno della realtà e del suo dispiegamento, notando come l’accumulo non uccida la realtà ma semplicemente le faccia correre dei rischi, rischi comunque interni all’effettualità e che si possono superare correndo un rischio ancora più grosso, quello del coinvolgimento. Così, la quantità diventa possibile elemento della qualità, possibile componente del flusso riunificato, senza condanne lineari definitive. Nulla di quello che è stato prodotto dall’uomo è così perduto, nessuna delle sue avventure è definitivamente scaduta ed assegnata ai lebbrosari della storia. Ma tutto è qui, presente nell’accumulo, tutto può essere rivisto dalla nostra capacità di coinvolgimento, strappato alle illusioni e alle chiusure dell’immediatezza e della catalogazione, per essere gettato ancora una volta nell’azione, perché non c’è nulla che possa essere definitivamente messo da parte, tesaurizzato, posseduto o difeso. La realtà è così questo continuo rischio, questo continuo dispiegamento che rifiuta qualsiasi conclusione o completezza escatologica per ricominciare sempre daccapo, tutto daccapo.

Nell’esaminare il passato, alla luce del campo, le convenzioni ci suggeriscono di capire le cause di quegli avvenimenti, avanzando un’artificiale separazione di qualche movimento che viene così preferito ad altri, sulla base di una scelta a sua volta protocollare. Ma, per capire quei fatti, che la prospettiva storica vuole inchiodare in una lontananza artificiale, e quegli atti, e per capire le diversità, bisogna coglierli nell’effettualità, cioè separarli dalla loro lontananza. Comprendere significa sempre far proprio, con tutte le conseguenze del caso, e far proprio significa prendere con sé, possedere. Che questo possedere ci attragga poi all’interno d’una dimensione ancora una volta artificiale, questo è il passo che segue alla prima affermazione dell’effettualità modificativa. Ma di già, la semplice modificazione relazionale è riconoscimento dei limiti del campo, anche se l’oggettualità è condizione indispensabile essa stessa alla costruzione di ogni artificiosità convenzionale.

Testi

* «Nessuna proposizione filosofica si è mai tanto attirata la riconoscenza di governi gretti e la collera di altrettanto gretti liberali, quanto la tesi famosa di Hegel: “Tutto ciò che è reale è razionale, e tutto ciò che è razionale è reale”. Questa era manifestamente, infatti, l’approvazione di tutto ciò che esiste, la consacrazione filosofica del despotismo, dello Stato poliziesco, della giustizia di gabinetto, della censura. E così l’interpretò Federico Guglielmo III, così i suoi sudditi. Ma per Hegel non tutto ciò che esiste è, senz’altro, anche reale. L’attributo della realtà viene da lui applicato solo a ciò che è, al tempo stesso, necessario, “la realtà si manifesta nel suo sviluppo come necessità”; una qualsivoglia misura di governo, – Hegel stesso dà l’esempio di “una determinata istituzione fiscale”, – non è affatto per lui senz’altro una cosa reale. Ciò però che è necessario si rivela in ultima istanza anche come razionale, e applicata allo Stato prussiano di allora la tesi di Hegel significa soltanto: questo Stato è razionale, questo Stato corrisponde alla ragione, nella misura in cui è necessario; e se esso ci appare cattivo e ciò nonostante continua ad esistere, benché sia cattivo, la cattiva qualità del governo trova la sua giustificazione e la sua spiegazione nella corrispondente cattiva qualità dei sudditi. I prussiani d’allora avevano il governo che si meritavano.

«Orbene, la realtà, secondo Hegel, non è per niente un attributo che si applichi in tutte le circostanze e in tutti i tempi a un determinato stato di cose sociale o politico. Al contrario. La Repubblica romana era reale, ma l’Impero romano che la soppiantò lo era ugualmente. La monarchia francese era diventata nel 1789 così irreale, cioè così priva di ogni necessità, così irrazionale, che dovette essere distrutta dalla Grande rivoluzione, della quale Hegel parla sempre col più grande entusiasmo. In questo caso dunque la monarchia era l’irreale, la rivoluzione il reale. E così nel corso della evoluzione tutto ciò che prima era reale diventa irreale, perde la propria necessità, il proprio diritto all’esistenza, la propria razionalità; al posto del reale che muore subentra una nuova realtà vitale, – in modo pacifico, se ciò che è vecchio è abbastanza intelligente da andarsene senza opporre resistenza alla morte; in modo violento, se esso si oppone a questa necessità. E così la tesi di Hegel si trasforma, secondo la stessa dialettica hegeliana, nel suo contrario: tutto ciò che è reale nell’ambito della storia umana diventa col tempo irrazionale, è dunque già irrazionale per proprio destino, è sin dall’inizio affetto da irrazionalità; e tutto ciò che vi è di razionale nelle teste degli uomini è destinato a diventare reale, per quanto possa contraddire alla apparente realtà del giorno. La tesi della razionalità di tutto il reale si risolve quindi secondo tutte le regole del ragionamento hegeliano nell’altra: – tutto ciò che esiste è degno di perire».

(F. Engels, L. Feuerbach und der Ausgang der klassischen deutschen Philosophie, Stuttgart 1888, tr. it., Edizioni in lingue estere, Mosca, 1947, pp. 8-9).

Tracce del commento

La desolazione è un’analogia che produce effetti visivi, plausibili perché ricordano alla mia mente immaginativa, piena di luoghi comuni, ciò che per sua natura è fuori del comune. La desolazione riconcilia l’assenza priva di luce con l’illuminazione dell’assenza in cui la luce consente di vedere la desolazione e incessantemente rammemora l’esperienza diversa. Anche la voce dell’uno è solitaria, proviene dal profondo, da quell’Averno dove si trovavano le ninfe delle tenebre e i cavalli di Plutone, viene dall’oscurità e invita ad abbandonarsi, a non prendersi più cura delle fatiche del mondo. Invito evidentemente subdolo perché quella voce radicalizza un processo di salto che renderebbe impossibile il ritorno, essa è l’espressione più alta della mania che il dio dispensa come riconoscimento per i suoi fedeli, ma l’uno non può avere fedeli se non attraverso un doppio sforzo di identificazione con qualcosa di intermedio, con Dioniso, per fare un esempio. Prolungo lo sforzo produttivo oltre i primi risultati, senza lasciarmi impressionare dalle prime disillusioni di completezza, mi illudo di andare oltre ogni limite, perfino la morte, ma lo stimolo al controllo incamera presto l’immaginazione nella pretesa perfezione delle corrispondenze modulari e delle simmetrie. Non è con il dominio della parola che vengo a capo del problema, continuo a sognare uno sbocco impossibile mentre il processo modificativo continua a farmi sudare e soffrire. Un cuore tenero, alla fine, è la gallina cieca che trova il chicco buono.

Testi

** «Nella vita dello spirito non ci sono solo gli opposti, ma anche i distinti. L’opposto non è sempre falso – dice Platone – ma può essere semplicemente il diverso. Ciò che non è per me, quando ricerco un’idea, sono le altre idee, che pur sono, anche se non sono l’idea che cerco. La stessa intuizione, forse la stessa serenità di visione, se non la stessa coscienza, guida la ricerca crociana.

«Si è detto che il tentativo di afferrare l’essenza dell’arte si pone, fin dall’inizio, in una affermazione dogmatica: l’arte è conoscenza intuitiva, distinta dalla conoscenza logica. E prosegue la ricerca con altre affermazioni: l’arte non è fisiologia, non è psicologia, non ha nulla a che fare con il naturalistico, né, d’altra parte, con il mistico. Ma tali affermazioni, se sono dogmatiche, possono essere assunte dal critico come momenti di una discussione che prosegue e continuamente si invera.

«Interpretata con il metodo che abbiamo indicato, l’estetica crociana si muove in una pura dialettica che supera in sé ogni astratta sistematicità. I vari errori delle varie estetiche, così decisamente e agevolmente combattuti, diventano non tanto ciò che viene escluso dalla verità, all’inizio dogmaticamente affermata, ma ciò che contribuisce invece al chiarirsi e al fondarsi critico di tale verità. L’arte non è più ciò che non è praticità, ma si chiarisce proprio per la confusione, criticamente accertata e approfondita, tra l’intuitivo ed il pratico. La ricerca diventa una fenomenologia. Ogni estetica ha la sua verità: è il superamento delle posizioni parziali che solamente ci può guidare alla vera comprensione dell’arte. Empirismo, praticismo, intellettualismo, agnosticismo, misticismo, sono gradi eterni della ricerca del vero; e sono eternamente rivissuti e ripensati nella verità, che tutti li contiene. La stessa teoria dell’arte come intuizione è in correlativo rapporto con l’errore dell’estetica mistica che fa dell’arte la suprema funzione dello spirito teoretico, mentre l’arte, se è conoscenza, è però un grado inferiore del conoscere. L’estetica dell’intuizione nasce solo dalla critica, che non è negazione assoluta, ma inveramento, dell’estetica mistica. La ricerca non è possibile senza la continua distinzione, senza il continuo considerare come apparente e relativo ciò che dalle varie estetiche erronee viene affermato come sostanziale ed assoluto. Si riprende, in tal modo, il ritmo fenomenologico di Hegel, così come si era presentato nella hegeliana Fenomenologia dello spirito. L’errore diventa verità, la fenomenologia dell’errore fenomenologia della verità. Che cos’è il non essere?

«Le negazioni non sono pure negazioni, ma sono anche relazioni. E se si è costretti, dal ritmo dei problemi che a noi si affacciano, nel nostro tentativo di ricostruire l’estetica crociana, a porci innanzi il fondamentale problema delle forme dello spirito, ci dobbiamo chiedere che cos’è ciò che è errore per l’arte, se non ciò che è verità per un’altra forma spirituale, la pratica, come Croce sostiene, attività che pure essendo positiva diventa errore, ed è errore, quando viene assunta come momento fenomenologico nella ricerca dell’autonomia dell’arte. Errore che è, a sua volta, limitatamente verità, un grado fenomenologico del vero, appunto una tappa sul cammino che conduce all’idea dell’arte».

(E. Paci, Esistenzialismo e storicismo, Milano 1950, pp. 35-36).

Tracce del commento

Lasciare alle proprie spalle il lento ripetersi della produzione, abbandonare il regno della coerente e conosciuta utilità, significa contrarre la propria vita, folgorarla in un punto specifico della propria esistenza, concentrarla, chiamarla all’attimo inatteso eppure cercato da tanto tempo, al grido sul rogo in fiamme, all’indirizzo verso la soglia dove una chiave inimitabile aprirà la porta che accede all’assolutamente altro. Gli dèi sono vicini eppure lontani, quando si fanno sentire le immagini più crudeli e furiose vengono a fare visita, ma l’azione è di già alle spalle. L’articolazione degli intrecci apre il livello della entità da rammemorare, dilaga attorno a essa e lontano da essa, ma non si allontana mai in maniera esplicita. La portata di questa articolazione muove l’architettura intera e non si risolve nella semplice constatazione che un punto di riferimento è possibile, va oltre, fissa il gioco delle reiterazioni che, a loro volta, procedono a coordinarsi liberamente con le altre espressioni della parola. L’impianto retorico fissa sempre nuove proiezioni. Il rapporto tra segno e assenza è strettamente confermato da questo procedere allargato. Reiterazione non è ripetizione. Il segno muore e rinasce continuamente, viene fuori nel dire della parola e il dire della parola non può esaurirsi se riesce ad attingere a ricchezze tanto profondamente nascoste. Il discorso esprime prima di tutto se stesso, poi la sua capacità di dire l’altro, anche l’assolutamente altro nell’intimo ostacolo della sua insuperabile barriera. Qui il gioco è fantasia e l’architettura rammemorante la coglie in pieno. L’esperienza nella qualità che rammemoro assume un atteggiamento indifferente, prende corpo come di un qualcosa interamente interessato altrove, diretto altrove. Come se non mi riguardasse essa è distolta da me, ed è forse una sorta di morboso attaccamento che me la fa rammemorare, mentre l’antica vitalità qualitativa sta affievolendosi sempre di più.

Quarta lezione: 8 marzo 1990

La scoperta di potere ritrovare il quantitativo nell’ambito relazionale, riconferma la materialità del reale, non tanto perché in caso contrario la vita quotidiana sarebbe finita per dissolversi, quanto perché la realtà non ammette separatezze* effettive. Il campo con tutti i suoi accorgimenti, non sarebbe stato possibile se non ci fosse stato dietro il sostegno concreto dell’effettualità modificativa. La stessa idea di finalismo progressivo, è prodotta dall’accumulo, che la contiene come illusione di completezza, oggetto infine esso stesso fra tanti altri oggetti. Allo stesso modo, altre ipotesi ordinatrici, come quella dell’economia del reale, proposta poniamo dallo storicismo** di Arnold J. Toynbee sulle orme dell’azionismo di John Henry Newman e dei cattolici, che a ben guardare risulta del tutto assente nell’accumulo, il quale propone proprio il contrario, la si ritrova nel processo dell’oggettualità, dove la specificazione è ottenuta non per intensificazione del senso, ma per affievolimento. La quantità entra nell’oggetto, attraverso il movimento produttivo nel suo insieme, ma tende a oggettualizzare*** il minimo possibile di senso, lo stretto indispensabile per rispondere alle esigenze dell’oggetto in quanto strumento. Lo stesso accade per la coscienza immediata che trova grandi difficoltà ad impadronirsi della produzione dell’accumulo, la quale deve essere ritradotta e decodificata in modo analitico, resa insomma più semplice, suddivisa e fornita poi alle condizioni convenzionali del campo.

In questi movimenti non c’è un ruolo guida, e il sospetto di Arnold J. Toynbee riguardo la circolarità e l’esempio da lui usato, riconfermano la mia tesi, in quanto emerge sempre, dietro questa metafora, il desiderio del finalismo. Si tratta dell’esempio della ruota del carro che gira su se stessa in modo circolare ma porta comunque il carro alla sua meta, metafora che sottindente ovviamente l’esistenza d’un conduttore del carro. Lo stesso ragionamento si può fare riguardo tutte le considerazioni cicliche che incappano nell’ostacolo vitalistico**** e, volendo sfuggire al fideismo, ricorrono ad uno straordinario intreccio tra naturalismo e scientismo. Tutti i movimenti del tipo, sviluppo e decadenza, nascere e morire delle civiltà, spirito della natura e ritmo elementare, ritiro e ritorno, fioritura e tramonto, tendono a sopravanzare se stessi nella loro essenziale circolarità, proponendosi come semplici elementi d’una supposta linearità superiore. In questo modo cadono nell’equivoco strumentale e operativo suggerito dalle necessità del campo, adeguandosi a fornire previsioni e norme di comportamento, le quali a loro volta, hanno bisogno delle convenzioni per esistere e giustificarsi e servono a giustificare le convenzioni che le sorreggono.

La ricerca d’un motivo comune, d’una coscienza del meccanismo, nascosta ed agente al di sotto del fenomeno, un noumeno produttore in sé di ogni cambiamento, questa è una delle convenzioni fondamentali del campo, capace di moltiplicarsi in molti modi. Sotto l’influenza del tempo, questa convenzione si presenta come divenire, sotto l’influenza della linearità si presenta come progresso, sotto l’influenza del ritmo si presenta come nascita, sviluppo e crollo, sotto l’influenza della percezione si presenta come previsione, e così via. Questi protocolli sono tutti collegati tra loro e interdipendenti, in quanto ognuno serve a giustificare e viene giustificato. In effetti, tranne le concomitanze che sono parzialmente comprensibili con la somiglianza relazionale di situazioni che in realtà sono del tutto dissimili, non ci sono schemi prevedibili, né tanto meno descrivibili. L’esercizio in questo campo confina con quello della catalogazione, da un lato, o con quello della diversità. Nel primo caso, produce comunque una sua utilità, favorendo riorganizzazioni dell’accumulo e processi di controllo dell’immediatezza, nel secondo caso, produce una possibilità di trasformazione attiva, ma le conclusioni di ogni ricerca della liberalità progressiva sono destinate a fallire, quindi a presentarsi come oggettuale inutilità.

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* «Naturalmente questo principio vale anche per i graduali, continui passaggi che ogni realtà mostra, e proprio questo è importante per la questione che riguarda l’intelligibilità della realtà. Ovunque volgiamo lo sguardo, troviamo una continua eterogeneità, ed è questa fusione di eterogeneità e continuità che imprime al reale la peculiare impronta di “irrazionalità”: cioè dal momento che esso in ognuna delle sue parti è un continuo eterogeneo, non può essere accolto in concetti così com’è. Se la scienza quindi si pone il compito di una precisa riproduzione della realtà, allora si manifesta solo l’impotenza del concetto, e laddove la teoria della riproduzione o l’ideale della pura descrizione domina la dottrina scientifica, l’unico conseguente è un assoluto scetticismo.

«Non si deve quindi attribuire un tale compito al concetto scientifico, ma si deve domandare come esso acquisti potere sul reale, e anche a tale riguardo la risposta è ovvia. La realtà può divenire “razionale” solo mediante una separazione concettuale di continuità ed eterogeneità. Il continuo si lascia dominare concettualmente non appena è omogeneo, e l’eterogeneo diventa comprensibile quando noi possiamo farvi dei tagli, cambiando quindi il suo continuo in un discreto. In questo modo si aprono per la scienza anche due strade, assolutamente opposte l’una all’altra, per l’elaborazione concettuale. Noi trasformiamo il continuo eterogeneo che si trova in ogni realtà in un continuo omogeneo, oppure in un discreto eterogeneo.

«Allora la realtà può essere detta razionale in quanto questo è possibile. Essa resta irrazionale solo per quella conoscenza che vuole riprodurla senza trasformarla».

(H. Rickert, Il fondamento delle scienze della cultura, tr. it., Ravenna 1979-1986, pp. 80-81).

Tracce del commento

Dopo una lunga serie di traversie sono arrivato alla conclusione che la qualità è occulta, sia pure con un significato diverso di quest’ultimo termine, e che la conoscenza che ne ho è solo un’approssimativa traduzione in termini quantitativi. Di fronte al muro di parole separatrici non posso parlare se non in termini di soluzione di continuità, ed è un parlare erratico, spinto fino all’estremo. Ma il mio è un linguaggio ostile, che non tende a costruire per conservare, ma per abbandonare, per perdere. Quello che ne viene fuori è la rammemorazione, che ripropone nella parola la vita dell’azione. La parola non possiede il genio della continuità, solo quello dell’assemblaggio di quadri che si susseguono, con connessioni certo sufficientemente forti, non in grado però di dare rassicurazioni quantitative. Più spesso è una improvvisa sospensione che esclude la strada, che dà l’impressione di una chiusura. Ogni progetto rammemorativo è improvvisamente capovolgibile nel suo contrario, una direzione tiene il posto di un’altra, una scena nel suo dispiegarsi nei propri dettagli ne rivela un’altra fino ad allora nascosta, ogni piccolo interstizio si allarga a universo sconosciuto. Una postura non è mai statuaria ma ricorda un podista nei suoi armonici movimenti, e anche questi si possono atrofizzare nella singola postura. Ogni parola mi fa ascoltare la remota voce dell’uno, ma devo sentire dentro di me la pressione dell’impronta nel mio cuore, devo mettermi a disposizione di questo periodo, non corteggiarlo. Lascio così che la parola metta sotto i miei occhi la rammemorazione, non devo però essere cieco. Wagner può dispiacere quanto si vuole, ma la sua musica, solo la musica, è geniale. Nietzsche può piacere, la sua musica no. Il tema della morte li tocca entrambi, ma solo nel primo c’è la nostalgia del tutto. Il secondo si ritrae inorridito davanti all’abisso. Penso spesso a come fare per alleggerire il peso che continua a gravare sulle mie spalle non più giovani, ed è l’altra parte di me che mi sollecita alla morbidezza e all’accomodamento. La pesantezza del dubbio abita in me e non è facile, proprio in questo momento convivere con essa mentre nel braccio un vocio di bruti ubriachi fa da sottofondo alle nostre perplessità. Anche se operaio del fare non sono un pauroso, non tradisco i miei sogni, non voglio farmi servo di nessuno, non voglio ascoltare la voce di chi mi dice di non temere, io temo e sto attento, prima di tutto all’inquietudine che sta dietro il blindato che proprio in questo momento la guardia dallo sguardo bieco e indeciso ha chiuso in una fresca notte di marzo.

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** «La coincidenza di individuale e universale rimane rigorosamente problematica. L’universale non è la presupposta e prevaricante “Ragione” che implacabilmente “plagia” gl’individui, bensì il mai totalmente posseduto senso del movimento insicuro della stessa naturale particolarità nel suo farsi ragione, nel suo aprirsi al rapporto di ambivalente “ intimità ” con altre ragioni, nel porsi in guerra con se stessa, sempre sbilanciata al di là della sua effettualità perché sospinta senza posa dalle mutevoli prospettive del suo rapporto con le altre ragioni: universalità dialogica insomma e storica. Il movimento intersoggettivo, limitandosi a rendere possibile l’universalità (di oggetti, valori e norme) come orizzonte delle individuali determinazioni, e permettendo così che queste siano delle autentiche possibilità, rende possibile lo scacco non meno che il trionfo dell’universale nell’individuo, l’errore non meno che la verità, il male non meno che il bene, anche se poi errore e male, nell’orizzonte dell’universalità, assumono pur essi la forma dell’oggettivo e del doveroso, e solo il processo della ragione dialogica e storica è destinato a mascherarli. La scoperta dialettica del fondamento nella “logica inconscia” della comunità intersoggettiva mette allo scoperto una “unità fondamentale”, come la chiamerebbe Cassirer, e tuttavia non necessitante: essa perciò non minaccia il pluralismo di un radicale storicismo, né cede all’ottimismo conciliatorio dello storicismo idealistico. Se non vi è unità necessitante, non vi è garanzia alcuna di conciliazione, né vi è una possibilità la quale non sia “compossibilità”, irriducibile pluralità di coesistenze, ciascuna carica del suo rischio. La filosofia, tematizzando una “unità fondamentale” non necessitante, “genealogizza” non solo opponendosi all’evasione metafisica, ma anche alla prigionia trascendentalistica: essa rompe il cerchio del coscienzialismo trascendentale che costringe il sapere critico in uno sterile esercizio di ribaltamento soggettivistico dell’oggettività, ossia di riduzione dei problemi di “formazione” storica dei contenuti a questioni di pure, astoriche “forme”».

(A. Masullo, Antimetafisica del fondamento, Napoli 1971, pp. 34-35).

Tracce del commento

Queste alternanze in effetti esistono solo nell’ascolto del dire che rammemora, in esso stesso, in quanto dire, una persistente e tormentatissima vicenda della parola, un lavoro e un’opera di rifinitura, di cesello mai realizzata tornando indietro, lasciando tracce lungo il cammino percorso, ma sempre andando avanti, scavando nuovi camminamenti e labirinti incorruttibili. Non è questa una ricerca di originalità a tutti i costi, la materia non lo permette per una question de vie et de mort, non è nemmeno un magistero isolato e melanconico, vista la ritrosia dei ricettori, non è neanche un amore sviscerato per le pieghe, gli anfratti, gli interstizi.

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*** «Anche ci diventa ora chiara una distinzione, della quale è impossibile far di meno nel pensare la storia: la distinzione di forma e materia, in forza di cui intendiamo, per esempio, l’arte col riportarla alla materia (commozioni, sentimenti, passioni, ecc.), che l’artista ha formata; e intendiamo la filosofia col riportarla ai fatti onde s’ingenerano i problemi che il pensatore formulò e risolse; e intendiamo l’azione del politico col riportarla alle aspirazioni e idee, che egli si trovò innanzi e che gli porsero la materia da lui genialmente foggiata come artista della vita pratica: cioè, intendiamo queste cose sempre col distinguere una storia esterna e una storia interna, o una storia esterna che si fa interna. Distinzione di materia e forma, di esterno ed interno, che riprodurrebbe il peggior dualismo, e farebbe tornare all’immaginazione prammatica dell’uomo che lotta contro la nemica Natura, se nel suo vero concetto non prendesse significato affatto interiore e dialettico. Perché da quel che si è detto si desume agevolmente che esterno e interno non sono già due realtà o due forme di realtà, ma che esterne e interne, materia e forma, appaiono a volta a volta tutte le forme, l’una rispetto all’altra, e questo materializzarsi di ciascuna per idealizzarsi nell’altra è il perpetuo moto dello spirito come relazione e circolo: circolo che è progresso appunto perché nessuna di queste forme ha il privilegio di fungere solamente come forma, e nessuna la condanna di fungere solamente come materia. Quale è la materia della storia artistica e filosofica? La storia sociale o morale che si dica. E quale è la materia di questa storia? La storia artistica e filosofica. E dalla chiarita relazione di materia e forma resta insieme confutato quel falso modo di storia, che pone da un lato i fatti e dall’altro, le idee, come due elementi rivali, e perciò non è in grado mai di assolvere il debito suo, e mostrare come dai fatti si generino le idee e dalle idee i fatti, perché quel generarsi deve, nella sua verità, essere concepito come il perpetuo risolversi di uno degli elementi nell’unità dell’altro. Se la storia poggia sulla distinzione (unità) e coincide con la filosofia, è ben comprensibile l’alta importanza che ottengono nello svolgimento storiografico le indagini sull’autonomia di una o altra storia speciale, e che sono nient’altro che il riflesso, spesso torbido e impreciso, delle indagini dei filosofi. E tutti sanno quanto incremento e quale rinnovamento portasse nella concezione della storia il nuovo concetto della fantasia e dell’arte, e perciò insieme della Mitologia e della religione, che si venne elaborando dapprima con lentezza e difficoltà nel secolo decimottavo, e trionfò ai principi del decimonono: il che si suol designare come la creazione della storia della poesia e dei miti per opera del Vico e poi dello Herder e di altri, della storia delle arti figurative per opera del Winckelmann e di altri. E al più chiaro concetto della filosofia, del diritto e del costume e del linguaggio, si deve il rinnovamento nei rispettivi campi storiografici, onde si celebrano Hegel e Savigny e Humboldt, e altri creatori e perfezionatori di storie speciali. Parimente è dato intendere perché tanto si sia disputato sul punto se la storia debba configurarsi come storia dello Stato o come storia della Cultura, e se la storia della Cultura rappresenti un aspetto originale oltre quello dello Stato o più largo di quello, o se il progresso, di cui si narra la storia, sia solo intellettuale o anche pratico e morale, e simili: che sono dibattiti da riportare all’indagine filosofica fondamentale sulle forme dello spirito, e sulla loro distinzione e relazione, e sul preciso modo della relazione di ciascuna verso le altre. Ma, benché lo storico distingua e unifichi, non divide, e cioè non separa, mai, e le divisioni, che si son fatte e si sogliono fare della storia, non si originano altrimenti che in forza del medesimo processo pratico e astrattivo che abbiamo visto rompere l’attualità della storia viva e raccoglierne e ordinarne gli inerti materiali nello schema temporale, reso estrinseco. In tal modo le storie già prodotte e, come tali, passate, ricevono un titolo (ogni pensiero storico, nella sua attualità, è “senza titolo”, ossia ha per titolo solamente sé medesimo), e ciascuna è separata dall’altra, e tutte esse, così separate, sono classificate sotto concetti empirici più o meno generali, mercè classificazioni variamente incrociantisi. Delle quali si possono ammirare copiose tabelle nei libri dei metodologisti, sempre formate, com’è inevitabile, secondo l’uno o l’altro di questi due criteri generali: il criterio della qualità degli oggetti (storia della religione, del costume, delle idee, delle istituzioni, ecc. ecc.), e quello dell’ordinamento temporale spaziale (storie europee, asiatiche, americane, dell’antichità, del medioevo, dei tempi moderni, della Grecia antica, dell’antica Roma, della Grecia moderna, di Roma nel medioevo, ecc.) in conformità del procedere astrattivo, che, nel dividere il concetto, è condotto a porre, da un lato, astratte forme dello spirito (oggetti), e dall’altro, astratte intuizioni (spazio e tempo)».

(B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1948, pp. 107-112).

Tracce del commento

Il sogno si dispone a dischiudere la parola nella sua propria oggettualità e ciò al di là del semplice contenuto conoscitivo dell’accumulazione organizzata dalla conoscenza, al di là dello sforzo stesso compiuto per dare a me stesso questo sapere senza restarne prigioniero. Non posso obliare me stesso nella qualità, anche se vorrei farlo. Non posso essere innocente dopo il sangue versato, io stesso me lo impedisco, io, unico e supremo giudice di me stesso. Questa potenza è giusta perché mi riguarda, il suo occhio immemorabile luccica sulle mie faccende, altrimenti sarebbero miseria e nefandezza. Ma non posso andarmene e dire sì alla cosa, consumerei la mia stessa potenza in una fiamma istantanea, folle conclusione di piccole e grandi follie. Il salto sarebbe soluzione facile ma la sua ignoranza radicale azzererebbe ogni coscienza rendendo la diversità una vuota notte incondizionata. Il nascondimento di cui vado in cerca per dettare alla cosa le mie condizioni sta altrove.

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**** «La fede nell’immortalità è irrazionale. E nondimeno fede, vita e ragione hanno bisogno l’una dell’altra, scambievolmente. Quell’ansia vitale non è propriamente un problema, non può assumere uno stato logico, non può formularsi in proposizioni razionalmente discutibili, ma ci si presenta come ci si presenta la fame. Neppure il lupo che si getta sulla preda per divorarla, o sulla lupa per fecondarla, ci si presenta come un problema razionale, né egli pensa alle conseguenze di ciò, né filosofa. Ragione e fede sono due nemici che non posson sostenersi l’uno senza l’altro. L’irrazionale vuole essere razionalizzato, e solo la ragione può agire sull’irrazionale. Debbono appoggiarsi l’uno all’altro, e associarsi. Ma associarsi, poiché anche la lotta è un modo d’associazione.

«Nel mondo dei viventi la lotta per la vita, the struggle for life, stabilisce un’associazione, e strettissima, non già fra quelli che si uniscono per combattere un altro, ma fra quelli che si combatton fra di loro. E c’è forse associazione più intima di quella che avviene fra l’animale che ne mangia un altro e quello che vien da lui mangiato, fra il divoratore e il divorato? E se ciò si vede chiaramente nella lotta degli individui fra loro, più chiaramente si vede in quella fra popoli. La guerra è sempre stata il più completo fattore di progresso, più ancora che il commercio. In guerra è dove s’imparano a conoscere, e come conseguenza di ciò ad amarsi, vincitori e vinti.

«Ed è che, come dicevo, se la fede, la vita, non si può sostenere che su una ragione che la renda trasmissibile – e prima di tutto trasmissibile da me a me stesso, cioè, riflessa e cosciente, – la ragione non può a sua volta che sostenersi sulla fede, sulla vita, per lo meno sulla fede nella ragione, fede per la quale questa, la ragione, serve a qualcosa di più che a conoscere, serve a vivere. È nondimeno, né la fede è trasmissibile o razionale, né la ragione è vitale.

«La volontà e l’intelligenza cercano cose opposte: quella assorbire il mondo in noi, appropriarcelo; e questa assorbirci nel mondo. Opposte? Non son piuttosto una stessa cosa? No, non lo sono, per quanto possa sembrarlo. L’intelligenza è monista o panteista, la volontà è monoteista o egotista. L’intelligenza non ha bisogno d’alcuna cosa esteriore in cui esercitarsi; si fonde con le idee stesse, mentre la volontà ha bisogno di materia. Conoscer qualcosa è farmi quello che conosco; ma per servirmi di ciò, per dominarlo, deve rimaner diverso da me.

«Ogni posizione di accordo e d’armonia persistente fra la ragione e la vita, fra filosofia e religione, è impossibile. E la tragica storia del pensiero umano non è altro che una lotta fra la ragione e la vita, quella impegnata a razionalizzare questa facendo in modo che si rassegni all’inevitabile, alla mortalità; e questa, la vita, impegnata a “vitalizzare” la ragione obbligandola a servir d’appoggio alle sue ansie vitali. Tale è la storia della filosofia, inseparabile da quella della religione.

«Il sentimento del mondo, della realtà oggettiva, è necessariamente soggettivo, umano, antropomorfico. E il vitalismo si erigerà sempre di fronte al razionalismo, e la volontà alla ragione. Da ciò il ritmo della storia della filosofia e la successione di periodi in cui la vita s’impone producendo forme spiritualiste, e altri in cui s’impone la ragione, producendo forme materialiste, per quanto l’una e l’altra specie di forme vengano mascherate con vari nomi. Né la ragione, né la vita si danno mai per vinte.

«La conseguenza vitale del razionalismo sarebbe il suicidio. Lo dice benissimo Kierkegaard: “Il suicidio è la conseguenza dell’esistenza del pensiero puro. Non elogiamo il suicidio, ma la passione. Il pensatore, al contrario, è un curioso animale, che è molto intelligente in certi momenti del giorno, ma che, per il resto, non ha niente di comune con l’uomo”».

(M. De Unamuno, Del sentimento tragico della vita, tr. it., Milano 1914, pp. 124-125).

Tracce del commento

Ho fatto fino in fondo quello che dovevo fare? Prima di interrogare la mia azione devo affrontare questo nemico intrufolatosi nella mia stessa domanda. Di fronte al riscatto mi sento infantile, mi vengono desideri che considero stupidi, ma che tali non dovrebbero essere, ho fame. Il nemico continua a vincere, i miei compagni continuano ad aspettare l’evento escatologico dall’esterno. Io non ho mai avuto questa illusione. Quanta parte delle montagne di coerenza che sono in giro si basa su questa aspettativa? Non sono indifferente alla commozione che mi prende alla gola, la possibilità offertami dal destino la colgo fino in fondo e ho vergogna di me stesso a non essere capace di rispondere fino in fondo, fino all’ultima goccia del mio sangue, a questa proposta. Provengo da un massimo, il vento nero della notte non mi fa più paura, vado verso un massimo. Tanto tempo fa nel mio cuore si è cominciata a costruire una mappa dell’assolutamente altro, della mia capacità di agire. Non so come questo sia avvenuto, ancora una volta il destino ha fatto la sua parte, incomprensibile o refrattaria a qualsiasi tentativo di interpretazione. Le connessioni vitali entrano in tensione all’estremo, rifiutano ogni fase decrescente. Si tendono fino a esplodere. La mia vita è continuamente attraversata da questi campi di forza che non riesco a percepire. Ne intuisco la presenza perché prendo come costanti le più impensate variabili. Non possiedo una risposta alla domanda se il vecchio rinasce nuovamente. Cerco questa risposta in me stesso, una testimonianza nella notte. Resto fermo in piedi così come restavo seduto, a tu per tu con la morte. Mi ci sono trovato tante volte e non mi fa paura. Il coraggio mi assiste dal midollo delle ossa alla pelle. In fondo la lotta più difficile è quella contro me stesso, lotta popolata da fantasmi, ricolma di voci e di echi, di stanchezze e di risvegli, di soprassalti. Vorrei scavare dentro la mia disperazione per assurgere alla risposta radicale. Se l’uno potesse concepirsi separato dal mio sforzo di pensarlo, il dire non sarebbe in esso ma sarebbe altrove, mentre l’abisso del puro assente sarebbe privo di questa pure misera particella del mio dire, il che è impossibile. I due aspetti devono quindi essere simultanei, nel senso che il mio dire coesiste con l’uno anche se io colgo solo il primo e lo impongo al fare come immagine del secondo. Il processo sarebbe allora una serie ininterrotta di queste simultaneità. Il che sarebbe plausibile se non fosse per il possibile che mi viene dal destino e che io realizzo non più in contemporanea simultaneità con l’uno ma come fare del di già agito nell’uno stesso, come rammemorare. Spezzo allora una monotonia altrimenti inafferrabile, destinata a durare all’infinito, e la spezzo proponendo modelli nuovi del fare, sempre provvisori e inadeguati, ma non identici al di già fatto. Si tratta di un limite che mi suggerisce un oltrepassamento del segnale che l’assenza lascia da questa parte. Qui il cerchio si chiude, sono io che ho paura e che mi faccio coraggio, non due persone diverse. Non voglio guarire dalle mie paure, ma solo viverle fino in fondo e così per tutto quello che la vita mi propone, paure e gioie, anche se non ci sono maschere in grado di contrassegnarle. L’esperienza diversa e l’immediatezza sono la vita, la loro differenza è un niente e un tutto, non ci sono gradi valutabili e condizionamenti sufficienti a reggere i miei interventi esplorativi. Se col mio coinvolgimento mi metto a repentaglio, ogni conquista mi è indifferente. Se non fosse così ogni possibilità che mi viene dal destino sarebbe divorata dal processo del fare, sarebbe un mero oggetto nuovo. E invece non è così, il mio coraggio interviene e apre la possibilità e la rende attuale, qui, presente, e mi batto perché essa possa raggiungere ciò che nessuno è in grado di farle raggiungere, nessuno se non io. Ora so che quella possibilità è la vita dell’uno, anche se la rammemoro nella mia vita, poveramente ma senza paura.

Quinta lezione: 15 marzo 1990

La circolarità* di Oswald Spengler, come quella di Nietzsche, presenta questo genere di contraddizioni. Il fondamentale movimento da cui parte è la ripetizione, l’intima determinazione del corso storico, tanto da pensare possibile una predeterminazione della storia. Qui è ancora una volta il vitalismo che gioca un brutto tiro, in quanto le civiltà sono considerate come esseri viventi e quindi nascono, crescono e muoiono. Comunque, la storia è indirizzata verso il futuro, e il protocollo temporale viene a distruggere ogni premessa di Spengler diretta ad affermare che la storia non è finalizzata ad uno scopo. La contestuale affermazione che la storia ha un destino ma non ha uno scopo rende, in pratica, tutto il lavoro di Spengler privo di senso, ed è proprio attraverso quest’apertura che esso è assolutamente inutile dal punto di vista storico, ma interessante dal punto di vista relazionale. La mancanza di senso nella storia è difatti il prezzo che si viene a pagare per avere accettato, quasi senza volerlo, un finalismo da caserma. Ma il senso ritorna come possibilità di trasformazione, superficialmente affidata alla volontà, la quale per realizzarsi deve sostanzialmente volere il proprio destino, il che potrebbe anche essere interpretato nella direzione di un voler diventare quello che inevitabilmente si è, ma la cosa non è chiara. Comunque, il maggior rimprovero mosso a queste tesi, quello di essere contraddittorie per aver proposto nello stesso momento il determinismo della storia e una possibilità di trasformazione, non è di certo il male maggiore. Io penso che i guai di Spengler siano due, il vitalismo e l’implicito ed esplicito finalismo**.

Ritengo che non ci sia verso di sposare la certezza del determinismo con l’aleatorietà dell’azione trasformatrice. Le due ipotesi si elidono a vicenda. Il lavoro di Spengler, nel suo svolgersi, ad un certo momento si è reso conto di questo fatto, trovando la soluzione di suggerire una volontà capace di decidere per il proprio tramonto. L’idea è interessante ma presenta due inconvenienti, uno riguarda la possibilità volontaria di arrivare ad una decisione necessariamente diversa, cosa che si può senz’altro scartare, visto il potente condizionamento che grava sulla volontà, il secondo inconveniente riguarda il fatto che nell’ipotesi di Spengler questa decisione, una volta data per ammissibile, non doveva riguardare tanto la volontà stessa o almeno una sua probabile proiezione, ma l’intera civiltà e il corso stesso della storia, proiettato verso il futuro.

Il meccanismo dell’accumulo non deve essere quindi interpretato come luogo dove i contenuti si depositano per trovarvi un proprio senso. Ogni contenuto è senso. Ogni spoliazione di tensione produce contenuto, una sorta di impoverimento del flusso unificato, dove invece il movimento si realizza nella pienezza del suo dispiegarsi. L’immediatezza vuole conoscere i contenuti perché questi rappresentano le sue occasioni di conforto e di sostegno, proprio il fondamento su cui basare la propria volontà di controllo e di ordine. La sottrazione dell’elemento qualitativo infatti conferisce al quantitativo una staticità fittizia che conforta moltissimo le preoccupazioni della coscienza immediata. Questa sa così di poter contare su di un serbatoio immane dove vengono catalogati e tipologizzati tutti i movimenti della realtà, almeno quelli che sono pervenuti all’attenzione dell’effettualità nel suo insieme.

Non esiste neutralità di questi contenuti. L’accumulo è il risultato di scelte che sedimentandosi diventano movimenti autonomi non più riconducibili alle scelte originarie. Il lavoro dell’immediatezza si inserisce costantemente nel meccanismo operando fattività modificatrici che sono scelte anch’esse, seppure ricondotte all’interno di possibilità sempre più ristrette. Ogni coscienza immediata opera richiamando in sé le proprie scelte che costituiscono il ventaglio delle possibili fattività in corso. Tra scelte e produzione, quindi tra orientamenti e oggetti, c’è un movimento circolare che si identifica col fare coatto. Nel fare la coscienza immediata produce gli oggetti e produce se stessa, in un continuamente rinnovato sforzo di ordinamento e controllo. Il riflesso di campo, per quel che riguarda questa situazione, è costituito dall’apprensione. L’immediatezza s’impadronisce del mondo e dà inizio alla sindrome del collezionista.

Testi

* «In primo luogo, il senso della storia – proprio perché l’essere storico è ontologicamente dominante e rende possibile lo stesso soggetto – non è più attingibile. Le forme di oggettivazione in cui la coscienza storica si traduce non possono essere definitive, ma vengono sempre superate dal processo di autocreazione della storia, dal progresso. Dilthey si contrappone esplicitamente ad Hegel su questo punto. Hegel poteva concepire lo spirito oggettivo in base alla ragione, e quindi a un’istanza metastorica, ma la filosofia storicistica deriva invece la nozione di spirito oggettivo dalla vita e quindi da un movimento che si identifica con la storia. Se in Hegel la fusione di spirito soggettivo e di spirito oggettivo conduceva al grado sommo, e quindi finale, del processo storico (lo spirito assoluto), lo storicismo può concepire lo spirito oggettivo (ovvero l’oggettivazione della coscienza storica nell’arte, nella cultura e nelle relazioni etico-sociali) solo come il grado relativamente e provvisoriamente più alto di sviluppo, che sarà comunque fatalmente superato. Ciò a cui la filosofia vuole tendere è perciò un sapere universale di tale realtà, ma ciò a cui può pervenire è un sapere destinato a essere trasceso insieme ad essa. Inoltre – e si tratta del secondo aspetto tragico connaturato a questo tipo di pensiero – anche il sapere dipende in ultima analisi dalla vita, e quindi non può mai abbracciarla compiutamente. Nelle sue ultime opere, Dilthey (al pari di Georg Simmel, che percorre una via per certi versi parallela) sembra essere consapevole della tragicità necessariamente inerente a una filosofia della storia che abolisca ogni senso metastorico. Tuttavia, il significato profondo e la stessa difficoltà dello storicismo non possono essere confinati al problema dell’Erleben, ma riguardano la nozione di tempo. Tentare di costituire il senso della cultura, sia pure nella storicità, significa soprattutto fondare la stabilità del mondo umano, provvedere l’orizzonte storico dell’umanità di strutture. Ora, è certo che nell’aporia dello storicismo (il processo di auto-oggettivazione della coscienza che si autotrascende senza fine), la stabilità del mondo è intrinsecamente compromessa. Uno degli aspetti più rivelatori della cultura storicistica è infatti la ricognizione di questo cedimento al potere del tempo, e cioè al carattere fatale, irreversibile del processo storico. Che si tratti di una formulazione rigorosamente consequenziale del tragico (come in Dilthey o Simmel), oppure di una fenomenologia onnicomprensiva dell’entropia della cultura (come in Spengler), la diagnosi storicistica sembra così arrestarsi all’impossibilità di fondare una stabilità del mondo. La subordinazione del mondo alla vita significa in ultimo la perdita del mondo e la trasformazione della vita in una corsa verso il niente, in un processo entropico. Così, la scuola filosofica che voleva contrastare il nichilismo giunge per altre vie all’allegoria aporetica del tempo a cui Nietzsche era pervenuto in Così parlò Zarathustra».

(A. Dal Lago, “L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut” n. 222, 1987, pp. 9-10).

Tracce del commento

Nell’azione non capisco, propriamente parlando, perché non sto facendo nulla di specificatamente quantitativo, sto agendo, il che significa che il mio agire, che potrebbe essere benissimo considerato come fare da un eventuale astante, non mi consente di quantificarlo, non posso porlo di fronte a me e sottoporlo ad analisi. Questo potrà accadere solo dopo l’azione, quando quell’agire sarà da me considerato come un fare diverso, posto in atto da una coscienza diversa, e rammemorato, cioè detto. La lunga fatica dell’avvicinamento all’apertura verso la cosa deve essere ripresa di sana pianta, adesso, nella terribile oscurità in cui mi sono ritrovato, è più importante la nuova fatica rammemorante. Considerando che questi movimenti non sono legati temporalmente in maniera consequenziale, ma sono contemporanei, si capisce la complessità del problema. Io agisco non in un altro mondo, ma in quello da me creato, l’avventura diversa è l’azione che mi porta in un mondo diverso, ma non per questo smetto di vivere nel mondo della quotidianità. Queste fortissime contraddizioni non sono superabili, l’oltrepassamento conduce con sé la mia coscienza immediata e le pone accanto la coscienza diversa, ma si tratta di due sfumature della medesima coscienza la quale è sempre una e non può essere duplicata. Se l’immediatezza guarda con occhio stranito i movimenti bizzarramente disposti della coscienza diversa, il loro modo di intersecarsi sconosciuto, non vuole dire per questo che non continuerà, in quanto immediatezza, a vivere la sua quotidianità come al solito. Fino a un certo punto. Il luogo delle grandi riflessioni è un po’ come il portico fiorito, dove straordinarie prospettive si aprono di fronte ai vecchi problemi, dove masse architettoniche nuove, mai viste, vengono facilmente alla luce, dove ogni sporgenza della prospettiva è una indicazione di sosta perché proprio lì accanto c’è un nuovo interstizio mai visitato prima. L’avventura continua. L’ampiezza del gesto la tengo per me, qui, a farmi compagnia. Davanti alla memoria che sta bruciando come fascina secca non cerco la consolazione riparatrice. Non ho mai cercato un padrone, neanche me stesso ho accettato come padrone. Anche del padroneggiare, quanti settori ho abbattuto. Misuro le mie possibilità, mai le mie forze. Queste possono disfarsi da un momento all’altro, giacere al tappeto, ma è improbabile che le mie possibilità le seguano. C’è sempre un ancora più oltre che mi distoglie dal magazzino dei rimpianti.

Testi

** «Naturalmente, nella filosofia storicistica, tra “mondo” e “vita” sussiste una differenza decisiva, ma tutta a vantaggio della vita (e cioè dell’Erleben storico) e quindi in ultima analisi dell’uomo che esperisce e interpreta la propria storicità. La subordinazione del mondo alla vita (ovvero dell’antico allo storico) esprime un ribaltamento decisivo rispetto a una tradizionale preminenza dell’essere, e cioè di una realtà persistente e atemporale, ontologicamente superiore rispetto alla caducità e alla relatività delle vicende storiche.

«Se nella concezione dell’uomo come essere storico viene rifiutata la fondazione della conoscenza nell’appropriazione degli oggetti, in opposizione alla gnoseologia cartesiana, questo rifiuto non avviene in nome di un nuovo nesso uomo-mondo, ma per affermare l’unicità dell’esperienza umano-storica. La vita, nel senso dell’Erleben, acquista un rango autonomo rispetto alla tradizionale dottrina basata sulla conoscenza della res extensa. Su un piano epistemologico, il processo di autonomizzazione dell’esperienza storica si traduce in un distacco delle scienze della cultura e della storia dal metodo delle Naturwissenschaften. In questo modo, l’autonomo essere-storico dell’umanità si contrappone sia al finalismo implicito nella dialettica hegeliana (e quindi all’aporia di una fine della storia), sia alla riduzione della conoscenza ad appropriazione della natura. In un certo senso, con la filosofia della svolta del secolo, sia la storia (nella tradizionale prospettiva cristiano-metafisica) sia il mondo fenomenico (l’ontico) sono stati storicizzati».

(A. Dal Lago, “L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut” n. 222, 1987, p. 8).

Tracce del commento

Di fronte alla parola, che dovrebbe dire la rammemorazione della mia avventura nella cosa, non posso limitarmi a porre la sola conoscenza che posseggo, devo andare oltre. Questo andare oltre non può riassumersi solo in un maggiore impegno del fare, intervenire come un mantello di conoscenza sulle parole, ma deve proporre una conoscenza rigenerata a saggezza, rifiorita nella lievità del saggio che conosce la bellezza e la verità e che solo davanti alla libertà, la massima linea del non ritorno, anche come saggio, ha avuto paura e si è tirato indietro. Liberare la vicenda umana dal meccanismo storico, in cui interpreti interessati hanno voluto racchiuderla, è compito fondamentale. Una lotta corpo a corpo con l’ignoto mi sembra ipotesi più seria, un riferimento alla testarda e disperata difesa di tutto quello che è umano, anche le mostruosità inumane, perché l’uomo non è la divinità discesa sulla terra, ma un povero di passaggio, a volte un lampo di corruttibile inafferrabilità, a volte un caotico e stanco ricordo di passate venture riflesse sullo specchio deformante della interpretazione. Trattare a fondo un problema è correre il rischio di impazzire. Non c’è un fondo e al di là di un blando interesse comincia la lotta vera e propria, lo scontro a vita e a morte con il problema stesso e alla fine, se si continua, è solo la mania quello che viene dopo. Solo la mania salva dal circolo vizioso in cui si ficca necessariamente ogni genere di conoscenza. Tutto quello che viene prima della mania è prevedibile, come la rosa in primavera diceva Marco Aurelio, ma è su questa prevedibilità che la mania può dare frutti che altrove vengono semplicemente chiamati con il nome di pazzia, di malattia e di morte.

Sesta lezione: 17 marzo 1990

I fatti vengono quanto più possibile schiacciati sotto l’uniformità produttiva e sotto la convenzionalità di campo. Ogni distribuzione strutturale contribuisce così come un punto di riferimento a schiacciare ancora di più una parte dei fatti e a esaltarne un’altra, allo scopo di produrre gerarchie, subordinazioni, superiorità. L’assenza di reali differenze nella più estesa variabilità, viene quindi capovolta in una presenza di invariabilità nella più estesa modificazione. Catalogare e fissare tassonomie* è solo apparentemente un lavoro innocuo, in effetti crea un duplicato della realtà, un mondo ordinato e regolato da leggi, dove ci illudiamo di abitare. Il sapere di questo mondo è quello del campo, ma per quanto l’immediatezza se ne faccia obiettivo costante e oculato, non potrà mai essere esaurito in quella completezza che potrebbe fare legittimamente pensare ad una coscienza dell’accumulo finalmente in grado di gestire se stessa. C’è sempre un meccanismo in corso che sfugge ad ogni controllo e che getta sulla coscienza sospettosa e preoccupata un cono d’ombra.

Rendersi conto di come non sia possibile, se non all’interno di sistemi appositamente costruiti su protocolli, uniformare l’accumulo sulla base di un solo criterio, sia pure quello della concretezza, non facilita di certo l’apertura. Le trovate della logica dell’a poco a poco sono molteplici e, prima fra tutte, quella del possibile aggiustamento. Quello che non è possibile oggi, forse, lo sarà domani. Pensiero confortante ed eminentemente ordinativo. Alla base di ogni pensiero del genere ci sta l’originaria ipotesi religiosa**, la fede in un Dio. Questa ipotesi, come tutti i convenzionalismi, può produrre risultati strutturali consistenti, facilitando l’attività di controllo dell’immediatezza, ma non può mai spiegare il processo dell’accumulo al di fuori dell’effettualità.

Il presupposto razionale hegeliano in base al quale lo spirito assoluto, abitando la Storia, la produce secondo un suo criterio sistematico, cerca di fornire unità ai fatti, distribuendoli secondo una loro ciclicità surrettizia, epoche coordinate da un collante dialettico. Di certo noi possiamo sapere che tutto il contenuto accumulato è stato prodotto dall’uomo, comprese le relazioni in cui la sua capacità oggettuale è talmente affievolita da non risultare più coglibile. Sappiamo anche che ogni movimento propone relazioni che si rivolgono da un lato alla totalità del reale, dall’altro alla puntualità ipotetica della singola relazione. Questi poli non sono però realmente estremi, in quanto, nello stesso momento essi sono convertibili tra loro, proponendosi di volta in volta come centro e come periferia. Ciò nega validità ad un pensiero di razionalità lineare, intendendo con questa definizione una razionalità che pretenda svolgersi secondo l’orientamento temporale.

La continuità dell’accumulo è la sua sola evidenza che potrebbe attirare l’attenzione sistematica d’uno spirito ordinatore, ma si tratta d’una continuità che ha inizio con l’effettualità, quindi con un cominciamento radicale, cioè con l’orientamento dei flussi, e che ha certamente avuto inizio in una particolare costellazione di assetti strutturali, quando cioè è venuto fuori un oggetto dotato di particolari caratteristiche, quelle che oggi chiamiamo coscienza immediata. Che questo cominciamento radicale e, nello stesso momento iniziale, non possa collegarsi con un’idea di tempo, come invece sembra ad una prima intuizione, lo si spiega approfondendo la contestualità puntuale della totalità del reale, dove non c’è motivo di identificare un prima e un dopo. In effetti, quel cominciamento radicale non è altro che il progredire d’una intensificazione, cioè un movimento di già esistente ma talmente affievolito da non risultare apprezzabile. La continuità è quindi come il problema dell’infinito che è finito ma indeterminato, come la circolarità. Essa non necessita dell’idea d’un inizio e di una fine, come non necessita dell’idea di causa ed effetto. L’immediatezza era là anche prima che risultasse talmente significativa da identificarsi come coscienza immediata, solo che restava al di sotto di un limite di affievolimento che la rendeva praticamente inesistente.

Ciò rende possibile l’ammissione corretta della mancanza di una razionalità interna al meccanismo stesso. La realtà infatti non è ragionevole, non segue le regole fissate dalla ragione, quest’ultima non riesce neanche a padroneggiare fino in fondo il prodotto dell’immediatezza, anzi quest’ultimo tende costantemente a sfuggirle di mano, quindi le sue capacità ordinatrici, anche quelle riguardanti la modificazione, sono molto limitate, anche se sufficientemente dannose, e ne risulta del tutto impensabile che siano in grado di rivolgersi alla totalità del reale, intesa nel senso dell’insieme delle relazioni possibili. Ma la continuità ha anche altri significati interessanti, se non altro riguardo le possibilità effettuali. Esaminiamoli.

Prima di tutto, essa indica che non c’è modo di superare le dimensioni effettuali, nel loro insieme, la coscienza si divide in immediatezza e diversità, ma non può essere un. terzo movimento. Questo non vuol dire che l’uomo sia eterno, può affievolirsi come si è intensificato, scomparire per tornare ad essere significativo un’altra volta, sotto aspetti diversi vuol dire soltanto che il movimento complessivo dell’effettualità finché si mantiene dentro limiti apprezzabili, è continuo, non ha crisi di struttura e tanto meno crisi prevedibili. La circolarità di questo movimento rende ancora una volta incomprensibile ogni razionalità lineare, riducendola a semplice esercitazione letteraria oppure a ipotesi operativa di campo.

Inoltre la continuità indica il modo in cui si relaziona il contenuto all’interno dell’accumulo, disponendosi sempre sulla base di un relazionarsi reciproco di tutti i movimenti di senso, nessun escluso, dai più complessi ai più semplici, in modo che ci sia una precisa dimensione, finita, quantitativamente finita, del senso disponibile per la produzione oggettuale. Il fatto che questa quantità cresca continuamente è il modo specifico in cui si dispone il movimento interno all’accumulo, una crescita senza limiti, se non quello della propria significatività, cioè di un possibile affievolimento. Qui c’è da risolvere un problema parallelo, abbastanza semplice, questo affievolimento non si deve intendere come una riduzione della quantità del senso, ma come un affievolirsi della sua rispondenza relazionale, movimento che avviene regolarmente negli oggetti e nelle strutture, ma che nulla esclude possa anche verificarsi nel meccanismo dell’accumulo considerato nel suo insieme.

Testi

* «Tutti sappiamo che vi sono buone e cattive esperienze. Queste ultime si accumuleranno invano; se ne facciamo cento o se ne facciamo mille, un solo lavoro di un vero maestro, di un Pasteur per esempio, basterà per farle cadere nell’oblio. Bacone ha compreso bene ciò; è lui che ha inventato il termine experimentum crucis. Ma Carlyle non può comprenderlo. Che cosa è dunque una buona esperienza? È quella che ci fa conoscere qualcosa di più di un fatto isolato: è quella che ci permette di prevedere, cioè di generalizzare. E invero, senza generalizzazione la previsione è impossibile. Le circostanze in cui si opera non si riprodurranno mai tutte insieme. Il fatto osservato non ritornerà quindi giammai; la sola cosa che si possa affermare è che in circostanze analoghe si produrrà un fatto analogo. Per prevedere bisogna dunque almeno invocare l’analogia, cioè bisogna generalizzare. Per cauti che si sia, è necessario interpolare; l’esperienza non ci dà che un certo numero di punti isolati; bisogna riunirli con un tratto continuo: e ciò costituisce una vera generalizzazione. Ma si fa di più: la curva da tracciare passerà tra i punti osservati e vicino a essi, non per i punti stessi. Così non ci si limita a generalizzare l’esperienza, la si corregge; e il fisico che volesse astenersi da queste correzioni e contentarsi veramente dell’esperienza pura e semplice, sarebbe costretto a enunciare delle leggi ben straordinarie.

«È abbastanza per liberarcene, non si è più schiavi quando si può scegliere il padrone. Così, in virtù della generalizzazione, ciascun fatto osservato ce ne fa prevedere un gran numero, solo che noi non dobbiamo dimenticare che il primo solo è certo e che tutti gli altri sono soltanto probabili. Per quanto saldamente stabilita ci possa sembrare una previsione, non siamo mai assolutamente sicuri che l’esperienza non la smentirà, se cercheremo di verificarla. Ma la probabilità è spesso assai grande, per potercene accontentare. Val meglio prevedere senza certezza che non preveder affatto. Non si deve dunque mai disdegnare di fare una verifica, quando se ne presenti l’occasione. Ma ogni esperienza è lunga e difficile, i lavoratori sono poco numerosi; e il numero dei fatti che ci occorre prevedere immenso; di fronte a questa massa, il numero delle verificazioni dirette che potremo fare sarà sempre una quantità trascurabile. Da questo poco che possiamo direttamente raggiungere bisogna trarre il miglior partito; fa d’uopo che ciascuna esperienza ci permetta il maggior numero possibile di previsioni e col più alto grado di probabilità possibile. Il problema è di aumentare, per dir così, il rendimento della macchina scientifica. Mi si permetta di paragonare la scienza a una biblioteca che deve di continuo accrescersi; il bibliotecario dispone per le sue compere di crediti insufficienti: deve cercare di non farne dispendio. La fisica sperimentale è incaricata delle compere; essa sola può dunque arricchire la biblioteca. In quanto alla fisica matematica, il suo compito sarà quello di apparecchiare il catalogo. Se quest’ultimo è ben fatto, la biblioteca non sarà per questo più ricca; ma esso potrà aiutare il lettore a servirsi delle ricchezze. E anche mostrando al bibliotecario le lacune delle sue collezioni, gli si permetterà di fare dei suoi crediti un impiego giudizioso; ciò che è tanto più importante in quanto che questi crediti sono affatto insufficienti. Tale è dunque l’ufficio della scienza matematica; essa deve guidare la generalizzazione sì da aumentare quel che poco fa ho chiamato il rendimento della scienza».

(H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, tr. it., Firenze 1949, pp. 114-115).

Tracce del commento

Riguardo l’azione, niente si scompensa, ogni nuova frazione rammemorativa ripropone la parola nella sua nuova capacità di modulazione. Ogni elemento di questi nuovi livelli è in grado di ricondurre alla luce elementi di strati più profondi, come pure di collegarsi con elementi di strati semantici più rigidi. Questi nuovi scavi vengono ogni volta fatti per la prima volta e ciò a causa delle concessioni imprevedibili che determinano. Queste visioni contemporanee e parallele consentono confronti istruttivi sulle capacità e le intensità del dire, per arrivare alla intensità che è diversa da ciò che la memoria propone e anche di ciò che l’azione da rammemorare pretende. L’afflusso dei nuovi strati, nel suo continuo modificarsi dovuto all’accumulo che ho proposto come base di partenza di questo mio coinvolgimento sui generis, non è catalogabile prestandosi a una grande varietà di intrecci, di recitative, di articolazioni fasulle che favoriscono la costruzione di labirinti, per concludere anche con descrizioni pure e semplici di tratti geografici, forse più del dovuto partecipi dell’azione, minutamente partecipi a volte, e quindi risultanti più lineari e chiare. Forse questo lavoro di scavo nella parola determina con maggiore facilità una sorta di schematismo astratto che assurge alla pretesa di dire l’azione, comprova l’eventuale mediazione letteraria da cui non c’è modo di liberarsi, ma questo non è un pericolo. Nel turbinio del dire le parole sono nuove e danzano prive di veli, la loro origine non può essere tenuta nascosta.

Testi

** «Le questioni morali si presentano immediatamente come questioni, la soluzione delle quali non può aspettare prove sensibili. Un problema morale è problema non di ciò che esiste sensibilmente, ma di quello che è bene o che sarebbe bene se fosse. La scienza può dirci ciò che esiste; ma per pesare i valori di ciò che esiste e di ciò che non esiste, non dobbiamo consultare la scienza, ma quello che Pascal chiama il nostro cuore. La scienza stessa consulta il suo quando afferma che l’accertamento continuo dei fatti e la correzione delle false opinioni sono i beni supremi dell’uomo. Opponetevi a tutto ciò, e la scienza potrà solo ripetervelo come un oracolo, oppure provarlo mostrando che da codesto accertamento e da codesta correzione delle opinioni deriva tutto quello che il cuore dell’uomo riconosce come bene. Il problema se dobbiamo avere credenze morali o no è deciso dalla volontà. Le nostre preferenze morali sono vere o false oppure sono solo fenomeni biologici singolari, che rendono le cose buone o cattive per noi, nonostante esse restino in sé indifferenti? Come potrebbe decidere il nostro puro intelletto? Se il vostro cuore non sente bisogno di una realtà morale, non sarà certo la vostra testa che vi farà credere in essa. In realtà, lo scetticismo mefistofelico appaga gli istinti frivoli dell’intelletto assai meglio di ogni severo idealismo. Certi uomini (fino dall’epoca dei loro studi giovanili) sono naturalmente così freddi che le ipotesi morali non arrivano mai a interessarli vivamente: alla loro presenza contegnosa, l’ardente giovane moralista non si sente assolutamente a suo agio. Dalla loro parte è l’apparenza della sicurezza intellettuale; dalla sua quella della naïveté, della credulità. Nel suo cuore ingenuo, tuttavia, questi sente profondamente di non essere in errore e che esiste un regno nel quale (come dice Emerson) tutto il loro acume e la loro superiorità intellettuale non valgono di più della scaltrezza della volpe. Lo scetticismo morale non può essere confutato o provato mediante la logica più di quanto non lo possa lo scetticismo intellettuale. Quando affermiamo che esiste la verità (sia di una specie o di un’altra), lo facciamo con la totalità di noi stessi e, a seconda dei risultati, riusciamo a confermarci nella nostra credenza o a ritirarci da essa. Lo scettico in tal modo adotta l’atteggiamento di dubbio con tutto se stesso; ma chi di noi sia più saggio lo sa soltanto l’Onniscienza».

(W. James, Aspetti essenziali del pragmatismo, tr. it., Lecce 1967, pp. 100-101).

Tracce del commento

Avrei voluto che questi anni di carcere scomparissero davanti ai miei occhi, giorno dopo giorno, mimando un passare del tempo che fortemente contrasta con i miei desideri e le mie paure. Da me viene un giudizio affermativo sulla mia vita, così mi accorgo che in fondo si tratta di un giudizio che anche i miei nemici condividono, se non altro mi offrono il beneficio della buona fede. Le idee sono per molti leggiadre coperte a fiori che si possono tirare da una parte o dall’altra. Per me è questione di vita, la mia vita è stata quella delle mie idee, le mie idee sono state la mia vita. Le azioni mi guardano da lontano, straordinario potere dell’assenza. Che comprendo nella rammemorazione? Sono partito dall’ipotesi di scartare la conoscenza perché utile, ma la comprensione può essere inutile, cioè può non riservarsi un ruolo eziologizzato. Essa in effetti delegittima la pretesa di conoscere la qualità, non quella di conoscere me stesso come attivo frequentatore della qualità come condizione esclusiva dell’agire. Questo comprendere le mie motivazioni, l’abbandono per esempio e il coinvolgimento, non è pretesa di sapere più o meno assoluto, non ha una vocazione oggettiva, esso si sprigiona dalla notte della sua essenza. Sviluppa andamenti cronologici e spazializzati, eppure non cade nell’equivoco dell’accumulo, e questa è una prova di forza. Non usa modelli, se non categorie di concetto, e non si cura dei contrasti e delle contraddizioni che vengono alla luce tra questi concetti e queste categorie. Non aggiusta per rassicurare, non fornisce garanzie.

Settima lezione: 21 marzo 1990

La continuità esclude anche un processo di tipo progressivo*, come se tutto il meccanismo avesse il solo scopo di produrre la presente configurazione modificativa dell’immediatezza. Al contrario questa configurazione della coscienza immediata non ha sùbito sostanziali modificazioni nei movimenti più importanti, che sono quelli del fare coatto, dell’inquietudine e dell’apertura. Fin da quando la coscienza immediata è diventa attingibile nella realtà relazionale, determinando l’effettualità, sia l’oggetto coscienza che l’effettualità nel suo insieme, cioè nei suoi tre livelli, sono stati completi. Intendendo per completezza la disposizione, il processo e l’insieme dei movimenti che essi posseggono in qualsiasi altro momento del dispiegamento complessivo della totalità del reale.

La continuità comprende il concetto di conservazione dell’accumulo, nel senso del mantenimento dei movimenti registrati, anche dopo che sono stati, in parte, modificati in oggetti o in strutture, ma non comprende il concetto di completamento. I due aspetti non sono complementari. All’interno del primo rientrano quindi i movimenti di riorganizzazione, oltre che tutti gli aspetti catalogativi in genere, tipologici e tassonomici. Così il senso viene raccolto, ordinato, conservato e poi liberato, senza che ci sia la possibilità che in uno di questi movimenti esso vada perduto. Il suo estremo affievolimento strutturale viene recuperato sia attraverso il movimento della totalità del reale, ma più specificamente ed efficacemente, attraverso il movimento della riunificazione dei flussi, quindi attraverso il conflitto tra struttura e forma.

La coscienza immediata comprende il motivo di questa continuità, ne intuisce il meccanismo, ne sperimenta in parte il funzionamento, ma principalmente è conservatrice allo stesso titolo. La volontà è eminentemente contraria ad ogni diversità e, in primo luogo, a quella diversità rivoluzionaria che intende mettere in discussione i protocolli di campo, le convenzioni su cui si basa la tradizione il cui rapido decadere potrebbe mettere in serio pericolo le sue intenzioni di controllo. La presenza, anche all’interno del fare coatto, di ostacoli e difficoltà al meccanismo produttivo dell’oggettualità, rende subito inquieta l’immediatezza. Ma questa tutela della conservazione, proprio a causa delle continue difficoltà cui va incontro, finisce per rivelarsi l’elemento contraddittorio più efficace all’interno della coscienza immediata. Infatti, la continuità non è completamento, e quindi sottolinea sempre di più l’inconsistenza delle pretese accumulative per quanto riguarda la completezza del senso. Se non ci fosse la continuità del processo accumulativo, la coscienza immediata avvertirebbe con maggiori difficoltà il bisogno di diversità.

La continuità di cui discutiamo non si può comunque identificare con una logica interna al meccanismo di accumulazione, nel senso di un movimento suo interno che sia espressione dell’accumulo stesso. La continuità deriva dall’effettualità e si mantiene tale perché l’effettualità resta tale a prescindere della quantità dell’immediatezza. Questi movimenti circolari sono di già completi fin dal momento in cui vengono in essere, cioè diventano significativi e non si modificano in quanto movimenti a causa della maggiore o minore presenza quantitativa.

Ciò comporta che non esiste una logica interna all’accumulo, ma che anche l’ipotesi di completezza viene data dal desiderio della coscienza immediata di controllare definitivamente il meccanismo e nient’altro. Non c’è quindi una sorta di coscienza collettiva dell’accumulo, come di già sappiamo, e con ciò risulta negata qualsiasi altra ipotesi parallela, diretta a fissare moduli di sviluppo garantiti a priori.

Lo stesso funzionamento delle strutture con l’evidente tendenza alla rigidità dei nessi, non può essere considerato un movimento interno capace di dare indicazioni deterministiche. L’idea, certamente verificabile nell’ambito del campo, che un dilagare delle strutture produce una maggiore rigidità complessiva dell’insieme degli assetti possibili, è certo empiricamente fondata. Ma da ciò non si può ricavare una legge del genere sociologico, come quelle che abbondano nei manuali di politica, che sono purtroppo destinate a essere smentite continuamente, in base alla quale ogni riduzione di struttura corrisponde ad un aumento di libertà. La qualità non è attingibile dalle strutture, né nel loro intensificarsi, e questo è comprensibile, né nel loro affievolirsi, e questo è purtroppo meno comprensibile.

Testi

* «Se volessimo parlare di una malattia della ragione, questa malattia dovrebbe essere intesa non come un male che ha colpito la ragione in un dato momento storico, ma come qualcosa di inseparabile dalla natura della ragione nella civiltà, così come l’abbiamo conosciuta fin qui. La malattia della ragione sta nel fatto che essa è nata dal bisogno umano di dominare la natura; per rendere possibile la “guarigione” sarà necessario comprendere la natura del male alle sue origini: non basterà curarne gli ultimi sintomi. Una vera critica della ragione porterà necessariamente alla luce gli strati più profondi della civiltà e ne esplorerà la storia più antica. Dal momento in cui la ragione divenne lo strumento del dominio esercitato dall’uomo sulla natura umana ed extraumana – il che equivale a dire dal momento in cui nacque – essa fu frustrata nell’intenzione di scoprire la verità. Ciò è dovuto al fatto ch’essa ridusse la natura alla condizione di semplice oggetto e che non seppe distinguere la traccia di se stessa in tale oggettivizzazione, nei concetti di materia e di cose non meno che in quelli di dèi e di spirito. Si potrebbe dire che la follia collettiva imperversante oggi, dai campi di concentramento alle manifestazioni apparentemente più innocue della cultura di massa, era già presente in germe nell’oggettivizzazione primitiva, nello sguardo con cui il primo uomo vide il mondo come una preda. La paranoia, quella forma di follia che costruisce “teorie” di persecuzione perfette da un punto di vista logico, non è solo una parodia della ragione, bensì, è in certo modo presente in ogni forma di ragione che consista semplicemente nel perseguimento di fini.

«Il male della ragione è dunque assai più grave delle deformazioni evidenti che la caratterizzano oggi. La ragione può diventare ragionevole solo riflettendo sul male del mondo così come è prodotto e riprodotto dall’uomo; in questa autocritica la ragione rimarrà nello stesso tempo fedele a se stessa, riaffermando e applicando senza nessun secondo fine quel principio di verità che dobbiamo alla ragione soltanto. La schiavitù della natura si tradurrà in schiavitù dell’uomo e viceversa fino a quando l’uomo non saprà capire la sua stessa ragione e il processo con cui ha creato e mantiene tuttora in vita l’antagonismo che minaccia di distruggerlo. La ragione può essere più che natura solo rendendosi conto della sua “naturalità” – che consiste nella sua tendenza al dominio – quella stessa tendenza che paradossalmente l’aliena dalla natura. Così anche, fungendo da strumento di riconciliazione, essa sarà più di uno strumento. I mutamenti di direzione, i progressi e i regressi su questa strada, riflettono l’evolversi della definizione di filosofia».

(M. Horkheimer, L’eclisse della ragione, tr. it., Torino 1969, pp. 150-152).

Tracce del commento

I cambiamenti dell’applicazione culturale di fronte alla parola che si accinge a dire sono moltissimi e tutti si possono riassumere in una sorta di equidistanza del tempo e dello spazio dominanti nel campo. Cerco di affrontare la parola concentrandomi in una estranea immobilità mentre continuamente rimaneggio e riorganizzo l’accumulo sottoponendolo ad adattamenti metodologici progressivi alla lavorazione della parola. Questa condizione di estrema concentrazione toglie davanti a sé ogni tipo di perturbamento e lega alla parola un apparato culturale che infonde forza e sicurezza, mentre di regola l’abbandono da cui partiva il vecchio coinvolgimento era alimentato dall’inquietudine. Verso l’azione e verso la rammemorazione dell’azione sono due coinvolgimenti completamente differenti, il primo va verso l’ignoto, il secondo proviene da ciò che è più noto, dalla conoscenza stessa. Si erano organizzati da soli nella notte, felici della soluzione ai loro problemi, ma non c’era soluzione, il minimo disegno veniva infranto dal debito da pagare nei riguardi del passato. I torturati, ora torturatori, avevano giurato di vendicarsi. E lo facevano senza pensarci due volte.

Ottava lezione: 2 aprile 1990

Esistono organizzazioni sociali* capaci di realizzare strutture meno repressive di altre, ma ciò non autorizza, se non come infelice metafora, all’uso del termine libertà. Nessuna organizzazione può renderci liberi, ma possiamo fare di tutto per cogliere quelle qualità che il meccanismo accumulativo e, per quel che ci riguarda più da vicino, il fare coatto, ci allontanano o ci sostituiscono con semplici surrogati. In questo nostro disporci verso una coscienza diversa, possiamo incontrare maggiori o minori ostacoli esterni, e questi ostacoli sono certo un prodotto principalmente delle strutture, ma in fondo siamo sempre noi a produrre queste strutture, in quanto tutta l’effettualità, anche quella modificativa, è una produzione della coscienza. Il movimento delle strutture resta sempre un elemento della modificazione, quindi può spostarsi da un ipertrofico sviluppo degli assetti che si irrigidiscono, ad un alleggerimento che può anche apparire e di fatto è più libero. Ma si tratta di concezioni relative, non relazionali. La semplificazione delle complicazioni strutturali spesso può risultare altrettanto rigida, se non di più, del funzionamento articolato, quando gli assetti producono il loro tasso medio di rigidità.

Queste considerazioni ci portano a verificare come non esistano all’interno dell’effettualità modificativa, l’elemento di fondo in cui si realizza la separazione tra realtà dispiegata e realtà orientata, elementi autonomi indipendenti dalla coscienza, sia questa immediata o diversa. Il grande evento della realtà, per quel che possiamo capire è proprio l’effettualità, senza con questo volere affermare che la coscienza non ha nulla a che vedere con la realtà esterna all’effettualità stessa. Ciò significa che ci siamo posti in una gabbia, costruita da noi stessi, che non possiamo modificare se non dentro un arco di possibilità, ma non cancellare in quanto l’effettualità non può essere annullata o seriamente affievolita su decisione della coscienza stessa. Ancora una volta trova riconferma il fatto che la qualità non è afferrabile in modo definitivo, quindi non può instaurarsi un regno della libertà, né per volontà, né per diversità. Di più, la qualità non è afferrabile neanche da parte di un meccanismo oggettuale, interno all’effettualità.

Se, da un lato, la coscienza da sola non può spezzare il movimento circolare dell’accumulo, non è detto che questo resti indifferente al movimento circolare della coscienza, come si realizza nell’effettualità, nella singola esperienza effettuale. Nessuna esperienza va perduta, nessun uomo realmente attivo passa inosservato, nessuno capace di agire resta un balocco nelle mani della storia. La mancanza dell’ipotesi determinista non svuota l’accumulo, ma ne mette in luce l’illusione di completezza e, per un altro verso, mette in risalto l’effettiva capacità della coscienza di trasformare il mondo. Non c’è lamentazione contro l’appiattimento massificante dell’eterno progredire del senso che possa essere realmente presa sul serio, non c’è millenarismo che non si presenti come ridicola versione finalistica della storia, destinata a spronare l’uomo all’accettazione del fare coatto. Da questa prospettiva non c’è destino di libertà o di morte, non c’è destino e basta**.

Il rischio costante della storia del pensiero è stato quello di personificare l’accumulo, traendo comportamenti da un ammasso informe di contenuti, il quale si limita, di volta in volta a subire una stratificazione riorganizzativa. In questi contenuti, non potrà mai sorgere improvvisamente l’oppressore o il liberatore, non sarà mai un accadimento puramente statistico a fornire la possibilità fondamentale, decisiva, per cui non c’è nulla da riconoscere e il nostro stare in ascolto, il nostro disperato ravvisare continuo, ripresenta sempre la medesima conclusione negativa. Nessuna catastrofe, nessuna realizzazione dell’anarchia liberatoria, ogni evento si produce per una serie irricostruibile di movimenti, attorno alla quale noi produciamo soltanto ipotesi di campo, tutte ugualmente valide perché tutte ugualmente fantastiche. Non esiste uno strumento privilegiato che possa realmente farci penetrare all’interno dell’accumulo per scoprirvi il suo recondito segreto, né la fede, né lo scetticismo, possono portare alla luce quello che non c’è. Ecco perché abbiamo detto chiaramente di essere contro il disvelamento***. L’interpretazione, attività eminentemente diretta a scavare nei contenuti non come semplici prodotti del fare coatto, ha lo scopo essenziale di mascherarli, non di toglierne i veli, allo scopo di costringerli a dire in modo diverso quello che sono, cioè a dirlo in un modo che, per quanto possibile, metaforicamente eviti di ripetere le convenzioni di campo, quindi non si riduca a semplice tautologia.

Questo materialismo attivo richiede un grande coraggio, una considerevole disciplina individuale. Speranze e prospettive devono indirizzarsi tutte all’interno della coscienza stessa, la quale per altro, nella sua immediatezza spinge invece a trovare alleati proprio nell’accumulo, allo scopo di esercitare in questo modo il proprio controllo, fattività che la rende sicura di sé e quindi allontana tutti i movimenti di inquietudine. La diversità non è un semplice perbenismo morale, una correttezza di comportamenti, ma un coinvolgimento totale che investe tutta la coscienza e che quindi produce perplessità anche nelle modificazioni che restano in corso. La fede potrebbe a stretto rigore di termini produrre un coinvolgimento considerevole, ma avendo la necessità di porre in qualcosa di esterno il suo punto di forza, finisce per asservire il lavoro della consapevolezza, rendendolo schiavo dell’altrui presenza, lo scetticismo, che tanto fa illudere gli spiriti moderni i quali collocano nell’approssimazione il centro del problema, oltre ad avere bisogno lo stesso di un punto di forza esterno se non altro per i momenti di maggiore sconforto, manca della capacità di coinvolgimento, spesso in modo radicale, limitandosi al massimo ad una tollerante e innocua filantropia.

È la posizione raggiunta che si vuole tutelare, la conquista che non deve essere messa in discussione, tanto più radicata nei nostri cuori, quanto più essa è stata concessa per benevola e illuminata decisione del sovrano. Il possesso porta a temere il dolore e la morte, quindi porta ad avversare il rischio e quindi porta al risparmio e alle miserie della conservazione. Tutto ciò non deve essere confuso con la volontà di morte, che è un aspetto dell’immediatezza, inteso in termini di controllo del proprio destino, la morte ora, come possibilità certa, quindi come rifiuto della possibilità è, in definitiva, rifiuto del rischio. Una versione della paura che ci fa desiderare di affrontare la morte per toglierci dalle ambasce della sua possibilità. Il coraggio del coinvolgimento consiste invece nel rifiuto del controllo e dell’ordine, nel rifiuto della positività assoluta del possesso, nella riduzione di ogni conquista, a semplice strumento provvisorio per una ulteriore conquista, ulteriore e semplice tassello del progetto di sconfitta finale, progetto questo sì di morte coscientemente costruita come completamento indispensabile dell’azione.

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* «La lontananza del dio esprime di fatto il crescente interesse dell’uomo per le proprie scoperte in campo religioso, culturale ed economico. Concentrando l’attenzione sulle ierofanie della vita, attraverso la scoperta della fertilità sacra della terra e aprendosi a esperienze religiose di natura più concreta (più carnale, perfino orgiastica), l’uomo primitivo si distacca dal dio celeste e trascendente. La scoperta dell’agricoltura trasforma in modo radicale non solo l’economia dell’uomo primitivo, ma anche, e specialmente, la sua “economia del sacro”. Altre forze religiose entrano in gioco: la sessualità, la fertilità, la mitologia della donna e della terra e così via. L’esperienza religiosa diviene più concreta, cioè più intimamente connessa con la vita. Le grandi dee madri e gli dèi della tempesta o gli spiriti della fertilità sono nettamente più dinamici e più accessibili agli uomini di quanto non fosse il Dio Creatore.

«È doveroso aggiungere, tuttavia, che i mutamenti rivoluzionari verificatisi nel settore economico e nell’organizzazione sociale come risultato dell’evoluzione dalla fase della raccolta e della caccia a quella della protoagricoltura crearono bensì le condizioni per le nuove valorizzazioni religiose del mondo, ma non le “causarono” nel senso deterministico del termine. Non al fenomeno naturale della vegetazione va fatta risalire la comparsa dei sistemi mitico-religiosi della struttura agraria, ma piuttosto all’esperienza religiosa suscitata dalla scoperta di una solidarietà mistica fra l’uomo e la vita vegetale.

«In verità, in base ai miti dei primi orticoltori delle regioni tropicali, la pianta commestibile non è data” in natura; è il prodotto di un sacrificio primordiale. Nei tempi mitici un essere semidivino viene sacrificato affinché i tuberi e gli alberi da frutta, possano germogliare dal suo corpo. Il paleocoltivatore si assume la responsabilità di garantire la vita delle piante commestibili, si assume cioè il compito di sacrificare vittime umane e animali domestici e di compiere riti sessuali e orgiastici. La caccia alle teste e il sacrificio di vittime umane per propiziare il raccolto trovano la loro motivazione in questa nuova ideologia religiosa. Con lo sviluppo della coltivazione del grano nel Vicino Oriente, numerosi riti e miti vennero elaborati attorno all’idea del rinnovamento periodico della sacralità cosmica, cioè della morte e resurrezione degli dei della vegetazione.

«Tutte queste nuove forme religiose, che apparvero dopo l’avvento della paleoagricoltura e l’organizzazione delle società sedentarie (villaggi, mercati, città), sono solitamente caratterizzate da un’intensità drammatica dell’esperienza religiosa, da un accresciuto antagonismo rituale fra i sessi (associato all’attrazione reciproca) e dall’importanza ascritta alla sessualità e specialmente alla bisessualità e androginia, espressioni mitiche e rituali di “totalità” e di perfezione divina. Tracce dell’androginia divina si incontrano perfino nelle epoche paleolitiche e fra certi primitivi nella fase della raccolta e della caccia, ma è essenzialmente nelle culture agricole che queste idee formano un sistema religioso, che integra inoltre il complesso mitico-rituale della ierogamia. Si potrebbero rilevare, nelle culture agricole, altri esempi della rivalorizzazione di tali forme arcaiche di comportamento religioso. Uno dei più istruttivi è il culto dei morti: attestato già nel paleolitico, esso acquista considerevole importanza specialmente nelle culture megalitiche».

(M. Eliade, voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Treccani, Roma 1975, pp. 125-126).

Tracce del commento

A un tratto sono invaso da un’ombra, una presenza balena nella mia mente, una gioia sconosciuta, una esuberanza sacra, un eccesso caldo e tenero, mi sento portato verso un terreno ignoto. Il tessuto, accuratamente intelaiato per tanti anni, ecco che si sfilaccia fra le mie mani, non ho più il piacere di mettere insieme i fili nel modo giusto, la sovrabbondante energia mi conduce altrove. Dove? Qui è il punto di domanda più radicale, almeno dopo quello che ritrovo nella cosa, tutto qui? Prima dell’azione, bisogno di scappare via per la tangente teorica. Dopo l’azione, scoramento e desiderio di ricominciare. Progetto ed ebbrezza, due punti della medesima linea. La qualità non rinvia a un’altra avventura, il territorio della desolazione non mi promette una landa ancora più desolata, è tutto là, posso solo tornare indietro o andare avanti, ma non verso una qualità ancora diversa, solo verso l’esperienza che mi sta davanti posso mettermi in gioco, ma ho una posta sola, non posso giocare quello che non ho. Intuisco ma non articolo, se articolo è perché ho finito di intuire e sono nella fase di riorganizzazione, sto distinguendo e rammemorando.

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** «Nel filosofo puro l’attenzione al mondo umano è meno concentrata, e soprattutto rivolta in minor misura all’individuale: le sue contrapposizioni, di conseguenza, sono formulate altrimenti, pur rimanendo analogo il giudizio complessivo. Non dichiaratamente in Tucidide, con la distanza e l’allusività che caratterizza i Greci, l’alternanza di narrazione di discorsi e narrazione di fatti, che costituisce la trama sottile e oscuramente significativa della sua storia, accenna a una duplice visione della realtà, che penso non sia fuori luogo riferire alle prospettive della grandezza e della potenza. Ancora in Burckhardt il concetto di grandezza erompe, nel capitolo più impegnato delle sue Weltgeschichtliche Betrachtungen, come culmine della sua trattazione, la più ampia di respiro che egli abbia dato, e a un tempo della penetrazione conoscitiva nel tessuto della storia. Nonostante la sua sterminata ricchezza di informazione, questo apice del suo giudizio storico rimane sotto l’influsso della sua prima formazione spirituale, di una concezione e di una gerarchia della cultura che risale, più ancora che a Schopenhauer, piuttosto a Winckelmann e a Goethe. Questo limita la prestazione di Burckhardt, che non solo distingue varie specie di grandezza – grandezza artistica, grandezza filosofica, grandezza politica – dove grandezza finisce per identificarsi con eccellenza e il genere si risolve nelle specie, ma stabilisce una gerarchia tra le varie grandezze, e dà tradizionalmente la palma a quella artistica. Inoltre, la sua natura di storico filosofico, anziché di filosofo storico, lo rende qui impotente di fronte al compito verso cui si sente trascinato. Con bella semplicità, egli dice: “La vera grandezza è un mistero. L’appellativo viene attribuito o negato assai più per un sentimento oscuro che per giudizi veri e propri, sulla base di documenti...”. Ma dovendo in qualche modo affrontare filosoficamente questo mistero, non trova altro di meglio che il concetto di universale. Il nesso grandezza universale in Burckhardt è fiacco, per l’indeterminatezza della nozione di universale, la cui origine platonica non vive più nelle sue parole. Questo discorso sulla grandezza introduce alla comprensione di Nietzsche. Non solo Nietzsche è l’ultima voce della grandezza nel mondo moderno, ma tutta la sua vita e la sua opera non sono altro che la sua esegesi di questo concetto. Egli l’ha attinto dall’antichità classica, e ha voluto affermarlo come una componente essenziale dell’umanità, di oggi e di domani. Il suo discorso sembra essersi fermato sulla potenza, ma ciò non deve ingannare: la potenza è soltanto il sostrato elementare, che egli ha saputo mettere in chiaro, ma dalla potenza si distacca la grandezza, e questo Nietzsche l’ha mostrato con il suo destino terreno».

(G. Colli, La ragione errabonda, Milano 1982, pp. 147-148).

Tracce del commento

L’acutezza esige solo se stessa, sente un contatto che non ammette distinzioni, avverte oscuramente, ma non per questo in modo meno potente, che tutte le antiche conoscenze adesso si coordinano per dare vita al salto nella cosa, un movimento reale che di solito identifico con l’operatività dell’azione. L’atto vitale che in questa direzione è realizzato è un atto permanente, la sua conchiusione e perfino il suo abbandono a seguito della domanda fondamentale, tutto qui? non lo rende parziale. La sentenza che fissa la sua completezza è stata pronunciata una volta per tutte. Questo atto è caratterizzato dall’eccesso, è esso stesso che eccede qualsiasi classificazione, non ha un posto nell’equazione generale del mondo, è sempre il residuo inevitabile, contro cui cozzano e si infrangono tutte le illusioni matematiche di completezza. Disinnescare i tentativi di oltrepassamento è il compito intrinseco della rammemorazione. L’estasi più acuta può essere parlata e non è più un tremulo riverbero, diventa quello che in maniera circoscritta riesco a dire. Nel tutto si nasconde il mondo possibile e impossibile che io rivelo con il mio fare, ma è attraverso la mia esperienza diversa che le possibilità nel destino si presentano separate dalle impossibilità. Nella quantità non c’è la totalità del tutto intesa come somma e nemmeno nella qualità. Io non posso portarmi dietro la quantità nella mia esperienza diversa, sono momenti che colgo ma che non posso accumulare. In nessuno di questi momenti sono il tutto, l’infinità degli attributi si allunga davanti ai miei occhi senza soluzione di continuità, ma in nessuno degli avvenimenti sono intero.

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*** «“Velato” e “svelato” sono un carattere dell’ente come tale, non però un carattere del notare e del comprendere. Ciò nonostante, il percepire e il dire mantengono pur sempre anche per i Greci il tratto fondamentale della “verità” o “non verità”. Questi pochi accenni possono chiarire quanto decisamente l’ambito e l’evento del velamento e della velatezza dominino per i Greci sia l’ente sia il comportamento umano nei confronti dell’ente. Se ora, alla luce di quanto detto, ripensiamo ancora una volta la parola greca di radice kath- a noi più familiare, cioè kanthánomai, può apparire evidente che la traduzione tedesca corrente, e anche “corretta”, con vergessen (dimenticare) non rispecchia affatto il pensiero greco. Pensato in modo greco kanthánomai dice: io rimango velato a me stesso nel riferimento che qualcosa di altrimenti svelato ha con me. In tal modo quest’ultimo è a sua volta velato, così come io lo sono a me stesso nel mio riferimento a esso. L’ente sprofonda nella velatezza in modo tale che in questo velamento dell’ente io rimango velato a me stesso. Nel contempo questo velamento viene a sua volta velato, il che accade quando diciamo: ho dimenticato questo e quest’altro. Nel dimenticare non soltanto ci sfugge qualcosa, ma il dimenticare medesimo cade in un velamento tale che noi stessi, nel nostro riferimento al dimenticato, cadiamo vittime della velatezza. Perciò i Greci, rafforzando il termine, dicono èpilanthánomai, allo scopo di rimarcare la velatezza di cui l’uomo è preda anche riguardo al suo riferimento a ciò che tramite la velatezza stessa gli viene sottratto. È difficile che l’essenza del dimenticare possa venire pensata in modo più straordinario in una singola parola. Sia nel modo in cui l’uso linguistico greco dice in generale il kanthánein (l’essere velato, l’essere nascosto) in quanto verbo “reggente”, sia nella spiegazione dell’essenza del dimenticare in quanto appunto accadere del velamento, si mostra in modo già abbastanza chiaro che nell’“esserci” della grecità, cioè nel suo stare all’interno, nel mezzo, dell’ente come tale, domina essenzialmente l’essenza del velamento. Da ciò possiamo immaginare già più facilmente perché la verità venga esperita e pensata nel senso della “svelatezza”. Ma in base al procedimento manifesto del velamento, e quindi al velamento stesso, non dovrebbe forse venire determinata allora anche l’essenza dell’opposizione alla verità maggiormente nota, cioè l’essenza della falsità, dunque tò pseùdos, sebbene nel suono di tale parola la radice lath non risuoni? Questa supposizione si consolida se si considera che ciò che è falso e non vero, per esempio un giudizio scorretto, è una sorta di non sapere in cui il “vero” stato delle cose ci è sottratto in un modo bensì non identico, ma comunque in un certo senso corrispondente a quel “dimenticare” che i Greci esperiscono a partire dal velamento. Se poi il pensiero greco comprenda l’essenza dello pseùdos dalla prospettiva del velamento è cosa che può essere dimostrata solamente prestando attenzione all’espressione immediata dell’esperire greco, senza prima occuparsi affatto di ciò che i pensatori greci dicono espressamente circa lo pseùdos».

(M. Heidegger, Parmenide, tr. it., Milano 1999, pp. 68-69).

Tracce del commento

L’intreccio architettonico del dire propone molte alternative, alcune visibili grazie alla parola, ascoltabili e riconducibili alle emozioni che agitano i sentimenti posti in allerta a partire dalla memoria, altri non visibili, incastonati nella portata stessa del movimento rammemorativo, che volgono di sorpresa e producono uno scambio rapinoso, immediato, tra ciò che volevo nascondere a me stesso e ciò che viene messo in moto malgrado me stesso. È la condizione classica della rammemorazione, non posso immaginare che una postura aperta a qualsiasi evenienza, nessuna difesa, perfino gli estremi di fronte a questa apertura inverosimile si sovrappongono. La virtù di questo procedere è mettere sotto ascolto quello che la parola dice e non dice, ricollegandosi a un dire ancora più nascosto, perduto nei meandri degli interstizi, eppure tenuto presente come parte in causa, un dire che rende inesauribile la parola e non le assegna un compito qualsiasi, fosse anche il persuadere. Nessuna seduzione utilitaristica, per quanto camuffata. La lunga strada burocratica si estendeva infinita, negletta alla vita, forse soltanto supposta da qualche spirito debole, contagio di forze grigie al lavoro per poco pane e meno companatico. Un piovasco improvviso aveva afflosciato le bandiere che sempre si accompagnano a luoghi del genere. Guerre fatte e guerre solo sognate incancrenivano parimenti il cuore, l’estrema vanità della striscia colorata che distingue il superiore risplendeva in alcuni imbecilli come fasullo belletto laido. Il mondo in queste occasioni sceglie di tacere.

Nona lezione: 12 aprile 1990

L’educazione della volontà*, come ben capì fino ad un certo momento l’analisi di Nietzsche, conduce soltanto al potenziamento possessivo, alla conquista. Ed è bene che l’uomo si muova a suo agio nell’accumulo, riuscendo a guardare direttamente in faccia la realtà, senza illusioni, cercando se possibile di evitare la pena e la meschinità, la sofferenza e la miseria. Ma ciò non può essere trasformato in un metro di valutazione per tutto, quando invece resta valido soltanto per il fare coatto. In un mondo che tende ad appiattire tutte le espressioni dell’uomo, anche quelle della volontà, quindi che tende a generalizzare il controllo stesso allo scopo di renderlo dominio uniforme e meno dannoso nelle sue espressioni più estreme, il coinvolgimento si porta dietro tutta un’aritmetica riduttiva, un calcolo edonistico delle proprie salvaguardie, e la dimostrazione dell’assoluta inesistenza di elementi interni all’accumulo, capaci di fare il lavoro al nostro posto, ci rende edotti della nostra solitudine e di quello che resta da fare. Le illusioni devono rimanere sulla soglia della filosofia relazionale.

La paura, di cui il possesso è l’aspetto apprensivo**, come ha giustamente proposto l’analisi di Ernst Jünger, è sempre paura della morte, quindi anche il risparmio è paura della morte, come pure il desiderio di difendere il proprio status, allo scopo di garantirsi il rispetto degli altri e tutelarsi contro i rischi dell’incertezza. Cambiando il rapporto con il possesso, con la conquista, cambia necessariamente il rapporto con la morte ciò al di là dell’alibi che l’automatismo esterno può prestare ad ogni interessato tentennamento. Facendo diventare progetto la morte, s’inverte il rapporto della paura, la quale non per questo viene cancellata ma restando come contenuto può essere anche occasione d’inquietudine, quindi in fondo elemento della stessa diversità.

Lo spiritualismo e il materialismo sono spesso stati alibi dell’automatismo, diventando espressioni del determinismo dirette a sottovalutare il ruolo della coscienza, sia nell’ambito del fare coatto che in quello dell’azione. Ambedue queste posizioni filosofiche, in tutte le loro varianti, hanno tenuto conto del ruolo dell’uomo, dei suoi problemi, ma li hanno sempre subordinati ad una forza esterna, superiore o inferiore ciò non ha importanza. Di fronte a questa forza, l’uomo diventa un fuscello, anche il grande uomo, l’uomo superiore, il ribelle, il dominatore, da questo loro punto di vista la cosa non fa differenza, finiscono per diventare burattini nelle mani di intenzioni senza paragoni molto più forti. Da qui lo stimolo ad accettare questa forza, a sacralizzarla in un ente superiore, a inchiodarla nella stessa logica della materia, ma comunque a staccarla definitivamente da sé e a considerarla come garanzia della propria libertà. Quando poi questa forza, come accade oggi alle espressioni produttive dell’accumulo, prende l’aspetto di un’organizzazione scientifica e tecnologica diretta a mantenere l’ordine con il massimo dell’efficienza e il minimo della repressione, nessuno può sognarsi di trovare qualcosa in contrario.

Ciò accade spesso nel laicismo moderno, che così non si accorge di avere semplicemente cambiato l’aspetto esteriore delle cose e di gestire, sotto forma tollerante, l’irrigidimento del passato dominio religioso. La polemica sulla presenza dell’insegnamento religioso nella scuola statale, quindi ipoteticamente laica, si presta ad alcune considerazioni interessanti che sarebbe errato non fare etichettando la giustificazione sotto la scusa di faccende di palazzo, semplici tentativi di ingerenza del potere religioso all’interno del potere politico. Il laicismo statale reagisce, o almeno una parte di esso sembra reagire, perché vede attaccato dal confessionalismo*** un settore che ritiene di dovere gestire in proprio.

Il problema vero non è però quello di una presenza di disturbo della Chiesa all’interno del territorio dell’educazione. L’ora di religione, a parte casi limite di carisma personale dell’insegnante, dai tempi dei tempi è sempre stata un’ora di inutili attese e di sbadigli spaventosi. Non è quindi un vero e proprio inquinamento che i laici temono. E poi questi ormai non credono più alla possibilità di iniettare dall’esterno un sentimento deleterio, come di fatto è quello religioso vissuto attraverso la Chiesa che ne fa elemento di stupro e di dominio, quando sono loro stessi ad avere reso impossibile un’educazione alla libertà e all’autonomia del singolo, sia pure nei limiti convenzionali di campo, subordinando il rapporto tra discente e istituzione agli interessi esclusivi di quest’ultima, intesa essa nel più vasto significato possibile, dalla scuola al mercato del lavoro.

La lotta a livello istituzionale è quindi per motivi di potere, motivi che si riverberano nel complesso della gestione politica, in modo ben più organico del semplice intervento nel settore educativo. Lo scontro, in queste condizioni, è ancora una volta una scusa per misurare forze e contare clienti. La mia riflessione si sviluppa per una via differente. Come anticlericale inveterato, la Chiesa mi mette subito in sospetto, anzi, attira subito la mia attenzione gelosa e perfino irritata. Il prete, per principio, mi fa schifo, come persona, come simbolo e come elemento di un gioco di potere che pongo al medesimo livello del poliziotto. Ma oggi, al di là di questo mio modo di sentire che potrebbe essere non condiviso da molti, si colloca il presente progetto egemonico della Chiesa cattolica. E qui siamo davanti ad un problema differente e più grave.

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* «Il fatto che la navicella del cristianesimo abbia gettato fuori bordo una parte della zavorra giudaica, che sia andata e potuta andare tra i pagani, questo dipende dalla storia di questo unico uomo, di quest’uomo assai tormentato, assai degno di compassione, assai importuno e importuno a se medesimo. Egli soffriva di un’idea fissa, o per esser più chiari, di un problema fisso, sempre presente, che non giungeva mai a pacificarsi, come si metteva con la questione della legge giudaica? e in particolare con l’adempimento di questa legge? In gioventù aveva voluto soddisfarla lui stesso, affamato di quella che è la massima distinzione che gli Ebrei potessero concepire, questo popolo che la fantasia della sublimità etica ha spinto più in alto di qualsiasi altro popolo e a cui soltanto è riuscita la creazione di un Dio santo accanto al pensiero del peccato, inteso come mancanza verso questa santità. Paolo era divenuto il fanatico difensore e la guardia d’onore di questo Dio e della sua legge e contemporaneamente era di continuo in lotta e in agguato contro i suoi trasgressori e i dubbiosi, duro e cattivo verso di loro e incline alla più dura delle pene. Allora egli sperimentò in se stesso che – accanito, sensibile, melanconico, virulento nell’odio com’era – lui stesso non poteva adempiere la legge, e ciò che, anzi, gli pareva più strano, era che la sua esagerata sete di dominio era continuamente stimolata a trasgredirla, e che egli doveva arrendersi continuamente a questo pungolo. È effettivamente la “carne” che continuamente fa di lui un trasgressore? O piuttosto, come egli più tardi sospettò, non è dietro di essa la legge stessa, che continuamente deve dimostrarsi inadempibile e con irresistibile fascino attirare alla trasgressione? Ma allora egli non conosceva ancora questa via d’uscita. Molte cose gli pesavano sulla coscienza – egli accenna a inimicizia, assassinio, magia, idolatria, impudicizia, ubriachezza e piacere di dissolute gozzoviglie – e per quanto cercasse di dar nuovo fiato a questa coscienza, e ancor più alla sua sete di dominio, attraverso l’estremo fanatismo della venerazione e della difesa della legge, sopraggiungevano dei momenti in cui diceva a se stesso: “Tutto è invano! Il martirio dell’inadempimento della legge non può esser superato”. In modo simile deve aver sentito Lutero, quando voleva divenire nel suo convento l’uomo perfetto dell’ideale sacerdotale: e analogamente a Lutero, che un giorno cominciò a odiare l’ideale sacerdote e il papa, e i santi e tutto il clero, di un odio veramente mortale, tanto più grande quanto meno poteva confessarlo a se stesso, – analogamente, dicevamo, accadde a Paolo. La legge era la croce alla quale egli si sentiva inchiodato: quanto l’odiava! quanto rancore gli portava! come andava alla ricerca di un mezzo per annientarla, – non più per adempierla nella sua persona! E alla fine gli balenò il pensiero della salvezza insieme ad una visione, come diversamente non poteva succedere a questo epilettico: a lui, il furente zelante della legge, che dentro di sé ne era infinitamente stanco, apparve su una strada solitaria quel Cristo, raggiante nel volto della luce divina, e Paolo udì queste parole: “Perché mi perseguiti?”. La cosa essenziale che accadde però è che la sua mente divenne improvvisamente chiara; “è irrazionale”, si era detto, “perseguitare proprio questo Cristo! Qui sta la via d’uscita, qui sta, anzi, la vendetta compiuta, qui e in nessun altro luogo io ho e tengo il distruttore della legge!”. Ad un tratto il malato della più tormentata alterigia si senti di nuovo ristabilito, la disperazione morale era come soffiata via, poiché era la morale ad esser soffiata via, annientata, – quindi adempiuta, là sulla croce! Finora quella vergognosa morte era per lui valsa come il principale argomento contro la “messianità” di cui parlavano i discepoli della nuova dottrina: come si metteva però, se questa era necessaria per togliere di mezzo la legge! Le incalcolabili conseguenze di questa ispirazione, di questa soluzione dell’enigma turbinavano davanti al suo sguardo, all’improvviso egli divenne l’uomo più felice della terra, – il destino degli Ebrei, anzi di tutti gli uomini, gli apparve legato a questa ispirazione, a questo attimo del suo repentino balenare; egli possiede il pensiero dei pensieri, la chiave delle chiavi, la luce delle luci; attorno a lui stesso d’ora innanzi ruoterà la storia! Poiché egli è d’ora in avanti il maestro della distruzione della legge! Morire al male – cioè morire anche alla legge; appartenere alla carne – cioè appartenere anche alla legge! Esser divenuti una sola cosa con Cristo – cioè esser divenuti una sola cosa anche con il distruttore della legge; esser morti con lui – cioè esser morti anche alla legge! Perfino se fosse ancora possibile peccare, certo non sarebbe più un peccare contro la legge, “io sono al di fuori di essa”. “Se io adesso volessi di nuovo accettare la legge e sottomettermi a lei, farei di Cristo il complice dei peccato”; se la legge infatti esisteva, perché si peccasse, essa provocava sempre dei peccati, come umori acri provocano la malattia; Dio non avrebbe mai potuto decretare la morte di Cristo, se senza questa morte fosse stato in generale possibile l’adempimento della legge; non solo adesso è stata estirpata ogni colpa, ma è stata annientata la colpa in sé; adesso la legge è morta, adesso è morta la carnalità, in cui essa abita – o almeno muore continuamente, è per così dire in via di decomposizione. Ancora per poco tempo in mezzo a questa decomposizione! – questa è la sorte del cristiano, prima che, divenuto una sola cosa con Cristo, risorga con Cristo, partecipi con Cristo della divina maestà e divenga “figlio di Dio”, come Cristo. – Così l’ebbrezza di Paolo giunge al suo culmine e parimenti l’importunità della sua anima, – con il pensiero del divenir una sola cosa con Cristo essa ha perso ogni vergogna, ogni sottomissione, ogni limite, e la sfrenata volontà della brama di dominio si rivela come un anticipato gustare lo splendore divino. – Questo è il primo cristiano, l’inventore della cristianità! Prima di lui c’erano soltanto alcuni Ebrei settari. –».

(F. Nietzsche, Aurora, I, 68).

Tracce del commento

La rammemorazione è un singolare insieme collettivo che collega mille pensieri diversi detti dalla parola, cioè ridotti a possibilità di essere detti. Ogni sogno di separazione significativa di componenti, per quanto sviluppato, annega nell’autoproduzione della rammemorazione stessa. Non posso operare per separarmi. La semantica di ogni tentativo in questo senso rivela la piccolezza della parola di fronte al suo stesso dire, alla rammemorazione stessa. Non è vero che io posso rammemorare tutto, posso rivolgermi solo alla mia avventura nella qualità, piccola porzione della mia vita, il resto è ricordo di momenti preparatori o materiale di archivio. L’ambizione di pervenire alla domanda fondamentale, rammemorandone le conseguenze di rottura e razionamento della completezza qualitativa, mi colloca nel presente come punto di osservazione privilegiato. Non è accettabile questa considerazione. Non è accettabile il suo contrario speculare. Se la parola rammemora ora, questo ora è nell’attesa del destino che fornirà la risposta, l’unica risposta possibile alla mia attesa. La rammemorazione è quindi proiettata nel futuro, il suo dire è letto da me, e da pochi di buona volontà, ma è nel destino che questo dire sarà comprensibile, nei limiti non della conoscenza scientifica, ma negli amplessi, privi ancora una volta di spazio e di tempo, della intuizione. Il mio cuore verrà coperto dalla possibilità offerta dal destino. La flagellazione di se stessi è miseria e pochezza d’animo, tranne quando le ferite sono follia, solo allora diventa arte inattingibile.

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** «Da qui nascono, nelle loro varie sfumature, le ideologie politiche moderne, il liberalismo e il socialismo. Ciò che le differenzia, è ancora una volta prodotto dall’inserzione della cultura nella sfera politica, in questo caso dalle varie configurazioni di una nuova scienza, l’economia politica. Le scienze della natura, d’altro canto – ma questo Nietzsche non lo vide con chiarezza – sono indirizzate e sottomesse all’utile, che appartiene alla sfera politica, dimenticando l’autonomia e la felicità del puro aspetto conoscitivo, che è della cultura. Tutte queste immistioni della cultura nella politica finiscono per dare un nuovo corso alla politica moderna. Ma questo corso, se è stato messo in movimento dalla cultura, in sé è politico, cosicché la potenza della cultura è fittizia, è la potenza dello schiavo che permette al suo padrone di raggiungere i suoi risultati.

«Quando si dà meno importanza al valore militare, c’è da sospettare un indebolimento dell’istinto politico. Gli uomini non hanno ancora inventato uno strumento migliore delle armi per servire all’istinto politico. Gli Stati che fecero la seconda guerra mondiale per conservare qualcosa non si accorsero, alla fine di essa, che ciò che volevano conservare continuava ad essere minacciato come prima. Essi avrebbero dovuto mantenersi sul piano di guerra, e con un appello al pericolo che era reale, anche tenendo conto del rispetto che dovevano alle loro opinioni pubbliche, avrebbero avuto la possibilità di farlo. Invece la preoccupazione per il benessere materiale dei loro sudditi, per le delizie della pace, che si ritenevano ben meritate, fu più forte di una valutazione reale dei pericoli, che esprime un sano istinto politico. L’odierno sfaldamento degli Stati conservatori ha anche questa causa interna. La Russia, con istinto politico sano, non intraprese la smobilitazione».

(G. Colli, La ragione errabonda, Milano 1982, p. 134).

Tracce del commento

L’aggiramento della volontà è sempre opera di un depistaggio, quindi l’inutilità del labirinto non è nel non avere nulla da mettere sul piatto, ma nel non corrispondere all’utilità progettata e attuata dalla modificazione produttiva. L’inutilità ha un discorso diretto con la cosa, si tratta di rendere questo discorso accessibile quando ogni via è preclusa dal vento sferzante. La cosa è epifania irrevocabile del futuro in quanto propone il passato nella rammemorazione. Racconto quello che la parola mi permette, ma questo permesso è l’intera assunzione del racconto, il puro racconto. Questa assunzione è radice della vita, la strada che viene dentro riflettendo il dire che ricorda, che scandalizza per la sua estrema primizia di contenuto. Inaccettabili alternative si eliminano da sole all’interno di questa età della parola, originarie a metà che rivelano l’elemento che è stato forzato in nuovi assetti perdendo parte della linfa iniziale. La catastrofe dell’uno ricomprende in sé tutti i possibili. Mi nego all’intuizione e riduco la comprensione alla brutale deficienza dei rapporti tautologici, non consento all’inquietudine di farsi strada, ed ecco che non distinguo più il destino da quello che il fare mi prepara immediatamente. Gli istanti si susseguono senza intendersi fra loro, non manifestano le conseguenze che su di loro causa l’assenza, essi sono la mia vita, salvaguardata, custodita e difesa fino a quando la morte non la tronca senza che sia mai riuscita a rendersi conto di vivere. L’annichilimento, che in questo caso posso considerare quasi totale, è l’antitesi della sconfitta di cui ho tanto discusso, ed ha un volto molteplice che può essere quello del borghese soddisfatto e ricco, come pure il volto pustoloso del povero deficiente che muore per fame all’angolo di un vicolo cieco.

Testi

*** «La filosofia hegeliana è, per quanto riguarda la religione, essenzialmente protestante. Chiamo protestantesimo quella forma di religione che fonda la conciliazione fra Dio e l’uomo attraverso la consapevolezza che l’essenza dell’autocoscienza umana ha per proprio contenuto l’autocoscienza divina ed ha perciò la libertà come sua forma. In sé e per sé sarebbe certamente da augurarsi che la filosofia venisse trattata come ogni altra scienza, i cui risultati non riguardano, in quanto tali, né lo Stato, né la Chiesa. Come la matematica non viene considerata responsabile dell’invenzione di una nuova curva, né la zoologia della scoperta di un nuovo animale, né la medicina del ritrovamento di un nuovo metodo operatorio, ecc., così anche la filosofia non dovrebbe essere considerata responsabile per le sue ricerche dallo Stato e dalla Chiesa; questo perché anche la filosofia, in quanto scienza, è autonoma e dipende dalla sua propria necessità. Ma si sa bene quanto poco tale indipendenza venga garantita e come il mondo, quando il discorso cade sulla filosofia, vada subito a cercarvi il colore politico o la confessione a cui appartiene, in modo da poter determinare in conseguenza il proprio interesse pro o contro di essa. Accade così che anche la filosofia hegeliana venga presentata dal punto di vista della sua religiosità e del suo carattere cristiano. Il cardinale segretario di Stato Lambruschini l’ha dichiarata non cristiana; gli arcivescovi anglicani, ricchi di benefizi, ma poveri di sapere, nell’oscurantismo della loro filosofica teologia, dichiarano in grossi libri che essa è una pericolosa riedizione del panteismo braminico; i gerarchi pietisti la dichiarano non cristiana e così via. Eppure essa ha sempre creduto di essere veramente cristiana e di dover quindi combattere fuori di sé molto di non cristiano. Si è riconosciuta nella dottrina protestante e porterà sempre avanti per il protestantesimo l’orifiamma della libertà attraverso 1’autoriconoscimento e la propria volontà dell’eterno vero. Per un certo tempo sembrò che Schelling dovesse assumersi questa missione con maggior successo. Ma presto tale opinione scomparve, in quanto Schelling astraeva troppo dall’elemento etico della vita religiosa e concentrava i suoi sforzi troppo esclusivamente su una certa dogmatica, la cui dottrina della trinità, cristologia e satanologia sono eretiche e il cui concetto della Chiesa è negativo nei confronti di tutte le Chiese esistenti, è cioè un postulato del futuro».

(K. Rosenkranz, Vita di Hegel, tr. it., Firenze 1966, pp. 19-20).

Tracce del commento

La rammemorazione si allarga bene al di là della mia frequentazione dell’assolutamente altro, e dice di accadimenti che ha solo sfiorato intuendoli e non vivendoli fino in fondo, dice di altre intuizioni e di altre sanguinose sofferenze, parla dei soccombenti, di coloro per i quali l’ansia della liberazione mi dettava dentro, ma io non riesco a seguire questa parola e le sue sequenze collettive, torno a me stesso, rifiuto una semantica duttile che produce concetti e modelli anche contro ogni evidenza. Da un frammento sta venendo fuori un universo, mi frastorna questo parto planetario e la sua lessicografia non codificabile perché non tiene da conto un solo referente. Mi immergo nella rammemorazione anche come naufrago, non tengo conto delle categorie ricondotte dalle origini servizievoli della semantica, non mi riguardano i limiti, sia pure temporali o spaziali, di una o cento esperienze possibili. Sono io stesso l’esperienza della qualità e mi scontro con i concetti lessicali che cercano di aggirarmi, di circondarmi, con i loro funzionamenti rigidi e i loro ossequi all’esperienza del frammento. Spezzo ancora una volta le regole e la parola capisce che deve avviarsi su di un altro terreno. La cosa per la cosa cerca di trafugare la sua interiorità, la sua mancanza di rivelazione. Non è un’umile applicazione alla presunta qualità, è il territorio delle difficoltà dove pretendo di avere accesso. La cosa presenta qualità sempre diverse di fronte ai miei tentativi di avere una confessione. Ma il contatto non è mantenuto. Se io cresco con i processi di avvicinamento alla cosa, questa risponde con modulazioni che si riflettono da ogni parte, totalmente, per adeguarsi alle mie insinuazioni. Più avanzo, più la cosa avanza in me, concresce con me, più cerco di misurare questo avanzamento e più regredisce. Le contingenze fanno di certo anch’esse parte dell’uno, senza l’uno non vi può essere mondo. Questo secondo aspetto si collega imperfettamente al primo in quanto si pensa che l’uno sia causa del mondo, invece io sono il produttore del mondo e, attraverso di me, si propone il collegamento con l’uno, altrimenti inaccessibile. Le contingenze potrebbero non essere se io non riuscissi a fare, se l’universo della modificazione scomparisse, me compreso, ma la loro potenzialità caoticamente indeterminata continuerebbe a sussistere nell’uno.

Decima lezione: 13 aprile 1990

Attraverso la polemica sull’ora di religione nelle scuole si vede con chiarezza di che prospettive controriformiste è impastato il progetto medievaleggiante* della nuova cattolicità. L’egemonia culturale che essa vuole imporre, è ricavata da contenuti del passato che fanno ritorno, come assurdi e allucinati fantasmi, pronti a tradursi in interventi concreti nella realtà di tutti i giorni. Ecco in che modo. La Chiesa di oggi non si limita ad una ripresentazione di argomenti del passato, come il peccato, l’inferno, il diavolo, la fede irrazionale, i santi, e non si limita nemmeno più ad una lotta contro tutti i tentativi di uscire fuori da una tutela reazionaria in argomenti di natura personale, come la famiglia, i figli, il divorzio, l’aborto, e così via. Adesso, si propone di andare più avanti, verso quella conquista dell’iniziativa politica che era il sogno del grande periodo gregoriano. Per questo si stanno sviluppando, non al suo interno, che proprio qui si collocano le maggiori debolezze, ma al suo esterno, nel corso stesso della società cosiddetta laica, strutture che agiscono come tentacoli della piovra vaticana. Si tratta di organizzazioni e forze vivissime che si rifanno apertamente agli ideali reazionari che una volta erano patrimonio solo della estrema destra politica. Ideali che discendono direttamente dai massacratori crociati, dai cavalieri teutonici, dai soldati di religione, dallo spirito inquisitorio e gesuitico. Lo scopo non dichiarato, evidentemente, è la riconquista, su scala mondiale dell’antico potere temporale. Non bisogna meravigliarsi per la mancanza di un territorio adeguato all’attuale potenza internazionale che la Chiesa costituisce. Il territorio, per un potere in veloce sviluppo come quello religioso, non è essenziale. Ciò che conta è l’ascendente psicologico, opportunamente sfruttato, il quale si traduce in sostegno materiale di una politica di sfruttamento a livello mondiale, oltre che in un sostegno a tutti i processi di ristrutturazione e razionalizzazione di questo stesso sfruttamento, oggi in corso di sviluppo dappertutto.

In un mondo appiattito come quello in cui viviamo, il ripresentarsi di ideali, sia pure reazionari, costituisce un forte motivo di richiamo, un elemento che sollecita la volontà all’ordine, che consente di coniugare insieme possesso e decoro, onore e mancanza di rischio effettivo. Tutti hanno bisogno di sentirsi partecipi, comuni con gli altri, e tutti sono disposti a sacrificare se stessi in nome di una tranquillità che metta fine al pungolo della responsabilità personale, dell’appello al coinvolgimento, appello che sempre risuona in tutte le vicende della coscienza immediata. In questa subdola gara a chi copre meglio il desiderio di ordine con un’apparente avventura, i laici, col loro pseudo amore per la verità, partono svantaggiati, proprio perché sono loro ad essere nel vago e nell’improbabile, proprio perché sono loro ad indicare possibile una verità da conquistare e mettere da parte, come un capitale in banca.

In un mondo di sfumature sempre più complesse anche l’anticlericalismo tradizionale sclerotizzandosi sta perdendo la sua funzione. Si vengono così ad accatastare fascine ibride, da parte di chi condanna l’opera della Chiesa ma nello stesso tempo considera se non con simpatia, almeno con un certo interesse, alcune attività cosiddette pacifiste, svolte da parte cristiana e religiosa in genere. Nuovi compagni di strada e di lotta. La cosa è tutt’altro che accettabile, l’anticlericalismo deve sapere combattere anche i preti che non indossano la tonaca, anche i preti che si annidano fra di noi, che diventano mallevadori di altri preti e delle loro intenzioni. In caso contrario, la lotta contro il clericalismo diventa un fatto nominale, si ferma all’aspetto esteriore. Ad esempio, non si critica e non si isola il prete operaio perché è differente dagli altri ed è un lavoratore, mentre non ci si accorge che è proprio lui la punta avanzata della lancia nemica, la punta che penetra nel tessuto sociale per strappare consenso ed adesione ai progetti di controllo. Facendo in questo modo l’anticlericalismo da strumento di lotta decade ad asettica palestra in cui si esercitano le doti critiche di qualche benpensante.

Nel laicismo** c’è quindi una componente religiosa, una sorta di cristianesimo latente, chiamato sempre a giustificare un possibile connubio politico. Così l’intenzione analitica, trovandosi improvvisamente povera davanti alle richieste e ai dubbi della completezza, appigliandosi al possibilismo, apre all’eterna contraddizione nemica, al supposto prodotto delle tenebre irrazionali, per scoprirvi se stessa, smembrata e conservata nel medesimo brodo progressivo. L’allegoria della ragione s’incontra con le macerie della fede e insieme producono la copertura della realtà. Allontanatesi per sempre le antiche istanze d’una fede lacerante, quando il mondo sembrava venir meno, oggi questi due movimenti, dapprima contrastanti, si muovono alla ricerca comune d’una forza autonoma interna all’accumulo, capace di sostituire l’antico coraggio.

Si potrebbe affermare, con buona motivazione, che gli uomini non si libereranno mai dell’ipotesi condizionante di Dio se prima non si libereranno della convenzione temporale. Il fatto che posizioni teoriche apparentemente antitetiche, come la teologia e il laicismo progressista, si ricongiungano ineluttabilmente, dipende dalla comune credenza in una forza interna alla storia che procede da una creazione ed è indirizzata ad una conclusione. Il laicismo progressista ha semplicemente sostituito all’idea e alla funzione della provvidenza quella del progresso. Con infinite sfumature, si potrebbero elencare ipotesi teologiche che sconfinano nel progressivismo, ed ipotesi progressiste che partono e concludono in una sorta di teologia laica altrettanto conservatrice di quella classica.

Testi

* «La chiesa cristiana è un’enciclopedia di preistorici culti e intuizioni dalle più svariate origini e perciò è così capace di essere missionaria: essa una volta poteva, e può adesso, giungere ovunque voglia, qui trovava e trova qualcosa di somigliante, cui può adeguarsi e sostituire a poco a poco il suo significato. Non l’elemento cristiano in essa, ma quello pagano-universale delle sue consuetudini è la base della diffusione di questa religione mondiale, i suoi pensieri, che si radicano in un terreno ebraico ed ellenico a un tempo, sin dall’inizio hanno saputo elevarsi al di sopra delle particolarità e delle sottili differenze nazionali e razziali, così come al di sopra dei pregiudizi. Si può pure ammirare la forza di fare crescere insieme, una dentro l’altra, le realtà più disparate; non si dimentichi però la spregevole peculiarità di questa forza, – la sorprendente rozzezza e facilità nel soddisfarsi del suo intelletto, all’epoca della formazione della Chiesa, tale da accontentarsi di ogni cibo e di digerire i contrasti come fossero ciottoli».

(F. Nietzsche, Aurora, I, 70).

Tracce del commento

Se dal lato della parola, la rammemorazione intende stabilire un posto nel mondo all’azione, impegnandosi in una impresa impossibile, dal lato del destino, e della mia attesa, essa contribuisce a fissare meglio il mio posto nel mondo e di fronte al destino stesso. Questo posto è un riconoscimento dell’impronta e di ciò che non può essere a essa accordato, l’intero lavoro di approfondimento dell’architettura rammemorante. La parola è restituita così alla sua caratteristica essenziale di parola, di contatto, che cercando di collegarmi nell’assenza e con l’assenza, mi collega di fatto con il destino, assente anch’esso, ma di cui leggo i segni nel movimento rammemorativo, come gli antichi àuguri li leggevano nel cielo. Ciò è stato possibile grazie al lavoro della rammemorazione che ha parlato della chiusura conclusa dell’azione, anche se non si è potuta penetrare dentro, la solitudine di questo mondo riscontrabile nel frastuono di dolore che emana dal braccio del carcere dove ci troviamo, è diversamente coglibile rifacendomi alla solitudine della cosa, che qui il silenzio non ci sia e lì dilaghi non ha importanza, la morte è il comune contrassegno, e si muore sempre da soli. So che la rammemorazione parla di questa solitudine qui, rifacendosi a quella antica della cosa, ma non mi importa, nella morte che oggi colgo e ascolto con spavento attorno a me, c’è la morte che mi sfiorava come il vento nero della notte, c’è il silenzio del deserto e i fantasmi delle dune in movimento, c’è l’ottusa completezza dell’infinito e la voce strozzata dell’uno che è. Questo lo colgo nel lavoro della parola che così ha abbassato la diversità a condizione quotidiana e l’assenza a presenza, senza che questo movimento sia stato voluto con l’opportuna determinatezza delle decisioni epistemologiche. In effetti, l’assenza non è presenza e mai la riscontrerò in quella presenza che pure avverto abitata da qualcosa d’altro, né la quotidianità riesce mai a riscattarsi della sua condanna alla immediatezza che tutto rinvia a un completamento quantitativo impossibile e controverso. L’equilibrio governa le contraddizioni non la cosa che è al di là di ogni equilibrio, ma le contraddizioni per vivere negano l’equilibrio. Questo può prendere l’aspetto di una possibilità, ma entra allora nel mio destino e, come tale, rimbalza nel mio mondo dove stupidi fantasmi costruiscono precarie maschere di equilibrio per poi farle minacciosamente scoppiare in bolle di sapone.

Testi

** «La più adeguata definizione per esprimere la posizione storica dell’attualismo; è la ricerca dell’immanentizzazione del risorgimentalismo cattolico, condotta con così assoluto rigore da potersi considerare, in quanto ricerca, come definitiva; anche se il risultato contraddice a quel che Gentile aveva pensato.

«Qualcuno potrà dirsi scontento di questa formula; e dire che così viene sminuito il fattore hegeliano; o addirittura pensare che il momento rosminiano-giobertiano rappresenta la parte deteriore del pensiero gentiliano.

«Alla prima obbiezione ho semplicemente da rispondere che la filosofia di Hegel si presentava come definitiva, e quindi rigorosamente chiusa. Perciò poteva dar luogo a due tipi di hegeliani: quello dell’hegeliano ortodosso, in posizione ieratica, o quello del riformatore che necessariamente non poteva che servirsene come strumento per “inverare” qualche altra cosa, non contemplata nella sintesi hegeliana: il pensiero rivoluzionario e il socialismo, Marx; il risorgimentalismo cattolico, Gentile. In questo senso, che ha riguardo alla linea di pensiero che intendeva continuare inverandola attraverso Hegel, si può parlare, per Gentile, di una priorità del rapporto col risorgimentalismo cattolico; e perciò dire che il pensatore primo con cui deve essere messo in rapporto non è Hegel e non è Spaventa, ma è Rosmini: Rosmini piuttosto che Gioberti, perché Gioberti rappresenta già una crisi nel risorgimentalismo cattolico, crisi, a mio giudizio, superata dal Rosmini ultimo. Ma l’asserzione di tale priorità non toglie nulla all’importanza del momento hegeliano, e soltanto serve a difendere il pensiero gentiliano dall’accusa di una provincializzazione dell’hegelismo. In altri tempi, i riformatori dell’hegelismo incontravano la disapprovazione degli hegeliani ortodossi, che li giudicavano “lontani da Hegel”; ora, agli hegeliani ortodossi si sono sostituiti i filologi dell’hegelismo che pronunciano lo stesso giudizio di lontananza.

«Ho detto che l’immanentizzazione del risorgimentalismo cattolico significa la sostituzione del primato della contemplazione col primato dell’azione. Questa la differenza tra Rosmini e Gentile, e probabilmente lo sviluppo del pensiero gentiliano altro non è che una progressiva presa di coscienza di questa sostituzione. Ma, ora, il concetto di tradizione che è essenziale elemento di quello di Risorgimento non include una filosofia del primato della contemplazione, e non è in contraddizione col primato dell’azione?

«Primato della contemplazione altro non vuol significare che la superiorità dell’immutabile sul cangiante; altro non esprime che questo principio metafisico, essenziale alla tradizione cattolica (si potrebbe fare eccezione, e soltanto parzialmente per il volontarismo teologico, ma esso si imparenta piuttosto con la teologia protestante): tutto ciò che è, sotto qualunque modo sia, partecipa necessariamente dei princìpi universali, e nulla è se non per partecipazione a questi principi, che sono le essenze eterne e immutabili contenute nella permanente attualità dell’intelletto divino. Per conseguenza si può dire che tutte le cose, per contingenti che siano in sé stesse, traducano o rappresentino i princìpi alla loro maniera, e secondo il loro ordine di esistenza perché altrimenti non sarebbero che un puro nulla. Dal che si vede come il primato della contemplazione non voglia assolutamente significare, come qualcuno sarebbe forse tentato di pensare, inattività. Quella che forse è la più grande opera di filosofia morale dei tempi moderni, i Princìpi di scienza morale del Rosmini, contenente l’unica espressione dell’etica che sia capace di resistere alla critica sociologica, vale a dire all’annullamento dell’etica, è tale perché appunto si fonda sul primato della contemplazione (dell’ordine ideale che è oggetto della stima speculativa, a cui la stima pratica deve conformarsi). Primato della contemplazione, primato dell’immutabile, e realtà di un ordine eterno sono affermazioni equivalenti che coincidono con la definizione del modello della conoscenza nell’intuizione intellettuale. Il riconoscimento di tale forma di conoscenza fa tutt’uno con la possibilità stessa del pensiero metafisico. La storia della filosofia è lì a dimostrarlo; ogni filosofia del divenire si trova portata a negarsi come metafisica, e non è certo un accidente se la crisi del primato del Logos cominci con l’hegelismo.

«Il primato dell’azione vuol dire interpretazione della vita spirituale come eterno superamento di ciò che è dato; ma questo superamento suppone la sua dissacrazione; e la critica deve essere conseguentemente portata fino alla radice ultima della filosofia del primato della contemplazione, cioè a quel platonismo rispetto a cui anche nell’ultima opera, nella postuma Storia della filosofia. Dalle origini a Platone, Gentile riconferma il suo giudizio: il platonismo è un naturalismo mistico (Opere, X, p. 240). Soprattutto è da domandarsi se il primato dell’azione non porti a una concezione tecnico strumentalistica o espressivistica (della situazione storica) del pensiero; e non si presenti per il suo contenuto stesso in termini di critica assoluta della tradizione. «Onde quella strana unione di attivismo e spirito eversivo, e di tradizionalismo che caratterizza l’attualismo; e che stabilisce il singolare rapporto con quel movimento politico che presenta appunto, pur arrivandoci per un diverso processo, questi stessi caratteri».

(A. Del Noce, L’idea del Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione Gentile per gli Studi filosofici, vol. XIII, Firenze 1971, pp. 98-99).

Tracce del commento

L’avventura nella cosa constata l’esistenza di una condizione diversa, la parola cerca di parlarne nella rammemorazione. Ma ogni approfondimento nella parola e della parola ha un punto di rottura, dovuto all’architettura rammemorante nel suo insieme, oltre il quale la parola è pura mancanza di suono, silenzio a tutti gli effetti. È qui, in questi confini sconosciuti, che l’esplorazione della traccia ha i suoi motivi più fecondi, profondità di livelli del dire e profondità della traccia che circonda l’impronta. L’accostamento rammemorativo procede adesso per strade divergenti, non eterogenee nel senso vero del termine, ma contrastanti, non coordinate. L’assetto primario della parola non sempre si coordina con quello del livello più profondo, da qui una maggiore difficoltà di approccio. L’accesso al livello più profondo è molto dissimulato e a volte, insistendo nella forzatura rammemorativa, si cancellano alcune tracce che non accettano questa visita retrospettiva. Ammettere questo rischio di cancellazione significa non avviare l’ipotesi di accomodamento fenomenologico, qualcosa resta sempre e questo qualcosa mi basta. Non è questione di ciò che posso rendere utile nel campo, con una spudorata operazione a posteriori, è quello che la rammemorazione mi dice e come tento di preservare la sua opera in maniera tanto più decisa quanto più il rischio di cancellazione si fa evidente. Una enorme sollecitazione mi è indirizzata come processo di rivelazione di ciò che sono, un dire a me stesso quello che ora non voglio correre il rischio di ammettere. Eppure quelle parole, senza darlo a intendere in maniera netta, denudano in me, ascoltatore esterrefatto, quello che ho acquisito per sempre o da cui sono stato acquisito per sempre, il problema è in parte in questa diversa impostazione biunivoca. Il contrasto che mi inquieta viene dalla mia testarda ricerca del completamento. L’acquisizione è quindi guerra con il dato che voglio conquistare ma che non si può armonizzare mai nel tutto. Qui non regna la contesa e l’ingiustizia. Nel mondo, al contrario, il continuo aggiungersi non mi dà pace, rinvio sempre la posta e permango inquieto.

Undicesima lezione: 18 aprile 1990

Il progresso è oggi la religione degli uomini di cultura laica, ed è una religione che, dopo quasi trecento anni di lotte più o meno coscienti, ha ormai conquistato il potere, invadendo anche il campo dell’avversario e consegnando a quest’ultimo molte delle armi critiche che aveva elaborate solo per sviluppare la propria lotta. La teologia ne ha tratto giovamento, se non altro per adeguarsi alla razionalità dilagante, ma avendo l’intelligenza di ogni elaborazione filosofica, la quale non lascia mai del tutto tagliati i ponti dietro di sé. L’antica anima agostiniana* sopravvive accanto al rinnovato e ammodernato tomismo** . Così l’antico nemico recupera il progresso e questo s’invera ancora più profondamente, cioè come strumento di potere, nella teologia. Il punto d’incontro e di reciproco interesse, è quello d’individuare una forza superiore all’uomo, agente nella storia, e di litigare poi su come chiamarla, lite adesso abbastanza trascurabile, essendo trasferita di peso nel problema, non più nominale ma sostanziale, di come gestirla ai fini del dominio del mondo.

Il quadro dell’accumulo può anche essere disegnato da un pennello pessimista, ottenendo il tessuto di assurdità specifico di Goethe***. Un’immensa quantità di torrenti, continuava il poeta tedesco, e di fiumi che per loro necessità naturale confluiscono insieme precipitando da molte valli e provocando la fine di un grande fiume e un’inondazione dove trovano la morte sia chi l’aveva prevista come chi non aveva avuto sospetto alcuno. Lo specchio che qui riflette l’immagine di fondo è quello del dispiegamento della realtà, l’assoluta mancanza di senso e l’inutilità delle previsioni razionali. Anche esaminando tutti i contenuti, si troverebbe piuttosto una generale condizione di difficoltà, di miseria, piuttosto che uno sviluppo regolare verso un avvenire migliore, e questa miseria non potrebbe modificarsi in qualcosa di meglio per il semplice fatto di essere conosciuta, anche perché di per sé si tratta di qualcosa conosciuta da sempre, fin da quando l’impianto effettuale ha cominciato a funzionare nella sua totale e piena efficacia.

Queste considerazioni pessimiste sorgono spontaneamente dalla semplice presenza della riflessione temporale e storica. Se il pensiero di Goethe concludeva per una inutilità di ogni approfondimento dei contenuti, in quanto non si sarebbe trovato altro che uomini preoccupati e angosciati, che si tormentano e torturano reciprocamente, rendendosi difficile quel poco di vita a loro disposizione, incapaci di godere la bellezza del mondo e la dolcezza dell’esistenza, con una piccolissima minoranza di privilegiati per i quali la vita è comoda e piacevole, il pensiero hegeliano da un’analisi altrettanto pessimista concludeva provvisoriamente per un unico insegnamento, la categoria della modificazione.

Ma questo pensiero non si acquietava in ciò, in base alle proprie premesse metodologiche, impiantava subito un riferimento alla nascita di una nuova vita attraverso la morte. Dal negativo sorge il positivo. Nella storia opera quindi questa grande forza sotterranea e dialettica, capace di impiegare la morte, e il nulla, come elementi della futura costruzione dell’essere. La riflessione hegeliana si chiede a vantaggio di chi e con quale scopo siano stati compiuti tutti questi massacri, questi sacrifici, sia stato innalzato questo grande mattatoio, distrutta la fortuna dei popoli, la sapienza degli Stati e la virtù degli individui. Torna così, e con grande apparato teorico, la richiesta intorno alla forza interna capace di dar conto dell’accumulo, una spiegazione finalistica. Ma non si tratta del mutamento conosciuto dal pensiero orientale, un risorgere della fenice dalle sue stesse ceneri, si tratta di un mutamento che attraverso la morte ritrova qualcosa di differente, di accresciuto e di trasfigurato.

Testi

* «Per conseguenza, tutte le cose che sono, sono buone; e quanto al male di cui io cercavo donde provenisse, non è una sostanza, perché se fosse sostanza sarebbe un bene. Infatti o sarebbe una sostanza incorruttibile, come a dire un grande bene, o sarebbe una sostanza corruttibile, la quale, se non fosse buona, non potrebbe essere corruttibile. Pertanto dovetti riconoscere e mi apparve evidente che tu hai fatto buone tutte le cose e che non vi sono sostanze che tu non abbia creato. Ma poiché tu non hai fatto tutte le cose uguali, pertanto tutte le cose esistono in quanto una per una sono buone e tutte nel loro insieme sono sommamente buone, poiché il Dio nostro “tutte le cose fece sommamente buone” (Gen. I, 31)».

(Agostino, Le confessioni, VII, 12).

Tracce del commento

Solo nella fase in cui la mia risposta alla domanda fondamentale, tutto qui? è negativa, ne viene fuori la prospettiva, tutta da costruire, della rammemorazione. Il pensiero torna a dominare la scena, ma sensibilizzato adesso dall’avventura nella cosa. La parola, che prima era ancella della conoscenza, ora diventa protagonista, nella modificazione e nella immediatezza, per ricostruire l’azione, per fronteggiare tutti i movimenti di sensibilizzazione che ne derivano, per dare voce al silenzio. Nella prima fase può esserci un risentimento negli oggetti del pensiero, nella loro concretezza, una visione del mondo aggressiva, una individuazione urgente del nemico, nella rammemorazione tutto ritorna dentro di me, il destino è con me che parla, e sono io che debbo ascoltare da saggio se voglio che la parola dica quello che non può essere detto.

Testi

** «L’esistenza di Dio si può dimostrare per cinque vie. La prima e più evidente via è quella che si desume dal movimento. È necessario giungere a un primo motore che da null’altro sia mosso: e per questo primo motore tutti intendono Dio. La seconda via è quella che si desume dalla natura della causa efficiente. È necessario porre una causa efficiente prima: che tutti chiamano Dio. La terza via è desunta dal rapporto tra ciò che è possibile e ciò che è necessario. È necessario porre qualcosa che sia necessario per sè, che non abbia in altro la causa della sua necessità, ma che sia la causa della necessità nelle altre cose: e questo tutti dicono che è Dio. La quarta via si desume dai gradi che si ritrovano nelle cose. Vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell’esistenza e della bontà e di qualsiasi perfezione: e questo qualcosa è Dio. La quinta via si desume dal governo delle cose. Vi è un essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine; e questo essere è Dio».

(Tommaso, Summa Theologica, Parte prima, Quaestio 2, Articolo 3: I q. 2 a. 3).

Tracce del commento

La presenza conoscitiva lavora quasi sempre sulla pressione dell’accumulo cercando di adeguare quest’ultimo alle possibilità di dire della parola, in modo da evitare che l’aspetto non faccia fiorire le possibilità del dire soltanto ma anche l’apertura della parola nelle sue varie profondità dei diversi livelli. La conoscenza ama la parola in maniera disinteressata, non è né il suo scopo né il suo strumento, ma si sviluppa nella coscienza immediata e lo stesso accumulo è conservato dalla parola ma non ne approfondisce le possibilità. Nell’accumulo la parola funge da supporto di conservazione. La quantità e la qualità non possono considerarsi due entità distinte, razionalizzate in modo netto. Che vengano chiamate in modo diverso non inganna nessuno in quanto tutti i tentativi di dare vita a una maggiore precisazione dell’una va a scapito dell’altra. Ma non bisogna dimenticare che non c’è precisazione possibile se non nel campo. Dovendo partire da quest’ultimo punto, la quantità fagocita la qualità cercando di darle corpo e consistenza in termini di accumulo.

Testi

*** «Ora la scissione di una stessa vita spirituale in due sfere così nettamente disgiunte e indipendenti l’una dall’altra, da potersi caratterizzare l’una in senso antitetico all’altra, appare inammissibile. Se il genio ellenico si debba considerare così caratterizzato dal senso della misura e dall’esigenza del limite nel campo dell’intuizione, della valutazione e dell’espressione artistica, da aver preclusa ogni comprensione estetica dell’infinito, non può questo medesimo genio esser caratterizzato nel campo del pensiero dal bisogno di superare ogni limite e dalla creazione del concetto dell’infinito. Non può darsi creazione di un concetto, ove manchi l’interesse e l’attrazione per esso; non può darsi quindi comprensione intellettuale dell’infinito, disgiunta da qualsiasi comprensione estetica; e non può essere “precisamente greco” il concetto dell’infinito, ed esserne assolutamente “non greco” il sentimento. Il genio di un popolo o di un’epoca non si può dividere in compartimenti, che abbiano l’uno caratteri ed orientamenti antitetici all’altro: l’unità organica di ogni spirito imprime il proprio timbro, quale che sia, a tutte le forme e sfere della propria attività; non può avere un timbro diverso per ogni casella.

«Potrà bensì, da popolo a popolo, da età ad età, da classe a classe, da corrente a corrente, da individuo ad individuo esso genio presentarsi con tendenze divergenti ed in lotta fra loro, potrà pure in uno stesso popolo, in una stessa età o classe o corrente, o in uno stesso individuo essere travaglio e conflitto di forze ed esigenze opposte; ma questa sua condizione di armonia o di contrasto si ripercoterà in tutti gli ordini della sua azione e manifestazione. Non si avrà un carattere diverso per ogni zona, quasi che se ne distribuisca il dominio fra vari spiriti separati e senza rapporto reciproco.

«Sotto questo rispetto, della comunanza di caratteri tra le varie espressioni di uno stesso spirito, aveva un lato di verità quella concezione di maniera del genio ellenico, da cui deriva il pregiudizio, che pure il Frank giustamente combatte: concezione che, sotto il nome di classicismo o neoumanismo, si diffuse sul finire del secolo XVIII per l’impulso del Lessing e del Winckelmann; e poi, sotto l’egida dell’autorità del Goethe e dello Schiller e con la cooperazione di tutto il movimento preromantico, si rese dominante per quasi tutto il corso del secolo XIX. Nella sua esaltazione del genio greco dell’età classica, questa rappresentazione vedeva caratterizzate da un puro ideale di chiara bellezza e luminosità, di composta serenità plastica, di armonia, di misura e di proporzione, tutte le espressioni e creazioni dello spirito ellenico: la religione e l’arte, la vita pratica e quella del pensiero. Sempre e in tutto uno stesso timbro si sarebbe tipicamente impresso, senza scissioni e antitesi assurde fra la vita intellettuale scientifica e la vita estetica ed etica, fra la concezione e la valutazione.

«L’errore stava nel non vedere la molteplicità delle tendenze, degli orientamenti, delle esigenze, che nella storia spirituale dei Greci si son fatte valere in ogni campo dell’azione, ed hanno formato la straordinaria poliedricità e vivacità del genio ellenico: ma giusto era il criterio di attribuire all’unità di uno stesso spirito l’attitudine ad imprimere il proprio suggello (armonico o disarmonico, uniforme o multiforme) su tutti gli ordini delle sue manifestazioni.

«E questa medesima unità, della vita spirituale e del suo caratterizzamento, si è tenuta di mira poi nella revisione critica della rappresentazione di maniera del classicismo: revisione compiutasi nella seconda metà del secolo XIX e nei primi decenni del secolo XX, in conseguenza sia dell’intensificato rigore degli studi storici, sia, in parte, di quell’indirizzo di ricerca, potentemente stimolato anche dall’influsso del Nietzsche, che si è rivolto a dare particolare rilievo ai lati oscuri (Nachtseite) dello spirito greco. Le luci come le ombre, le antitesi e le contraddizioni non si sono attribuite ad una sfera sì e all’altra no di quella vita spirituale; ma a tutta quanta la vita stessa nel suo complesso, nella unità essenziale delle sue multiformi manifestazioni e dei suoi molteplici aspetti. Le distinzioni e i contrasti, che ne son stati messi in luce, sono di correnti o di età diverse, non di terreni o sfere di manifestazioni di una stessa corrente, di una stessa età, di uno stesso spirito».

(R. Mondolfo, L’infinito nel pensiero dell’antichità classica, Firenze 1956, pp. 8-9).

Tracce del commento

Sono in grado di proiettare dentro di me, nell’asse della mia immediatezza, la conoscenza, farne un elemento della mia interiorità, o essa deve restare ornamento esteriore, possesso esternato perché altri la possa valutare e intimorirsene? Se azzero lo scopo esteriore, tutto estraneo a me stesso e diretto agli altri e alla impressione che gli altri hanno di me, mi ritrovo in una condizione di lavorare attorno a quell’asse a cui facevo riferimento, la conoscenza non è più per me un fatto esteriore ma un elemento del mio cuore, dei miei sentimenti, che si affinano e si rendono pronti a ricevere l’impatto con l’oltrepassamento. Questo processo non fa altro che mettere da parte il possesso e accedere a una concezione differente della conoscenza che può agire così diversamente sulla parola. Le apparenze, fonte essenziale delle antiche inquietudini e destino dei maggiori sforzi, tenderanno a scomparire, sostituite da una nuova stabilità. Questa condizione non è quella del territorio della cosa, a cui non ho ancora accesso o da cui sono tornato indietro mantenendo una vaga memoria da rammemorare, ma proprio della immediatezza, cioè della condizione produttiva stessa del mondo da me creato. Il coraggio lo si costruisce qui, pezzo per pezzo, con l’esercizio dell’animo, non lo si trova per strada, come regalo per la giusta scelta compiuta. Io dico il tutto nel mio sentirmi tutto, anche se poi questo dire è quello che il mio dire riesce a dire. Sono io quel che dico, il mio accento siciliano, la mia faccia che esprime nella specificità la non separazione. Lo stesso genere di difficoltà, ma molto meno evidente, l’ho quando cerco di fissare in modo determinato la specificità.

Dodicesima lezione: 21 aprile 1990

Il meccanismo di Hegel* pretende quindi che il contenuto della storia ritrovi se stesso, attraverso il proprio distruggersi, in modo e in gradi sempre più elevati di completamento. Il mito della completezza dell’accumulo, nel pensiero hegeliano, riceve una delle sue massime sistemazioni in quanto presuppone una serie di passaggi, ben determinati, attraverso i quali si realizza non una completezza per sedimentazione, ma una completezza attraverso la trasformazione. La vicenda narrata dialetticamente è quella della ragione e della sua capacità non solo di spiegare il mondo analiticamente, ma anche di realizzarlo nella sua potenzialità attuale portandolo fino alla sua piena coscienza di sé. Il progressivismo, nella sua massima espressione storica, realizza una delle costruzioni più autoritarie in quanto riesce a collegare insieme il pensiero laico e il pensiero teologico. L’antica fede, non più adeguata alle condizioni del mondo che sta industrializzandosi, viene così calata in una costruzione filosofica capace di spiegare il corso della storia umana da un punto di vista laico, però con il medesimo procedimento impiegato dalla teologia.

Molti aspetti di questo pensiero sono ancora fra noi e di alcuni di essi abbiamo di già parlato. Mi pare importante ricordare qui il concetto di nascondimento, anch’esso di origine teologica, utilizzato dal pensiero laico per chiamare ad un impegno nei confronti della realtà in quanto questa non rivela facilmente le proprie intenzioni. Occorre quindi saperla interrogare, occorre saper leggere la storia, i fatti e lo spirito del tempo, anche quando questi si inverano in singoli individui capaci di rappresentarli. Questo principio non è molto diverso da quello teologico, sia per quel che concerne la imperscrutabilità degli intendimenti divini, sia per il loro rivelarsi nelle cose del mondo.

L’impossibilità di fissare una relazione quantitativa tra la coscienza immediata e l’accumulo, problema che sperimentiamo continuamente, ha richiesto diverse formulazioni dirette a trovare una soluzione che tenesse conto di questa presunta forza interna all’accumulo stesso, la quale se non poteva essere conosciuta dall’immediatezza poteva però non solo conoscerla ma anche guidarla senza che la stessa se ne accorgesse. Si tratta di una versione differente degli effetti presunti dell’accumulo, cui viene così attribuita la possibilità di giocare d’astuzia con l’immediatezza coinvolgendola in comportamenti che quest’ultima non vorrebbe prendere e di cui in fondo non conosce tutta la portata.

L’ipotesi di una logica interna all’accumulo ha difatti bisogno di una corrispondenza interna all’insieme dei comportamenti della coscienza. La coordinazione di questi due movimenti diventa tanto più stretta e indispensabile, quindi tanto più lontana da una concezione relazionale, quanto più si afferma questa forza sconosciuta capace di regolare secondo un meccanismo e un finalismo precisi, tutta l’accumulazione. La coscienza viene quindi rinchiusa con maggiore rigidità all’interno dell’immediatezza, con una serie di tipologie di comportamento, in relazione proprio alle ipotesi a cui, contestualmente, viene ridotto il meccanismo accumulativo. L’uomo viene schiacciato nel comportamento massificato**, dopo che l’accumulo è stato interpretato come movimento capace di esprimere una coscienza collettiva, cosa quest’ultima come sappiamo del tutto impossibile.

L’inserimento della coscienza all’interno di astrazioni differenti è sempre in rapporto a corrispondenti astrazioni presupposte nell’accumulo, i discorsi sull’uomo economico, sul cittadino democratico, sull’individuo libero, sull’aristocratico, il borghese, il proletario e così via, corrispondono ad astrazioni economiche, politiche, sociali, e così via. Nell’ambito delle convenzioni di campo alcune di queste astrazioni possono essere anche utili, nella organizzazione economica del capitale, così come è stata pensata dai detentori della maggior parte della ricchezza, ed anche nella organizzazione della lotta politica e sociale, ma non si può da questo affermare che da determinati comportamenti, cioè da una fattività abbastanza circoscritta, quale potrebbe essere l’adeguatezza ad una certa classe, il modo di fare classista, si possa dedurre la totalità della coscienza in tutti i suoi aspetti per poi pervenire ad identificare un percorso obbligato all’interno dell’accumulo.

I conflitti sociali, ben visibili e concreti, non ammettono interpretazioni del genere, per altro rese necessarie dal bisogno di irreggimentare la gente, prevedendo non solo i comportamenti futuri ma anche gli sbocchi automatici dell’intera formazione sociale, cioè il riflesso di campo dell’accumulo. Lo scioglimento di questo rapporto avrebbe come conseguenza il duplice risultato di allargare le possibilità di movimento della coscienza e di approfondire la comprensione dell’accumulo. Quest’ultimo verrebbe così ad essere inquadrato come meccanismo di conservazione, mentre le sue riorganizzazioni apparirebbero come specifici movimenti modificativi, capaci di realizzare strutture sufficientemente rigide da poter essere specificate, sempre tenendo conto delle condizioni relazionali. La rigidità del concetto di classe, così come è stato impostato dal materialismo dialettico, aveva due risultati negativi, da un lato costringeva ad un’interpretazione riduttiva di tutti i movimenti della coscienza immediata che non rientravano direttamente in quel concetto, dall’altro inseriva all’interno dell’accumulo un processo deterministico***, moderno sostituto dell’antica azione della provvidenza.

Il procedimento produttivo attraverso il fare coatto modifica continuamente l’oggettualità presentandola come la matrice comune degli oggetti prodotti, coscienza immediata compresa. Ciò attutisce di certo la componente costituita dal versante oggettivo, cioè tutto quello che la coscienza non ha ancora scoperto di se stessa e, per il fatto stesso di non averlo ancora scoperto, non lo ha neanche catalogato. L’oggettualità del fare coatto fornisce mille occasioni di dissolvimento nella massa oggettuale, e di riciclaggio nelle differenti vesti tipologiche della riorganizzazione sociale sulla base delle convenzioni di campo. Il nemico di questa condizione circolare di produzione e consumo è certamente la diversità, non perché questa rompa il rapporto tra coscienza e realtà, ma perché lo pone in una diversa prospettiva.

La coscienza assume così le vesti dell’eroina classica destinata al sacrificio a causa d’un fato ineludibile, senza dubbio la lotta di questo personaggio può anche essere considerevole, ma è di già preventivamente destinata verso un fine preciso, per quanto vasti e complessi possano essere i meandri dell’effettualità modificativa, in questo modo tutti sembrano condurre verso una prospettiva sclerotizzata, la quale solo ad una prima analisi sembra vasta e incomprensibile, mentre in sostanza non fa altro che presentare sempre lo stesso prodotto, continuamente riciclato. Eppure, in questa lettura chiaramente precostituita non si riesce ad escludere il rischio dell’inquietudine, ogni rassicurante pretesa determinista finisce prima o poi per vestirsi a lutto.

Il fare coatto persegue una libertà apparente che non è altro che un residuo, un valore di campo. Come ogni altra qualità reperibile all’interno dell’oggettualità, questa libertà è equivoca e contribuisce a fissare la rigidità del movimento produttivo dell’oggetto. Ma si tratta di un indirizzo strutturale che si sviluppa a partire proprio dalla fattività modificativa e che non segue un modello di già precostituito all’interno dell’accumulo. La volontà è circoscritta e piena di problemi, nel suo volere persegue le condizioni della fattività, quindi ripresenta i limiti e le caratteristiche dell’oggettualità, ma non può rappresentare un finalismo che non esiste in nessun movimento, neanche nel proprio circoscritto modo di porsi di fronte alla modificazione.

Se l’intento specifico dell’immediatezza è circoscritto, ciò dipende dalla sua appartenenza totale all’ambito modificativo, non dall’esistenza d’uno scopo universale che impedisce alla volontà di immediatizzare tutta la realtà. Nella volontà c’è quindi un forte elemento limitante, ma questo è dato dalla composizione oggettuale stessa, non da un destino segnato nel processo generale dell’accumulo. Noi siamo prigionieri, questo è vero, siamo prigionieri delle condizioni che ci rendono significativi, che ci consentono di esprimerci, di lavorare, di fare, ma non siamo prigionieri delle condizioni, pur esse esistenti, che ci permettono di agire. Al contrario, queste ultime condizioni, sempre effettuali, dobbiamo conquistarcele rompendo alcuni aspetti della nostra prigionia. Ora, se siano o meno in grado di portare a compimento questa evasione dalla prigionia, non sta scritto da nessuna parte, la possibilità deriva da un insieme di movimenti che nella sua gran parte risulta del tutto imprevedibile.

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* «Nell’Ottocento si poteva immaginare, in tutta serietà, una fine della storia, e quindi il salto dal tempo storico all’eternità senza tempo: la repubblica degli scienziati o il regno della ragione, il compimento dello Stato o il regno dell’eticità, il comunismo o il regno della libertà. In queste concezioni teleologiche era ancora vivo il sogno o il mito metafisico di una conciliazione definitiva, in cui sarebbero stati soppressi gli erramenti e le vicissitudini della storia, come l’alienazione dello spirito da se stesso, le peregrinazioni dell’umanità nelle tenebre dell’ignoranza e la lotta di classe. Ma, a partire dalla seconda metà del secolo XIX, questo sogno veniva screditato o confutato. E ciò non solo ad opera della critica tardo-romantica, antimoderna o scettica, contemporanea al trionfo delle filosofie della storia (si pensi solo ad autori come Baudelaire, Taine, Ruskin o Burckhardt), ma soprattutto di quella distruttiva degli eredi ribelli della grande tradizione umanistica culminata nel sistema hegeliano».

(A. Dal Lago, “L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut” n. 222, 1987, pp. 4-5).

Tracce del commento

Vigile come sono non riesco a intorpidirmi, neanche a immaginare una condizione che del rifiuto faccia promessa di futuro agire. Ogni stralunata coabitazione è da me subordinata alla solitudine, al discorso fatto a me stesso, che qui propongo nel carcere di Bergamo. La rammemorazione non rappresenta, si muove libera intorno alla forma di una esperienza che non ha interesse a riprodurre o imitare. Non può, anche volendo, nemmeno riprodurre armonia o consonanza totali, che nel mondo del fare sarebbero misure e corrispondenze, se fa ciò, se cade in questo equivoco, il suo lavoro non è altro che banale esercitazione retorica. Il disporre processi produttivi non manifesta armonia e quindi non conclude l’itinerario degli assetti nella completezza, si muove semplicemente modificando. Gli oggetti sono nulla separati dalla qualità, eppure il meccanismo della separazione li struttura sotto i miei occhi, li produce nella più totale differenza. Il fare sta in questa differenza che potrebbe trovare il proprio completamento nella indifferenza della cosa. La tragedia riproduttiva del fare sta in questo suo apparire che non appena si concretizza si dissolve. Non ci sono processi complessi o talmente indeterminati da sembrare liberi che possano ritardare questo continuo e inarrestabile dissolversi. Ci sono solo apparenze che si atteggiano a consistenti realtà.

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** «Il sospiro di sollievo dalla pressione del capitalismo lo si può constatare in maniera non meno evidente nella situazione del rapporto interno dell’attività della cultura spirituale rispetto alla società che persegue il guadagno. Dal punto di vista contenutistico le guide del movimento spirituale sono comunque d’accordo nel dichiarare questo elemento negativo, il fatto cioè che mondo e anima non sono macchine complicate – sia con o senza “soggetti” calcolanti – bensì che le immagini del mondo della filosofia contemporanea erano, nel loro nucleo, soltanto proiezioni utili delle occupazioni borghesi su di un mondo che può darsi, con una pienezza di qualità e con una vivacità infinite, di fronte agli occhi giovani e pieni di stupore di coloro che osano donarsi a esso, in maniera pia e umile, al di là degli scopi utilitaristici dei borghesi. Dal punto di vista sociologico, però, i poeti, gli artisti, gli scienziati divengono poco alla volta sempre più consapevoli della forma inconsapevole di schiavizzazione rispetto al gusto borghese cui essi erano sottomessi nella scelta della materia, nello stile, nella forma espositiva ovvero nei metodi del pensiero e dell’osservazione (sia seguendo questo gusto e questa disposizione del tipo borghese, sia essendo semplicemente in contrasto con esso: il che tradisce una forma di dipendenza non minore), per il fatto che vivevano nella sua cerchia e si lasciavano da esso alimentare – ovvero all’interno delle istituzioni statali della cultura, che il tipo tiene in pugno. Umilmente imparano che non vi è nessuno spirito e nessuna coscienza morale così forti e liberi da non piegarsi in qualche modo (e questo è doppiamente grave quando avviene di nascosto e inconsapevolmente) di fronte allo spirito di coloro che nutrono il suo corpo. E i più coraggiosi ne ricavano le conseguenze: I assioma: come io, in quanto produttore di una qualche opera di cultura spirituale, non devo nulla alla società economica, così essa non mi deve nulla per quello che io produco; II assioma: poiché io sono indipendente da questa produzione ma sono membro, per l’appunto, di questa società economica, ho il dovere di nutrirmi, onestamente, in una maniera parallela rispetto alla mia attività culturale.

«So benissimo che le vie, numerosissime, della realizzazione tecnica di questi “assiomi”, in parte non sono ancora battute, ma in parte sono ancora poco aperte... Ma so che però questi assiomi bruciano come fuoco nascosto sono le ceneri nelle anime della gioventù culturalmente attiva, e so anche che questo fuoco creerà anche la sua volontà e la sua forza. Dopo lo stupefacente modello etico di un’indipendenza interiore e ultima dal capitalismo, che Stefan George e la sua cerchia hanno offerto per primi in un tempo in cui i rapporti esterni erano molto più sfavorevoli di oggi – noi, che manteniamo le nostre distanze rispetto a questa cerchia, non parliamo qui della sua arte – si costituiscono attualmente, nell’arte e nella scienza, tutta una serie di simili formazioni comunitarie, messe insieme dagli atteggiamenti spirituali fondamentali di forti personalità, nelle quali silenziosamente e senza baccano si va formando questa nuova inclinazione culturale. Dovranno tenersi lontane, ancora per molto tempo, dagli istinti ufficiali e pubblici dediti alla tutela della cultura spirituale – per quanto possano essere amichevoli i rapporti con persone che di essi fanno parte – finché non può far lievitare la loro essenza e il loro spirito anche in essi. Da tali minoranze apartitiche, che respingono già rigorosamente le categorie classificatorie dell’odierno plebeismo ufficiale della cultura, oltre che il mondo massificato e da rotocalchi che vi si collega necessariamente come “elemento negativo”, vi è da attendersi, per il vero superamento del capitalismo in quanto sistema di cultura, molto di più che non da tutte le lotte che hanno luogo all’interno delle formazioni di qualche partito politico e gruppo di interessi, i quali anzi, tutti, stretti dall’ethos del capitalismo, tanto meno notano questo dato di fatto, quanto più selvaggiamente si colpiscono l’un l’altro!

«Se non ci sbagliamo, anche la cosiddetta “marcia trionfale del capitalismo per il mondo”, che fino a poco tempo fa ha fatto vagheggiare a qualche outsider la luna, e che anzi ci ha condotti al gesto di “guardare” dietro il globo – nell’eventualità che vi fosse ancora un angolino di terra pulito, che la plebe borghese non avesse ancora sporcato – comincia a trovare il suo limite».

(M. Scheler, Lo spirito del capitalismo, Napoli 1988, pp. 108-110).

Tracce del commento

Partire dalle tracce dell’azione, che in genere circondano la zona di radicamento dell’impronta, è ritenere valide due ipotesi, che esse contengano o rappresentino una intensificazione dell’agire che si vuole rammemorare, oppure che stiano per scomparire, dimenticate e messe da parte dalla preminenza inaccessibile dell’impronta avvinghiata all’interno del cuore. Il punto è che queste tracce sono considerate elementi del campo, presenza quindi di un’assenza che nel campo non c’è, insomma dei residui, dei valori, sui quali si può costruire con la parola una rappresentazione dell’assenza. Una indagine fenomenologica del passato sarebbe legittima, non una rammemorazione, questa divora le tracce e le ripropone all’interno della propria architettura come una lunga deviazione che presto abbandonerà ogni pretesa di rappresentare l’assenza in proprio. Dire sull’assenza è operare sulla presenza, quindi anche sulle tracce, ma senza individuare un luogo guida, un referente primo messo in campo come se fosse una sostanza. Il sermone e le sue eleganze, tutto finito. Penso se la stessero facendo addosso dalla paura mentre qualcuno all’insaputa preparava per loro un balcone da cui affacciarsi sull’inferno.

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*** «Vogliamo intendere il pensiero di una persona? Non le si può certo voltare le spalle: ma bisogna starle innanzi, potendo, ad ascoltarla attentamente, e cercare di mettersi nelle condizioni del suo spirito, e intenderne sopra tutto il linguaggio. Se un’opposizione questo canone di metodo ha suscitato, l’ha potuto suscitare non per quello che esso ha affermato, ma per quello che con taluni ha negato: non perché filologia, ma perché filologismo. La storia dev’essere deterministica: deve mostrare di ogni sistema gli antecedenti non solo filosofici, ma religiosi, artistici, sociali, che concorsero a formare e atteggiare in un certo modo la mentalità del filosofo: senza di che il sistema filosofico diventa uno schema astratto, falso perché non corrisponde al prodotto storico reale, che si vuol rappresentare. Il filosofo, anche quando sta filosofando, non cessa di essere una determinata personalità storica, che ha una determinata biografia. Conoscerne la filosofia, è conoscere la sua mente, conoscer lui come ha vissuto spiritualmente, e quindi anche materialmente, nel suo tempo, nella sua città o nazione, nel suo mondo. Altra esigenza giustissima, che non saremo noi a combattere, dopo aver additato il carattere della filosofia moderna nell’unità del divino e dell’umano, dell’eterno e del temporaneo; e aver quindi annodato il processo dello spirito universale alla condizionalità storica degli spiriti in cui esso si viene realizzando. La storia dev’essere oggettiva. La valutazione cioè deve prescindere da una forma prestabilita, non derivante dallo stesso processo storico della filosofia. E anche questo è vero; perché se la filosofia è la stessa vita storica della filosofia, se il diritto della filosofia è lo stesso fatto, un giudizio che parta da una filosofia contrapposta a quella che la storia ci dà, è un giudizio antifilosofico per eccellenza. D’altra parte, se nella storia della filosofia non ci fosse quella logica, di cui i filologisti s’adombrano, la filosofia non ci sarebbe, e tanto meno quindi potrebbe esserci la sua storia. Ogni sistema avrebbe la sua logica speciale, la logica del suo autore; ci sarebbero cento logiche, cento ragioni, ma non ci sarebbe la logica, la ragione, che è l’organo della filosofia. Presupposto smentito coi fatti dagli stessi filologisti estremi, il cui campo prediletto d’investigazione è la filosofia presocratica, di cui più scarsi, oscuri, incerti sono i documenti, e più abbondante perciò la quantità dei problemi strettamente filologici. E che fanno i filologisti? Costruiscono e ricostruiscono sempre la sistemazione probabile del pensiero dei singoli presocratici, supplendo a volta a volta da punti di vista diversi le lacune dei documenti col lavoro della logica: metodo ingiustificabile altrimenti che col concetto dell’unità della ragione. Certo, la logica è sempre una logica determinata: e la logica dello storico della filosofia dev’essere quella che realmente venne operando nel tempo. Ma questa logica ci dev’essere: e lo storico allora avrà assolto il proprio assunto, quando avrà potuto dire: così s’è pensato, e così era logico che si pensasse. Nè meno razionale è il criterio teleologico, purchè la finalità del processo storico sia ricavata dalla seria, sincera, insistente, larga e spregiudicata meditazione dell’andamento del pensiero nella storia; che è poi, e dev’essere necessariamente, lo sviluppo ideale ed eterno dello spirito. Togliere a capriccio, voglio dire senza una ragione razionalmente assegnabile, un qualunque punto di vista, e ricostruire la storia della filosofia in modo da rappresentarla come tutta indirizzata alla dimostrazione della necessità di un siffatto punto di vista, non può essere se non arbitrario e capriccioso. Ma, per contro, ricostruire la storia della filosofia senza un concetto dello spirito, e quindi del suo sviluppo necessario, della sua (adoperiamo pure la celebre concettosa parola di Aristotele) entelechia , è impossibile. Credere che lo spirito non abbia un principio ideale e un ideal fine, che è la sua verità, e perciò la verità stessa; credere che proceda a tentoni, tastando tutte le parti della verità, come cieco condannato a non trovar mai la sua guida, è, come ogni scetticismo, credenza in sé stessa contradittoria; perché si fa di questo cieco miserabile un predestinato alla gloriosa chiaroveggenza di cotale storico scettico, sicuro della sua verità, che cioè lo spirito finirà per persuadersi che tutte le porte sono e resteranno chiuse. Una finalità sottintesa ci sarà dunque pur sempre anche nella sua storia desolata. E così è pure, che una storia della filosofia non può non avere una certa soggettività. Poiché non è dato scrivere la storia della filosofia, senza concepire in qualche modo la filosofia, e farsi lume del proprio concetto alla ricerca e alla ricostruzione. Ma, certo, v’ha soggettività vera e soggettività falsa. Vera soltanto potrà dirsi quella consistente nel concetto, che uno storico abbia della filosofia adeguato al momento storico a cui egli appartiene. Falsa evidentemente è, per esempio, quella del Lange, se si ritiene il suo neokantismo non superiore in nulla, anzi, com’è, speculativamente inferiore allo stesso kantismo anteriore a Fichte. Falsa ogni soggettività derivante da un criterio di giudizio inferiore a punti di vista conquistati già dalla ragione nella storia, e incapace, perciò, di render ragione di tutti i sistemi già apparsi. Falsa sempre, qualsiasi soggettività, esteticamente e filosoficamente, che faccia saltare fuori a ogni passo la coscienza moderna a giudice dei sistemi antichi. Anche esteticamente, perché anche in estetica la coscienza del critico si deve adeguare alla coscienza dell’artista per potere giudicare. Ma falsa essenzialmente dal riguardo filosofico; perché la critica di ogni sistema in realtà la filosofia l’ha fatta e poteva farla soltanto col sistema immediatamente successivo. La coscienza filosofica dello storico deve rispecchiare la storia della coscienza filosofica; sicché la stessa ricostruzione deve contenere già nel suo andamento storico la critica progressiva dei sistemi; e la vera arte storica, come quella del giardino incantato d’Armida, è “L’arte che tutto fa, nulla si scopre”. L’arte, infatti, quando lo storico sarà giunto a possederla, non sarà propriamente l’arte sua, ma l’arte stessa della ragione, che ha filosofato nei secoli; e la soggettività del suo giudizio sarà risoluta nello stesso procedimento oggettivo della ragione nella storia. Ond’è che la verità della filologia e della logica è nell’unità di entrambe; come nell’unità del pari si conciliano e trovano la loro verità gli altri contrari: determinismo e finalità, oggettivismo e soggettivismo. E la storia vera è la storia che accoglie in sè, unificandoli tutti i metodi».

(G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 132-136).

Tracce del commento

Chi ha in odio le scelte comode, quelle che la ragione controlla e definisce accettabili, quelle per intenderci tra bene e male, dove per forza viene scelto il bene, nello scegliere diversamente, il male per esempio, il male che tutti condannano come assurdità del mondo, e che io vedo benissimo insultato da tutti e per questo solo fatto venirmi in dubbio la regola della scelta puntata sulla sicurezza, chi ha in odio queste scelte comode si indirizza verso l’inutilità, l’avventura nella qualità. Dopo, il silenzio, oppure la parola che dice l’azione. Il dire che rammemora implica la presenza di un corpo agente nell’assenza, una presenza che è vita non semplice ricordo immateriale. Nel momento in cui la parola dice l’assenza non è visitata da questo corpo proprio, dal mio corpo, che è anche la mia vita, potrebbe esserlo, ma potrebbe non esserlo, la parola non lo sa, ciò che la riguarda è l’accadimento conchiuso, la mia vita nell’assenza e questo sapere non è smania di controllo, la volontà è stata estromessa con mille metodi di salvaguardia, è percorso di ricostruzione della vita con la parola, in particolari condizioni, che sono quelle della rammemorazione. Fino a quando non riuscirò a rendermi conto di che vuole dire la parola che dice, non mi potrò persuadere delle possibilità della rammemorazione, navigherò nel piccolo cabotaggio, attorno alla sua immane architettura, non l’affronterò mai in maniera radicale. Tutto spazzato via, solo lamenti di fanciulli e cani impauriti.

Tredicesima lezione: 25 aprile 1990

Uno degli errori commessi riguardo il problema di cui parlavamo la volta scorsa, è stato quello di dedurre da una quasi certa volontà non libera l’esistenza d’un condizionamento esterno*, impresso indelebilmente nel movimento della realtà stessa, e poiché nessuno può immaginarsi un destino malvagio quando ha facoltà di immaginarsene uno buono, si è sempre preferito, tranne poche eccezioni, pensare che questa impressione indelebile fosse di tipo progressivo. Invece il grave limite della volontà ha una natura tutta sua, interna, riconducibile proprio al suo modo di essere, al movimento che produce, ai movimenti da cui è a sua volta prodotta. Per questo motivo essa riesce a cogliere immediatamente, com’è nella sua caratteristica di coscienza primitiva, il funzionamento della modificazione, apportandovi per quel che le compete il suo contributo fattivo. Non riesce, al contrario, a cogliere movimenti che si stimano diversi, oppure che semplicemente si presentano come finalizzati ad uno scopo. La fattività e la sollecitazione al controllo e al dominio non hanno mai uno scopo esterno, ma sempre una sollecitazione interna, la propria conservazione. È quindi comprensibile che l’oggetto sia oggettuale, almeno nel suo versante più esteso, in quanto è stato prodotto proprio attraverso un orientamento e una successiva catalogazione e modificazione, tutte operazioni che incidendo sull’originaria oggettività, l’hanno modificata ma non ne hanno completamente perduto ogni traccia. È questa latente capacità oggettiva che viene messa in moto nella diversità.

La volontà, con tutti i suoi limiti, anche quando è preda

del fare coatto, quindi nella stragrande maggioranza dei casi, non è mai strumento di qualche forza superiore, ma è prigioniera di se stessa in quanto il movimento che riesce a sviluppare e quello di cui fa parte è il suo stesso modo di essere volontà. Non c’è quindi un piano autonomo dell’accumulo, come non c’è un piano individuale che sia specificabile in modo certo all’interno della coscienza immediata. Nessuno spirito aleggia nel mondo, nessuna volontà è capace di dipingere bene se stessa. Non ci sono leggi generali, né leggi particolari, non ci sono leggi e basta. Non è quindi vero che qualsiasi cosa faccia la volontà, il destino del mondo è segnato, per cui non ci sarebbe sostanziale differenza tra diversità e immediatezza, le cose stanno esattamente al contrario.

Che l’intenzionalità immediata o diversa vada sempre più in là di quello che potrebbe essere il suo movimento diciamo naturalmente immaginabile, questo è un fatto che si verifica quasi sempre. Questo qualcosa in più non è comunque una conseguenza dell’intervento di un piano superiore che perviene a spostare l’intenzione più modesta, un piano inferiore. Si tratta del movimento circolare che si instaura dall’accumulo alla produzione modificativa e agli sbocchi della diversità nell’effettualità superiore e della struttura nell’affievolimento al di là della zona di confine con la forma. Tutto si ripresenta più o meno direttamente un’altra volta nell’accumulo, sotto forma di materiale contenuto, di senso che tende ad un impossibile completamento**, risultando quindi di volta in volta, a seconda della propria posizione relazionale, centro di una intensificazione e periferia di un affievolimento. Una convenzione razionale di campo può affaticarsi a lungo per trovare una ragione intrinseca a tutto ciò, una logica che leghi differenti momenti in un tutto unitario munito di una sua autonomia, ma si tratta di ipotesi protocollari, oggetti anch’essi prodotti dal medesimo meccanismo e quindi non in grado di giustificare il meccanismo stesso allo stesso modo in cui una creatura non può giustificare il proprio creatore in base ad un’idea che è essa stessa creatura di quel creatore.

La scomparsa del principio di causalità comporta la parallela scomparsa del finalismo storico che ha afflitto gli ultimi trecento anni con terribili conseguenze sul piano pratico, atrocità e genocidi illuminati tutti dalla terrea luce della razionalità. I mostri più terribili sono proprio quelli lucidi, generati dalla ragione ben sveglia e governante. La riduzione della stessa religione da sentimento di paura o da desiderio di diversità, a semplice espressione della ragione dominante, che si impersonifica nello spirito della storia universale, contribuisce a creare le condizioni della modernità progressista e lineare. L’identificazione di un meccanismo interno e autonomo all’accumulo equivale ad una razionalizzazione della provvidenza e all’identificazione di un finalismo che non potendo più trovare il proprio fondamento all’esterno, come accadeva poniamo nella tesi agostiniana, lo trova in se stesso, nel proprio auto-riconoscersi, oltre che nel processo dialettico che lo rende praticamente possibile.

Il concetto di completamento va tenuto distinto da quello di progresso per le diverse conseguenze che causa. Diciamo subito che si tratta in tutti i casi di due convenzioni dirette a rendere plausibili, quindi anche comprensibili dentro certi limiti, movimenti che altrimenti resterebbero indecifrabili. Il collezionista non è altro che un estremista maniaco di un desiderio che tutti sentono, quello di possedere qualcosa, con, la variante che egli vuole possedere tutto. Non potendolo fare in proprio, ognuno di noi, ogni coscienza immediata, nell’ingenuità e nell’urgenza dei suoi desideri di controllo, deve per forza proiettare questo desiderio fuori di sé, e lo proietta nel meccanismo accumulativo stesso, il più adatto a custodire, nel vuoto assoluto di movimenti finalistici, vuoto che meglio di ogni altro aspetto in fondo lo caratterizza, concretizzandolo nell’idea di completamento. La medesima parzialità che tutti riscontriamo in noi, il dubbio***, l’incertezza e perfino l’inquietudine che pure col suo intenso lavorio ci apre ad orizzonti tanto diversi, inducono a supporre esistente fuori di noi una completezza che risulti l’esatto contrario di quello che sperimentiamo di essere, parzialità e dubbio.

L’idea di progresso è invece una convenzione molto più elaborata e non si può ricondurre ad un semplice capovolgimento delle negatività che continuamente rileviamo in noi stessi. In primo luogo, il progresso presuppone un’idea di perfettibilità della coscienza in generale, da cui sulla base dell’idea cristiana di speranza in un mondo migliore, si passa alla perfezione possibile e futura del meccanismo accumulativo. Non occorre qui sottolineare come abbia agito il concetto cristiano di speranza nella salvezza e quindi di perfezione futura in un altro mondo, per quanto ci sarebbe da dire molto tra una concezione in fondo deterministica come quella agostiniana e una razionalistica come quella tomistica, la prima con l’eccesso di predestinazione alla città di Dio e la seconda con l’eccesso di perfettibilità del vivere terreno, ambedue mai del tutto liberate dall’antica concezione circolare del tempo per quanto non in grado di cogliervi il sostanziale fondamento liberatorio. Comunque, a parte ciò, il diciottesimo secolo presenta questa forma materialista di fede religiosa nella bontà dell’uomo, tranne casi clamorosi di pensiero deviante, profondamente diverso, certamente in anticipo sui tempi.

Una delle conseguenze del progressivismo è quindi l’ideologia ortopedica, l’uomo nasce buono, viene deformato e incattivito delle condizioni sociali, lo si può riportare alla originaria bontà attraverso la conoscenza, strada unica per il raggiungimento della qualità. Quest’ultima quasi sempre la si trova concretizzata nella felicità, ma non si fa poi tanta fatica a identificare qualificazioni specifiche. Questo progetto non è solo nella mente di qualche individuo illuminato, è anche nella natura, per cui il compito di questo individuo cosciente del problema e delle possibilità, è proprio quello di favorire, consolidare e accelerare quel processo.

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* «Le differenze tra le varie sfere espressive – filosofia, arte, scienza – sono meno importanti della loro subordinazione al concetto di grandezza. Esse si riconducono alle distinzioni dei talenti e delle abilità individuali – della tèchne – e ai condizionamenti ambientali. Ciò che gradua il valore assoluto dell’espressione umana è la sua partecipazione al concetto limite di grandezza. Il resto è particolarità, per quanto nobile essa sia, e ad esempio un’estetica, come teoria che definisca in modo autonomo l’arte come categoria, non può formularsi al livello di una grande filosofia (fa eccezione Schopenhauer, la cui estetica tuttavia è nella sostanza una teoria generale dell’espressione umana, e in cui il posto della grandezza è preso, degnamente, dall’idea platonica). Ma quando appare un grande storico, la contrapposizione grandezza potenza domina la scena».

(G. Colli, La ragione errabonda, Milano 1982, p. 147).

Tracce del commento

L’azione balena sullo sfondo, poi si accascia su se stessa, confondendosi con il fatto e con una lunga e ragionata offerta di acquietamento. La parola che affronta questo territorio desolato deve avere un’altra forza. Non dico che sono in grado di pormi di fronte alla parola istruendola su ciò che dovrà dire, dico che nella mia confrontazione con essa c’è il velo dell’assenza, c’è la remota presenza di un’assenza, nel mio cuore c’è difatti l’impronta. La presenza e l’assenza sono tutt’altro che reciprocamente armonizzate e non si possono in pace ricondurre alla condizione di mettere a disposizione qualcosa di concreto o un’attitudine alla parola. Piuttosto un porsi secondo come è opportuno fare in modo che il destino sia favorevole e consenta al dire una rammemorazione in grado di concedermi la nuova e indispensabile possibilità. Il segno della cosa giace nel mondo come residuo, per quanto possano affascinare i suoi molteplici rinvenimenti, essi non riusciranno mai a diventare una spiegazione della cosa, perché afflitti dalla necessità di coerenza che caratterizza le corrispondenze modificative. Tutte le volte che questi passaggi nascosti sono riportati alla luce, viene fuori una interruzione che taglia il sentiero e lo rende incomprensibile. Continuare vuole dire accettare la metafora della qualità come surrogato, il suo plurale. La libertà e le libertà. Queste, nella loro molteplicità realizzativa, non sono mai quella. La piccola luce che brilla in me, quel residuo di cui sopra, non le qualifica in modo totale, sono figlie della modificazione e sottostanno alle rigide regole dell’accumulo. In esse ho nostalgia della libertà e scavo e sollecito e sconvolgo il tessuto delle libertà, ma in nessuna condizione del quotidiano trovo la risposta soddisfacente.

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** «Nella religione Schopenhauer apprezza naturalmente nel più alto grado l’elemento mistico. Egli ci rinvia, per completare la sua descrizione astratta del processo della negazione della volontà, alle biografie cristiane dei santi, all’ascetismo monastico, agli scritti dei mistici: fra i quali raccomanda specialmente l’autobiografia di M.me Guyon “una bella grande anima, il cui pensiero mi riempie sempre di rispetto”. Tra i più antichi egli ricorda particolarmente la Teologia tedesca, che egli dice l’esposizione più completa e più profonda della negazione del voler vivere. Prima di morire conobbe ancora nel 1857, dall’edizione dello Pfeiffer, il misticismo di Meister Eckhart, che egli pone accanto a Buddha. Qualunque sia la differenza dei dogmi, le conclusioni pratiche dei mistici si rivelano in tutta la loro verità egualmente in tutte le religioni. Anche fra di essi vi è un accordo sorprendente: il che prova che essi parlano fondandosi su d’una reale esperienza interiore. Ciò che vi è di essenziale nella mistica è la negazione teoretica e pratica di quanto appartiene ancora al mondo dell’esperienza: negazione che però non è pura negazione, ma ci rinvia ad una realtà più alta, determinabile solo per mezzo di simboli. Anche l’ascetismo è da Schopenhauer riconosciuto come elemento essenziale della negazione mistica. Finché il corpo dura, è sempre necessaria una lotta energica contro le sue ribellioni; qui soccorre l’esercizio della vita ascetica come mortificazione della volontà di vivere in tutte le sue forme, come mitezza, umiltà, pazienza, castità, astinenza e povertà volontaria».

(P. Martinetti, Schopenhauer, Milano 1944, pp. 20-21).

Tracce del commento

La cesura del coinvolgimento taglia in maniera radicale, la conoscenza è indicibile al di là, dove dilaga solo una sorta di intuizione vaga, un dirigersi guidato del coraggio e del desiderio di una forza della coscienza che non debba sottostare alle parallele tirannie della volontà e della inquietudine. Sono nella cosa in un modo di apertura indicibile, di cui non posso rendere conto se non con spezzoni usurati di una epistemologia vecchia maniera o, peggio ancora, con riferimenti ontologici anch’essi approssimativi. L’azione mi porta via e non chiede spiegazioni, applica nella realizzazione trasformativa le mie conoscenze, perfino tecniche, e io sento solo il vento nero della notte soffiare dal deserto sulla mia guancia. Allo stesso modo, anche se sono, e mi sento di essere, portatore di libertà, nello stesso tempo sono portatore di morte. Il carattere indecidibile della mia azione come coscienza diversa non ammette né lezioni ontologiche né spiegazioni epistemologiche, tutto è dissomigliante nella rammemorazione, niente ricorda con esattezza il completamento vissuto nell’azione. La natura della distensione agente all’interno dell’azione non è attingibile dalla rammemorazione, pure facendo questa un passo avanti nei confronti della memoria. La fuga dalla inquietudine del mondo da me creato era motivata dal desiderio della cosa, nell’azione non c’è più questo desiderio ma la totalità della completezza, nulla è qui assente e non aspetto nulla, non temo nulla, la mia morte è là, al fianco mio, e mi tiene compagnia, conosco il suo soffio freddo notturno, non lo temo, la sofferenza, anticamera della morte, la tortura, le membra rotte, le carni aperte, tutto è là e non posso temerlo perché è la completezza che mi appartiene. Alla domanda fondamentale, tutto qui? l’inquietudine ritorna e con essa il desiderio di scavare nella memoria o, con maggiore raffinatezza di strumenti, nella rammemorazione. Tutto qui. Attraverso il vetro vedevo le foglie restituite dal vento, blatte ansiose, andare, venire, sfiorarmi la faccia. Il mio amico insisteva nell’aspettare, io sarei andato via. Aveva ragione lui. Nel passo desolato l’attesa fu fruttuosa. Niente applausi.

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*** «Il nostro desiderio è stato di tramandare ai nostri contemporanei, il cui concetto di humanitas si trova in una crisi così grave, l’esperienza del singolare connubio che fierezza e tristezza hanno stretto in questa filosofia. Il pessimismo di Schopenhauer è la sua humanitas. La sua derivazione del mondo dalla volontà, la sua intuizione dell’onnipotenza degli istinti, il suo degradamento della ragione, dell’intelletto, dello spirito, una volta così divinizzati, a semplici strumenti per render più sicura la vita, tutto ciò è senza dubbio anticlassico e nella sua essenza inumano. Ma è proprio nel colorito pessimistico della sua dottrina, nel fatto che essa lo porta a negare il mondo e a istituire un ideale ascetico, nell’aver egli, il grande e dolente scrittore che scrisse la prosa della nostra grande epoca di cultura umanistica, tolto l’uomo dalla sfera biologica e dalla natura, facendo della sua anima, che sente e conosce, il teatro di un rovesciamento della volontà per cui egli diventa il possibile redentore di tutte le creature, proprio in questo, diciamo, consistono la sua umanità e la sua spiritualità».

(T. Mann, Nobiltà dello spirito, tr. it., Milano 1956, p. 43).

Tracce del commento

La completezza dell’azione è tale perché infinito attuale, non perché la mia presenza conduce il tutto alla sua conclusione. Sono completato, non sono io che completo. Ciò ha riflessi considerevoli sui meccanismi rammemorativi. La contraddittorietà intrinseca alla rammemorazione comporta un inevitabile dissenso sulla possibile, per quanto improbabile, fruizione della sua architettura rammemorante, cioè essa stessa non risultato ma movimento, modificazione continuamente detta. Solo io, nell’ambito del mio cuore, dove l’azione vive nell’impronta indelebile che continua a sanguinare, seguo quel dire e ridire con la dovuta attenzione, perfino con una considerevole attenzione. So che la qualità non può essere attinta con la parola, deve essere vissuta dalla carne, da uomini e donne, non da fantasmi e fantasie, immaginata essa impoverisce e scade in quantità vestita a festa. So anche che la parola riscuote attenzione e risposte, molte difensive, per me rievocative, non voglio costruire apparati di propaganda, meglio la reazione negativa, il dissenso anche violento, l’infamia di una congiura ai miei danni, mi è toccato mangiare di questo pane per tanto tempo, sono troppo vecchio per meravigliarmene. La violenza delle parole sostituisce l’azione. Niente di più errato. Molta gente non sa la differenza fondamentale tra fare e agire. Che la violenza verbale sia un fare è fuori dubbio, ne consegue che il fare può sostituire un altro fare e viceversa. L’agire è altro, pensarlo sostituibile con il fare è pura idiozia. Non vale la pena di spiegare che non è sostituibile con la parola che si limita ad alzare il tono della voce.

Quattordicesima lezione: 2 maggio 1990

Che il progresso non possa regredire è un’altra delle convenzioni fondamentali di questo modo d’intendere l’accumulo. Se la perfettibilità è esponenziale non c’è verso che il movimento avviene in un solo senso, in una sola direzione, e queste considerazioni sono fatte su alcune osservazioni rudimentali della legge di causa ed effetto che, come è facile dimostrare, si trovava anche alla base delle giustificazioni razionaliste di Dio nella filosofia di Tommaso. Non che il vecchio Anselmo* sia stato abbandonato, esso resta in un certo senso parallelo, intervenendo come intuizione d’un processo che magari non si riesce a spiegare allo stato attuale delle conoscenze, ma che lo sviluppo medesimo della scienza finirà per rendere alla portata di tutti.

Questo problema merita qualche riflessione. La linearità non è reale, è un’invenzione purtroppo dolorosa che ha il suo corrispettivo nell’irreversibilità temporale il cui fondamento si pretende trovare in una sorta di irreversibilità fisica non meno convenzionale dell’altra. Non c’è nulla che segua un percorso lineare, questo si che anche l’analiticità scientifica è costretta ad ammettere. Ma l’uomo, nella sua difficile ricerca di equilibri sapienti, è sempre attratto dalle improbabili aspettative del futuro, e quindi si proietta verso di esso per quella che pensa sia la via più breve, protocollata nelle diverse unità di tempo. E non si rende conto che queste improbabili aspettative sono piene di equivoci, di figure e progetti perfino ridicoli, di deliri e follie. Immaginarsi una commedia a lieto fine sempre comodo, specialmente quando si vuole celebrare l’integrazione della coscienza nella modificazione, il rito della perfetta e circolare immediatezza.

Ma la conclusione, che sembrava aperta al futuro, quindi ben visibile e lineare, si rivela ben presto priva di coraggio, circoscritta e chiusa, dettata e sostenuta da una solitudine di pensiero alimentata soltanto da egoismo e preoccupazione di controllo. È sempre la paura a produrre un’infinita varietà di temi, sempre sul fondamento dell’equilibrio e della linearità, allo scopo di nascondere una reale oscillazione di giudizio, una effettiva preoccupazione, un’ambiguità. Spesso la grande sensibilità di alcuni uomini, la loro capacità di nascondersi dietro effetti a volte pregevoli ma superficiali, e quindi quello che viene definito come il loro charme, dipende proprio da questo essere individui lineari, incapaci di coinvolgersi, di portare a compimento quello che intraprendono, di agire. E di questa loro intima debolezza, rendendosi conto, si fanno una forza di scudo per sembrare possibilisti, tolleranti, rispettosi dell’altrui debolezza, mentre invece sono soltanto sospettosi e vendicativi, stupidi e superficiali. Non è possibile difendersi contro gente simile.

La linearità, come la chiarezza, rifiuta la maschera**, quindi non può accedere all’interpretazione, restando solo al livello effettuale inferiore. La sua natura schiettamente protocollare si esprime al massimo nella decenza, nell’onestà, nella dirittura morale, perfino nel rispetto delle norme della moda, naturalmente alternativa se del caso, insomma in una sorta di discrezione, un piccolo travicello che galleggia accuratamente per non pestare nel torbido, nel fondo. In questo modo, la chiarezza, che della linearità analitica è un corollario, pretende di possedere la ricetta per superare l’insufficienza più che ovvia della comunicazione. Anche la disputa tra protocolli più chiari ed altri meno chiari, poniamo tra matematica e musica, è sempre fondata su alcune pretese di linearità.

Mantenendoci qui al problema della linearità, gli ostacoli al dire la qualità, dovuti all’impossibile rapporto tra oggetto e cosa che non sia flusso orientato, quindi movimento antitetico, segnano una delle critiche più negative della linearità. La parola è indecente afferma l’intuizione di Hugo von Hofmannsthal***, è inadatta ad esprimere l’indicibile, per cui ci si sente a disagio solo a pronunciare certe parole, come spirito, anima, corpo, mentre si avverte la necessità di andare alla ricerca di altre parole, le parole di una lingua in cui parlano le cose mute.

Il personaggio di Der Schwierige esprime con ansia la sua preoccupazione sentendosi spinto ad alzarsi e a tenere un discorso sulla conciliazione dei popoli e sulla convivenza delle nazioni, mentre lui sa una sola cosa, e di questa è convinto, di non essere capace di aprire bocca senza suscitare le più disastrose confusioni. Ne conclude che preferirebbe rincantucciarsi vita natural durante come un gufo in un cantuccio fuori del mondo, piuttosto che riempirsi la bocca di un profluvio di parole, di cui ciascuna gli appare addirittura indecente. In effetti, continua il nostro protagonista, tutto quello che si esprime è indecente, per il semplice fatto che si esprima qualcosa è indecente, in quanto gli uomini non mettono rigore in nulla e anzi hanno una sorta d’impudenza nel fatto stesso di osare vivere certe cose senza trovarsi loro indecenti.

Testi

* «Chi voglia formarsi un genuino concetto del realismo cristiano del medio evo dee incominciarne l’istoria da Anselmo di Aosta, che ne fu il vero padre; da cui uscirono quei due fiumi di Bonaventura e di Tommaso, che compartendo fra loro la ricca unità del lor precessore, rappresentano la dualità dell’intuito e del pensiero riflessivo, disgiunti sì, ma non ancora nemici; imperocché coloro, che ad esempio dei Rosminiani, sequestrano le dottrine di quei due sommi pensatori, e si credono di vantaggiare il secondo, mettendolo in contraddizione col primo, s’ingannano a gran partito, e ignorano in che consista il vero realismo. Il problema, che oggi si dee proporre la filosofia italiana, è di unificare questi due ordini, e di conciliare il platonismo del Bagnorese coll’aristotelismo dell’Aquinate, ricostruendo l’unità pitagorica dell’Augustano, e procedendo, non già all’empirica e coll’analisi critica, secondo l’uso degli eclettici e dei volgari conciliatori, ma alla sintetica ed a priori, mediante un principio, che sovrasti a tutti i sistemi e comprenda nella sua molteplice unità l’ordine intuitivo col discorsivo, accordandoli insieme, senza confonderli, e distinguendoli, senza separarli. Ora questo principio è quello di creazione, espresso dalla formola ideale; la quale è l’unica conciliatrice delle contrarietà apparenti dei sistemi ortodossi, e reca nella storia della filosofia la stessa armonia, che l’effettuazione di essa formola produce nel mondo; onde il reale collo scibile si ragguaglia. La formola costituisce per tal modo una scienza sublime e universale, apice e base ad un tempo della piramide enciclopedica; sublime, perché sovrasta a ogni disciplina, e la genera, come il comignolo, da cui muove la proiezione di una guglia; universale, perché comprende potenzialmente tutte le cognizioni e le puntella, come il dado, che sostenta ed abbraccia la mole acuminata e rivolta verso il cielo».

(V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, vol. II, Milano 1939, pp. 305-306).

Tracce del commento

Il dire è qui, le parole sono qui, colpevoli della loro pesantezza e aperte all’acquisizione di una più frequente colpevolezza infeconda, per l’ambiente ottuso e regolamentato amministrativamente in cui risuonano. Non c’è conoscenza della cosa perché questa non è assegnabile al tempo, ma non tutta la conoscenza si può risolvere nella misura che assegna le scansioni codificate dell’accumulo. Ci sono intuizioni che vivono e muoiono nella puntualità atemporale, e ce ne sono che si sviluppano in dilatazioni temporali prive di misura. Predicare questi due movimenti non è immaginabile, ma può accadere di vederli messi in pratica aggirando la volontà. Il corrispettivo della indicibile cosa è cosa anche me stesso, la mia non più volontà, coscienza diversa. Tra questi due poli non c’è contrapposizione. Io sono la cosa nella mia apertura alla diversità. Io sono la cosa medesima.

Testi

** «Non andiamo ora troppo presto. Per misurare una corrente, posso servirmi di un gran numero di tipi di galvanometri o anche di un elettrodinamometro. E allora quando dirò: regna nel circuito una corrente di tanti ampères, ciò vorrà dire: se adatto al circuito questo galvanometro, vedrò l’immagine luminosa nella divisione a; ma ciò vorrà dire anche: se adatto al circuito questo galvanometro, vedrò l’immagine luminosa nella divisione b. E ciò vorrà dire ancora molte altre cose, giacché la corrente può manifestarsi non solo per via di effetti meccanici, ma anche per via di effetti chimici, termici, luminosi, ecc. Ecco dunque che uno stesso enunciato conviene a un grandissimo numero di fatti assolutamente differenti. Perché? perché ammetto una legge, secondo cui tutte le volte che tale effetto meccanico si produrrà, si produrrà a sua volta tale effetto chimico. Molte altre esperienze anteriori non mi hanno mai mostrato questa legge in difetto, e allora mi sono reso conto che potrei esprimere con lo stesso enunciato due fatti così invariabilmente legati l’uno all’altro. Quando mi si domanderà: la corrente passa? potrò comprendere che ciò vuol dire: tale effetto meccanico si produce? ma potrei anche intendere: si produce tale effetto chimico? Verificherò dunque sia l’esistenza dell’effetto meccanico, sia quella dell’effetto chimico; ciò sarà indifferente, poiché nell’un caso come nell’altro la risposta dev’essere la stessa.

«E se la legge venisse un giorno riconosciuta falsa? Se si avvertisse che la concordanza dei due effetti meccanico e chimico non è costante? Quel giorno bisognerebbe cambiare il linguaggio scientifico per farne sparire una grave ambiguità. E poi? Si crede che il linguaggio ordinario, per via del quale si esprimono i fatti della vita quotidiana, sia esente da ambiguità? Se ne concluderà che i fatti della vita quotidiana siano l’opera dei grammatici? Voi mi domanderete: vi è una corrente? io cerco se l’effetto meccanico esista, lo constato e rispondo: sì, vi è una corrente. Anche voi comprendete che ciò vuol dire che l’effetto meccanico esiste, e che l’effetto chimico, che non ho cercato, esiste egualmente. Immaginiamo ora che, per assurdo, la legge da noi creduta vera non lo sia, e che l’effetto chimico non sia in questo secondo caso esistito. In questa ipotesi, vi saranno due fatti distinti, uno direttamente osservato, che è vero, l’altro arguito, che è falso. Si potrà dire a rigore che il secondo l’abbiamo creato noi. Sì che la parte di collaborazione personale dell’uomo nella creazione del fatto scientifico è l’errore. Ma se possiamo dire che il fatto in questione è falso, è proprio perché esso non è una creazione libera ed arbitraria del nostro spirito, non è una convenzione mascherata; altrimenti, non sarebbe né vero né falso. E in effetti sarebbe verificabile: non ho fatto la verifica, ma avrei potuto farla. Se ho dato una risposta errata, è perché ho voluto rispondere troppo presto, senza avere interrogato la natura, la quale sola sapeva il segreto. Quando, dopo una esperienza, correggo gli errori accidentali e sistematici per mettere in evidenza il fatto scientifico, è ancora la stessa cosa: il fatto scientifico non sarà mai che il fatto bruto tradotto in un altro linguaggio. Quando dirò: è la tal ora, sarà questa una maniera abbreviata di dire: vi è tale relazione tra l’ora segnata dal mio orologio e l’ora che esso segnava nel momento del passaggio di questo o quell’astro nel meridiano.

«Passiamo al penultimo scalino: l’eclisse ha avuto luogo nell’ora data dalle tavole dedotte dalle leggi di Newton. È anche questa una convenzione di linguaggio perfettamente chiara per tutti quelli che conoscono la meccanica celeste, o semplicemente per quelli che possiedono le tavole calcolate dagli astronomi. Mi si domanda: l’eclisse ha avuto luogo nell’ora predetta? Cerco nella conoscenza del tempo, e vedo che l’eclisse era annunciata per le nove, e comprendo che la questione vuol dire: l’eclisse ha avuto luogo alle nove? Anche qui non abbiamo niente da cambiare alle nostre conclusioni. Il fatto scientifico non è che il fatto bruto tradotto in un linguaggio comodo. E vero che nell’ultimo scalino le cose cambiano. La terra gira? E questo un fatto verificabile? Galilei e il grande Inquisitore potevano, per mettersi d’accordo, ricorrere alla testimonianza dei sensi? Al contrario, essi erano d’accordo sulle apparenze, e quali che fossero state le esperienze accumulate, sarebbero rimasti d’accordo sulle apparenze, senza mai accordarsi sulla loro interpretazione. E anche per questo essi sono stati obbligati a ricorrere a metodi di discussione così poco scientifici. Ecco perché ritengo che non fossero in disaccordo su un fatto: non abbiamo il diritto di dare lo stesso nome alla rotazione della terra, che era l’oggetto delle loro discussioni, e ai fatti bruti o scientifici, che abbiamo passato in rivista fin qui. Secondo ciò che precede, sembra superfluo cercare se il fatto bruto sia al di fuori delle scienze, poiché non vi può essere né scienza senza fatto scientifico né fatto scientifico senza fatto bruto, il primo non essendo che la traduzione del secondo. E allora si ha il diritto di dire che lo scienziato crea il fatto scientifico? Prima di tutto, egli non lo crea ex nihilo, poiché lo fa col fatto bruto. Per conseguenza, non lo fa liberamente e come vuole. Per abile che sia l’operaio, la sua libertà è sempre limitata dalle proprietà della materia prima sulla quale opera».

(H. Poincaré, Il valore della scienza, tr. it., Firenze 1947, pp. 208-209).

Tracce del commento

Nella rammemorazione esco dal cerchio del me stesso che cura se stesso e mi apro al mondo che voglio trasformare. Lo strumento è inutile e quindi questa trasformazione sarà anch’essa priva di scopo, assente dal lavorio del baratto quotidiano. Fronteggiare la parola e non aspettare il suo presagio è un modo diverso di ascoltare, un modo di coinvolgermi nell’ascolto del dire, di portare la mia conoscenza in campo, non per puntarla come un’arma sul dire ma per indirizzarla sulla parola. Riconoscere livelli non attuali della parola è una commisurazione e appartiene al lavoro del campo, riempie di un compito l’accumulo, eppure questo accumulo mi fornisce uno scopo indiretto, non essendo possibile applicarlo a quello che sarebbe, se realizzata, una vera interpretazione del dire. Tra la parola e il dire resta uno spazio incontaminato dove non entro con il mio pesante bagaglio. La presenza che mi sfugge nella lontananza della cosa non è assenza eternamente nascosta, io la raccolgo in un numero infinito di possibilità e la rammemoro insegnando al destino potenza e forza, modulazioni della forma eterna della cosa. Divoro in questo modo la mia vita e lascio che venga divorata dal mio desiderio di concludere e dalla mia paura di non potere concludere. Mai una diversa coscienza mi fornirà la qualità con il modello della quantità, l’infinita libertà della cosa sarò io a perderla con la mia domanda, tutto qui?

Testi

*** «Sento dentro di me e attorno a me una solleticante infinita rispondenza, e tra gli elementi che si contrappongono nel gioco non v’è alcuno in cui non sarei in condizione di trasfondermi».

(H. von Hofmannsthal, Lettera di Lord Chandos, tr. it., Milano 1974, p. 51).

Tracce del commento

Il problema per evitare che la volontà penetri nella parola che dice la rammemorazione è diverso e molto più complesso, e me ne sono occupato abbastanza. Per il momento è indispensabile che la volontà di dominio non inquini la conoscenza che porto alla parola, e per fare questo devo avere la massima attenzione per la conoscenza, acquisirla in modo non finalizzato, non cercarla per risolvere un mio problema o mettermi in una condizione di preminenza, ma solo in quanto conoscenza, forza della vita che mi pone in grado di capire la vita della cui comprensione traggo la fonte del mio coraggio. Ogni simbolo della libertà, che io rivesto di riferimenti diversi, dei colori e dei suoni dell’oltrepassamento, è invece legato alla circoscrivibilità del campo, è frutto e premessa di questa chiusura carica di senso e povera di tensione. Posso staccare pezzi di quella condizione immacolata che abita nella cosa, pezzi di quella qualità che continua a sfuggirmi, ma posso soltanto tenerli con me, catturarli, nella rammemorazione, il loro mondo originario mi espelle proprio nel momento in cui lo stringo per avere risposte concrete, per ottenere evidenze.

Quindicesima lezione: 7 maggio 1990

Il futuro determinato allo stesso modo della fisica, sulla base di calcoli matematici, ecco la conseguenza logica non solo dell’illusione illuminista di Pierre-Simon Laplace, ma anche dell’idea di linearità. Nelle prime formulazioni di Jean-Antoine-Nicolas Condorcet* c’è in pieno questa fede nel futuro, dove le cose positive della civiltà si fonderanno e si armonizzeranno insieme sotto la luce della ragione, raggiungendo una densità massima fino a permeare l’intera massa del popolo e a fare diventare universale la lingua, mentre i tentativi di tutti gli uomini saranno soltanto diretti ad affrettare il miglioramento e la felicità della specie umana. Osservando questi fenomeni e comprendendone le ragioni intime si possono fare delle semplici deduzioni riguardo il loro probabile sviluppo futuro. Il fondamento della fede nelle scienze naturali è il principio che le leggi generali note o ignote che governano i fenomeni, sono necessarie e costanti.

Purtroppo queste considerazioni, di poi fatte in modo più articolato e sofisticato, ma sostanzialmente fondate sulle medesime premesse, hanno dato origine a degenerazioni non solo teoriche ma principalmente pratiche. Non è affatto vero che l’opinione formata sull’esperienza del passato, guida gli uomini come unica regola del loro comportamento, in quanto essi sono ragionevoli. Non è possibile considerare la storia una scienza esatta, almeno per due buoni motivi, perché non esiste esattezza nella scienza, perché non c’è modo di ridurre l’uomo neanche a quella parvenza di esattezza che siamo soliti vedere nelle scienze cosiddette naturali. E poiché non ci sono due realtà, ma una soltanto, il fatto che l’esperimento e lo stesso calcolo ci appaiono, ad una sia pur minima luce critica, tanto fuor di luogo e impossibili nelle cose umane, dovrebbe costituire un dubbio, se non proprio una fondata certezza, che non siano proprio a loro agio nelle cose della natura, sia pure con tutta l’incertezza che resta connaturata a queste specificazioni.

Altrove ho accennato all’illusione che spesso ha alimentato tanti cuori generosi, ma poco concreti, illusione fondata sulla capacità scientifica della previsione. La statistica e, in modo più preciso, le medie e il calcolo delle probabilità, producono fantasie che sono da riportarsi a questa fondamentale illusione della linearità. I grandi numeri consentono previsioni sufficientemente esatte fondate su metodi statistici molto semplici, come quello che traduce in un integrale una serie discreta di punti distribuiti nello spazio cartesiano. Ciò poteva illudere trecento anni fa gli specialisti di matematica, poteva continuare ad illudere i rivoluzionari positivisti del secolo scorso, ma sarebbe ridicolo che anche noi ci facessimo illudere anche oggi allo stesso modo. Non c’è modo di prevedere 1’andamento futuro d’un fenomeno in corso, ogni tentativo di questo genere, anche quando sì ipotizzano sufficienti condizioni di conoscenza preventiva dei parametri che sembrerebbero determinare il fenomeno, è destinato al fallimento in base alla stessa legge convenzionale d’indeterminazione. La medesima ragione analitica, sia pure per altri scopi, ha visto questo limite, che indirettamente costituisce, per motivi tutti nostri, una indiretta prova dell’impossibile linearità progressiva.

Ma torniamo ad un altro argomento di notevole interesse, interno al problema che stiamo esaminando. L’intuizione di questo processo automatico e benefattore, sempre tenendo conto della primitiva ed entusiasta formulazione di Condorcet, avrebbe finito per alimentare il progresso della medicina, il miglioramento dell’alimentazione, la costruzione di abitazioni confortevoli e quindi avrebbe fatto aumentare la durata della vita umana, arrivando ad un punto in cui la morte non sarà più null’altro che un effetto accidentale o la conseguenza del lento decadere delle energie vitali, finendo per non assegnare alcun limite alla durata della vita umana. Dopo trecento anni, una parte di questa visione utopistica, ma realisticamente legata ad una possibile previsione in base a certe presunte conoscenze oggettive, si è rivelata infondata. La medicina ha fatto quei passi avanti ipotizzati, e molti altri in più, così la scienza dell’alimentazione e l’architettura insieme all’urbanistica, ma ciò non ha fatto altro che realizzare una spaventosa divisione del mondo in due parti, una parte sviluppata, dove tutto questo si è realizzato, compreso l’allungamento della vita umana, e una parte arretrata, che ha pagato quello sviluppo a proprie spese, con un arretramento del proprio tenore di vita, con l’aumento della mortalità infantile per fame, con l’abbassamento del limite medio della vita e così via. La morte non è diventata soltanto un effetto accidentale o un affievolimento, la morte continua ad essere programmata e realizzata dagli uomini, come non potrebbe essere diversamente, ma tutto ciò viene fatto in modo possessivo, nell’unico modo che trasforma la morte in una condanna e una maledizione.

In effetti, ogni condizione favorevole all’uomo che viene realizzata nel processo produttivo, nella modificazione, non può essere assolutizzata, né affidata ad un meccanismo oggettivo, anche se molteplici motivi spingono a suggerire una conclusione del genere, in primo luogo l’instabilità e la precarietà di tutte le conquiste umane, per cui risulta più che comprensibile il desiderio di non vedere sprecata la conquista ottenuta con tanti sacrifici. Per questo motivo la si desidera affidare ad un meccanismo che la porti a buon fine, al di sopra di ogni incertezza e provvisorietà. Sull’uomo non si può fare assegnamento in generale, non avrebbe senso ridurlo ad una categoria astratta, significherebbe riproporre un vago umanitarismo assolutamente lontano dalla realtà. La coscienza immediata è nell’ambito dell’effettualità inferiore e da questa è continuamente prodotta come qualsiasi altro oggetto, anche se ha caratteristiche differenti da qualsiasi altro oggetto, ma non c’è oggetto che non sia differente, essendo il concetto di identità del tutto privo di senso. Le condizioni del fare coatto, modificabili ma non trasformabili, possono quindi produrre grossissime modificazioni nell’immediatezza, ma non possono farla diventare qualitativamente diversa.

Ciò vale sia per flussi rigidi, alimentanti strutture altrettanto rigide, come ad esempio la produzione biologica della specie, ma vale anche per strutture molto più dinamiche, come l’educazione e il processo culturale in genere. È giusto considerare relazionabili tra loro questi due movimenti, che un modo sclerotizzato di considerare la realtà vuole invece mantenere separati in un ereditarismo quanto meno discutibile, ma non è giusto inserirli all’interno d’un meccanismo che funziona tutto da solo. È certo che l’educazione, intesa nel modo più esteso possibile, possa migliorare le condizioni della fattività, quindi anche produrre condizioni d’inquietudine più frequenti e più significative, ma non è più giusto ammettere che questo possa diventare un processo determistico, agente per via ereditaria, in quanto i nostri genitori ci trasmettono le loro doti, i loro difetti, per cui migliorando le condizioni educative, quindi anche quelle ambientali, si finirebbe per forza con l’avere condizioni generali migliori. Un determinismo come questo arriva ancora ad ammettere che l’educazione, migliorando le qualità morali, possa migliorare anche l’organismo.

Torna sempre la paura della presenza caotica della realtà, una presenza che minaccia di diventare contraddittoria. Il piccolo uomo, credendosi al centro di tutte le cose, si propone di dare ordine, di raggiungere il più assoluto accordo, l’eterno equilibrio. Al vecchio schema cristiano della creazione realizzata nel tempo e finalizzata ad una conclusione, si sostituisce uno schema laico e progressista. In fondo si vogliono evitare le incomprensioni di un confessionalismo religioso che non intendeva arretrare dalle proprie roccaforti teologiche, con le grandi speranze aperte dall’industrialismo, di cui il pensiero di Henri de Saint-Simon è l’interprete iniziale più vicino a questa problematica umanistica. Non si può tralasciare il fatto che queste teorie sono tutte eurocentriche, oltre che razziste in senso stretto, considerando le antiche civiltà come di fatto inesistenti, comprese quelle orientali. Questo aspetto si accentua nella elaborazione di Auguste Comte che al posto dello spirito hegeliano inserisce l’idea di ordine. Il compito per realizzare quest’ordine spetta, nella tesi di Comte, alla civiltà occidentale, definita superiore**.

La fuga dalla paura è spesso contrassegnata da una maggiore richiesta di ordine e di controllo, e questa richiesta non potendosi più rivolgere alla religione, si rivolge alla storia, dove si pretende di scoprire la legge fondamentale dello sviluppo umano, cioè il modo in cui si realizza il progresso dello spirito umano nel suo insieme. Il nuovo spirito industrialista, eminentemente positivo, s’immagina di potere cancellare il proprio teleologismo parlando di progresso e di sviluppo e non accennando più al rudimentale ideale di perfezionamento umano, ma il problema nel suo insieme non cambia. Non potendosi ormai dire molto, senza incorrere nell’accusa di vago utopismo, sul fine, si preferisce dire moltissimo sulle fasi intermedie. Infatti, quale legge della meccanica classica, l’idea della scienza ottocentesca, poteva dirsi veramente tale senza una capacità di spiegare fasi intermedie? Una legge del genere, incapace di dare questa spiegazione, sarebbe stata subito scartata come non scientifica. Il marxismo farà un’opera non molto diversa.

La questione delle fasi è importante in quanto sposta l’attenzione da un generico teleologismo, ad un funzionamento meccanico ben preciso, fissato deterministicamente, funzionamento cui non sfugge neanche la versione dialettica. Non è molto importante stabilire una graduatoria fondata sull’attendibilità dei modelli, essi sono tutti inattendibili, pur essendo stati tutti, o quasi tutti, più o meno utilizzati nel campo, ed avendo tutti, a seconda del grado di utilizzazione, causato guasti enormi, il cui conto è stato pagato dagli uomini con sacrifici e milioni di morti. Ma il punto dolente di tutta la questione sta proprio nell’avere inserito le fasi all’interno dello sviluppo progressivo della realtà preso nel suo insieme, quindi di avere posto fuori discussione questo sviluppo, positivo e progressivo, e di avere indirizzato l’attenzione allo studio dei metodi di funzionamento.

Il passaggio, in tempi di grande sviluppo industriale, non poteva essere altro che dalla teologia alla metafisica, dalla metafisica alla scienza. Il culmine dello sviluppo umano quindi dovrebbe essere la scienza. Basta riflettere un attimo sulle condizioni attuali della tecnologia per rendersi conto delle assurdità e dei rischi di simili concezioni.

Che queste fasi siano più o meno fantastiche, di per sé non costituisce un grande ostacolo, in quanto ogni proposta protocollare, anche la nostra, contiene in sé qualcosa di fantastico e di provvisorio. L’avere immaginato un passaggio dalla teologia alla scienza, non è altro che un aver vestito di parole e di analisi un’idea che nell’Ottocento avevano un po’ tutti. La scienza, con i suoi successi, veniva indicata infatti, prima che cominciassero le perplessità e i dubbi della fine del secolo, come un superamento della teologia e delle vane discussioni metafisiche. Alla filosofia vecchia maniera, si sostituiva la filosofia della conoscenza, una riflessione sugli strumenti che riprendeva il non tanto vecchio kantismo dopo la grande parentesi idealista. Il guaio più grosso è di avere immaginato queste fasi come l’azione svolta dallo spirito. Ancora una volta è stata quindi data personificazione a una forza astratta, mettendola in condizione di recitare un ruolo, ovviamente altrettanto fantastico, ma che nella realtà finisce lo stesso per avere i suoi effetti, sia per imbrigliare l’inquietudine e quindi la possibilità di agire, sia per rendere possibili controlli e strutturazioni altrimenti difficilmente realizzabili.

Riflettendo sui tre stadi di Comte di sviluppo non si può non convenire che essi possiedono una logica progressiva. Nel primo lo spirito umano cerca le cause prime, la natura essenziale delle cose, le cause finali, l’origine, l’assoluto. Nel secondo cerca di sostituire all’azione soprannaturale quella di entità astratte, ma non più teologiche. Nel terzo, lo spirito diventa positivo, capisce l’inutilità della ricerca dell’assoluto, dell’origine, del fine della realtà, e si indirizza alla ricerca dei legami necessari degli eventi, sviluppando l’osservazione scientifica, la logica analitica, lo studio delle leggi naturali. Ma, non appena si riflette meglio, ci si rende conto come tutta questa impostazione risulti compromessa da una scelta di fondo, una scelta di valore, la quale considera più importante l’analiticità scientifica della ricerca della totalità. Conseguenza, quest’ultima, dalla svolta metodologica operata nel Seicento, diretta a impedire che la conoscenza continuasse ad occuparsi dell’inutile ricerca sul perché delle cose, mentre era molto più utile dedicarsi al come delle cose, cioè al come le cose si comportano.

C’è da dire subito che uno sviluppo del genere ha impresso all’umanità determinati miglioramenti, ma ha anche imposto dei costi da pagare. Considerare un relativo bilancio come positivo, è un fatto di scelta, appunto una scelta di valore. L’uomo ha conquistato una considerevole conoscenza analitica, che gli ha consentito di raggiungere certi obiettivi di campo considerati inammissibili, fino a qualche decennio prima, in una parola ha esteso al massimo la sua possibilità di catalogare la realtà, conoscendola, cioè subordinandola all’accumulo e alle operazioni oggettuali, ma una parte sempre più grande della stessa realtà, continua a sfuggirgli. Perché il corrispettivo dell’illusione di completezza dell’accumulo è dato proprio dall’impossibile esaurimento della realtà non accumulata. Così, di fronte ad un’altezzosa analiticità che minaccia di spiegare tutto, l’uomo continua a porsi le antiche domande sul significato della vita, della morte, della totalità del reale, ha cioè gli stessi bisogni che la teologia misterica sfruttava così bene e che la sua versione razionalista moderna, religiosa e scientifica, non riesce a soddisfare. Anche la conclusione più recente, diretta a fissare come continuo adeguamento, e quindi a limitare, la funzione della legge naturale, che prima aveva carattere assoluto, non riesce a soddisfare un bisogno di qualità che non può accettare panacee scettiche più o meno raffinate.

Nel pensiero di Comte c’è l’embrione di una filosofia relazionale, scambiata per relativismo da un clamoroso equivoco di Karl Löwith, quando afferma che non c’è conoscenza che non sia condizionata dall’oggetto agente su di noi e da quello ad esso reagente. Senza la luce le stelle restano invisibili e i ciechi anche con la luce non possono vederle. Soltanto la conoscenza rivelata è estranea a questa reciproca dipendenza. Principio molto interessante ma che viene sprecato a causa di alcuni preconcetti, ad esempio il tentativo di spiegare tutto con un’unica legge, come quella di gravitazione universale, il considerare primitive le domande riguardanti l’assoluto, il porre il rapporto tra fenomeni e leggi e non tra fenomeni, il presupporre la necessità dello sviluppo progressivo.

A quest’ultima necessità fa riscontro la necessità di ogni singola fase, quella teologica che consentì di prendere coscienza, sia pure confusa, dei fatti, attribuendoli ad una matrice divina, quella metafisica che permise un’astrazione generalizzata consentendo il passaggio alla fase successiva, quella positiva che utilizzando il lavoro delle fasi precedenti, riuscì a impostare il pensiero scientifico. La sufficiente evidenza scientifica di questo progresso, almeno secondo i risultati raggiunti dalla scienza alla fine dell’Ottocento, permetteva di riversare nel pensiero morale e sociale una speranza di sviluppo adeguato a quello scientifico. Oggi, come è ormai evidenti a tutti, questa speranza non ha più ragione di esistere. Abbiamo bisogno di una approfondita critica negativa.

Testi

* «Hegel ha preso le mosse da problemi morali e religiosi, piuttosto che da problemi intellettuali. La lettura dei suoi scritti giovanili, rimasti allo stato di frammenti, conferma l’impressione che si trae dalla lettura della Fenomenologia, per cui quest’opera non appare più unicamente una introduzione alla dottrina hegeliana, ma pure un punto di arrivo, come la narrazione e la conclusione degli anni di formazione e di viaggio attraverso i diversi sistemi.

«Questi scritti giovanili mettono in luce un secondo punto che a prima vista sembra riguardare una parte soltanto dell’opera hegeliana, ma che ben presto si colloca al centro di essa. Che cosa vuole dire l’espressione coscienza infelice? Se infatti si comprende chiaramente di che cosa si tratta quando Hegel nella Fenomenologia esamina lo stoicismo e lo scetticismo, ci si accorge che si ha a che fare con qualcosa di diverso da ciò che si trova nello stadio loro successivo. La coscienza delle contraddizioni che egli studia in questo stadio non è infatti qualcosa di essenziale all’anima di Hegel che si trova continuamente in presenza di antinomie e di antitesi e arriva faticosamente, attraverso un travaglio che è l’eco del travaglio universale del “negativo”, alla sintesi delle contraddizioni?

«Ciò di cui Hegel parla non è forse allo stesso tempo una grande esperienza storica dell’umanità? E questa esperienza non è per Hegel qualcosa di più di una esperienza storica? Prima che un filosofo, Hegel è stato un teologo.

«Questa coscienza infelice inoltre sembra essere il segno di uno squilibrio profondo, ma, nonostante tutto, momentaneo, non soltanto del filosofo, non soltanto dell’umanità, ma dell’universo che prende coscienza di sé nell’umanità, nel filosofo. Questa coscienza infelice è l’elemento non ideale che si trova nell’idea, un elemento oscuro, cupo, che bisogna vincere e che si è formato al principio dell’universo, quando l’idea è uscita da sé. La coscienza infelice è il termine medio e pertanto prima lacerazione e poi mediazione. Il termine medio divide l’unità in giudizi, ma consente in seguito di mediare i giudizi, di riconciliare gli elementi prima dissociati. Così Hegel innalza prima al livello di una descrizione storica, poi all’altezza di principio metafisico, da una parte il sentimento della separazione dolorosa e la riflessione sulle antitesi, dall’altra il bisogno di armonia e l’idea di nozione. I diversi motivi hegeliani si concentrano intorno a questi temi fondamentali: Aufhebung del dolore nella felicità proprio come il concetto è soppresso e sublimato nella nozione; differenza tra la morte di Dio e il Dio morto; morte e redenzione del sensibile.

«Noi vediamo dunque che il pensiero di Hegel ha a che fare con concetti molto vicini ai sentimenti. Le idee di separazione e di unione, prima di essere trasformate l’una nell’idea di analisi, di intelletto, l’altra nell’idea di sintesi, di nozione, erano esperite, sentite. La separazione è dolore, la contraddizione è il male: gli elementi opposti sono elementi insoddisfatti. Non c’è dunque da stupirsi del fatto che Hegel chiami dapprima amore quella soluzione dell’enigma, che poi chiamerà ragione.

«La nozione capitale che segna qui l’ingresso della teologia apologetica nella storia (che divenne essa stessa una logica), è la nozione di coscienza infelice.

«L’evoluzione stessa di Hegel, nei suoi primi scritti, sembra dominata da una legge di contrasti che lo fa andare dall’illuminismo a una filosofia vicina a quella dello Sturm und Drang per tornare poi a un illuminismo interpretato in chiave di kantismo ed arrivare infine a una critica radicale del kantismo e a una filosofia mistica. Ed è precisamente dopo aver quasi divinizzato l’inconscio che Hegel delinea il suo sistema, un sistema dove la coscienza è il termine più alto. Ogni volta Hegel ha vissuto profondamente ciascuna delle filosofie, di cui si è fatto successivamente interprete nella sua giovinezza; ogni volta il residuo emarginato da ciascuna di esse, prima l’irrazionale, poi la riflessione, ha però rivendicato il proprio posto, e così è giunto un momento in cui Hegel come logico ha potuto concepire un sistema in cui tutti questi elementi fossero conservati. Ma questo sistema, dove a prima vista sembra che i concetti siano maneggiati e disposti in modo così meraviglioso, è espressione di un’esperienza viva, è la risposta a un problema che non è puramente intellettuale. Questo problema dell’accordo di ciò che è discorde, per dirla con le parole di Eraclito, il problema della trasformazione della infelicità in felicità, è la sorgente comune della Filosofia della storia, della Filosofia della religione, dell’Estetica, della Logica. I concetti hegeliani non sono stati ricevuti passivamente dalle filosofie precedenti, ma sono stati fusi, rimodellati, ricreati a contatto di una fiamma interiore».

(J. Wahl, Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, ns. tr., Paris 1951, pp. V-VI).

Tracce del commento

La conoscenza che propongo alla parola resterà muta, o quasi, per quest’ultima, se non avrà subìto il contraccolpo dell’azione, non contraccolpo diretto, che non è possibile, ma indiretto. Tornato dalla desolazione l’impatto con la vecchia conoscenza sarà conflittuale ed è questo conflitto che porto davanti alla parola, scovando in quest’ultima, mentre si prepara a dire la rammemorazione, punti di contatto che si rispecchiano gli uni con gli altri. La parola, che nell’azione tace, tace pure nelle sue profondità, scandagliata dalla conoscenza che si accinge a diventare soggetto non dice ancora, non accenna al dire rammemorativo, attende che la penetrazione si compia in tutte le sue parti con eccesso, con quell’aspetto non calcolabile che porta con sé la conoscenza costringendola a uscire dal proprio fortilizio. Ciò che cerco nella profondità più intima possibile della parola è la saggezza, cioè la compenetrazione tra me e la mia conoscenza. Il tutto è oggetto di se stesso, non posso considerarlo il mio oggetto. Non ci sono passi che mi avvicinano se muovo dalla condizione oggettuale, cioè con la pretesa di fissare qualcosa fuori di me. Se io vengo dalla cosa e se la cosa è tutto, come posso porla di fronte a me? Come posso pensare il tutto se questo non può patire niente, quindi nemmeno essere detto, perché solo subendo una penetrazione qualcosa può essere soggetto indicato con la parola. Il desiderio, il sogno, la follia, ecco, su questa strada molto si apre all’orizzonte, ma non bisogna avere paura.

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** «Si deve tener ben presente: in questa forma dell’“ateismo postulatorio”, la negazione di Dio viene avvertita non come uno sgravio di responsabilità o come un’attenuazione dell’autonomia e della libertà dell’uomo, bensì proprio come il massimo accrescimento pensabile della responsabilità e della sovranità. Nietzsche per primo aveva pensato le conseguenze non solo in parte, bensì fino in fondo – e non solo pensato, bensì sentito nella profondità del cuore – le conseguenze del principio “Dio è morto”. Egli può solo esser morto, se vive il supremo – egli, il superdivino, per così dire, egli, l’unica e sola giustificazione del Dio morto. Così anche Hartmann dice: “I predicati di Dio (predeterminazione e provvidenza) vanno riferiti all’uomo”. Ma, beninteso: non, come in Comte, all’Humanité, al grande essere, bensì alla persona – e, in vero, alla persona, che possiede il massimo di volontà di responsabilità, di pienezza, purezza, comprensione e potere. Umanità, popoli, storia delle grandi collettività – tutto ciò, in tal caso, è solo una serie di deviazioni rispetto al valore proprio e allo splendore proprio, fondato su se stesso, di questo genere di persona. La pienezza di rispetto, di amore, di adorazione, che una volta gli uomini hanno profuso verso il loro Dio e verso i loro dèi, spetta poi a questo genere di persona. In ambedue i filosofi, in Hartmann e in Kerler, la persona sta, in gelida solitudine e posta assolutamente su se stessa – e indeducibile –, fra i due ordinamenti, del meccanismo reale e del regno, liberamente in sé sospeso, dell’ordinamento oggettivo dei valori e delle idee, che non è posto da alcun logos vivente spirituale. L’uomo non può poggiare su nulla il suo pensiero, la sua volontà, per portare nel corso del mondo una direzione, un senso, un valore. Su nulla, né su una divinità, che gli comunichi ciò che egli deve fare, né su brandelli di vecchie metafisiche divine così consunti quali sono lo “sviluppo”, la “tendenza verso il progresso” del mondo o della storia – o addirittura su unità collettive della volontà di qualsiasi genere».

(M. Scheler, Lo spirito del capitalismo, tr. it., Napoli 1988, pp. 286-287).

Tracce del commento

La parola matura mette a disposizione del dire la saggezza che ho ricavato dalla conoscenza, non aspetta che qualcosa possa essere aggiunto dall’esterno, la memoria stessa dell’azione è in un certo senso l’adolescenza della parola, la sua età dirompente in cui la saggezza sta accanto alla frivolezza e l’eccesso è visto solo come aumento quantitativo assoluto. La maturazione nella qualità, vissuta nel corso dell’azione, è in vista del destino, solo i miseri omuncoli rattrappiti nella difesa del proprio destino parlano di vecchiaia. Il destino è l’ultima periferia estrema della parola che dice, se il suo dire è fortemente rammemorativo, arriverà a farsi udire dal destino e solleciterà la mia possibilità nuova. A questo si impegna la parola che oggi fronteggia la mia conoscenza, e quello che questa parola si aspetta da me è la mia saggezza, una maturità che viene dall’esperienza, dalle tante esperienze anche qualitative, e anche dalla stessa immediatezza, dallo studio, dall’antica persistenza nello studio, e quindi anche dall’età.

Sedicesima lezione: 15 maggio 1990

Il tentativo di Proudhon* di criticare l’ipotesi provvidenziale capace di far diventare necessarie le decisioni degli uomini, oltre che l’ipotesi laica, e precisamente kantiana, di una sorta di piano nascosto della natura, migliora le condizioni complessive del problema, ma non elimina il concetto di progressiva liberazione dell’uomo. Questo compito umanitario viene affidato ad un istinto sociale o collettivo che viene letto dall’individuo, osservandolo nella società, come una serie di impulsi involontari guidata da un decreto superiore più o meno simile a quello provvidenziale. La critica invece è in grado di cogliere al di sotto di questa mancanza apparente di finalismo, uno scopo nascosto, l’attività senza tregua del nemico di Dio, che lavora alla costruzione dell’ateismo umanitario, capace di dimostrare l’inesistenza delle ipotesi provvidenziali. Comunque, anche queste tesi certamente più vicine alla realtà, si concludono nell’analisi di una forza interna alla realtà, che spinge verso il progresso e produce sempre nuove e migliori condizioni di giustizia. Anche qui si trovano fasi rivoluzionarie, sempre tre, culminanti nell’attuale uguaglianza davanti alla legge e preludendi ad una ulteriore ultima fase in cui si stabilirà l’uguaglianza definitiva e concreta, dell’uomo e della sua umanità.

La raccolta delle obiezioni diventa a questo punto uguale a quella che si potrebbe fare contro qualsiasi pensiero rivoluzionario moderno, con precisazioni più o meno specifiche per quanto concerne il marxismo. Giusta la centralità e l’importanza data alla lotta contro l’idea di Dio, inteso come fantasma della nostra coscienza e come origine dell’autorità, ma non corretta l’alternativa della scienza come strada verso la libertà. Ogni progresso è basato certamente su una vittoria contro Dio, ma si tratta di vittorie che non si possono accumulare, è proprio questo che non si è ancora capito e contro cui continuo a battermi, ed è proprio questo che si può considerare come uno dei movimenti più densi di significato di tutte queste lezioni. Non possiamo toglierci definitivamente davanti l’idea di Dio, non possiamo farlo perché rappresenta quell’ordine e quella sicurezza, quindi anche quell’onnipotenza, che speriamo di realizzare come volontà, qui, nella nostra immediatezza. Dio è il contraltare della nostra lotta, lotta che non si interrompe mai, che non perviene mai ad una conclusione definitiva, positiva.

L’uomo non è destinato a diventare signore della creazione, sostituendosi a Dio, per due buoni motivi, primo, perché Dio non esiste e quindi essendo oggetto della nostra fantasia, o sia pure della nostra sofferenza, potrebbe continuare a sorgere dalla propria distruzione, secondo, perché se l’uomo ne prendesse il posto sarebbe tiranno forse di genere peggiore e tutta la sua vita ne verrebbe sconvolta nella prospettiva della conquista definitiva. Dio non è fatto dall’uomo sulla base del suo desiderio di miglioramento, ma sulla base della sua semplice paura. La paura origina soltanto chiusure nell’ambito dell’immediatezza, suggerisce accomodamenti e desiderio di ordine. Se Dio è il male, secondo la tesi di Proudhon, lo è in quanto costituisce il fondamento dell’autorità, nel caso che l’uomo lo sostituisca nell’autorità, dando appunto vita ad un dominio laico della coscienza immediata, lo sostituirebbe nel male e si avrebbe, come di fatto si ha, un male laico e tutto umano, ma non per questo migliore dell’altro, tutto divino.

Il desiderio di eguagliare Dio conduce all’autorità e questa rinvia alla chiusura nell’immediatezza. La spinta a temporalizzare la realtà allo scopo di prevedere, si nutre del desiderio di conquista, un modo di sfuggire alla morte che invece ci lascia indifesi e in balia dei nostri sogni d’eternità. La previsione razionalizza il dominio e mette nelle mani dell’uomo uno strumento che non lo conduce verso la libertà, ma verso sempre nuove forme di dominio. Se qualcuno cerca di controllare il libero sviluppo relazionale, sulla base di un piano provvidenziale o più semplicemente razionale, cioè laico e umanistico, le conseguenze sono identiche. Sostenere l’esistenza di un processo preordinato all’interno della realtà, principalmente preordinato ad uno sviluppo positivo, diretto a realizzare il sogno di tutti gli uomini amanti della giustizia, cioè l’anarchia, la fine del regno della necessità del dominio, significa comunque sostenere la presenza di un disegno provvidenziale, e ciò sia nel caso in cui si costruisca una divinizzazione dell’umanità tipica di Ludwig Feuerbach**, come nel caso in cui si realizzi una umanizzazione della divinità. Le conseguenze saranno sempre quelle di un abbassamento delle reali possibilità liberatorie dell’uomo.

È ovvio che quanto sto dicendo vale anche per quelle costruzioni negative, per modo di dire, ma che sarebbe più esatto definire millenariste, che pretendono individuare all’interno della realtà una spinta meccanicamente indirizzata al tramonto della civiltà. Queste costruzioni fantastiche o sono inutili, semplici tautologie, in quanto è evidente che l’uomo non è eterno, o sono analisi che concernono l’immediatezza e sono allora modelli progressivi rovesciati, camuffati in meccanismi regressivi. Di regola queste costruzioni si basano su di una valutazione negativa della tecnica, valutazione che non di rado risente dalla presenza di ideologie conservatrici o di riflessioni pessimistiche mal digerite. Una seria critica della tecnica e delle sue applicazioni è ben altra cosa.

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* «Noi dobbiamo fare i conti con due uomini, prima col signor Proudhon, poi con Hegel. I materiali degli economisti sono la vita attiva e fattiva degli uomini; i materiali del signor Proudhon sono i dogmi degli economisti. Ma dal momento che non si persegue il movimento storico dei rapporti di produzione, di cui le categorie non sono che l’espressione teorica, dal momento che si vuol vedere in queste categorie solo idee, pensieri spontanei, indipendenti dai rapporti reali, si è ben costretti ad assegnare come origine a questi pensieri il movimento della ragion pura. Come la ragione pura, eterna, impersonale fa nascere questi pensieri? Quali procedimenti segue essa per produrli?

«Se in fatto di hegelismo fossimo altrettanto intrepidi che il signor Proudhon, diremmo: essa si distingue in se stessa da se stessa. Che mai significa? Dal momento che la ragione impersonale non ha al di fuori di sé né terreno sul quale possa poggiare, né oggetto al quale possa opporsi, né soggetto col quale comporsi, si vede costretta a fare il salto mortale, ponendosi, opponendosi, e componendosi: posizione, opposizione, composizione. Parlando greco, abbiamo la tesi, l’antitesi e la sintesi. Per coloro poi che non conoscono il linguaggio hegeliano pronunceremo la formula sacramentale: affermazione, negazione e negazione della negazione. Ecco che cosa significa parlare. Certo questo non è ebraico, non se n’abbia a male il signor Proudhon; ma è semplicemente il linguaggio di questa ragione tanto pura da esser separata dall’individuo. Invece dell’individuo ordinario, con la sua maniera ordinaria di parlare e di pensare, non ci resta che questa maniera ordinaria del tutto pura, senza più l’individuo.

«C’è forse da meravigliarsi se ogni cosa, in ultima astrazione, poiché di astrazione si tratta e non di analisi, si presenta allo stato di categoria logica? C’è da meravigliarsi forse se, eliminando a poco a poco tutto ciò che costituisce l’individualità di una casa, facendo astrazione dai materiali di cui essa si compone, dalla forma che la distingue, voi arrivate a non avere più che un corpo; e che, facendo astrazione dai limiti di questo corpo, ben presto, non avrete più che uno spazio; e che facendo infine astrazione dalle dimensioni di questo spazio, finirete per non avere più che la quantità assolutamente pura, la categoria logica? A forza di astrarre in questo modo da ogni soggetto tutti i pretesi accidenti, animati o inanimati, uomini o cose, abbiamo certo ragione di dire che, in ultima astrazione, si arriva ad avere come sostanza le categorie logiche».

(K. Marx, Miseria della filosofia, tr. it., Roma 1949, pp. 85-86).

Tracce del commento

C’è qualcosa di oscuro nel non volersi arrendere alla morte quando arriva per ritirare il resoconto di una vita priva di senso. L’ansia di un altro respiro, la preoccupazione di strappare ai suoi denti aguzzi un ultimo secondo, è il massimo dell’oscenità. Mettere fine a tutto questo per tempo, quando si è ancora in grado di farlo. Ecco un programma serio. Ma la precarietà della vita potrebbe prendermi in contropiede e azzerare la mia lucida consapevolezza di oggi. In fondo, di fronte alla morte mancano le parole. Per un vecchio che muore non c’è nulla da dire, ma lui non sa di essere vecchio, la coscienza del proprio diventare vecchio è una delle mete più difficili da raggiungere per la saggezza.

Testi

** «Non al Cristianesimo, non all’entusiasmo religioso, ma solo all’entusiasmo della ragione dobbiamo l’esistenza di una botanica, di una mineralogia, di una zoologia, di una fisica e di una astronomia. Dio quale essere morale o legge».

(L. Feuerbach, L’essenza del cristianesimo, tr. it., Milano 1994, p. 68).

Tracce del commento

Che la rinuncia all’efficacia e al suo corollario, all’utilità, sia il male assoluto può anche darsi, precisando meglio che cosa si intende per assoluto, ma ciò soltanto nell’ottica della modificazione produttiva. Non amo la qualità per le sue qualità intrinseche, l’amo per me stesso, per quello che sono, non per gli aspetti universali della verità, della giustizia, della bellezza e della libertà. Tutte le volte che ho indossato l’abito del rappresentante di queste tensioni, riprodotte in serie per essere vendute nei supermercati, ho manifestato subito non solo la mia fragilità, ma anche la loro, come prodotto la qualità non può concorrere con la quantità, può solo mimarla. Metto fatica a disabituarmi alla gente e alla città. È come una droga, richiede tempo e ha un rigetto di astinenza. La solitudine annega la mia naturale ritrosia a concedermi, sogno commistioni che altrove mi farebbero ribrezzo.

Diciassettesima lezione: 18 maggio 1990

Allo stesso modo in cui l’ideologia progressista grossolana e ottimistica che possiamo riassumere nelle chiusure mentali del dott. Pangloss, tanto sottilmente messe in ridicolo nel delizioso volumetto di Voltaire*, per definirsi come sviluppo verso la realizzazione del migliore dei mondi possibili, ha bisogno di riassumere in sé tutte le disgrazie che un uomo può sopportare, a partire dal terremoto di Lisbona, così una concezione pessimista, di pari chiusura mentale, ha bisogno di riassumere in sé non solo tutte le disgrazie ma anche gli aspetti positivi, semplicemente per dimostrarne l’incapacità a frenare la corsa verso il fallimento. Nella poetica baudelairiana, che esprime uno dei casi più estremi di questa concezione pessimistica vista come interna alla realtà, si colloca una forte contraddizione tra il detestare l’industrialismo e l’accettare gli aspetti eccezionali che questa tecnologia ha messo a disposizione nella vita umana. Questo desiderio di punizione, eminentemente cristiano, coesiste con altre valutazioni sempre contraddittorie, poniamo quella relativa alla donna che è vista nello stesso momento come schiava, come bestia, e come vergine immacolata.

Il millenarismo attuale ha trovato un’ottima alimentazione nel pericolo atomico, utilizzato da due opposti versanti con il medesimo scopo. Da una parte per fronteggiare l’avversario militarmente, dall’altra parte per accusarlo di volere distruggere il mondo. Nessuno ha proposto un’analisi onesta, né i detentori del potere internazionale né i rivoluzionari. Questi ultimi, anche loro, sono stati spesso trascinati dalle condizioni complessive dello scontro che, a un certo momento, imponevano l’impiego di grandi manifestazioni di massa, sostanzialmente inutili, ma politicamente irrefutabili. Affermare, con tutta la certezza necessaria, un movimento interno alla realtà diretto alla distruzione totale dell’esistente per come lo conosciamo, è sempre un modo per ingannare la paura, prospettandosi una fine, quale che sia, comunque sicura, capace cioè di liberarci dall’inquietudine e dal rischio di coinvolgerci in qualcosa di diverso.

La conoscenza è pericolosa, una volta che la si intende come penetrazione negativa, come passione che può riuscire a travolgere la paura che ci frena e ci fa odiare ogni diversità. Ma, non dimentichiamo che, allo stesso modo, odiamo il fare coatto, il grembo che ci accoglie e ci rassicura ma ci soffoca. Ecco perché spesso siamo feroci senza essere capaci d’indirizzare questa forza contro un obiettivo sicuro e abbiamo bisogno di illuminarci la strada con progetti complessivi, automatici, di cui in fondo ci importa poco che siano progressivi o involutivi. Abbiamo una solidarietà profonda con i nostri simili, con la sofferenza, con le espressioni più estreme della miseria, ma abbiamo anche la capacità di capire che questo sentimento ha una sua origine precisa, in una precisa ideologia illuminista, dovuta a sua volta ad una laicizzazione della vita quotidiana. Prima la povertà veniva considerata diversamente, un movimento che considerava la povertà un privilegio divino, si capovolse poi in un movimento che la considerava qualcosa da abolirsi in vista del raggiungimento della felicità. Pensare la povertà come causa del disordine sociale, o pensare la ricchezza come causa del medesimo disordine, implica un’idea di ordine che ha sempre il medesimo intento finalistico, idea che produce conseguenze nel modo diverso di indentificare presumibili cause ed effetti.

La lotta sociale non può quindi diventare elemento fondamentale di nessun automatismo, né positivo né negativo. Accettando progetti finalizzati si ottengono risultati quasi sempre contraddittori e si è spinti ad abbandonare l’idea conflittuale, invece di calarla nella realtà, cioè di vederla nella sua effettiva componente relazionale. Semplificare la realtà non produce chiarezza, perché la qualità non può essere raggiunta attraverso scorciatoie, non può essere espressa, tanto meno espressa in poche parole. Tutti coloro che insistono nella grande dote della semplicità, non fanno altro che esprimere il proprio intimo desiderio di semplificarsi la vita, in quanto hanno in fondo paura di una vita troppo complicata.

Una concezione circolare del meccanismo accumulativo priva quest’ultimo di qualsiasi automatismo finalistico. Né principio né fine né fasi intermedie né coscienza collettiva. Solo continuità e impossibilità di completezza, nessuna linearità, nessun individuabile progresso o regresso. Nessuna possibilità di mettere definitivamente ordine nel meccanismo, anche se da parte dell’immediatezza arriva questa continua richiesta di controllo. L’individuazione del nemico è certamente compito della diversità, mentre se resta tutta interna all’immediatezza non arriva mai a diventare individuazione e attacco contro il nemico, ma semplice esercitazione diretta ad esorcizzare la paura. È nel coinvolgimento, prima mossa dell’effettualità attiva dopo l’apertura, che si coglie la responsabilità della coscienza e la resa della relazione col nemico. Dall’intero sviluppo effettuale non è comunque ricavabile un’indicazione complessiva, un movimento capace di dar conto degli effetti qualitativi generalizzabili. Fra le varie responsabilità c’è indipendenza, ma non c’è pienezza di responsabilità, nel senso che ogni diversità non ha il monopolio della responsabilità, per quanto nel momento che essa la vive, come coinvolgimento, la vive come totalità di ogni possibile responsabilità. Ne deriva che movimenti effettuali complessi si possono coordinare, sempre a livello inferiore, come assetti relazionali dando vita a strutture, cioè espressioni organizzate fornite di nessi che ricordano le precedenti responsabilità individuali.

Aspetti aggregativi a livello trasformativo non sono possibili e questo spiega la tragedia della qualità, il suo esprimersi come nuova esperienza e la sua impossibilità ad essere comunicata se non attraverso la riduzione strutturale. Così si prova un impulso a fuggire, irresistibilmente attratti verso il rifiuto dell’altro, la paura dell’altro, anche paura di perdere quello che si è conquistato. Nello stesso tempo il desiderio dell’altro è bisogno di fraternità, di affinità, di scambio, di unione. La fusione è momento di estraneità, perché ci costringe ad uscire dall’esperienza qualitativa, che possiamo cogliere solo come coscienza diversa, nella solitudine della nostra personale sfida contro l’ignoto. La rottura della tirannia coatta è sempre un fatto che avviene all’interno della coscienza, che può certamente essere esternato o fatto capire agli altri, ma nel momento che prende come comunicazione esso si stempera nella struttura, nella necessità modificativa. Questa è la sorte del flusso unificato, la comunicazione l’uccide e lo fa ripresentare come nuovo contributo all’orientamento.

Il movimento che sollecita questa fusione, che spinge a cercare gli altri, coloro che ci sono affini, che ci spinge anche ad amalgamarci con coloro che di questa affinità sono coscienti fino ad un certo punto, che al limite ci sollecita a partecipare a situazioni in cui il desiderio degli altri sopravanza 1’identificazione delle loro caratteristiche, questo movimento ha natura strutturale ma non è interno all’accumulazione, non è connaturato con questa, non ha direzioni obbligate, né garantisce per forza risultati positivi. Ci accetta e a volte ci spinge fuori, ci fa invertire il processo, ci fa soffrire di essere abbandonati, o ridotti in schiavitù da simboli e chiacchiere ideologiche. Scopriamo allora di essere caduti in balia di stimoli che sono identici a quelli che spesso condanniamo come poco degni, quando li consideriamo nella loro espressione di piaceri o divertimenti, mentre noi restiamo nel cerchio incantato dei nostri privilegi di coscienza, un’immediatezza cieca e ottusa che si considera padrona del mondo.

È la struttura stessa che questo movimento viene a prendere, con i valori che subentrano al posto delle scelte qualitative, con i residui che ricordano tensioni ormai cristallizzate in riflessi condizionati, è tutto ciò a dare amalgama ideologico, rigidità pratica, significatività di campo. Le semplici unificazioni perdute non potrebbero tanto, subito intervengono innumerevoli compromessi, un insieme di incoerenze che ci fanno sentire perfettamente a nostro agio. Dopo l’itinerario incredibile, l’esperienza della qualità, rientriamo presso di noi, un po’ubriachi e tanto più disposti ad accettare una normalizzazione. Nessuna follia può durare a lungo, improvvisamente sentiamo il bisogno di ristabilire l’ordine turbato, la perfetta simmetria dell’immediatezza. È qui che ci coglie la struttura di ritorno, disponibile a prendere la grande fertilità del caos che abbiamo sperimentato e inglobarla nel proprio assetto tritatutto. La nuova divisa diventa quella della chiarezza e della sincerità, diventiamo noiosi e utili, in primo luogo a noi stessi.

Siamo così disponibili ad accettare speranze e virtù morali, doveri e responsabilità verso gli altri, ruoli e imposizioni sociali. Messa da parte l’unica reale responsabilità, quella verso noi stessi, quella del coinvolgimento, ci accorgiamo di essere stati folli ad aver paura dell’ordine e della stabilità del campo, la vera paura è quella diversità che ci trascina in un universo instabile e incerto. Noi passiamo la vita come un pendolo tra questi due estremi di giudizio, tra due paure, due fughe, due ripensamenti, due mondi in contrasto tra loro. L’idea di collocare fuori di noi un meccanismo automatico, possibilmente diretto verso il bene, progressivo, è chiaramente voluta allo scopo di esorcizzare queste due paure in una volta sola. L’illusione escatologica ha la sua forza proprio nel fatto che quanto promesso non si realizza mai, in quanto non è importante lo scopo ma la promessa, non il risultato ma l’effetto che si ottiene dal semplice aver posto l’esistenza del meccanismo. Così, senza stare molto attenti a bilanci o conclusioni, ci sentiamo assistiti da una forza esterna a noi e quindi ci sentiamo protetti.

L’aspetto più importante quindi non è l’aspettativa di un accadimento, ma la disposizione che genera ed alimenta questa aspettativa, la quale necessita di una fede, religiosa o laica questo ha poca importanza, i bagagli del vecchio Dio sono stati recentemente trasportati sulla terra. L’illusione dello sviluppo lineare allevia il peso della circolarità, garantisce la validità delle conquiste parziali che andiamo accumulando, ci aiuta a curare le ferite di eventuali sconfitte non desiderate, infine ci allontana dallo spettro della morte, concludendo però col metterci disarmati davanti all’ineluttabile realtà della fine tutt’altro che gloriosa di ogni conquista che sia fatta in vista del possesso. Più possediamo, più ci sentiamo attratti verso un mondo ordinato e garantito, verso la stabilità della modificazione, più abbiamo bisogno d’una forza esterna a noi in cui credere.

Discutere i motivi di una fede del genere, sia pure nella versione laica del progresso non può mai arrivare fino a chiarire l’origine del bisogno che giustifica quella fede. Si tratterà sempre di considerazioni razionali, dirette a sviluppare le condizioni del funzionamento, gli scopi, le origini, le fasi del processo, mai verrà messo in questione il processo stesso. Il mettere in questione è stato perfino considerato una cosa moralmente riprovevole. Mettere in dubbio, poniamo, la bontà dell’uomo, il suo destino di felicità in una società libera di eguali, è considerato un segno di sfiducia nella lotta contro il nemico di classe, come se fosse obbligatorio essere, nello stesso momento, sfruttati, rivoluzionari e stupidi. Purtroppo, l’imbecillità di molti non permette un’indagine tagliente, in grado di scoprire quanto dell’antica fede persista incontaminata sotto le spoglie laiche e rivoluzionarie. Non che ci sia nulla di male, solo gli imbecilli vedono cattivi presagi nel cielo della speranza, e vi contrappongono la logica positivista dei fatti, come se fosse questa logica analitica a smuovere le montagne. Invece l’ideale resta sempre nell’ambito della fede, e nasce come ogni fede, terrena o divina non fa differenza, dalla paura e dalla sofferenza, ed è un ideale violento e paziente, amoroso e concretamente disposto all’attacco, fiducioso e radicale. Ma non bisogna coprirlo con la giustificazione dell’automatismo, per garantirsi più di quello che può dare.

La realtà della questione non è quindi sulla fondatezza della speranza, ma se questa possa essere riposta in qualcosa di esterno alla coscienza, in un meccanismo ben preciso, individuabile, che lavori anche nei momenti in cui la coscienza sta indirizzandosi verso altri obiettivi, quando sta venendo meno ai suoi impegni trasformativi, anche quando arretra dinnanzi alla paura e al pericolo. Il desiderio di aspirare alla qualità, nel pieno di tutte le sue possibilità relazionali, smuove perfino la modificazione, sovverte con l’inquietudine i progetti di controllo dell’immediatezza, rende attiva la diversità. Tutto ciò costituisce una fede, ma di genere ben diverso da quello che si potrebbe poggiare su di un deterministico e progressivo meccanismo interno alla realtà. E la fede si sviluppa, come sappiamo, dove dilaga la sofferenza, l’inganno, la lotta, la morte**.

Il tortuoso progetto della diversità appare da per se stesso una sfida ad ogni ragionevole funzione del dominio umano, del controllo che l’accumulo pretende di estrinsecare su tutta la realtà, orientandola verso il senso. E si tratta di una sfida che ha sempre messo in crisi il senso comune, che ha scandalizzato i perbenisti e i risparmiatori, proprio perché non tiene conto d’un aiuto esterno, ma conta soltanto su se stessa, proprio perché rigetta qualsiasi ipotesi meccanicista, sia catastrofica come progressiva. La ragione può esercitare come meglio crede i suoi esercizi di previsione, può anche trasferire la fede nell’uomo in una fede nel meccanismo costruito dall’uomo ma supposto indipendente, fattivo all’interno della realtà, ma non può mettere a tacere l’inquietudine che coglie la coscienza immediata davanti al senso di impotenza che si prova di fronte agli obblighi del fare coatto.

La complessa effettualità della coscienza, con la sua netta distinzione tra immediatezza e diversità, non bisogna dimenticare che è un tutto unico, per cui nello stesso momento si ha una fattività modificativa che opera su alcuni flussi, e un’attività interpretativa e trasformativa che opera su altri. Noi operiamo quindi una distinzione analitica, come se la coscienza agisse in due mondi separati, e distintamente, perché non riusciamo a dire il movimento senza ricorrere ai protocolli temporali e agli altri accorgimenti convenzionali del campo. E poiché nessuna di queste effettualità è relazionalmente elementare, cioè puntuale, ma si presenta sempre come fattività e come attività complessa, ne deriva che esistono infinite varietà di concreti stati di coscienza.

Il passaggio dall’individuo alla dimensione collettiva avviene comunque esclusivamente all’interno dell’immediatezza, non dandosi possibilità di trasmettere l’esperienza effettuale superiore, cioè qualitativa, se non attraverso una sua conclusione in quanto flusso unificato e la relativa modificazione in flusso orientato. L’esperienza dell’altro è sempre una necessaria perdita di qualità. Difatti questa esperienza sempre legata a condizioni specifiche del fare coatto, il tempo, lo spazio, le sensazioni, la cultura, il linguaggio, la gestualità, il senso in una parola. L’affinità che possiamo cogliere nell’altro, man mano che cresce la nostra conoscenza, quindi man mano che cresce la catalogazione dell’altro, reciprocamente, può essere elemento capace di scatenare altre inquietudini nella nostra immediatezza, inquietudini capaci di dare inizio ad altri processi effettuali interpretativi e trasformativi, la cui conclusione qualitativa, ridimensionata come esperienza e come possibilità, può essere ricondotta ulteriormente nel rapporto con l’altro, purché non si pretenda di trasferire questa esperienza in un possesso o in una conquista che finiranno per gravare sull’altro impedendo qualsiasi sviluppo relazionale.

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* «Mi sembra che in generale l’intento con cui il Signor Pascal scrisse questi Pensieri sia stato di mostrare l’uomo in una luce odiosa. Si accanisce a dipingerci tutti cattivi e infelici. Scrive contro la natura umana press’a poco come scriveva contro i Gesuiti. Imputa all’essenza della nostra natura ciò che appartiene soltanto a certi uomini. Dice eloquentemente delle ingiurie al genere umano. Io oso prendere il partito dell’umanità contro questo misantropo sublime; oso assicurare che non siamo né così cattivi né così infelici come lui dice; sono anzi ben persuaso che se avesse seguito, nel libro che aveva in mente, il disegno che appare nei Pensieri, avrebbe fatto un libro pieno di paralogismi eloquenti e di falsità mirabilmente dedotte.

«L’uomo non è un enigma come voi immaginate, per avere il piacere di scioglierlo. L’uomo sembra al suo posto nella natura, superiore agli animali, a cui è simile per i suoi organi, inferiore ad altri esseri, a cui assomiglia probabilmente per il pensiero. È, come tutto ciò che vediamo, un miscuglio di bene e di male, di piacere e di affanno. È dotato di passioni per agire, e di ragione per governare le sue azioni. Se l’uomo fosse perfetto, sarebbe Dio, e le pretese contrarietà, che voi chiamate contraddizioni, sono gli ingredienti necessari che entrano nel composto dell’uomo, che è quel che dev’essere.

«Cominciate, si potrebbe dire al Signor Pascal, col convincere la mia ragione. Ho interesse, certo, che ci sia un Dio; ma se, nel vostro sistema, Dio non è venuto che per così pochi; se il piccolo numero degli eletti è così spaventoso; e se per parte mia non posso niente di niente, ditemi, per favore, che interesse ho a credervi? Non ho un interesse manifesto a esser persuaso del contrario? Con che faccia osate mostrarmi una felicità infinita, alla quale, su di un milione di uominí; appena uno ha diritto di aspirare? Se volete convincermi, comportatevi in altro modo, e non venite ora a parlarmi di giuoco d’azzardo, di scommessa, di testa o croce, ed ora a spaventarmi con le spine che disseminate sul cammino che voglio e debbo seguire. Il vostro ragionamento servirebbe solo a far degli atei, se la voce di tutta la natura non gridasse che c’è un Dio, con tanta forza quant’è la debolezza di queste sottigliezze.

«Per me, quando io guardo Parigi o Londra, non vedo alcuna ragione per entrare nella disperazione di cui parla il Signor Pascal; vedo una città che non assomiglia affatto a un’isola deserta, ma popolata, opulenta, ordinata e in cui gli uomini sono felici tanto quanto natura concede...

«Arrivo a Parigi dalla provincia; mi introducono in una sala bellissima in cui 1200 persone ascoltano una musica deliziosa: dopo di che tutta questa congrega si divide in tante piccole società che vanno a fare un’ottima cena e dopo questa cena non sono affatto scontente della notte. Vedo tutte le belle arti in onore in questa città, e i mestieri più vili ben ricompensati, le infermità mitigate, gli accidenti prevenuti; tutti vi godono, o sperano di godere, si lavora per godere un giorno, e quest’ultima sorte non è la peggiore. Allora dico a Pascal: Mio grand’uomo, siete pazzo?».

(Voltaire, Lettres philosophiques ou lettres anglaises avec le texte complet des remarques sur les Pensées de Pascal, ns. tr., Paris 1951, pp. 92-93).

Tracce del commento

Non mi pare il caso di riaprire qui la diatriba fra le tante fruizioni possibili della musica, quello che conta è tenere presente il suo essere là, avviso della cosa, segno della solitudine e della desolazione. Il mondo musicale è assolutamente estraneo al mondo da me creato, quella quotidianità dove solo apparentemente la musica si trova immersa e dove tutto sembra risuonare dei suoi accordi. Ma quello che in questo paradossale universo modificativo è prodotto non è musica, mentre quello che è musica, prima di tutto la voce remota dell’uno che rimbomba nella cosa, non è producibile come merce per supermercati. Poco può dirmi la musica, quando nella sua stupefacente concretezza si alza fino a raggiungere la mia capacità di intuire la sua vera consistenza solitaria, non parla la musica, e il canto, che della musica è realizzazione strumentale, come quella di qualsiasi altro strumento musicale, non dice quello che le parole pronunciano, è anche esso puro suono, solitudine e silenzio del dire. Se metto dentro la musica la mia tecnica, ecco che la dico, in questo caso posso professionalmente parlare di musica, ascoltare musica e perfino goderne, come godo di qualsiasi sprazzo di piacere che la condizione coatta in cui mi trovo non riesce a controllare e filtrare snaturandolo. Ma la musica è altro, sta sola al di là di queste barriere colte o meno colte, un musicologo di grande esperienza e cultura è parimenti lontano dalla musica dal becero ascoltatore che si incanta a ripetere i motivetti delle canzoni alla moda, è lontano in maniera differente, ma è lontano lo stesso. L’esperienza nella musica e della musica può essere, ovviamente, rammemorata, ma questo è un altro discorso e, in generale, non sembra per nulla un discorso sulla musica. Per coerenza evito di farlo qui. I pochi presenti, amichevolmente pazienti, lo ritroveranno nella rammemorazione della cosa. Tentare di capire la musica mi rende colpevole di lesa maestà, allo stesso modo di capire la realtà, di cogliere la sua settorializzazione, e di propormi di andare alla ricerca della cosa. E la colpevolezza musicale, per molti aspetti, si paga anche a più caro prezzo. Primo motivo fra tutti, il prezzo si alza a causa della ignoranza generalizzata. Basta pensare a quanta gente parla di musica, ascolta musica, ma non legge la musica. Questa paradossale condizione di analfabetismo non frena la fruizione generalizzata di cui parlava Walter Benjamin. Ho visto molto di quello che c’era da vedere, ho letto libri e ascoltato musica nei miei giorni, ho guardato negli occhi il potere. Non sono rimasto abbagliato. Tutto questo me lo vogliono fare pagare, a qualunque costo. Ecco perché mi trovo qui.

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** «Hegel aveva cercato, nella sua filosofia della religione, di fondere i due grandi movimenti progressivi della storia dell’Occidente, il cristianesimo e il razionalismo laico-illuministico. La filosofia si alleava alla teologia, o meglio ne prendeva il posto, nella ricerca intorno al sapere di Dio, e cioè dell’Assoluto. Ma la grandiosa sintesi di divino e di umano, di infinito e di finito, attuata da Hegel, conteneva la possibilità di una scissione ben più radicale e decisiva di quella che aveva voluto ricomporre. In realtà, il “superamento” hegeliano dell’onto-teologia cristiana apparivà ai suoi critici, di sinistra e di destra, non già una “teologizzazione della filosofia”, come lo stesso Hegel aveva sperato, ma una “filosoficizzazione della teologia”. In questo modo, l’Aufhebung hegeliana si esponeva a rovesciamenti radicali, sia pure di segno diverso tra loro. L’integrazione di teologia e filosofia, che realizzava la convergenza di storia (Geschichte) umana e storia della salvezza (Heilsgeschehen), appariva come una sintesi ambigua di terreno e di ultraterreno, in cui entrambe le sfere vedevano minacciata la loro autonomia. In nome di un nuovo radicalismo, teologico (come in Kierkegaard), umano e sociale (Feuerbach e Marx), pessimistico (Schopenhauer) o eroico (Nietzsche), il superamento compiuto da Hegel sarebbe stato respinto volta per volta come cattiva teologia o come cattiva filosofia. Il “salto nella fede” di Kierkegaard, proprio come il ribaltamento della gerarchia di terreno e ultraterreno operato da Feuerbach, avrebbe sancito la divaricazione tra storia umana e storia della salvezza».

(A. Dal Lago, “L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut” n. 222, 1987, p. 5).

Tracce del commento

La parola è a volte animata da un’ansia rammemorativa visibile, così il mio occhio sensibile vede ancora più profondamente, il mio orecchio ode qualcosa di più intimo, l’antica cosa in azione. Certo è sempre un suono quello di cui discuto, ma che suono? Non un semplice rispecchiamento, una imitazione, ma uno scendere in regioni buie dove solo l’azione fronteggia il vento nero della notte, il respiro silenzioso della solitudine e della morte. L’energia di questo scendere è nella parola, ma è anche nello scendere stesso. Ho affrontato quel vento del deserto, quando la paura raccoglie le forze per scatenare l’ultima battaglia, quella della vergogna e dell’obbrobrio, e ho saputo farvi fronte. Mi sono messo sotto gli occhi la mia vita, la mia dignità di uomo e ho pesato la sofferenza mia e quella inflitta agli altri. Su questa alta montagna deve salire il portatore di liberazione per vedere bene la limitatezza del suo compito. Se potesse guardare alla propria icona che assorti o distratti astanti gli stanno approntando, arretrerebbe inorridito. Invece va avanti, vado avanti. È sempre tempo di progetti, anche di sciarade risolte dal vento, silenziose sfide non tiepidi mantelli da gettare sul collo. Nessuna diserzione maculata di inchiostri e supposizioni, l’azione è un gioco con la morte non un pensiero blando per addormentarsi meglio la sera. Se il tutto si confida con la mia smania conoscitiva ha bisogno di me per completarsi. Il fatto che io sia di già la sua completezza in potenza, per cui anche se non ci fossi sarebbe come se fossi lì, è considerazione a posteriori, al contrario il tutto non appare al mondo né a questo si nasconde. Posso scomparire io e la mia quantità, ma la qualità e la quantità unite nel tutto non possono scomparire, la loro unione non è visibile da parte della mia capacità di distinzione, l’orientamento è un meccanismo percettivo della modificazione, è un modulo della conoscenza.

Diciottesima lezione: 19 maggio 1990

La costruzione dell’esperienza collettiva avviene quindi soltanto nell’ambito della modificazione. L’effettualità creativa può irrompere attraverso i nuovi orientamenti di senso in questa dimensione del fare coatto, a patto che non venga considerata un possesso esclusivo della diversità che l’ha esperita. Il nuovo senso in arrivo contribuisce così a modificare l’immediatezza e a fissare rapporti con gli assetti strutturali in grado di sviluppare i movimenti collettivi. Le intenzioni di rigidità e di controllo, che l’immediatezza conduce sempre in quanto condizioni ineliminabili della sua fattività, elementi costruiti dalla situazione in cui essa si trova a operare e fondamento di ogni possibile protocollo di campo, non scompaiono nell’assetto relazionale, cui l’immediatezza partecipa, ma si dispongono nel movimento collettivo come elementi di senso, aspetti oggettuali della produzione di cui l’immediatezza perde presto cognizione specifica, individuale, per acquistarne una indiretta, collettiva*.

Questo sperdersi dell’immediatezza nella struttura, è una esperienza drastica che rivela affievolimenti impensabili, straordinariamente complessi, non sottoponibili a nessuno schematismo preconcetto. I flussi relazionali s’incrociano senza soluzione di continuità, quindi non è possibile praticamente, pur trovandosi nell’ambito della fattività e pur ricorrendo ai protocolli di campo, identificare cause ed effetti, limiti, confini, determinazioni, possessi e conquiste. L’esperienza si mescola all’incognito e si connettono ambedue insieme all’interno di movimenti strutturali moltiplicati senza fine. L’immediatezza si consolida sempre più nella partecipazione collettiva e vi scopre motivi di conforto contro la paura e motivi, antitetici, di paura, da cui derivano stimoli d’inquietudine ma, nello stesso momento, il movimento collettivo partecipa alle modificazioni in corso e produce oggetti differenti, modificando anche l’immediatezza stessa.

I movimenti individuali che si realizzano nell’immediatezza, fin nei minimi dettagli oggettuali, corporei, vengono continuamente affinati a livello di sensazioni, dall’esperienza effettuale nel suo insieme, per cui l’apprensione si sviluppa negli aspetti situazionali riguardo il campo, e si riversano in modo continuo nei movimenti collettivi, fissando assetti relazionali complessissimi che di regola non possono essere specificati in quanto si perdono nella partecipazione culturale, negli incontri fisici, nei sogni, ma che costituiscono il tessuto relazionale delle strutture e gli aspetti specifici, definiti quantitativamente, delle varie realizzazioni strutturali, così come appaiono verificate sulla base delle convenzioni di campo. Così, ogni effettualità individuale si risveglia accresciuta e irrobustita dal punto di vista quantitativo, con un maggior numero di possibilità strumentali, ma con le stesse possibilità di esperire l’avventura qualitativa, in quanto il movimento modificativo propone occasioni esterne all’apertura, ma non incide su ciò che viene dopo quest’ultima.

L’effettualità qualitativa ha molto in comune con il desiderio, con lo stimolo verso l’esperienza diversa, con l’eccezionalità e il rischio, con l’avventura, tutti aspetti che possono anche essere vissuti nell’effettualità quantitativa, sebbene in modo del tutto differente. Cogliere questa differenza, che nell’effettualità superiore diventa diversità è possibile in maniera più efficiente, educandosi al coinvolgimento, preparando strumenti e laboratorio, mezzi che possono aiutare, ma non può essere programmata a livello collettivo. Il proprio contributo agli assetti relazionali non emerge con chiarezza fin quando non si irrigidisce nella struttura stessa, dove prende corpo in quanto partecipazione abbandonata a se stessa, subordinata alle condizioni del senso comune, alle produzioni ideologiche, ai programmi, alle ipotesi di meccanismo automatico e altri aspetti frammentari e perfino fantastici della struttura. Provare a risvegliare l’uomo all’interno della collettività è impresa difficile per non dire impossibile. È sempre meglio invertire lo stimolo del risveglio, provare a risvegliare i sentimenti collettivi nell’uomo, in quanto l’elemento su cui costruire è sempre quest’ultimo.

La vita, fatta di sensualità e avventura, anche di follia** e senza dubbio di anarchia, non può calarsi senza danni nella dimensione collettiva. Questi danni sono in fondo necessari, acconsentendo al movimento di fondo dell’immediatezza che è di tutela e di salvaguardia, ma non per questo sono meno disperanti, quando ci sentiamo sottratti a movimenti più qualificanti, a momenti in cui abbiamo realmente vissuto non solo la coscienza di noi stessi, ma la presenza degli altri, la loro fisicità, il loro desiderio dentro di noi, fino in fondo. La paura di perdere questi momenti si sovrappone alla paura di ritrovarli dovendo pagare per questo, magari di riottenerli offuscati, insicuri, disperati. Così ripieghiamo sulla linea di certezza, accettiamo conflitti, gelosie, meschinità, drammi quotidiani, mentre sogniamo vertigini ed estasi in un’atmosfera di noia e ripetizione.

La struttura tende comunque a prendere il sopravvento su questi contributi dell’immediatezza, suggerendo via via la non accettabilità di tutto quell’universo che viene ricondotto sotto l’insegna dell’esperienza qualitativa. Per quanto possano essere filtrati attraverso il nuovo orientamento, si tratta di contributi che devono passare non soltanto attraverso il controllo della coscienza modificata, ma pure attraverso la rigidità della struttura. Anche le esperienze più folli possono essere fatte e superate superbamente, conservando nella diversità un fondo inattaccabile d’innocenza, ma la struttura non l’ammette, per il suo continuo richiamo all’ordine, espresso nella collaborazione inevitabile tra immediatezza e assetto, si tratta di incertezze e incespicature della ragione, ostacoli della razionalità, comunque materiale da scartarsi.

Nella necessità collettiva c’è sempre un fondamento brutale e letargico, una sorta di fanatismo razionale, che ricicla continuamente ogni impulso alla bellezza, traducendolo in coordinate pratiche, utilizzabili in modo programmatico, nella prospettiva che la ragione ha suggerito e la tradizione finito per far prevalere. Le altre regioni dell’effettualità sono considerate territorio proibito, destinato a raccogliere dubbi, turbamenti e confusione. Territorio magari ricco per l’esperienza che vi si può fare, ma considerato attraverso la lente deformante del realismo e della letteralità. La struttura non solo riceve i nuovi orientamenti, sempre attraverso il meccanismo dell’accumulo, ma si rifiuta di considerarli facenti parte di un’esperienza omogenea, senso differente. Chi insiste sulla possibilità di un’esperienza collettiva, sia pure filtrata dietro la rinuncia orientativa, viene subito sottoposto a una vera e propria volgarizzazione, cioè una riduzione ai minimi contenuti possibili, dove residui e schematismi si sostituiscono a quanto nel nuovo orientamento può ricordare la passata qualità.

L’effettualità modificativa costituisce il movimento complessivo della fattività, sia l’accumulazione che tutti i movimenti relazionati con essa, la produzione, l’immediatezza e la strutturazione, sono caratterizzati dal fare coatto, in essi non c’è nulla di creativo, nulla di qualitativo, questi movimenti, caratterizzati dall’effettualità superiore, dalle forme e dalla cosa, vi sono presenti attraverso un rinnovamento continuo dei flussi orientati e attraverso i residui. I valori, all’interno del campo, impersonificanti le qualità senza realizzarle. Per questi motivi, il fare assume l’aspetto più semplice del mondo, l’unica cosa misurabile e calcolabile, il fondamento della certezza. Ma si tratta di una certezza specifica del fatto, dovuta alla pretesa di Vico e di Hegel che il reale è razionale o, se si preferisce, che il vero e il fatto si convertono a vicenda. Ciò è certamente un’individuazione di certezza differente dal razionalismo cartesiano, basato sulla chiarezza e sulla semplicità, ma è anch’essa una certezza infondata, in quanto coglie un singolo aspetto della realtà, l’aspetto effettuale, quello appunto creato dalla coscienza immediata***.

L’uomo conosce quello che fa, perché è quello che fa, nel senso che è le sue proprie catene, il suo proprio fare coatto. Ma la realtà effettuale comprende un’apertura verso qualcosa di diverso che può essere conosciuto dall’uomo solo a certe condizioni e comunque non può essere posseduto definitivamente, quindi non può diventare mai l’uomo stesso, ma solo il coinvolgimento dell’uomo, il suo proprio rischio, la sua avventura. Ciò prova che l’uomo non si esaurisce nel fare, quindi che non può conoscere la qualità, in questo caso il vero, attraverso il fare, perché questo fare è parziale e deliberatamente, con determinazione e ordine, taglia via una parte consistente, quella qualitativa, sostituendola con surrogati più o meno banali. La tesi di Vico s’incontra in fondo con quella cartesiana, anche se all’inizio esse sembrano divergere completamente tra loro, e s’incontra nella parzialità razionale della ragione analitica. L’equivoco che ha tenuto come separate queste due tesi si è basato sul fatto che la natura fisica, sottoposta alle cosiddette leggi analitiche, era considerata la metà della natura storica, sottoposta alle leggi dello spirito. Mentre entrambe costituiscono la sola effettualità modificativa, da cui resta esclusa la qualità.

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* «Lo strumento per rendere rigorosamente formale un sistema preformale quale gli Elementi di Euclide, fu trovato nel cosiddetto metodo assiomatico, il quale consiste essenzialmente nella depurazione del sistema stesso da ogni appello implicito o esplicito all’intuizione che avrebbe la pretesa di condurci a verità evidenti.

«E stata soprattutto l’elaborazione, avvenuta appunto nel secolo XIX, di nuove teorie matematiche, quali la teoria cantoriana degli insiemi e le geometrie non-euclidee, a dimostrare la pericolosità dell’appello all’intuizione, in quanto tale appello ci costringerebbe a espungere dalla matematica parecchi risultati che si ricavano logicamente dagli assiomi delle anzidette teorie pur essendo palesemente contro-intuitivi.

«In una teoria assiomatizzata gli assiomi sono proposizioni assunte come base della teoria al di là di ogni loro giustificazione intuitiva e i termini primitivi sono semplicemente delle entità astratte che soddisfano tali assiomi, ossia sono definiti implicitamente da essi. Così ad esempio nella geometria elementare assiomatizzata da Hilbert i termini “punto, retta, piano” non sono altro che tre generi di enti i quali stanno fra loro nelle relazioni determinate dagli assiomi della teoria (“due punti fra loro distinti individuano una e una sola retta”, “una retta e un punto non appartenente alla retta stessa individuano uno e un solo piano”, ecc.).

«Le grandi possibilità fornite alle teorie matematiche dall’uso del metodo assiomatico indussero ben presto gli scienziati ad applicarlo anche a teorie non puramente matematiche, per esempio alla meccanica razionale classica, alla fisica quantistica e a certe teorie particolarmente delicate della stessa biologia. Ciò che ha spinto a questa applicazione è sempre stata l’esigenza di rendere altamente rigorose le teorie scientifiche, depurandole da ogni appello alla intuizione: appello considerato come fonte di equivoci, di incertezze, di problemi insolubili perché mal posti.

«In altre parole: quando esaminiamo un teorema di una teoria assiomatizzata, dobbiamo prescindere nel modo più completo da ciò che tale teorema significava nel linguaggio comune o nella corrispondente teoria preformale. Nella maggioranza dei casi questo significato (intuitivo) è ciò che ci ha spinti a enunciare il teorema in questione, ma non è in base a esso che gli attribuiamo un valore scientifico. A rigore noi glielo attribuiamo se e solo se riusciamo a esplicitare tutti i passaggi logici che conducono dagli assiomi della teoria al teorema in questione.

«Di qui l’importanza determinante, da un lato, della specificazione delle regole logiche adoperate per dedurre il teorema dagli assiomi, dall’altro lato, dell’analisi dei complessi rapporti che intercorrono fra la teoria assiomatizzata e la teoria preformale (rapporti che valgono a spiegarci come questa abbia condotto a quella e viceversa come i risultati ottenuti nella teoria assiomatizzata possano venire utilizzati nel discorso comune). Si tratta di due temi di ricerca ben distinti fra loro, ed entrambi essenziali: 1) il tema delle ricerche logiche; 2) il tema della traduzione fra un linguaggio esatto e uno semplicemente intuitivo.

«Il primo di questi due temi ha dato luogo a grandiosi sviluppi concernenti soprattutto i fondamenti delle teorie matematiche. Il secondo ha dato luogo a dibattiti che concernono soprattutto le teorie fisiche, nel senso più largo di questo termine. Tali dibattiti non fanno che riprendere in forma nuova una questipne assai vecchia di filosofia: il rapporto fra il mondo delle osservazioni (descritte dal linguaggio comune) e il mondo delle astrazioni (cioè il mondo descritto dal linguaggio formale assiomatico).

«Riservandoci di ritornare su di esso nei paragrafi successivi, qui vogliamo limitarci a osservare che non potendosi ritenere che gli assiomi della teoria formalizzata siano direttamente dettati dal linguaggio comune, bisogna concludere che tali assiomi vengono ad assumere un carattere molto simile a quello delle regole di un gioco, regole che vanno rigorosamente rispettate dai giocatori, salvo che intendano cambiare gioco. La geometria, e in genere tutta la matematica, essendo fondata su regole siffatte, perde perciò il carattere di scienza assolutamente vera, che le era stato attribuito per secoli e assume quello di un sistema di convenzioni.

«Essa diventa una scienza a misura dell’uomo, che proprio perciò – come già abbiamo detto – può avere una storia e anzi non può venire compresa nella sua più intima natura al di fuori di questa storia».

(L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza, Bari-Roma 1986, pp. 10-11).

Tracce del commento

L’immagine della cosa passa nella mia mente, alta, con il colore dell’aurora, traccia un segnale luminoso, ma non è la luce che mi asseconda nel controllo, è una luce misteriosa, figlia o madre del silenzio che riempie le mie giornate. Questa immagine canta nella desolazione, non colgo le sue parole, ecco perché dopo mi sforzerò tanto nella rammemorazione. Nell’azione la mia aspettativa tangibile si è ormai ridotta a nulla, agisco e basta, agisco ignorato da me stesso, senza ostacoli o garanzie che riproducano di fronte ai miei occhi quello che sono come separato da quello che sto realizzando nella mia azione. Adesso non c’è più iato, non c’è distanza, tutto mi è assente, tutto è presente in me. L’assenza era per la presenza alterità nemica, armata pericolosamente contro regole e corrispondenze, atrocemente balbettante, voce incomprensibile, odiosa per ogni orecchio armonico non allevato alle dissonanze del deserto. Non c’è più sistema degli obblighi e delle convenzioni. Gli incorruttibili fanno paura, sono fantasmi che anelano alla perfezione, pertanto insinceri perfino con se stessi. Avendo bisogno di alimentare l’enorme fornace della propria incertezza si fanno della coerenza un’armatura e vi si ficcano dentro. Gli incorruttibili sono paurosi ma non lo ammetterebbero. Della loro paura non si staccano nemmeno quando appaiono coraggiosi per le loro decisioni radicali. L’immutabilità dell’uno è impossibile renderla comprensibile in modo sensibilmente apparente. La mia vita contraddice costantemente questa immutabilità in quanto la costruisco sulla variabilità della modificazione. Ma questa vita, propriamente parlando, è per me un’apparenza se non la solidifico con la mia presenza coscientemente diretta alla qualità, se non accade questo, l’apparenza finisce per avere il sopravvento, vivo in mezzo a immagini e ombre, a puri accidenti destinati a scomparire nel continuo vortice delle modificazioni. Così posso creare la mia vita in modo diverso, istantaneamente e continuamente, posso sempre farlo però non è sempre che lo faccio. Ma perché il fare non mi blocchi nella vanità debbo ammettere che quella immutabilità in un certo modo mi appartiene, è parte di me stesso. Di certo io faccio parte del tutto senza riuscire a fare in modo che questa appartenenza si materializzi nella quantità. La mia appartenenza al tutto è più una conseguenza dell’orientamento, la qualità che mi sfugge è anch’essa mia anche se non posso riviverla se non come rammemorazione. La mia creazione del mondo, così come faccio continuamente, è un mio modo di partecipare al tutto e alla modificazione del tutto. Ciò non toglie nulla alla immutabilità del tutto.

Testi

** «A poco a poco il costume dà forma nella comunità ad una prassi commisurata a questa idea, da ora in poi si diviene diffidenti verso ogni benessere eccessivo e più fiduciosi nei confronti di ogni situazione di grave sofferenza, ci si dice, gli dèi possono bene rivolgere a noi i loro sguardi inclementi a causa della nostra felicità e clementi a cagione del nostro soffrire, non certo, casomai, compassionevoli! Infatti la compassione è considerata spregevole e indegna per un’anima forte e temibile, ma elementi, perché la sofferenza li diletta e li mette di buon umore, il crudele gode infatti del supremo solletico che il sentimento di potenza procura. Così la virtù del frequente soffrire, della privazione, della dura condotta di vita, della crudele mortificazione entra nel concetto di “uomo più ligio al costume” nella comunità, – non, per ripeterlo di nuovo, come strumento di disciplina, di autodominio, del desiderio di una felicità individuale, – ma come una virtù che procura alla comunità una buona fama presso gli dèi cattivi e come un continuo sacrificio di conciliazione sull’altare esala verso di essi. Tutti quei condottieri spirituali dei popoli che potevano smuovere qualcosa in quella melma pigra e feconda dei loro costumi, oltre alla follia avevano anche bisogno del martirio volontario per trovare la fede – e perlopiù e in primo luogo la fede in se stessi! Quanto più proprio il loro spirito batteva nuovi percorsi e di conseguenza veniva tormentato da rimorsi di coscienza e angosce, tanto più crudelmente essi infuriavano contro il proprio corpo, contro le proprie voglie e la propria salute, – come per offrire alla divinità un surrogato, semmai dovesse sentirsi amareggiata a causa delle consuetudini abbandonate e combattute e delle nuove mète. Non si creda con troppa fretta che noi adesso ci si sia completamente liberati da una tale logica del sentimento! Le anime più eroiche possono interrogarsi al riguardo. Ogni più piccolo passo in avanti nel campo del libero pensiero, della vita plasmata in modo personale è stato da sempre ottenuto attraverso spirituali e corporali martiri: non soltanto i passi avanti, no!».

(F. Nietzsche, Aurora, I, 18).

Tracce del commento

La moderazione dell’a poco a poco scompare di fronte all’eccesso del tutto e subito. La paura e la prudenza, connaturate al dire, in questo dire rammemorativo, sono messe da parte. Qui il coraggio, che è elemento essenziale dell’avventura nella desolazione della cosa, viene mostrato, quasi si può toccare. La durata e la collocazione fisica dell’accadimento lo infondono in qualcosa che sono aduso a vedere e a toccare, ciò trasforma il fulgore passeggero di una intensificazione senza tempo né luogo bene accertati, in una rammemorazione articolata architettonicamente che si pone di fronte a un’affascinante esemplarità. So bene che si tratta dell’inizio di un labirinto, dove esseri da baraccone, tropi affascinanti e vacui, partecipano della scena, ne sono gli attori e le comparse, ma so anche che l’architettura rammemorante è altro, non è il loro scopo, essa si sviluppa lontana da singole miserie e mi attira come l’accadimento rammemorato. La teoria diventa realtà, è questione di aspettare. Il fatto che la teoria, anche quella che sembra più aliena di agganci con quello che si considera realtà, è realtà essa stessa, è la vita, e la vita, nelle sue continue modificazioni, non cambia mai. Può cambiare un poco soltanto la mia vita, ma per fare questo occorre muoversi verso l’oltrepassamento, quindi negare criticamente me stesso.

Testi

*** «In questo libro quarto soggiugniamo il corso che fanno le nazioni, con costante uniformità procedendo in tutti i loro tanto varî e sì diversi costumi sopra la divisione delle tre età, che dicevano gli egizi essere scorse innanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi e degli uomini. Le quali tre speziali unità, tutte mettono capo in una unità generale, che l’unità della religione d’una divinità provvedente, la qual è l’unità dello spirito, che informa e dà vita a questo mondo di nazioni. Le quali cose sopra sparsamente essendosi ragionate, qui si dimostra l’ordine del loro corso. La prima natura, per forte inganno di fantasia, la qual è robustissima nè debolissima di raziocinio, fu una natura poetica o sia creatrice, lecito ci sia dire divina, la qual a’ corpi diede l’essere di sostanze animate di dèi, e gliele diede dalla sua idea. La seconda fu natura eroica, creduta da essi eroi di divina origine; perché, credendo che tutto facessero i dèi, si tenevano esser figliuoli di Giove, siccome quelli ch’erano stati generati con gli auspìci di Giove: nel qual eroismo essi, con giusto senso, riponevano la natural nobiltà. La terza fu natura umana, intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere».

(G. B. Vico, Scienza nuova seconda, Bari 1967, pp. 421-422).

Tracce del commento

La cosa non è morta, non è Dio che può morire, è il mio cuore e vuole vivere, anche in queste condizioni ridotte. Sento ancora il vento nero della notte soffiare sulla mia faccia, so che la cosa è inflessibile nella sua assoluta compiutezza, so che non ammette remore o giustificazioni, la morte o la vita non la distraggono una frazione di secondo, va e non teme bufere. Eppure quel vento terribile mi manca e continua a dettare sempre nuove ipotesi alla mia coscienza diversa. La voce di queste ipotesi è la rammemorazione. Ogni battito dell’uno, nel suo eterno pulsare perfettamente compiuto, è l’infinito che riflette sempre se stesso. Constatazione che accerchia le insensate progettualità della ragione dominante e mi convince che il nemico si cela dappertutto, anche fra le mie stesse ricerche, l’ho sfiorato perfino all’interno dei miei convincimenti più intimi e l’ho sempre rinviato a dopo, temendo la sua vicinanza. Ma lui è un nemico serio e continua a scavare. Stanotte, come poche altre volte, ho sentito il rumore delle sue pale meccaniche, è qui da qualche parte. La carogna merita riflessioni.

Diciannovesima lezione: 31 maggio 1990

Mi sono spesso riferito alla catalogazione come sinonimo dell’accumulazione. L’uso dei due termini, uno al posto dell’altro, è in fondo esatto, ma la catalogazione permette una sorta di approfondimento accumulativo. Nel sovrapporsi del senso ai processi di riorganizzazione si producono ulteriori distinzioni che sono vere e proprie classificazioni o catalogazioni. Il problema della tassonomia sarebbe secondario se non implicasse alcuni aspetti logici che spesso vengono trascurati. Qui ho bisogno di approfondire un poco questi aspetti per far notare come in simili operazioni si verifica una riduzione di qualità e un mantenimento di quantità.

Se il senso arrivasse isolato, all’interno del flusso, non sarebbe possibile l’accumulazione, in quanto ogni relazione sarebbe assolutamente non identificabile. La molteplicità è sempre frutto di una distinzione possibile intrinseca al flusso, in caso contrario non si distinguerebbe una pietra da un cavallo. Nel meccanismo accumulativo quindi persiste un residuo di qualità, cioè di tensione, che consente la distinzione all’interno del senso ed anche l’esistenza stessa dell’orientamento verso il senso. Il funzionamento di questi rapporti sarà più chiaro in seguito quando affronteremo il problema della forma e quello della struttura. Infatti, tutti questi problemi, anche quello della classificazione, sono per il momento comprensibili in modo approssimativo e parziale.

Per classificare occorre individuare. La coscienza pensa di potere individuare all’interno dell’accumulazione sottoponendo il flusso relazionale ad un controllo capace di ridurre al minimo la di già affievolita presenza di tensione. Ma l’individuazione relazionale è un’operazione di completamento, non di riduzione. Qui si colloca la radicale contrapposizione tra logica dell’a poco a poco e logica del tutto e subito*. Se si riduce l’individuazione al senso si deve spiegare che cosa individua il mezzo di individuazione, cioè se il promotore della riduzione è un processo relazionale completo o è anch’esso una riduzione. Non c’è dubbio che nell’accumulazione tutto l’insieme è ridotto, cioè privo della tensione o almeno con una tensione raccorciata nel simulacro del residuo. Quindi il senso da solo non individua. Non possiamo conoscere un contenuto se non riferendolo ad una qualità, se questa è semplicemente un involucro secco, il contenuto giacerà muto come in una bara e l’individuazione non sarà quella della realtà effettiva, ma quella costruita, secondo i suoi scopi, dal meccanismo stesso di accumulazione.

La prova di questa strana situazione si ha non appena si considera la ristrettezza del campo. All’interno di questa provvisoria delimitazione gli elementi della identificazione quantitativa producono parametri del tipo: spazialità, impenetrabilità, divisibilità e così via, allo scopo di staccare, distinguere, chiarire e ogni altra procedura del genere. Ma nessuna cosa può essere realmente staccata dalla totalità del reale, in quanto partecipa all’insieme delle relazioni. Quindi, quegli elementi non realizzano quello che sembra siano destinati a realizzare. Fin quando cercheremo di isolare il meccanismo accumulativo, ponendo come unico regolatore la coscienza che controlla, non capiremo che per individuare occorre trovare un elemento negativo che si contrapponga alla positività della catalogazione. E questo elemento è senza dubbio la diversità che nasce dall’inquietudine della coscienza. La diversità manifesta subito la capacità di cogliere l’elemento globale della relazione, mentre l’accumulazione in positivo manifesta altrettanto bene una incapacità in questo senso. Oltre tutto non è molto importante approfondire una critica degli elementi citati prima che caratterizzano l’individuazione quantitativa, basta pensare all’assurdità del concetto di impenetrabilità e a come questo concetto sia stato smontato dalla fisica.

La fonte della molteplicità** è un problema che risolveremo parlando della realtà in quanto totalità delle relazioni in movimento. Per il momento dobbiamo accontentarci di circoscrivere il problema, subordinato al primo, che riguarda la classificabilità. Io penso che nell’ambito dell’accumulazione la classificazione diventa possibile solo nella fase riorganizzativa, cioè quando di già si è esaurita l’operazione con cui dal flusso è stato tratto il senso e la tensione è stata ridotta a mero residuo. L’insieme di questa fase si chiama produzione modificativa o fare coatto ed è governata dalla coscienza normale, che controlla i vari momenti di lavorazione del flusso relazionale. Nell’ambito di questo lavoro la coscienza stessa viene accumulata e sottoposta alle regole della catalogazione.

Ogni coscienza, inserendosi in questo meccanismo, come relazione, fin dalla nascita, subisce il processo di spoliazione alla pari di ogni altra relazione. Il problema squisitamente kantiano di trovare un’incognita sulla quale la coscienza si dovrebbe basare per trovare al di fuori del concetto A un predicato estraneo ad esso, non ha ragione di esistere. Infatti, il flusso relazionale procede indifferenziato. La coscienza non è in grado di distinguere e individuare se prima questa distinzione e questa individuazione sono state rese possibili dal processo accumulativo stesso. Se la coscienza fosse contrapposta a questo processo non si avrebbe mai una individuazione in quanto, per tornare al problema kantiano di cui sopra, il predicato non sarebbe altro che la necessaria conseguenza del concetto principale, senza alcuna differenza, un indeterminato continuo, identico per sempre a se stesso.

Ne deriva che la classificazione è una conseguenza della riorganizzazione continua del processo accumulativo. Ma essa deve essere colta dalla coscienza, proprio come movimento oggettuale e non come semplice intuizione. La coscienza deve cogliere quel particolare contenuto e non un altro, quindi deve conoscere il meccanismo che individua quel contenuto e lo differenzia dagli altri nell’insieme continuamente in ribollimento dell’accumulazione. Ciò è possibile perché la coscienza sente e riconosce che il contenuto che sta considerando, ormai classificato, corrisponde ad un proprio contenuto, ad una propria classificazione, contenuto e classificazione che sono particolarità e individuazione dell’esteriorità di se stessa. La classificazione è tanto più dettagliata e puntigliosa fino alla mania, quanto più la coscienza rimane estrinsecata verso il meccanismo di accumulazione e ci preclude ogni apertura verso la diversità. Per questo motivo la classificazione non potrà mai essere totale, perché parte da una parziale visione della realtà e riconferma questa parzialità all’interno della coscienza obbligando ad estrinsecarsi verso il controllo.

Nella classificazione si solidifica l’accumulazione mentre la coscienza raggiunge il suo più basso livello modificativo, la quasi completa identificazione con l’oggetto prodotto. L’individualità classificata porta un senso tutto suo alla coscienza e la fa sentire classificata anch’essa, interna ad un circuito di mutuo controllo e reciproco sostegno. La struttura si singolarizza anonimizzandosi, diventando numero e serie produttiva, trasferisce tutto ciò nella coscienza e da questo trasferimento trova nuovo materiale per ulteriori classificazioni sempre più monotone e ripetitive. La coscienza, da parte sua, attutisce i colpi dell’inquietudine proprio perché in questo modo tutto al suo interno tende alla normalità. Consegnandosi nell’oggetto classificato, questo gli restituisce forza e sicurezza di sé. Non è vero come ha supposto un certo idealismo che in questo modo la coscienza crea l’oggetto inventandolo, traendolo fuori da un magma informe. Al contrario, è proprio la riduzione del flusso relazionale a semplice senso, quindi a processo oggettivante, che riduce la coscienza al medesimo livello, privandola della propria conflittualità. L’errore è stato fatto in quanto risulta evidente che con tutto questo scambio di riduzioni la coscienza otteneva qualcosa, ma non si è capito che il guadagno era un appiattimento e non una crescita. Un esempio illuminante è dato oggi dal fatto che molti giovani per vestire alla moda*** indossano tutti abiti uguali, anzi per sottolineare questa identità, spendono più soldi per comprare abiti uguali e firmati. Una volta, era esattamente il contrario. Se per caso due individui, attenti alla moda e a questi problemi, si incontravano con il medesimo abito ne provavano vergogna e imbarazzo.

Disporsi criticamente nei riguardi dell’incasellamento classificatorio è di già un modo inquieto di operare all’interno del processo accumulativo. Il pensiero critico non è molto ma è di già un’inquietudine, ancora senza sbocchi, chiusa all’interno di una continua esteriorizzazione. Trascinato dal movimento del senso, il pensiero critico non è sufficientemente libero, lavora a migliorare l’insieme dove si trova e non si pone problemi di distruzione o di apertura. Per fare sviluppare l’inquietudine deve diventare critica aperta e negativa. Ora, qualcosa diventa negativa solo quando comincia a conoscere i propri limiti, in caso contrario resterà eternamente nell’ambito della positività costruttrice della struttura. La lotta non è veramente tale fin quando non individua l’avversario, le ragioni dell’avversario e fin quando non smonta queste ragioni. Solo allora può abolire l’avversario, non prima, quando non conoscendolo e non conoscendone le ragioni, la critica si limitava a trovare giustificazioni per fare andare meglio le cose. Il cambio di classificazione non è lotta, anche se può essere considerato critica positiva. L’atto trasformativo, che alcuni chiamano creativo, è quando la classificazione si abolisce per ritrovare tracce indicative di differenze, non per far morire la realtà sotto un appiattimento privo di sfumature.

Testi

* «Le motivazioni or ora discusse dell’analisi fenomenologica sono essenzialmente collegate, come si può facilmente constatare, con quelle che sorgono dai problemi gnoseologici fondamentali e più generali. Infatti, se intendiamo questi problemi nella loro massima generalità – quindi, evidentemente in una generalità “formale”, che fa astrazione da qualsiasi “materia conoscitiva” – essi sono da annoverare tra i problemi concernenti la chiarificazione dell’idea di una logica pura. Il fatto che ogni attività del pensiero e del conoscere sia diretta su oggetti oppure su stati di cose, che essa può cogliere in modo tale che il loro “essere in sé” si manifesti come unità identificabile nella molteplicità degli atti reali o possibili del pensiero, ovvero degli atti significanti; inoltre il fatto che a ogni pensiero sia propria una forma, sottoposta a leggi ideali che definiscono in generale l’obbiettività o l’idealità della conoscenza – tutto ciò solleva continuamente questi interrogativi: in che modo dobbiamo intendere il fatto che l’“in sé” dell’obbiettività giunge a “rappresentazione”, anzi ad “apprensione” nella conoscenza, ridiventando così soggettivo; che cosa significa che l’oggetto sia “dato in sé” e nella conoscenza; come può l’idealità del generale, in quanto concetto o legge, presentarsi nel flusso dei vissuti psichici reali e diventare possesso conoscitivo del soggetto pensante; che cosa significa, in rapporto alla conoscenza, l’adaequatio rei ac inteltectus, nei casi diversi, quando l’apprendere conoscitivo concerne qualcosa di individuale oppure di generale, un fatto o una legge ecc. [...] È chiaro comunque che tali questioni e altre analoghe sono assolutamente inseparabili da quelle tendenti a illuminare l’ambito della logica pura, a cui si è in precedenza accennato. Il compito di chiarificare le idee logiche, come concetto e oggetto, verità e proposizione, fatto e legge, ecc., conduce inevitabilmente agli stessi problemi: i quali dovrebbero peraltro essere affrontati già per il fatto che, altrimenti, resterebbe oscura l’essenza della stessa chiarificazione a cui tendono le analisi fenomenologiche».

(E. Husserl, Ricerche logiche, tr. it., Milano 1968, pp. 271-274).

Tracce del commento

L’azione mi pone nei pressi della cosa e mi permette di sviluppare le conseguenze di un coinvolgimento radicale. L’altro aspetto del problema è quello del dire l’azione, del confermare la mia disponibilità nei riguardi del mondo e delle sue tetraggini. La parola parla di ciò che non sa, che non può sapere, che ha rifiutato a priori di conoscere, che l’avrebbe impedito qualunque coinvolgimento se fosse stata indispensabile una subordinazione alle specificità conoscitive.

Testi

** «Il secondo genere di sapere per noi possibile è il sapere della scienza filosofica fondamentale, che Aristotele chiamava “filosofia prima” – cioè la scienza dei modi dell’essere e della struttura essenziale di tutto ciò che è. Il fatto che, nel caso di questo sapere d’essenze, si tratta di un genere di sapere nettamente contrapposto al sapere di dominio e all’essere che gli corrisponde – poderoso d’indagine filosofica dotata di metodo proprio – è stato nuovamente scoperto da relativamente poco tempo, da parte di E. Husserl e della sua scuola. Nel sapere di dominio vengono cercate... le leggi delle coincidenze spazio-temporali delle causali realtà e del loro esser-così. Al contrario, in questa seconda direzione di ricerca si prescinde appunto, in maniera rigorosa e metodica, dalle causali posizioni spazio-temporali e da ciò che è casualmente così o altrimenti. Piuttosto, si domanda: “Che cos’è il mondo, che cos’è per es. un cosiddetto ‘corpo’ qualsiasi, che cos’è un qualsiasi ‘essere vivente’, che cos’è l’essenza della pianta, dell’animale, dell’uomo, ecc., secondo la sua costruzione invariabile di strutture essenziali?” E analogamente: che cos’è “pensare”, che cos’è l’“amore”, che cos’è “sentire la bellezza”? – indipendemente dalla causale corrente temporale di coscienza di questo o quell’uomo, in cui de facto si presentano questi atti.

«Quali sono, ora, i connotati principali di questo genere di conoscenza e d’indagine? Al posto della disposizione volta al dominio del mondo subentra innanzi tutto il tentativo di escludere quanto più possibile ogni atteggiamento cupidamente pulsionale. Ché questo atteggiamento pulsionale è bensì... la condizione di ogni impressione di realtà; ma anche la condizione per venir alla luce di ogni percezione sensibile del causale esser-così-ora-qui; inoltre, per gli abbozzi fatti in anticipo di spazio e tempo. Per dirlo positivamente: al posto della disposizione di dominio, che aspira alle leggi, della natura e consapevolmente trascura l’essenza di ciò che si presenta nelle relazioni conformi a legge, subentra un atteggiamento d’ amore, che cerca i fenomeni originali e le idee del mondo.

«In questa disposizione, in secondo luogo, si prescinde esplicitamente dall’esistenza reale delle cose, cioè dalla loro possibile resistenza di contro al nostro tendere e agire e, proprio con ciò, da ogni esser-così-ora-qui semplicemente causale, quale ce l’offre la percezione sensoriale. Pertanto, possiamo compiere una conoscenza d’essenza, in linea di principio, anche su cose fantastiche. Per es. posso afferrare, anche nel movimento apparente di un cinematografo o anche in un cane ben dipinto, delle ultime componenti intuitive che appartengono all’essenza (essentia) di un movimento in generale, di un “essere vivente” in generale, ecc.

«In terzo luogo: le conoscenze d’essenze sono invero non indipendenti da ogni esperienza bensì indipendenti dal quantum di esperienza o dalla cosiddetta “induzione”. Esse precedono pertanto sia ogni induzione sia ogni osservazione e ogni misurazione rivolta alla realtà. Esse possono essere compiute in un unico caso che funge da esempio. Ma, una volta che tali conoscenze d’essenza, per es. l’essenza della vita, siano state acquisite, allora valgono, come dice il linguaggio scolastico, “a priori”, cioè “in anticipo” per tutti i casuali dati di fatto osservabili che partecipano della relativa essenza, con essenza, con una universalità e con una necessità infinite – analogamente a come i principi della matematica pura riflettono le molteplicità delle possibili strutture naturali e le relazioni ideali necessarie che in esse si presentano prima che la natura effettiva venga indagata grazie alla osservazione e alla misurazione. Proprio per questo, però, – in quarto luogo – le conoscenze d’essenze e le conoscenze di nessi essenziali valgono oltre e al di là dell’ambito assai ridotto del mondo reale, che ci è accessibile per mezzo dell’esperienza sensibile e del suo casuale sostegno strumentale. Queste conoscenze valgono, insieme, per l’essente, come è per se stesso e in se stesso. Esse hanno estensione “trascendente” e divengono, così, il trampolino per ogni “metafisica critica”.

«Infine, le conoscenze d’essenze hanno una duplice possibilità d’applicazione. Per ogni settore delle scienze positive (matematica, fisica, biologia, psicologia, ecc.) esse delimitano i supremi presupposti del relativo settore di ricerca. Esse costituiscono la sua “assiomatica essenziale”. Ma per la metafisica, le medesime conoscenze d’essenza sono appunto ciò che una volta Hegel ha definito, in maniera molto plastica, le “finestre sull’Assoluto”».

(M. Scheler, Lo spirito del capitalismo, tr. it., Napoli 1988, pp. 248-250).

Tracce del commento

L’inutilità della rammemorazione getta una luce considerevole sia verso l’azione sia verso la memoria dell’azione che si affanna a ricordarla. Fu l’azione utile? Non lo so. L’ho sempre presupposto, portando con me lo stendardo della libertà, ma in che modo la trasformazione si è potuta realizzare, se si è realizzata, questo non è dato saperlo. Il destino ha una parola per me non accessibile e quando parla lo ascolto attonito. La memoria certamente si riassetta a seguito della rammemorazione, ma è faccenda secondaria di fronte al primo impulso, quello del dubbio che dà vita al processo rammemorativo. In fondo il destino arriva lo stesso e sa l’azione meglio di me perché legge nel mio cuore, ha cura di me più di quanto non possa e sappia fare io. Se il demone soffia le sue parole attraverso la rammemorazione non lo so, è certo che queste hanno una violenza più forte e si alzano più in alto, possenti, a sollecitare l’adempimento della vita, a vivere.

Testi

*** «Ma anche l’antihumanitas dei nostri giorni è infine un umano esperimento, una risposta unilaterale al problema che eternamente si ripropone sull’essenza e sul destino dell’uomo. Correggere l’unilateralità di questo atteggiamento per ristabilire l’equilibrio è un bisogno che mi pare oggi chiaramente sentito, e la filosofia che abbiamo ricordato può giovare a questa rettifica. Ho detto Schopenhauer moderno, meglio avrei dovuto dirlo dell’avvenire. Gli elementi della sua personalità, il chiaroscuro del loro nesso, la mescolanza di Voltaire e Jacob Böhme che in lui si ritrova, il paradosso della sua prosa classicamente chiara, che illumina ciò che v’è di più profondo e di più tenebroso nella vita, la sua orgogliosa misantropia, che pure non rinnega il rispetto per l’idea dell’uomo, in breve, quella che io ho chiamato humanitas pessimistica, mi sembra ricca di avvenire e promette forse alla sua opera, dopo la gloria che la moda le procurò e dopo il semioblio in cui decadde, un’azione fra gli uomini più profonda e feconda. La sua spirituale sensualità, la sua dottrina, sgorgata dalla vita, che ci insegna essere conoscenza, pensiero, filosofia non solo un affare del cervello ma di tutto l’uomo, col cuore e coi sensi, col corpo e con l’anima, in una parola la sua arte, appartiene a una umanità ugualmente lontana dall’aridità della ragione e dall’idolatria dell’istinto, e può forse favorirne la nascita. L’arte infatti con l’accompagnare l’uomo nel faticoso cammino verso se stesso, già ha conseguito sempre il suo specifico fine».

(T. Mann, Nobiltà dello spirito, tr. it., Milano 1956).

Tracce del commento

In effetti, non è la parola di per sé che mi occupa e che mi spinge a questa sollecitazione, non sono un filologo, ma è il dire che sta dietro la parola. So, o a questo punto soltanto immagino, che se riesco a penetrare nella parola, aprendone i diversi livelli, il dire cambierà, allargherà le proprie prospettive, mi presenterà una rammemorazione più ampia e ricca di connessioni architettoniche. È la rammemorazione che media il rapporto tra me e la parola, tra la parola e il dire. Resta comunque evidente che non esistendo scopi immediati, tutto questo non va letto nel rimbalzo di finalità specifiche. Nulla, nemmeno l’azione, è fine al di là della coscienza, la diversità non è il fine del coinvolgimento, ma al contrario l’immediatezza per rendere diversa se stessa, quindi ancora più profondamente sempre se stessa, si coinvolge. Non c’è uno strumento che sia veramente tale, come senza dubbio è la conoscenza, che possa essere preso in considerazione come scopo senza abortire nell’archivio e nell’accumulo. Per avere un ruolo attivo, diretto o indiretto, ogni strumento deve essere rielaborato come saggezza, e così dire qualcosa alla parola che la parola dirà a modo suo alla rammemorazione, e questa parola rammemorata non può essere indirizzata a me ma al mio destino, arrivando fino a me attraverso la nuova possibilità.

Ventesima lezione: 4 giugno 1990

La propria individualità non può essere classificata, senza correre il rischio di abbassarla ad uniformità, a categoria, a classe. Si possono considerare indispensabili progetti operativi capaci di arrivare a profonde modificazioni, ma nemmeno una semplice interpretazione è possibile, senza mettere in crisi il concetto di classificabilità. Detto questo, non vogliamo essere confusi con i sostenitori di un sensualismo adoratore dell’io o della volontà di potenza. Penso che il problema sia molto più difficile e complesso e dobbiamo impostarlo correttamente, al di fuori dei luoghi comuni di una stantia prassi filosofica e metafisica. La nostra individualità non ha, di per sé, la totalità del reale, non ce l’ha nel senso che non la possiede, pur essendo essa stessa, in potenza, la totalità del reale. Per trasformarsi, deve coinvolgersi, mettersi a rischio, correre un pericolo. Se restasse estaticamente* immobile, o si lasciasse trascinare nella normalità del movimento relazionale, elemento analitico fra i tanti possibili, non sarebbe altro che un elemento classificabile, senza nessuna particolarità.

La complessità delle ripartizioni relazionali si estende alla totalità del reale, ma attraversando il campo si precisa in un orientamento verso il senso che si colora di connotati precisi, i quali, affievolendosi ai confini del campo stesso, ritornano a diventare carichi di tensione all’interno del processo di accumulazione. Questo processo circolare, si realizza sempre a partire dalla coscienza e da tutte le vicissitudini dell’individuo, ma nelle situazioni individuali e in quelle collettive assume un andamento più ampio che solo apparentemente sembra diverso, mentre in sostanza è uguale. C’è un gioco sottile di reciproco rinnegamento tra il peso della classificazione e il bisogno di entrare in altre classificazioni, parallelo al desiderio di portare che si contrappone al bisogno di essere portato. La coscienza si pensa come universo chiuso che si estrinseca soltanto verso il controllo del senso, ma ciò non toglie che altri universi, che da parte loro si considerano allo stesso modo chiusi, esistano e si aprono a relazioni continue. Qui si intravede il gioco della volontà che si fa carico di tutto ciò che gli conviene, di ciò che essa desidera, di ciò che ambisce, ed anche di ciò di cui ha paura, se questo gli può arrecare un piacere. E di questo farsi carico, per fini propri, ne fa una bandiera e un modello etico. Bisogna avere sempre un sano sospetto verso queste grandi volontà capaci di imporsi il sacrificio di non fumare quando non hanno l’abitudine di fumare. Dietro questa potenza, accuratamente nascosto, ci sta il bisogno che qualcosa si muova da per sé, una realtà che come dato di fatto diventi improvvisamente atto, cioè azione. Il volontarista spia in continuazione i gesti e i trucchi del determinista, per trovare nuova forza per i propri gesti e i propri trucchi.

Nella specificità del campo sociale torna costante l’equivoco che il concetto di classe sia una manipolazione marxista, e che quindi, al di fuori dei presupposti dialettici, si debba ricorrere ad altre categorie logiche per dare conto della realtà sociale nel suo insieme e nelle parti che la compongono. Sta di fatto che questa realtà non è omogenea. Conflitti e dolori di ogni genere dilagano a profusione. Profittatori e biechi tutelatori dell’ordine del profitto controllano il meccanismo di accumulazione, facendo in modo che la gran massa di coloro che questo stato di cose sopportano, riesca a malapena a vivere fra stenti e difficoltà.

Per quanto sia difficile tracciare i confini dei raggruppamenti di individui che si trovano in una quasi simile situazione sociale, cioè in un movimento relazionale di flussi orientato storicamente da certi rapporti economici, politici e culturali, è pur sempre necessario fare uno sforzo per approfondire il problema. Il movimento di liberazione umana, nella sua storia anche poco recente, diciamo almeno dal diciassettesimo secolo, è stato contrassegnato dagli sforzi di dare fondamento a questo processo di determinazione di classe.

L’uso corrente, almeno in questi ultimi quarant’anni, del termine classe, è certo inquinato dagli spropositi marxisti, ma questi non vanno, a mio avviso, cercati nei tentativi, per altro marginali e contraddittori, di dare corpo ad una individuazione dialettica, o almeno non solo, quanto nella pretesa di assegnare alla classe che subisce il dominio un ruolo escatologico**, cioè un ruolo quasi religioso, e certamente misterico, in base al quale questa classe avrebbe il compito di realizzare la liberazione definitiva di se stessa e di tutti gli uomini, in un futuro più o meno breve, attraverso la guida del partito che pretenderebbe rappresentarla.

Oggi sappiamo benissimo quante stupidaggini e falsità si nascondono dietro questo uso del concetto di classe, ma non sappiamo ancora bene come esse non siano pertinenti necessariamente al concetto stesso, quanto alla pretesa messianica, e deterministica, che il marxismo affidava alla classe degli sfruttati e, più precisamente, alla classe operaia. A me importa sottolineare la validità e l’importanza del concetto di classe, come strumento per penetrare attraverso l’orientamento verso la tensione, nell’ambito di quella diversità della coscienza che si sta movendo per mettere in crisi e sottoporre ad una nuova concezione classificatoria, del tutto contrapposta alla precedente, l’intero meccanismo accumulativo. Interessa invece di meno, e comunque rimando il problema alla sede opportuna, approfondire il modello classificatorio espressamente dialettico, con tutte le sue superficialità misteriche, in quanto risulta un modello del tutto interno alla catalogazione, come si vede chiaramente riflettendo sul destino della classe operaia.

Che i meccanismi produttivi, quindi interni all’orientamento verso il senso, in base ai quali, in un passato abbastanza recente, si fissavano, dentro certi limiti, i confini delle classi, siano in profonda modificazione, è un fatto certo che si può ricondurre ai fenomeni di riorganizzazione del senso. Ma è anche certo che questa modificazione sta producendo una ulteriore differenziazione, la quale, manifestandosi attraverso le inquietudini della coscienza e di tutta un’epoca, sta producendo a sua volta le differenze in grado di ripresentare altre conflittualità di classe, in una proiezione verso la qualità e verso la vita. Si tratta di vedere qual è adesso la materia del contendere. Di che cosa si sta trattando, quale destino stiamo costruendo, sia pure nelle limitatezze della nostra visione dall’interno del campo. Si tratta di sapere in base a quale possesso una parte dell’umanità potrà ritagliarsi i propri confini di classe dominante ed estromettere il resto in una zona delimitante una o più classi dominate.

L’importanza di questo problema è tale da fare passare, almeno per il momento, in secondo piano lo studio delle stesse composizioni intermedie, cioè gli strati sociali che si possono ricavare all’interno della singola classe. Allo stesso modo, per il momento, mi pare secondario lo studio di una possibile ripartizione in due o tre o più classi. Quello che costituisce il punto di partenza è dato proprio dalla progressiva scomparsa della tradizionale divisione in classi e dell’emergere di una nuova divisione. La precedente divisione in classi si basava su di un problema di carenza. Un bene comune o, almeno, considerato da tutte le classi come bene, veniva ripartito in modo ineguale. La classe dominante si impadroniva della maggior parte di questo bene, comunemente chiamato ricchezza, e da questo ingiusto profitto ne traeva mezzi per continuare lo sfruttamento e il dominio. Quei mezzi erano, in primo luogo, mezzi culturali, ideologici, sui quali si costruiva una scala di valori idonea al campo che condannava gli espropriati a subire le conseguenze di una situazione in pratica non ribaltabile.

In effetti, almeno per il momento, l’attacco più acuto e radicale alla precedente situazione di accumulazione, intesa nel termine più ampio di controllo e dominio, è venuto non tanto dall’inquietudine e dalla relativa apertura alla diversità, per quanto queste ci siano state e abbiano avuto i loro effetti, quanto dalla profonda, lacerante, riorganizzazione del meccanismo di accumulazione stesso, incapace di dare assetto definitivo alla produzione e al fare coatto. Questo sistema, nella fase storica dell’industrialismo, è legato a certe condizioni strutturali e organiche che possono garantire la perpetuazione solo a condizione di fare partecipare sempre di più le classi spossessate ai benefici del possesso. Su questa strada, la soluzione dei ricorrenti problemi di ordine sociale, era affidata solo alla sempre più vasta accettazione di condizioni migliori da un punto di vista sociale per la classe produttiva, ma peggiori dal un punto di vista economico per la classe dominante. La rottura di questo rapporto, intollerabile per il capitale e per il dominio è avvenuta dopo un rafforzamento delle strutture economiche a seguito di una più stretta collaborazione con le forme politiche nazionali e internazionali degli Stati, ma si è perfezionata, in modo decisivo, con le nuove possibilità che la tecnologia più avanzata ha messo a disposizione alla ristrutturazione produttiva.

La nuova riorganizzazione del processo accumulativo propone adesso una classificazione diversa. Il problema della mancanza è più sfumato, mentre si fa più forte il problema del possesso. La divisione fra classi sociali non è più determinata dal fatto che una parte non possiede quanto l’altra, ma dal fatto, invero insolito, che una parte possiede qualcosa che l’altra parte non possiede. Per capire bene questo concetto bisogna ricordare che anche nella più nera miseria del passato, la classe degli sfruttati possedeva pur sempre qualcosa, sia pure la sua forza lavoro, cioè la sua capacità di produrre, di cui era sì costretta a fare mercato, ma di cui l’altra parte aveva pur sempre bisogno. La contrattazione poteva anche ridursi ad una presa per il collo dei miserabili venditori delle proprie braccia, ma non poteva negare un possesso che la classe lavoratrice aveva e che si collocava nella medesima scala di valori a cui faceva riferimento la classe dominante. In passato, sfruttatori e sfruttati, si contrapponevano, pur nella notevole gamma delle stratificazioni di classe, sulla base di un possesso comune ma diseguale. Adesso, si contrappongono sulla base di un qualcosa che una parte possiede e che l’altra non possiede e non possiederà mai.

Questo qualcosa è la tecnologia***, la gestione tecnologica del dominio, la costruzione di un linguaggio esclusivo di una classe inclusa, la quale costruirà attorno a sé un muro ben più insormontabile di quello che in passato era dato dalla ricchezza pura e semplice, dalle porte blindate o dalle guardie del corpo. Questo muro sarà quello di una separazione radicale, tanto netta da risultare incomprensibile, in breve tempo, a coloro che non si trovano all’interno del processo di inclusione. Il resto, gli esclusi costituiranno una classe di fruitori terminali, capaci solo di utilizzare tecnologie secondarie e perfettamente strumentali al progetto di dominio. La parte esclusa dell’umanità non potrà, almeno in tempi brevi, rendersi canto di quanto gli viene sottratto, perché sarà un bene che non appartiene più alla medesima scala di valori. La classe degli inclusi, nel costruire questa separazione, questa nuova classificazione, sta costruendo anche una diversa scala di valori, una specie di nuovo codice morale che non intenderà più condividere con gli altri, con coloro che faranno parte del mondo degli esclusi. Il pericolo che in passato è stato sempre presente ai dominatori era proprio questo comune codice morale, che per tanti versi tornava utile, per un migliore controllo, ma faceva spesso sentire il fiato dell’inseguitore sul collo dell’inseguito.

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* «Lo sciamanismo è un fenomeno religioso caratteristico dei popoli siberiani e uralo-altaici. Di origine tungusa, “sciamano” è approdato alla terminologia scientifica europea per il tramite del russo. Sebbene le sue manifestazioni più compiute si riscontrino nelle regioni artiche e dell’Asia centrale, lo sciamanismo non deve però considerarsi circoscritto a quei territori. Lo si incontra, ad esempio, nell’Asia sudorientale, in Oceania e presso molte tribù aborigene dell’America settentrionale. Bisogna però fare una distinzione fra le religioni dominate da un’ideologia sciamanica e dalle tecniche sciamaniche (come nel caso delle religioni siberiane e indonesiane) e quelle in cui lo sciamanismo rappresenta piuttosto un fenomeno secondario.

«Lo sciamano è stregone, sacerdote e psicopompo; cura cioè le malattie, dirige i riti sacrificali della comunità e scorta le anime dei morti nell’oltretomba. È in grado di assolvere a tutte queste funzioni grazie alle sue tecniche dell’estasi, cioè alla facoltà di evadere a volontà dal suo corpo. In Siberia e nell’Asia nordorientale si diventa sciamano per via ereditaria, o per vocazione spontanea, o “chiamata”. Più raramente, si può diventare sciamano per decisione propria, o su richiesta del clan, ma gli sciamani di questa specie sono considerati più deboli di quelli che ereditano la professione, o che vengono “chiamati” dagli esseri soprannaturali. Nell’America settentrionale, invece, la “ricerca” volontaria dei poteri costituisce la via principale. A prescindere dal modo della loro selezione, gli sciamani sono riconosciuti tali solo in seguito a una serie di prove iniziatiche dopo essere stati istruiti da maestri qualificati.

«Nell’Asia settentrionale e centrale le prove, di norma, si estendono per un periodo di tempo indefinito, durante il quale il futuro sciamano è ammalato e sta nella sua tenda o vaga nella landa selvaggia comportandosi in modo talmente stravagante da essere scambiato per pazzo. Diversi autori hanno infatti spiegato lo sciamanismo artico e siberiano come l’espressione ritualizzata di una malattia mentale, specialmente dell’isteria artica. Senonché, il reietto diventa sciamano solo se è in grado di dare alle sue crisi patologiche il significato di un’esperienza religiosa e riesce a curare se stesso. Le gravi crisi che a volte accompagnano la “chiamata” del futuro sciamano devono essere considerate “prove iniziatiche”. Nei sogni e nelle allucinazioni del futuro sciamano si rintraccia il modello classico dell’iniziazione: egli viene torturato da demoni, il suo corpo è fatto a pezzi, discende nell’oltretomba o ascende in cielo e infine viene risuscitato. Acquista cioè una nuova modalità di essere, che gli consente di avere rapporti con i mondi soprannaturali. Lo sciamano è ora in grado di “vedere” gli spiriti, ed egli stesso si comporta come uno spirito; può evadere dal suo corpo e vagare in estasi per tutte le regioni cosmiche. L’esperienza estatica non basta tuttavia a fare uno sciamano. Il neofita, sotto la guida di maestri, oltre alle tradizioni religiose della tribù deve imparare a riconoscere le varie malattie e a curarle.

«La funzione più importante dello sciamano è quella di guarire. Poiché si ritiene che la malattia sia dovuta a una perdita dell’anima, lo sciamano deve anzitutto scoprire se l’anima del malato si è smarrita lontano dal villaggio o è stata rubata da demoni ed è imprigionata nell’oltretomba. Nel primo caso la guarigione non è molto difficile: lo sciamano riprende l’anima e la riunisce al corpo del malato. Nel secondo caso, invece, deve scendere nel mondo infero, impresa questa complicata e pericolosa. Egualmente emozionante è il viaggio dello sciamano nell’al di là, per scortare l’anima del defunto alla sua nuova dimora; egli narra ai presenti tutte le vicissitudini del viaggio man mano che si svolge.

«Gli sciamani possono essere definiti i “mistici” delle società arcaiche: l’estasi sciamanica equivale al misticismo caratteristico delle religioni dei cacciatori e dei pastori primitivi.

«L’esperienza mistica muta radicalmente la condizione umana; chi la prova si sente “rinato” o “rigenerato” o “redento” o “salvato” o “libero”. È conscio che sta iniziando una “nuova vita”, anzi che per la prima volta sta vivendo una “vera” vita, che ha trovato il suo “vero sé” o che si è guadagnato la “vita eterna”.

«Il profeta è sostanzialmente diverso non solo dal mistico, ma anche dal sacerdote, che è responsabile del culto istituzionalizzato. Non si diventa profeti senza vocazione, senza essere “chiamati” da Dio. Il profeta si considera messaggero di Dio. Proclamando la parola di Dio, egli annuncia una nuova rivelazione. Una caratteristica del profeta dell’Antico Testamento sta nel fatto ch’egli critica la religione istituzionalizzata e la società contemporanea attraverso un’interpretazione di eventi storici.

«Ovviamente, la tipologia degli “specialisti del sacro” e degli “uomini eletti” è ben più ricca e complessa di quella qui tratteggiata. Oltre allo stregone, allo sciamano, al mistico, al profeta e al sacerdote, notevolmente più importanti sono i fondatori e i riformatori delle religioni».

(M. Eliade, voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Treccani, Roma 1975, pp. 129-131).

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Insondabili esperienze possono essere portate alla luce della rammemorazione e vestire nuovi panni del fare, resistere a nuovi e più perfidi flagelli. Questo riportare, a volte ingenuamente riaffermativo, tende a riconfermare l’esperienza diversa, a non disperderla nella inessenziale incapacità di sentirsi nella cosa. L’esperienza diversa è totale non perché tutto dice, ma propriamente perché non riesce a dire nulla, ecco perché è inutile per il mondo mentre insiste nel farmi capire lo scandalo incomprensibile di ciò che non posso esprimere e che pure sento urgere dentro di me. Ecco perché capisco che l’approfondimento dell’assenza sarà per me la vera e propria distinzione inesauribile. In questo straordinario convincimento si condensa la totalità del mondo, l’instabile avvenire del tempo, la contraddizione di ciò che viene fatto e la sua antiteticità a ciò che non viene fatto, che resta lì ad aspettare un fare che non è neanche una promessa. Muore giovane chi è caro agli dèi. Non può avere altro significato che la sua vita, ancora tutta in grembo a loro, resterà intatta, inattaccabile alle pene e alle gioie umane. Mio fratello, nato morto, era di certo caro agli dèi. Non ha avuto occasione di esprimersi in merito a questa avventura che, a un anno di distanza, è toccato a me cominciare. Mia madre aveva le sue idee in merito.

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** «Ad ogni modo, coi mistici di tutti i tempi, Schopenhauer riconosce nell’al di là della negazione qualche cosa di positivo. La filosofia di Schopenhauer si chiude con una negazione, ma con una negazione che non pretende di essere un niente assoluto. È la negazione di ogni elemento fenomenico, di ogni conoscenza intellettiva: al di là di essa non vi è più che la mistica con i suoi simboli. Il concetto del nulla è sempre ancora un concetto relativo: il mondo della negazione è il nulla solo finché il mondo della rappresentazione è per noi il vero mondo. Ma anche nel seno di questo mondo vi è già qualche cosa che può, per figura, darci un’idea positiva della negazione. La stessa gioia positiva, che vi è nella bontà e nella contemplazione estetica, ci garantisce che al di là dell’individualità non vi è solo un nulla senza dolore, ma uno stato di beatitudine che noi non possiamo concepire. Noi possiamo allora bene rappresentarci simbolicamente questo nulla come un oceano di pace, come un riposo profondo dell’anima.

«Quest’affermazione non risolve però ancora il problema del destino individuale. Gli individui nascono e muoiono: ciò che resta è la Volontà. Ma qual posto ha l’individuo in questa Volontà eterna? La negazione della individualità finita ed imperfetta è una cancellazione totale di ogni distinzione individuale? Al mistero della morte e della sopravvivenza Schopenhauer ha consacrato uno dei capitoli più belli del Mondo come Volontà e Rappresentazione. Anche qui prevalgono in apparenza prevenzioni naturalistico-panteistiche, che vogliono dire l’annullamento totale dell’individuo. L’eternità dell’uomo non è che l’eternità della Volontà impersonale; Schopenhauer paragona quest’eternità alla indistruttibilità della materia, la quale del resto non è che la Volontà obbiettivata nelle forme del tempo, dello spazio e della causa. Ciò che resta è al più l’elemento generale, l’Idea, la specie, non l’individuo. Anzi l’eternità delle Idee non è ancora che simbolo della vera eternità, che è l’eternità nella cosa in sé, nella Volontà. La morte non distrugge nulla e la Volontà trapassa perennemente di vita in vita: l’umanità sembra mutarsi e tuttavia è sempre la stessa. L’individuo continua ad esistere nell’insieme della natura: la morte sua non è che un cambiamento di forma che non ne tocca l’essenza. Questa certezza sembra a Schopenhauer un pensiero che deve liberare l’uomo da tutti i terrori della morte. La morte non è che una specie di sonno momentaneo del principio generale, che vive nell’individuo, e che dopo la sua morte si risveglia e vive in altri in un circolo eterno di vita. Il mondo è come quel castello di cui dice Diderot: “Un castello immenso, sul cui fronte si legge: Io non appartengo a nessuno e sono di tutti: voi vi eravate prima di entrare e vi sarete ancora quando ne sarete usciti”. Ma se la coscienza, che accompagna la volontà, ad ogni morte perisce, in che cosa differisce questa perennità dalla morte eterna?».

(P. Martinetti, Schopenhauer, Milano 1944, pp. 15-16).

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Non registro un elenco delle sensazioni provate nella mia vita, mi annoierebbe, voglio al contrario ripercorrere attimi precisi, scampanellate alla mia capacità di rammemorare. Non visito città da turista, busso alle porte di chi non sa di stare ascoltando e aspetto la sua risposta. Spesso tarda a venire, ma a volte il riscontro dilaga imprevisto e mi rammarico della mia pochezza. L’accadere mi viene incontro e io cerco di contrastarlo, il nostro non è un raccordo ma una vecchia rottura non sanata. Cerco di costruire barriere e ostacoli da superare, è il mio modo di mettermi alla prova, di tentare la mia debolezza più che irrobustire la mia forza. Mi illudo di un’assenza che non trova plausibilità da queste parti. Ho consapevolezza di una impossibilità sgradevolmente certa che non so indicare con metodi adeguati. Dovrei mettere in ordine i miei metodi difensivi, tenerli accanto a me nel loro insieme, non come occasioni disperse di mettere a punto ipotesi e confidenze che faccio a me stesso, come se temessi una congiura. Spesso la necessità di coordinazione nel grande mare delle mie teorie, mi viene su spontaneamente, allora corro ai ripari come un bambino che dopo una sgridata si affretta a nascondere i giocattoli. I miei sforzi di riflessione si fanno più lenti e faticosi, a volte sono certo di raggiungere gli stessi risultati di sempre, per me soddisfacenti, ma ora non sono certo, non sono più tanto certo.

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*** «Adesso nel Novecento, di fronte allo sviluppo della tecnologia guidata dalla scienza, di fronte allo sviluppo della tecnologia guidata dalla matematica e, in modo speciale, dalla scienza teorica (la più teorica che ci sia), noi possiamo trovarci di fronte a dei problemi che non immaginavamo neanche di poter formulare. L’uomo è preparato a questo? Questo impetuoso sviluppo di discipline che ci conducono a delle antinomie di civiltà così gravi, così gravose e catastrofiche per noi, è veramente scienza o non è scienza? Pensiamo, per esempio alle ricerche genetiche. Se avesse vinto, purtroppo, la concezione hitleriana della razza – non ha vinto, ma siamo stati vicini al pericolo che questa concezione potesse vincere – poteva diffondersi anche l’idea di migliorare la razza umana cambiandola radicalmente. Oggi noi sappiamo che la realtà è ben diversa, sappiamo che non era affatto scientifico il concetto di “razza” difeso dall’hitlerismo, però il concetto di gene è scientifico. Quindi noi ci troviamo di fronte a tanti problemi nuovi, a tanti problemi che vanno in profondità, non solo nell’ambito teorico dello scienziato, ma anche nell’ambito pratico della organizzazione dell’umanità. Ci troviamo di fronte a condizioni del tutto inedite. Per esempio, saranno veramente problemi campati in aria oppure no, quelli connessi con il pericolo di una “bomba genetica”, per cui l’umanità cresce troppo e si riproduce ad una velocità tale che il famoso ordine divino “crescete e moltiplicatevi” appare oggi altamente problematico? Semmai, di fronte a quest’ordine, dovremmo dire: non moltiplicatevi più, per carità! Se infatti vi moltiplicate ancora non sappiamo più come faremo ad ospitarvi in questa povera “isoletta” che si chiama terra. Questi sono solo alcuni problemi che hanno cambiato veramente, in profondità, il nostro concetto di civiltà e il nostro concetto di progresso scientifico. Anni fa avevo cercato di introdurre una nozione di “progresso scientifico-tecnico”, per sottolineare come questo progresso non sia più solo “scientifico” e non sia più soltanto “tecnico”, ma, sia appunto, “scientifico-tecnico”. E però chiaro che oggi noi possiamo e dobbiamo andare più in profondità nell’esaminare questi nuovi problemi».

(L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza, Roma-Bari 1986, p. 33).

Tracce del commento

Il problema dell’attacco, a un certo punto, sembra scindersi in due. Da un lato il viaggio verso l’oltrepassamento, dall’altro lo sbarazzarsi delle zavorre. Ora, questa seconda operazione, che avviene sul molo di partenza, fa sentire tutta la sua gravità perché diretta a mettere a nudo la mia velleità liberatoria. Chi sono? Colui che si libera della zavorra? No, sono anche colui che va oltre, che oltrepassa. In nessuno di questi momenti sono quel che sono, né quando scarico né quando veleggio verso l’orizzonte sconosciuto. Nemmeno nella rammemorazione sono io e basta. L’agire si muove in questi processi con lampi ed esplorazioni che non è possibile misurare o prevedere. Vengo trascinato via e il dio mi muove contro, armato di tutto punto, proprio quando mi spinge avanti, solo lui sa dove, il dio che oscuramente agita le menadi e le strappa via per i capelli, quando tutto ciò si rovescia nel suo esatto contrario. Scaricando il mio peso conoscitivo nel momento di veleggiare verso il nemico, quell’assolutamente altro che mi è per ora estraneo, non so come compensare questa perdita se non con la saggezza, la scienza nuova che mi educa a trovare, ancora prima di sperimentarla, la perdita stessa alla fine dell’azione.

Ventunesima lezione: 7 giugno 1990

La riorganizzazione del meccanismo di accumulazione che oggi passa come rivoluzione informativa, in corso di perfezionamento, tende a costruire nuove strutture di classe, non ad abolire il concetto e la realtà della classe. Ciò causa modificazioni nella coscienza e quindi in tutto il processo di frattura della diversità. Il passaggio tra la trattazione delle relazioni della coscienza sotto una prospettiva individuale, ai movimenti più allargati visti sotto una prospettiva di campo sociale, quindi collettiva, non possono fare perdere di vista l’unità relazionale complessiva. Finché lo scontro si manterrà all’interno dell’accumulazione non si potranno verificare altro che modificazioni, tutte corrispondenti a movimenti parziali nell’ordine del senso e nell’ordine della riduzione della tensione a banale residuo, protocollo per meglio riconfermare l’utilità pretesa universale del senso stesso. Il cominciamento, seppure non radicale, parte dalla coscienza e dalle sue inquietudini, per arrivare al vero e proprio cominciamento* radicale, che è nella cosa.

Tornando all’avventura della diversità c’è da precisare in che modo il frazionamento dalla coscienza sia legato ad una considerazione oggettiva, e quindi critica, dell’orientamento verso il senso. In caso contrario, quasi certamente i segni d’inquietudine sarebbero stati del tutto insufficienti a determinare la rottura. Quella considerazione critica dispone la diversità ad una nuova classificazione, anch’essa diversa, la quale da catalogazione irrigidita, loculo cimiteriale, ridiventa elemento di propulsione in avanti, strumento con cui incidere sulle ancora troppo esili capacità di interpretazione. Agli inizi, pur nella diversità che da passiva diventa attiva, c’è troppo poca capacità di incidenza. La coscienza ha elementi troppo rigidi per non riuscire, anche dopo la separazione, a condizionare la stessa diversità. In altre parole, agli inizi c’è una sorta di feticizzazione dell’uomo che stenta a scomparire, quindi la classificazione operativa iniziale, i nuovi compiti che la diversità si autopropone, sono troppo impregnati di questo sottointeso antropologismo**. La classificazione si modificherà man mano che andrà a cedere questo aspetto troppo primitivo della diversità.

Un soggettivismo che si era perso in un processo oggettivante, producendo in sé un’apertura, adesso deve tornare ad essere per prima cosa un soggettivismo diverso, per poi diventare, infine, un diverso oggettivismo. Sarà saldata così, nella ricomposizione di tensione e senso, la separazione tra soggetto e oggetto. Ma la diversità non è la coscienza, esse non funzionano allo stesso modo, quindi, riguardo il problema che qui ci occupa, si danno due ordini di classificazioni. Quella della diversità è soltanto capace di trovare un orientamento nella mancanza di ordine. Si tratta pertanto di un tipo del tutto particolare di classificazione. Anziché trovare uno schema prefissato e su di questo insistere fino a costruire rigidità complesse che si chiamano strutture, la diversità evita gli schemi prefissati e quando è costretta ad impiegarli, almeno agli inizi, come certamente accade con il linguaggio, che è struttura inalienabile che l’accompagnerà per molto tempo, studia i modi migliori per incapsulare queste classificazioni strutturali in nascondimenti e duplicazioni che le privino della loro intrinseca pericolosità. La diversità è tale in quanto localizza se stessa all’interno di una situazione che si contrappone all’esteriorità della coscienza, esteriorità che orienta quest’ultima verso il senso. La localizzazione della diversità in un territorio diverso da quello della coscienza, di già fornisce una particolarità di fondo che viene fatta entrare in ogni tentativo di ridisegnare la mappa del tutto ignota di questo territorio. Ogni contenuto rintracciato in questo nuovo territorio potrebbe semplicemente essere rinviato al senso, ma ad impedire questo ritorno in sé della coscienza, interviene la particolarità della differenza, cioè il senso pratico dell’apertura, il riflesso che questa nuova situazione ha in qualsiasi cosa adesso si intraprenda. La particolarità viene fatta propria dalla diversità e si traduce in strumento interpretativo di ogni contenuto, allo stesso modo in cui l’accumulazione ripetitiva, e quindi la ripetitività, era strumento modificativo della coscienza. La concretezza della diversità è la sua particolarità, il suo modo unico di porsi di fronte ad una realtà che per grandi linee non è modificata di molto dalla precedente situazione in cui operava la coscienza. L’evento centrale è stato quello della rottura.

La nuova classificabilità però ha anche un altro elemento di differenza, non può legittimamente aspirare ad una qualsiasi completezza. Per quanto primitivo e poco articolato possa essere ai suoi inizi il progetto della diversità, non potrà mai ipotizzare una serie di acquisizioni talmente stabili da essere classificate. Per lo stesso motivo, non potrà nemmeno ipotizzare classificazioni delle modificazioni di se stessa a seguito di nuove acquisizioni e, per concludere, nemmeno classificazioni delle stesse modificazioni. Pur sopravvalutando, agli inizi, il valore e la funzione delle acquisizioni e pur non avendo un’idea esatta di che cosa queste acquisizioni riusciranno a determinare all’interno di un quadro, per il momento, esclusivamente interpretativo, la diversità non può arrivare a ipotizzare una vera e propria classificazione.

Dopo i primi accertamenti riguardanti la mappa del territorio ricognitivo comincerà a imparare tecniche di conoscenza completamente contrarie, fondate sulla logica dell’a poco a poco sempre di meno e sempre di più sulla logica del tutto e subito. La classificazione, in quest’ultima prospettiva, sarà quindi diametralmente opposta. Ogni strumento sarà impiegato in una prospettiva totale, quindi pur restando, agli inizi, del tutto identico allo strumento precedentemente impiegato nell’orientamento verso il senso, adesso produrrà un effetto universalizzante. Ogni singolo elemento, ogni problema, ogni valutazione, saranno tutti, singolarmente presi, in grado di fornire una spiegazione quanto più ampia possibile, fino ad arrivare ad un’ipotesi di spiegazione complessiva. In questo modo, proporranno, di volta in volta, una classificazione nuova, quasi sempre sottintesa, ma lo stesso operante nel caso ce ne fosse bisogno. Poniamo una vittoria, quello che siamo soliti considerare come un risultato positivo, non potrà essere sommata ad un’altra vittoria, in un’accumulazione interagente, ma singolarmente sarà in grado di pre-spiegare e presagire il proprio stesso sviluppo, che si concluderà con una sconfitta, e in questa capacità sta ancorata un modello diverso di classificazione.

La diversità fonda la propria normalità, diametralmente opposta alla normalità accumulativa, su di una proiezione acquisitiva, spesso addirittura sconvolgente per risultati e intuizioni, in vista della morte, cioè della sconfitta del progetto onnicomprensivo del singolo flusso relazionale. La ricerca della tensione è un progetto di morte per arrivare alla vita, un morire concreto e conclusivo, per evitare una morte accumulata attraverso un meccanismo alienante. Anche il successo accumulato dalle vittorie può tornare ad essere un’accumulazione alienante, distruttiva, livellatrice, ma c’è sempre la possibilità di sovvertire questa prospettiva perché siamo noi stessi dentro il processo questa volta, noi stessi coinvolti con tutto il coraggio che possediamo, anche se poco, anche se incerto. Solo accettando la sconfitta dei propri stessi desideri, della propria avidità di possesso, dei progetti che sono sempre sovradimensionati, possiamo realmente vivere la nostra vita in modo totale. Infatti, quale altro modo ci può essere per l’individuo di possedere la totalità del reale, quindi di essere semplicemente vivo, se non quello di vincere le proprie battaglie, con i mezzi e gli strumenti che lui stesso ha approntato, compreso il proprio coinvolgimento, in vista della propria sconfitta conclusiva? Ogni altro modo finirebbe nel pantano dell’accumulazione, nel desiderio della costruzione strutturale, nel desiderio insano di continuare la nostra vita al di là di quello che essa può realmente significare per noi, cioè concretezza vitale, non illusione.

Uscendo dalla concezione chiusa del processo di controllo, la diversità spezza il dualismo interno al ciclo coscienza e senso, ciclo che parzializzava il flusso relazionale intervenendo nella componente di tensione in modo riduttivo. La diversità opera con uno scopo globale, fin dal primo momento della rottura, e questa globalità resterà per diverso tempo anche inesplicata a se stessa, un coinvolgimento dapprima generico e superficiale avrà lo stesso genere di riferimento totalizzante come un coinvolgimento molto più articolato. La realtà oggettivata nel campo, caratterizzata come differenza, nel propendersi verso la ricognizione supera l’antico dualismo fin dal primo momento, indirizzando l’intenzione verso un progetto ancora del tutto inesplorato ma di già sufficientemente presente. Ciò consente di ridurre il movimento della coscienza a semplice fatto psichico, impedendo il ripetersi di una situazione che caratterizzava il meccanismo accumulativo. La diversità scopre nel suo svolgersi quello che essa è, cioè ritrova le proprie partizioni, che sono elementi classificabili dall’interno del campo, ma anche strumenti per aprire il flusso relazionale complessivo. Ogni momento ricognitivo è sempre ripresentazione del senso, sedimentazione delle inquietudini, anticipazione della tensione, teleologizzazione della cosa. Qui l’accumulazione non avviene per sedimentazione e riorganizzazione, come nel caso del senso, ma avviene per riproposizione della totalità nel singolo movimento. Tutto l’originario flusso relazionale viene rivissuto nel nuovo orientamento verso la tensione, nella nuova responsabilità attuale, nello slancio verso l’avventura e il coinvolgimento. Chi osserva il processo, e non può farlo se non dall’interno del campo, è portato piuttosto a considerare una sorta di banale contrapposizione tra due modi diversi, ma in fondo identici, di trattare il senso. In realtà non è così. Non si tratta di un modo di porsi diverso, ma di una diversità ben più radicale che riprende continuamente ogni apporto relazionale, spingendo in avanti, verso una classificazione continuamente fondata, in cui non c’è nulla di definitivamente scomparso, ma tutto si ripresenta circolarmente, nella sua totale interezza, per proporre non una riorganizzazione, ma una riclassificazione. Il senso viene reso di nuovo vivente, elemento di scontro e di dubbio, gioco e violenza, perplessità e scommessa, non sedimento che lentamente si deposita per poi disporsi a processi di sistemazione tardi e di poco significato, almeno dal punto di vista qualitativo. Ogni contenuto viene ripresentato nella differenza, classificato di nuovo, per ogni nuovo movimento ricognitivo, per ogni interpretazione, per ogni salto nel territorio della cosa. Per la prima volta, la coscienza ha prodotto il presente, e lo ha potuto produrre in quanto differenza e scarto, elemento estraneo, inquieto e capace di determinare turbamenti.

La diversità classifica una realtà che adesso, fuori del meccanismo accumulativo, ricomincia sempre daccapo. Mentre l’accumulazione era un processo all’infinito, come una progressione geometrica, il lavoro molteplice della diversità è un continuo cominciamento. Anche qui non abbiamo nulla da svelare, non dobbiamo denunciare nessun processo di occultamento oggettivo della realtà, nessun progetto di strumentalizzazione, nessuna forza sotterranea da cogliere e sottoporre ad analisi. Non ci sono termini obbligati di funzionamento, tanto meno c’è una validità per le classificazioni che potremmo mutuare dall’accumulazione. C’è un continuo ed incessante implodere nella diversità, la quale comincia a dilagare e quindi, come si suole dire, ha anch’essa necessità di elevare steccati e segnali provvisori di riconoscimento. Ma non sono questi i veri obiettivi.

Le tracce di questo percorso della diversità non sono quindi né disoccultamento, né rinnovamento di quanto è avvenuto altrove. Sono una nuova presentazione e un rinnovamento molteplice in quanto comprende sia il senso che le nuove capacità di cogliere l’orientamento verso la tensione. Quanto arriva al meccanismo di accumulazione è quanto viene man mano attirato dal lontano orientamento verso la qualità. C’è quindi una classificazione diversa che è rifondazione, nel ricominciare daccapo, nel coraggio di coinvolgersi sempre nel medesimo problema che è quello della vita, problema che una volta affrontato si rivela sempre diverso, continuamente in profonda modificazione, continuamente in via di interpretazione e di trasformazione.

La classificazione differente di cui parliamo è quindi la riassunzione di tutte queste proiezioni all’interno di un’unica relazione, capace continuamente di andare oltre e di restare nella identica intenzione sia riguardo l’obiettivo finale che la produzione degli strumenti idonei al suo raggiungimento. La classificazione della totalità è sempre una continua ridefinizione del movimento, un’individuazione inesausta delle diverse specificazioni che continuamente si annullano per poi ripresentarsi ancora una volta differenziate e capaci di produrre nuove differenze. In questo sviluppo, che tutto riassume e ripropone in modo sempre nuovo, c’è l’unità relazionale della singola diversità, in cui si ricongiunge l’unità relazionale della totalità del reale. Per questo singolo punto comincia a passare una totalità che era rimasta bloccata dall’iperattività di controllo realizzata dalla coscienza, l’ostacolo che aveva segnato la divaricazione del flusso. L’intenzione diversa, implica una diversità relazionale oggettiva, un disporsi diverso del mondo, con caratteristiche maggiormente sottolineate, per i nostri strumenti di conoscenza, all’interno del campo, ma capaci di continuare al di fuori in una proiezione totale. Vista dall’interno del campo questo implodere della classificazione appare difficile a comprendersi, ma non appena la riflessione si sposta alle relazioni che legano questa piccola porzione di realtà alla realtà nel suo insieme si capisce meglio, se non proprio definitivamente, il continuo tornare su se stessa della diversità, movimento specifico del suo procedere oltre.

Testi

«Il tempo sacro.

«Per l’uomo religioso anche il tempo, come lo spazio, non è né omogeneo né continuo. Da un lato vi sono gli intervalli del tempo sacro, il tempo delle feste (per la maggior parte periodiche); dall’altro vi è il tempo profano, l’ordinaria durata temporale in cui trovano posto gli atti privi di significato religioso. Tra questi due tipi diversi di tempo vi è naturalmente soluzione di continuità, ma, per mezzo dei riti, l’uomo religioso può passare senza pericolo dall’ordinaria durata temporale al tempo sacro.

«Colpisce immediatamente una differenza essenziale tra le due specie di tempo: per sua stessa natura il tempo sacro è reversibile, nel senso che, a rigore, è un “tempo mitico primordiale reso attuale”. Ogni festa religiosa, ogni periodo liturgico rappresenta la riattualizzazione di un evento sacro verificatosi in un passato mitico, “in origine”. La partecipazione religiosa a una festa implica l’uscita dall’ordinaria durata temporale e la reintegrazione del tempo mitico, riattualizzato dalla festa medesima. Pertanto il tempo sacro è recuperabile e ripetibile all’infinito. Da un certo punto di vista, si potrebbe dire che tale tempo “non trascorre”, non costituisce cioè una durata irreversibile. È un tempo ontologico, parmenideo; resta sempre eguale a se stesso, non muta né si esaurisce. Al ritorno di ogni festa, i partecipanti ritrovano il medesimo tempo sacro, quello stesso che si era manifestato alla festa dell’anno precedente o alla festa di un secolo prima; è il tempo che fu creato e santificato dagli dèi all’epoca delle loro gesta, di cui la festa è appunto una riattualizzazione. In altre parole, partecipanti alla festa rivivono la prima apparizione del tempo sacro quale ebbe luogo ab origine, in illo tempore; il tempo sacro nel quale la festa si svolge, infatti, non esisteva prima delle gesta divine che la festa commemora. Creando le varie realtà che oggi costituiscono il mondo, gli dèi fondarono anche il tempo sacro, poiché il tempo della creazione fu evidentemente santificato dalla presenza e dall’attività degli dèi».

(M. Eliade, voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Treccani, Roma 1975, pp. 122-123).

Tracce del commento

Se l’attacco contro il nemico ha bisogno di una giustificazione sono ancora nell’ambito del fare, dove elaboro nei dettagli la nozione stessa di nemico come ciò che non può essere conosciuto e ridotto all’accumulo. Solo che ciò corrisponde alla definizione di territorio della cosa, dove la nozione di nemico non mi dice nulla, essendo priva di senso. Posso compiacere i giochi del fare fino a un certo punto, poi devo considerarli tutto il mio mondo oppure andare oltre, l’alternativa è questa. Colpire il nemico nell’azione è ciò che la rammemorazione mi dice, a posteriori, non ciò che vivo nell’azione, dove l’antica interpretazione critica negativa è ormai oltrepassata. Non devo provare qualcosa nell’agire, a esempio la mia megalomania, ma solo avanzare nella desolazione muta della cosa, essere io stesso la qualità, la lama che taglia la gola non la mente che indirizza la mano armata di coltello che taglia la gola. Il mondo costruito e costruttivo identifica confini e caratteristiche, quindi contrassegna anche i colori del nemico, perfino le mie scelte etiche soggiacciono agli imperativi della volontà, ma l’attacco nell’oltrepassamento non può avvenire se non ho accerchiato e, per vie labirintiche, tratto fuori la volontà. In caso contrario, se attaccassi il nemico nell’ambito del fare, anche questo attacco sarebbe un fare, una sorta di alibi per certificare la mia esistenza in vita. È la cosa la grande incognita, la novità sconvolgente, la completezza puntuale. Qui smetto con gli atteggiamenti imposti dalla volontà che pensa di sapere sempre che fare e dove andare.

Testi

** «“La nostra convinzione dell’essenziale storicità dell’uomo è essa stessa un prodotto storico”. Queste parole, scritte da uno dei pensatori contemporanei più critici verso l’idea di progresso, possono descrivere con precisione la posizione di Löwith. Per quest’ultimo, infatti, la critica dello storicismo è possibile solo all’interno di una cultura fatalmente storicizzata. E ciò sia perché la stessa nozione di critica trova il suo senso in una tradizione, e quindi nei confronti di un lascito storico sedimentato nel passato; sia, soprattutto, perché la storicizzazione della cultura e del pensiero occidentali – che Löwith ha ricostruito nel suo libro più famoso, Significato e fine della storia – ha comunque effetti irreversibili. Benché contro Löwith sia stata sollevata l’accusa di antropologismo e di naturalismo, è necessario sottolineare che egli non ha mai preteso di contrapporre alla cultura della processualità storica indefinita un’immagine eterna della natura umana, un’immagine cioè antistorica. Da questo punto di vista, ci sembra che il vero concetto chiave di Löwith non sia tanto quello di natura, ma il kosmos, ovvero un ordine che gli uomini proiettano nell’ambiente naturale. Il conflitto che Löwith si sforza di ricostruire non è infatti tra “natura” e storicizzazione della cultura, ma tra la costituzione di un ordine immutabile, che caratterizza la cosmologia antica, e il mutamento come significato profondo della cultura cristiana e post-cristiana. Ora, questo conflitto, per Löwith, si è concluso una volta per tutte. Noi oggi viviamo nell’ambito delle sue più estreme conseguenze. E la ricostruzione del conflitto non ha lo scopo di riproporre la cosmologia antica, ma di valutare gli effetti aporetici della soluzione storica del conflitto, ovvero il dominio di una cultura dell’instabilità. Persino a chi assuma uno sguardo scettico verso la storia non è possibile sfuggire alla storia».

(A. Dal Lago, “L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut” n. 222, 1987, pp. 15-16).

Tracce del commento

La puntualità attiva ha un sottofondo olistico che non posso conoscere, l’uno lo governa e mi manda segnali incomprensibili per la mia antropocentrica presunzione inalterabile, almeno in profondità, a qualsiasi lavorio critico. Mettendo tutta l’enfasi sul processo, realizzazione e sperimentazione della qualità, la puntualità è vista come semplice passo indietro, come incapacità e mancanza di coraggio. Invece è la chiave per derubricare la rammemorazione che di quella puntualità sarà fatta a posteriori. È poco probabile che la rottura dell’accerchiamento produttivo coatto non costituisca un evento, o più eventi, traumatici. Si tratta quasi sempre, e non so immaginare altrimenti, di una occorrenza decisiva che apre spiragli verso gli interstizi dell’accumulo provvedendo di significatività e di senso l’immediatezza, a sua volta frastornata dalle evenienze intuitive. La continua rielaborazione di questo evento e la serialità di altri eventi del genere possono restare sotto il controllo volontario o volare via, verso altri lidi. La potenza traumatica dell’autorità scende per vie non sempre percorribili all’interno della immediatezza e identifica la serie dei protocolli e induce alla legittimazione delle corrispondenze. Fissare una equazione banalmente lineare tra autorità e nemico è certo possibile ma è anche banale, tende non a negare l’autorità ma ad azzerare lo sconvolgimento causale, il trauma di questa scoperta. Il fare induce una paura di incompletezza che persiste anche dopo gli approfondimenti critici negati dalla interpretazione. L’attacco all’autorità è pertanto un movimento verso la cosa che filtra paura e desiderio e ne produce, sempre all’interno della immediatezza un miscuglio di grande forza eversiva. Ma non può essere appiattito in un movimento illuminante di chiarificazione e progresso. Ogni dettaglio, non appena conquistato deve essere rimesso in gioco, altrimenti la congettura del parricidio si affievolisce nell’intreccio del riformismo progressivo, ogni guaio può sempre essere sistemato e quindi modificato.

Ventiduesima lezione: 15 giugno 1990

L’apertura scaraventa fuori della coscienza una potenzialità relazionale che fissa raccordi di senso con il processo accumulativo e con le altre diversità. La necessità di classificare in modo nuovo queste implosioni è certo diversa per quanto riguarda le situazioni di inquietudine in corso nella coscienza, a livello indi+viduale e a livello collettivo. Molti di questi movimenti inquieti sono perdenti, nel senso che non matureranno mai come vere e proprie rotture della coscienza, per cui resteranno sempre e soltanto esteriorizzazioni del senso, contraddizioni nei rapporti di catalogazione e null’altro. I motivi di queste perdite possono essere conosciuti dalla diversità operante, ed anche ciò costituisce elemento di classificazione. Il mancato scarto è pur sempre presente nell’accumulazione e quindi si riflette, in modo tutto da verificare, anche nella diversità realizzata*.

Capovolgendo il problema, la diversità fin dal primo momento della separazione dalla coscienza stabilisce un flusso relazionale differente con l’orientamento verso la tensione. Ancora senza rendersene conto, quindi, fissa un progetto che deve tutto venire alla luce, ma che in quanto problematicamente totale, è di già in atto nel momento stesso che viene fissato. La classificazione deve anche tenere conto di questo. La diversità nasce nel mondo della tensione ed è di già sufficientemente matura per il salto nel territorio della cosa. Ma questi movimenti vengono continuamente ritardati non tanto dall’assenza della tensione e della cosa, quanto dalla vita che riassume in se stessa tutti questi movimenti, nel singolo battito d’ali di un uccello, ma ha bisogno che vengano esperiti singolarmente all’interno del campo. La diversità è quindi, potenzialmente, nel flusso complessivo delle relazioni, ma è pur sempre un’espressione relazionale del campo, cioè una situazione specifica, individuale o collettiva, un elemento che parzializza proprio nel momento in cui tocca il punto essenziale del suo riconoscersi, essa stessa, totalità, e quindi torna a classificare un’altra volta.

Questa finitezza dell’infinitezza, che si riflette nel suo esatto contrario, è un problema che accompagna tutta la filosofia relazionale, contraddistinguendola dalle filosofie analitiche e da quelle dialettiche, dagli empirismi e dagli idealismi. La specificità procede a individuare percorsi, rapporti, strutture, sezioni di mappa, territori complessi, obiettivi e strumenti da impiegare, ma non lavora più col vecchio metodo fondato sulla logica dell’a poco a poco, per cui ogni volta che considera uno di questi elementi si ritrova ad assumere il fondo comune di tutti gli altri elementi, che così diventano, tutti in una volta, facenti parti della propria specificità, che è, essa stessa, a sua volta, parte degli elementi di altre specificità. Una classificazione del genere è possibile soltanto con un metodo basato sulla logica del tutto e subito, ed è quello che sto cercando di realizzare qui.

Se ben si osserva, si tratta di una continuità, la stessa che sarebbe stata rintracciabile anche all’interno del meccanismo di accumulazione se non fosse stata tradita, fino ad un certo punto, dalle intenzionalità di controllo della coscienza e dal lavoro di scarnificazione della tensione operato nell’orientamento verso il senso. Con la diversità si ha quindi un ripristino piuttosto violento di questa continuità, che è riflesso della totalità del reale. Nell’ambito del campo essa appare come continuità di tempo e di spazio, coordinate che ben presto scompaiono non appena ci si avvicina ai limiti di affievolimento e di intensificazione che caratterizzano i passaggi all’insieme delle relazioni.

La nuova classificazione è un fatto concesso dentro certi limiti, non tanto temporali, quanto di contenuto. Infatti si tratta di una lotta per fissare un senso che viene travolto ben presto dalla presenza relazionale della tensione o da una disposizione della diversità verso la tensione. In un modo o nell’altro, le singole individuazioni che così sono realizzate risultano utili per una critica negativa delle accumulazioni del senso, all’interno delle quali operano catalogazioni molto rigide che vengono fatte passare come punti fermi della verità o della verificazione operativa della scienza. Il principale insegnamento di questa impostazione è quello di rifiutare ogni risposta definitiva, ogni certezza assoluta, ogni affermazione dogmatica che ponga fine alla critica negativa. La continuità circolare, all’interno della quale, una volta realizzata la saldatura tra tensione e senso, si andranno, a collocare infinite serie di classificazioni sempre diverse, non è il cerchio angusto delle eterne ripetitività. Tutt’altro. Al suo interno, nella implosione degli eventi relazionali, nulla accade di identico, ma tutto è profondamente diverso, tutto è continuamente in crisi, e proprio per questo, come vedremo a suo tempo, non è corretto parlare di crisi come situazione transitoria destinata a sistemarsi quando che sia in una fase superiore o inferiore. La dialettica è un imbroglio che viene espulso definitivamente da una concezione di questo genere. La continuità rimettendo tutto sempre in discussione fissa per sempre una incertezza di fondo della realtà che corrisponde con un movimento totale. Cedere alla tentazione di una formulazione definitiva, significa accettare di ripristinare la validità dell’accumulazione, trasformando in una feticizzazione nuova la stessa diversità e tutto il coraggioso e doloroso processo di rottura della coscienza.

Dobbiamo sempre tenere presente il coinvolgimento nella diversità, evitando di correre il rischio, abbastanza grave, di considerare quest’ultima ora come un’espressione esclusivamente oggettiva, ora come una proiezione soggettivistica della coscienza. Non possiamo, difatti, applicare le regole dell’a poco a poco alla diversità, proprio perché questa ha rotto col mondo della riduzione ad oggetto, col mondo della produzione del senso, ma una volta operatasi il distacco, ed iniziatosi il procedimento classificatorio nuovo, potremmo, anche dall’interno del coinvolgimento, sia pure per un moto dell’animo dettato dalla paura, cercare di ripristinare un metodo che ci dava prima tanta sicurezza. Occorre salvaguardare l’intenzione del gioco, il mettersi a rischio**.

Ciò salva l’individualità della differenza, perché questo continuo finalizzare la totalità nella prospettiva della diversità, crea sempre situazioni e condizioni diverse, mai identiche. Il fascino di questa prospettiva è senza limiti, sconvolgente. È qui che nasce l’elemento incommensurabile, proprio lo scarto della stessa classificabilità, la passione che ci porta verso il singolo, il punto infinitesimale in cui si riassume l’insieme di tutte le possibilità, delle nostre e delle altrui possibilità. È così che amiamo realmente una persona, che la vita di quella persona diventa la nostra vita, unica e irripetibile, proprio perché nel suo continuo modificarsi non è la stessa mai. Un fondamento come quello dell’accumulazione non ci poteva soddisfare. L’uomo non può vivere senza un’avventura. Ridotto a momento produttivo di semplici modificazioni, infiacchisce e muore.

Ma l’individualità contiene un paradosso, nella sua tensione, una volta raggiunta, vi vuole inserire un senso, spesso a forza, mentre nel senso, una volta rielaborato, vi vuole escludere la tensione. Ciò può essere certamente evitato, in quanto, a ben vedere, ripresenta il destino circoscritto della coscienza, ma solo riprendendo sempre in mano le condizioni del coinvolgimento. Voglio dire, in condizioni più sottili e specifiche, nel procedere ricognitivo, che la stessa diversità non è mai garantita, può sempre incappare nella ripetitività, con dongiovannesca testardaggine finire per non vedere l’ombra del destino del senso dietro l’apparenza della differenza sempre nuova ed allettante. Nel destino, senza dubbio diverso, almeno agli inizi, del burlador di Tirso de Molina, c’è il rifiuto dell’autorità, la ribellione contro il controllo paterno, opprimente, gigantesco, ridotto nei termini simbolici del convitato di pietra. Ma la ribellione non intacca il simbolo***, né del padre né della donna, segno forse della paura e dell’estremo territorio della diversità, vissuta come oggetto, non come cosa, quindi in quanto ribellione morde a vuoto, e si smarrisce senza nessun possesso, senza poter dire che di tanta fatica e di tanta lotta sia restata una traccia, un segno concreto di trasformazione.

In contrapposizione alla monotonia e alla condanna, che il senso ultimo del burlador è proprio questo, di un’autocondanna, si pone l’ampiezza di un diverso paradosso, quello della molteplicità degli elementi costretta ad una riassunzione unitaria intenzionata verso una pluralità fittizia di esiti. Così l’amore, gli atteggiamenti quotidiani, le lotte, i colori della natura, gli scontri verbali, le miserie, gli slanci di passione, le riflessioni filosofiche, finiscono per sottostare ad un disegno classificatorio paradossale. Da una iniziale separazione di temi si arriva ad una derubricazione intermedia, un lavoro da provetto anatomista, atomi, schegge, pezzi, frammenti vengono distribuiti secondo una logica che resta ancora quella dell’a poco a poco, per subire sempre continue modificazioni e sempre nuove classificazioni. Così, la singola intuizione diventa un grande mosaico, in cui ogni tassello trova il suo posto logico in base ad un suggerimento globale, non più parziale. In quanto elemento parziale esso è di già morto, soppresso insieme alla sua relativa classificazione. La riemersione intuitiva ripropone paradossalmente una classificazione ancora una volta unitaria, fatta attraverso tocchi impercettibili che lasciano comparire e scomparire innesti, ricordi, ipotesi, evidenze, mascherature, trappole, intrecci, motivi, somiglianze, antitesi e contrasti, corrispondenze, nuove classificazioni.

In questo c’è un metodo corale che fissa una diversa unità di misura all’interna della quale ogni elemento riprende una sua collocazione significativa, e ciò tutte le volte che la classificazione si ripresenta nell’intenzionalità differente. Non c’è un aspetto decorativo e superfluo ed uno più essenziale, il disordine essenziale delle relazioni riceve adesso una ordinazione differente che proviene dall’instauransi del rapporto con la forma, per quanto lontano quest’ultimo possa essere ancora considerato sulla base del metro valutativo della logica dell’a poco a poco. Un solo particolare, l’attesa di pochi minuti in una camera fatta apposta per l’incontro, la ricerca di piccoli oggetti, un giornale, una pomata, la discussione con un autista troppo insistente, immediatamente un taglio di intenzioni si concentra in una differente classificazione, mettendo in mostra il dono di inesauribili variazioni, attraverso cui posso rivivere l’orrore di una tragedia, l’abbandono di pochi attimi che si condensano in una vita intera, in un’esistenza senza ormai più tempo, senza altre possibilità, un gioco definitivamente accettato e perduto. A differenza dell’antica classificazione, questa che ci appare come nuova possiede una penetrazione sottilissima, si sviluppa quasi senza sforzo in tutte le divisioni dei significati, in tutte le incertezze e le sottigliezze della diversità, in tutti i gesti dell’inquietudine ancora pieni del pesante sonno del senso. I piccoli aggiustamenti dell’analisi sono ormai scomparsi, trattandosi di un procedere uniforme che qui è del tutto sconosciuto. Il nuovo rallentamento gioca spesso anch’esso con l’osservazione psicologica e con l’approfondimento dei caratteri, ma è ancorato all’oggettività dell’orientamento verso la tensione, non è soltanto una cosa, è due cose nello stesso tempo. Non è solo rallentamento, ma è, contemporaneamente, accelerazione, sconvolgimento, disordine e pericolo. Più l’intenzione si concentra su di un particolare, una scatola ad esempio, più il gioco si allarga lentamente a tutte le sfumature del caso, al corteggiamento della tensione, per poi precipitare in un’implosione relazionale, in una rapida e precisa condensazione che si trasferisce nuovamente in classificazione unitaria.

Uno dei problemi della conoscenza è stato quello di chiedersi come potesse stabilirsi una spiegazione plausibile del modo in cui la coscienza veniva in contatto con la realtà. Sorse sin dall’inizio la difficoltà di un contatto diretto. In che modo si poteva mai fissare un rapporto conoscitivo tra coscienza e oggetto se non attraverso le immagini che la prima si costruiva del secondo? Per cui l’esistenza stessa del mondo reale finiva per diventare problematica. Da qui la decisione cartesiana di indirizzarsi verso il soggetto. Il fatto è che non si era mai riflettuto abbastanza sulla comunanza indissolubile che lega la coscienza al senso, elementi, ambedue, dell’orientamento verso il contenuto, prodotti di una separazione di già realizzatasi o, almeno, di una divaricazione in corso di completamento.

Che poi questa conoscenza non sia affatto sufficiente e che per la propria stessa incompletezza invii e richiami un’altra conoscenza, questo è un problema che attiene alla radicale diversità che la coscienza stessa può produrre, ma non al come la coscienza possa conoscere nell’ambito della produzione modificativa del senso. Per altro l’avventura cartesiana, con il suo rimettere in discussione il fondamento appena trovato, quello dell’evidenza e della chiarezza, e con il suo ricollocare tutto al di fuori dell’uomo, in un Dio artefice della verità, dimostra come ogni dualismo del genere sia impensabile. Questa disavventura cartesiana sarà seguita da altri esempi non meno avventurosi e infelici, dall’estaticismo miracolistico dell’ipotesi di Malebranche , all’intera risoluzione di oggetto e idea nella sostanza divina dell’ipotesi di Spinoza, fino all’armonia prestabilita in Dio dell’ipotesi di Leibniz.

In queste elaborazioni il punto dove si rasenta l’incredibilità è quello che ammette tranquillamente l’assoluta marginalità del reale di fronte all’unica realtà esistente, cioè Dio. Così, la realtà diventa una semplice occasione, che può anche scomparire senza che il soggetto se ne accorga. L’estremismo metafisico procede ormai incontrollato fino all’ammissione che tutta la realtà si racchiude nella percezione, non avendo senso parlare di realtà come qualcosa di separato. Il pensiero viene visto quindi come ordinatore, realizzatore e perfino come creatore della realtà, con gradi di compromissione che corrispondono a precise evoluzioni metafisiche. Diciamo, che fra le ipotesi più ragionevoli, c’è da sottolineare quella che lascerebbe intendere una realtà esistente, quando e come che sia, ma restante comunque in una zona d’ombra fin quando non viene illuminata, e quindi fatta esistere, dal pensiero. Questa tesi potrebbe essere interessante se non postulasse la separazione tra pensiero e realtà, cosa che porta per forza ad ammettere una creazione dal nulla di quest’ultima da parte del primo. Ma la coscienza può illuminare la realtà, cioè può conoscerla solo a condizione che si tratti della medesima cosa, cioè che tra coscienza e realtà non ci sia differenza, che tra pensiero e oggetto non ci sia differenza. Al contrario, la differenza va cercata in modi diversi di conoscere, e questo per una incompletezza della spiegazione, non per una differenza tra i due estremi del rapporto. La proiezione della coscienza può quindi rivolgersi verso il meccanismo del senso proprio perché quella è la sua normale disposizione, anche se la spiegazione che ne viene fuori è tutt’altro che completa, anzi è una spiegazione analitica, cioè semplicemente accumulativa. In questo modo la coscienza accompagna la realtà, senza con ciò suscitare scandalo filosofico, cioè senza che ciò comporti la conclusione che la coscienza crei la realtà. Si tratta di movimenti diversi del medesimo orientamento verso il senso. Il fatto che dove troviamo un’accumulazione di senso, nello stesso posto troviamo la coscienza al lavoro, non fissa nella medesima logica dell’a poco a poco nessun ordine di priorità e nessuna condizione.

È anche privo di significato il concetto della realtà che si racchiude nella semplice modificazione del pensiero. Ciò è una illusione determinata dal fatto di porre qualcosa come oggetto del pensiero, come se questo qualcosa appartenesse al pensiero, il quale avrebbe di conseguenza il diritto di esercitare una penetrazione conoscitiva. Se la coscienza insiste troppo nelle sue mansioni di controllo finisce per cadere in questa posizione idealista, riducendo il meccanismo di accumulazione, come primo obiettivo, ad una semplice proiezione dei propri fantasmi. E, difatti, ciò accade puntualmente quando si smarrisce lo scopo del processo di catalogazione, scopo che pur nei suoi limiti, è fondamentale per la conoscenza. In questa fase, tragicamente, empirismo e idealismo si danno la mano. Non è un caso infatti che molti matematici hanno posizioni filosofiche molto vicine all’idealismo immanentista.

Ma fin qui abbiamo discusso della conoscenza analitica, la coscienza conosce il meccanismo di accumulazione del senso, perché se lo spiega benissimo, in quanto sono la medesima cosa. In fondo, qualcosa del genere c’era nell’intuizione tomistica con cui si riconosceva all’intelletto la possibilità di conoscere la modificazione prodotta su di esso dall’azione della forma. Ma l’errore di questa intuizione si racchiude nel fatto che le due cose sono pensate sempre separate e quindi la modificazione si considera come prodotta da una parte sull’altra. La conoscenza viene ammessa, e questo è di già un passo avanti, ma viene ridotta solo alla modificazione, non alla parte stessa, per altro nemmeno posta in parallelo con l’altra. Io penso che si possa ragionare in termini affatto diversi.

Se riduciamo la conoscenza alla modificazione, illudiamo la conoscenza che questa stessa modificazione sia stata causata da essa, su di una realtà non solo estrema ma anche estranea. Ma ciò non è vero. La totalità delle relazioni propone una soluzione differente anche nello spaccato ristretto del processo di accumulazione. Coscienza e senso sono la medesima cosa in movimenti diversi, producono insieme la modificazione, cioè il più basso livello dell’effettualità, ed insieme, seppure con gradi diversi, cioè con un affievolimento diverso, vengono coinvolti nell’apertura verso la diversità. In questo senso diventa superflua l’ultima spiegazione idealista di non potere ammettere l’esistenza di una realtà anteriore al pensiero. Difatti, perché mai la si dovrebbe ammettere questa anteriorità?

L’emergere della diversità pone però un problema diverso. Nell’ordine complessivo delle relazioni la diversità è un movimento come un altro, ma l’intensità specifica che essa assume all’interno del campo, pur andandosi ad affievolire nell’estendersi totale delle relazioni, è un luogo certamente capace di determinare livelli dell’effettualità che non erano conosciuti nell’esteriorità del meccanismo accumulativo. A questa diversità di relazioni dobbiamo dare una spiegazione. L’apertura della coscienza fissa, sia pure per un attimo, una contrapposizione che è alterità, differenza, scarto. Nulla di ciò era reperibile nel rapporto tra coscienza e senso. Quindi, l’inquietudine ha generato un movimento che abbisogna, adesso, di una spiegazione in termini più approfonditi.

Ora, la prima cosa che sorge spontanea è che la diversità è certamente contrapposta alla coscienza, ma ha tutte le caratteristiche della coscienza. Fin quando non si pone nell’ambito della ricognizione, si potrebbe dire che soltanto dall’interno della coscienza si può cogliere una vera e propria differenza. L’inquietudine ha prodotto la rottura, lo scarto, ma non ha caratterizzato in modo definitivo la diversità. Questa caratterizzazione si realizza nel processo ricognitivo e in tutto quello che si realizzerà poi nel livello conclusivo dell’effettualità, cioè nella trasformazione. Nulla di questo mondo che si profila all’orizzonte della diversità e che si può riassumere nell’orientamento verso la tensione, è conosciuto dalla diversità, per cui non si pone nemmeno il problema di una relazione quale che sia, concreta o apparente. La diversità comincia a sperimentare, attraverso la ricognizione, un territorio che sta avendo una sua vita ricchissima relazionale, costituita da una fitta rete di flussi, a loro volta suddivisi in orientamenti contrapposti. La diversità si inserisce in questa rete. Il guaio della metafisica è stato quello di isolare un rapporto, pensandolo in termini di causa ed effetto, evitando di pensare invece una rete relazionale di un numero praticamente infinito di rapporti che, in questo caso, non sono più semplici collegamenti bilaterali, ma relazioni nel pieno senso del termine.

Questo grave errore ha portato ad ipotizzare possibili situazioni atomistiche tra soggetto pensante e oggetto pensato, per cui il soggetto avendo la possibilità di pensare poteva creare dal nulla qualsiasi cosa, in immagine, e considerarla per questo solo fatto esistente. La coscienza, ed anche la diversità, possono certamente costituire relazioni apparenti, ma queste si affievoliranno in modo e per vie diverse da quelle concrete, tutto qui. Non ci saranno particolari problemi di sudditanza o di dominio, né dalla parte del pensiero né dalla parte della cosa.

Il movimento della diversità che si proietta nel territorio ricognitivo, non può essere ridotto a semplice espressione del pensiero. Si tratta di un’attività pratica. L’interpretazione è di già un grado più elevato dell’effettualità, la quale ultima, nemmeno nel grado inferiore, cioè la semplice modificazione, può essere considerata soltanto espressione del pensiero o della pratica. Lo stesso fare coatto, come si ricorderà, e come vedremo in seguito, è sempre un coinvolgimento della coscienza, non è mai pura pratica. Tutta l’attività di ricognizione è ricca quindi di questi tentativi di combinazione, sempre diversi e sempre più complessi di perfezionare l’effettualità, suggerendo non solo ipotesi ma anche soluzioni pratiche. Il nascondimento, infatti, non avrebbe senso se la diversità fosse soltanto un’espressione del pensiero in quanto si tratterebbe di un enigma verbale, un gioco di parole, un esercizio di abilità della mente. Invece, si tratta di tentativi pratici di realizzare impedimenti e ostacoli alla struttura, approfondimenti critici che si sostengono sulla base di fatti, documenti che sono proposte, informazioni che determinano sviluppi teorici e pratici.

Certo, la diversità deve per prima cosa spiegare a se stessa il significato dei segnali che riceve da parte del territorio che le sta davanti. E queste spiegazioni possono prendere la sostanza di ipotesi, di teorie, ma queste teorie non hanno nulla a che vedere con quelle teorie puramente analitiche della logica dell’a poco a poco che abbiamo visto poco fa, cioè non si basano sull’identità tra coscienza e senso. Qui siamo davanti ad una nuova diversità che per dare spiegazioni esprime giudizi, i quali, in modo critico ma pur sempre insufficiente, almeno per il momento, ripetono i giudizi espressi all’interno dell’accumulazione, dove la tensione, elemento indispensabile per impostare correttamente qualsiasi giudizio che non sia semplicemente analitico, era stata ridotta a semplice residuo. Si arriverebbe così alla conclusione, un po’ mesta a dire il vero, che il giudizio diverso dovrebbe, ancora una volta, adeguarsi alla realtà, con il problema questa volta nuovo che la realtà cui bisognerebbe adeguarsi non è uguale come nel caso del rapporto tra coscienza e senso.

Testi

* «La dialettica è l’unico mezzo per attraversare il duro terreno dell’immediato, della quotidianità in cui si raccoglie tutto l’umano così come si trova ad esser vissuto. Perciò la ragione solo dialettizzando può “genealogizzare” intorno a se medesima: negandosi nella sua immediatezza di oggettività-per-un-io e nella sua apparenza di logo immobile e solitario, essa tematizza ciò che, “passando via”, “assentandosi”, lascia vivere gl’innumerevoli soggetti della storia e costituisce il fondamento delle molteplici “possibilità”, ognuna delle quali è tale solo nel vicendevole e complesso rapporto con tutte le altre, tutte dunque “compossibilità”, e non necessitate dal fondamento. Al di sotto dell’immediatezza del mondo e della sua soggettivisticamente correlata oggettività s’apre l’“abisso”, la “senza fondo” profondità della mediazione, nella quale appunto va cercato il fondamento di quel senso vero dell’oggettività, che è la multilaterale dialogicità e storicità della ragione. Ora, la mediazione non è un astratto principio metafisico o logico-trascendentale, ma un fatto: non certo un evento, che è sempre inserito nella trama causale e temporale, ma un movimento originario che, al livello della coscienza ovvero del dialogo e della storia, è sempre “passato”, “dileguato”, strutturalmente “inconscio”. L’inconscio non è cronologicamente “prima” della coscienza, ma è ad un livello più profondo di quello cronologico, proprio della coscienza: è ciò in cui la coscienza è radicata e con cui essa non riesce a stare in un contatto oggettuale correlato alla forma dell’io; è ciò che la coscienza avverte come un’assenza, una perdita, un “passato”, che invero è “senza tempo”. La mediazione inconscia è un fatto, e in quanto fatto è storica: ma non essendo né “prima”, né “poi” nella cronologia dei fatti, non è un fatto fra tanti, bensì è il fatto stesso della storia, il fatto-limite, e limite della possibilità di ogni fatto, quel fatto insomma attraverso cui dalla “storia naturale” della specie umana (la quale ha una “storia naturale” come la hanno il baobab o l’uranio, il sole o l’ameba) balza fuori la “natura storica” degli uomini. Il fatto-limite, la mediazione originaria, per Hegel è la “logica inconscia”. Questa è il fondamento delle coscienze come autocoscienze, ognuna nella forma dell’io, e del loro dialogo; attraverso il suo movimento, le coscienze naturali degli uomini, entrando tra loro in un rapporto di reciprocamente condizionante compenetrazione, escono dalla loro naturale separatezza e incomunicabilità e si aprono ad una “comune intimità” in cui assume universalità l’oggettività dei significati e dello stesso significato del sé coscienziale, come io: onde alla fine ciò che nella storia separa e spesso contrappone gli uomini non è la naturale particolarità dei corpi ma, paradossalmente l’oggettiva dignità dell’io, che universalizzando l’individualità reintroduce un esclusivisticamente potenziato particolarismo nel regno ideale della comune intimità».

(A. Masullo, Antimetafisica del fondamento, Napoli 1971, pp. 31-32).

Tracce del commento

L’attaccamento a un modello chiaro e progressivo è sempre segno di paura e di incertezza inquieta, una sorta di debolezza intuitiva che impedisce di guardare al di là del semplice fare coatto. Se non controllo mi sento sbalestrato, debole, insicuro, capace solo di imbrogliare me stesso in diversioni e sublimazioni. Azzerando il controllo devo però capire, quindi ancora una volta volere capire, a che prospettiva vado incontro, a che genere di scontro, e questo è possibile solo se l’azzeramento non è un cieco rifiuto ma una radicale critica negativa. C’è nel fare una specie di religiosità di fondo, del tipo che emerge in affermazioni come il lavoro rende liberi, che non consente separazioni imposte a colpi di volontà. Non è questione di sensibilità antireligiosa ma di livelli conflittuali, di complessità immediate che non scavano sufficientemente nei meandri e negli interstizi delle Madri e del mito. La ragione vigila davanti alla porta della volontà e alza barricate giustificative allo scopo di impedire qualsiasi dichiarazione di inattendibilità. L’autorità a portata di mano, in cui inciampo continuamente, la divisa del poliziotto – siamo in carcere e so quello che dico – è solo un’autorità residuale, un riflesso condizionato, un relitto che si è staccato dall’autorità introiettata nella immediatezza che mi opprime bene e meglio di quanto possa fare l’imbecille che in questo momento sta chiudendo a chiave la porta della mia piccola cella. La facilità nell’isolare, e all’occorrenza colpire, la prima fa da controparte alla difficoltà di cogliere la seconda. C’è un movimento androgino che si insinua dappertutto e che trae beneficio proprio dalle mie rigidità codificate nel corso del fare.

Testi

** «Questo significa che il non contraddirsi è soltanto una regola per ben discutere con altri, e non anche una regola per ben pensare? Si può anche, volendo, dire che è una regola per ben pensare, – ma purché si aggiunga che è, appunto, una norma direttiva per quel tipo di riflessione, al quale tradizionalmente si usa dare il nome di “pensiero discorsivo” in quanto esso si configura come un discorso rivolto a un ideale interlocutore, anche se non presente, di fatto, al di là della coscienza argomentante (e Platone parlava, per ciò, dell’anima che dialoga con se stessa). Ora, quando si parla, si deve ben serbare una coerenza di linguaggio, a rischio, altrimenti, di riuscire incomprensibili. Se si è usato un termine in una data accezione, non si può usarlo un momento dopo in un senso diverso, e pretendere che tale diversità sia immediatamente capita. Così, gli schemi di ragionamento prospettati dalla logica sillogistica non sono che esempi di discorsi semplicissimi, in cui la stabilità dei significati dei termini da un capo all’altro del discorso è presupposta come addirittura identica alla stabilità dei termini stessi. Ma si capisce che questo tipo di coerenza formale è una specie di situazione-limite, a cui tanto meno ci si avvicina quanto più il discorso si fa ricco e complesso.

«E certo questo non esclude che, anche non parlando per sillogismi si sia pur tenuti alla coerenza: che è appunto il dovere di non disorientare o ingannare l’interlocutore. Cosicché serba pur sempre un serio contenuto l’imperativo del non contraddirsi. Ma ecco che, insieme, ne scorgiamo anche il limite. Se si parla d’imperativo, e ci si richiama al linguaggio di Kant, può ben dirsi, sì, che il principio di non-contraddizione è un imperativo, anzitutto, nel senso che esso non è una necessità del pensiero, ma bensì un dovere del comportamento argomentante. Il mio ragionare deve rimanere immune dalla contraddizione, ma, appunto perciò, non è metafisicamente affrancato dalla possibilità di riuscire contraddittorio. Siamo sul piano non delle necessità trascendentali, ma degli sbagli possibili. In secondo luogo, se questo è (come è) un imperativo, non è un imperativo categorico, ma un imperativo ipotetico. Mi ordina di non contraddire quello che ho detto con quel che dico: ma presupposto, naturalmente, che qualcosa io voglia dire! Se invece io rinuncio al parlare, oralmente e mentalmente, ecco che quell’imperativo non ha più ragion d’essere. Di conseguenza, esso è un imperativo condizionato, un imperativo ipotetico, insomma una norma la cui validità è subordinata al fatto che io intenda adottare un determinato comportamento rodato e convincente, e in una forma tale da non renderlo inutile.

«Presupposto, peraltro, questo chiarimento della mera ipoteticità dell’“imperativo logico”, qual è ora la differenza nel caso dell’“imperativo dialogico”? Nessuna, sembra. Anche noi abbiamo formulato tale supremo imperativo in questa forma: – Se vuoi intendere altri, non puoi nello stesso tempo accettare alcuna loro richiesta di non essere intesi. – L’indiscutibilità del “principio del dialogo”, una volta data la volontà di dialogare, è con ciò assicurata da ogni discussione o disparere risultante dal dialogo stesso. Ma bisogna, appunto, che sia data anzitutto la volontà d’intendere, la volontà di dialogare, e questa è l’ipotesi presupposta dell’imperativo.

«La differenza tuttavia c’è, ed è essenziale. Nell’altro caso ci si può sottrarre al dilemma; in questo, no. Nell’altro caso si può rinunciare a discorrere, e anche ad argomentare nella propria mente. Si possono guardare le nuvole del cielo, o ascoltare musiche, tutte cose alle quali non si applica la logica del sì e del no, o la formulazione di giudizi con soggetto e predicato. Si è fuori dell’alternativa, non se n’è scelto né l’un corno né l’altro. In questo caso, invece, non si sfugge alla necessità di esse o nell’una o nell’altra situazione. O hai di fronte a te altri, o non li hai: o vivi un’esperienza di ricostruzione della coscienza altrui nella tua coscienza, o non la vivi. O sei mera egoità, o sei un’egoità che comprende un’egoità altrui. Tutto può accaderti, ma, qualunque cosa ti accada tu non potrai mai essere che nell’una o nell’altra di quelle due situazioni».

(G. Calogero, Filosofia del dialogo, Milano, 1962, pp. 45-46).

Tracce del commento

Procedo a ordinare lo spazio visivo che mi circonda, spazio dotato e produttore di senso, un senso che mi opprime, orrido, freddo, in un senso che posso inconsciamente fare mio, colloco contrassegni dappertutto nel muro colore ocra che mi circonda e minaccia di stringersi troppo vicino al mio corpo insonne. Cerco in questo modo di dare una dinamica favorevole a ciò che per educazione mentale sono portato a considerare statico e ostile, anche se so di non potere fare ciò a partire da un evento particolare, la luce fortissima che non mi risolvo a fare spegnere e che da solo non posso escludere dal mio campo visivo. Respingere e negare l’autocontrollo come strumento principe per limitare i danni della produzione di senso significa affermare la necessità di un ordine quale che sia nella procedura di catalogazione, da cui emergerebbe la validità di ogni schema imposto dalla volontà. Non ci sono relazioni coerenti tra il fare volontariamente articolato in uno schema di rifiuto, perfino di negazione, e l’articolarsi di un movimento sufficientemente individuabile verso l’oltrepassamento. Non è che sia possibile collocare un confine netto dove la volontà è, tagliato da un preciso contrassegno dove la volontà non è. Questo confine sarebbe non solo troppo rigido, ma assegnerebbe un carico superiore alla volontà, al di là di quello che nel processo di controllo questa esercita veramente. Ne deriva che ogni autorappresentazione di questo accerchiamento del controllo, se di ciò si può parlare con parole che suonano strategicamente infette, è instabile e contraddittorio.

Testi

*** «Il cristianesimo, falso nemico inventato da lui, come un fantoccio più debole, abbattendo il quale voleva illudersi di abbattere la “verità”, è per lui, sul piano della rappresentazione storica, l’invasione dell’Occidente da parte dello spirito orientale. Questo dualismo inconfessato, questo strazio dell’animo degno di Böhme, prende poi d’un tratto – e non del tutto casualmente – la figura del persiano Zarathustra. Non casualmente, anche perché in questa immagine parla finalmente quell’Oriente represso, e anzi in forma di simbolo risolutivo e affermativo. Solo da chi ha formulato la più grande, insuperabile negazione, può sorgere colui che è autorizzato ad affermare».

(G. Colli, La ragione errabonda, Milano 1982, pp. 153-154).

Tracce del commento

Il contenuto dell’attacco all’esistente, inteso come negazione del fare prigioniero è asfittico, racchiuso nell’accumulo, non si qualifica nell’azzeramento di questo fare, che resta sempre un patrimonio ineludibile, ma nella sua negazione, cioè nella sua interpretazione alla luce di qualcosa di diverso che quasi sempre si riassume in una intuizione critica dei limiti e dei protocolli che quel fare giustificano e reggono. Altro permane il dibattersi vano, la mancanza di individuazione, l’incertezza e la vigliaccheria. Altro perfino la violenza inconsulta se si scarica sul primo simbolo nella necessità uguale di dare aria ai propri polmoni. Le meschinità di ogni alibi dovrebbero fare riflettere. Si riversano a valanga sulle giustificazioni che corroborano ogni attacco che getta le proprie radici soltanto sulla decisione, sia pure forte e irremovibile. La volontà si pasce di aria serena e si presenta come autosufficienza, ma non sfugge al destino massificante sotteso alle sue decisioni. Non può pensarsi diretta al miglioramento di una prospettiva, l’oltrepassamento, che non le appartiene. Dietro questa illusione sta il fallimento di ogni prospettiva psicologica fondata sull’autosuggestione come cura dei disturbi nervosi. Non è difatti un caso che questa illusione sia nata in America insieme al pragmatismo e ne abbia seguito le sorti.

Ventitreesima lezione: 21 giugno 1990

Dalla diversità nasce uno sforzo nuovo per dare spiegazione al proprio lavoro, nello stesso momento in cui lo sta realizzando. Sto parlando ovviamente del lavoro di interpretazione*. Nei riguardi della coscienza, la diversità è quindi una coscienza relazionale più acuta, un punto focale di maggiore sensibilità, capace di produrre un lavoro del tutto diverso da quello della coscienza nell’esteriorità dei rapporti che quest’ultima intesseva con il senso. È di questa diversità della diversità che dobbiamo discutere un poco se vogliamo capire meglio le condizioni definitivamente diverse di quella che possiamo chiamare teoria. Le condizioni definitive relazionali si costituiscono per la prima volta, in modo totale, nella diversità, e questa costituzione segna il primo spostamento dal cominciamento della coscienza al cominciamento radicale della cosa.

È l’intenzionalità di questa diversità, di questo inizio di cominciamento radicale, che bisogna approfondire, quindi il suo modo di fornire e di darsi spiegazioni. Le pretese scientifiche dell’accumulazione hanno impedito da almeno trecento anni di interrogare in questi termini la coscienza nell’ambito dei suoi processi di controllo del senso. E questo impedimento, ormai cristallizzato nelle distinzioni dei diversi settori scientifici, ha suggellato una vera e propria impossibilità. Ciò non è però possibile, almeno in tempi brevi, con la diversità. Il territorio della ricognizione, tanto per cominciare, non è soltanto l’oggetto territorio, per come potrebbe essere delimitato dall’orientamento verso la tensione nel suo punto di massimo affievolimento, ma è anche l’intenzione operativa della diversità. Le due cose non contrastano e nemmeno si contrappongono, esse semplicemente si immedesimano fino a diventare la stessa cosa.

La necessità di spiegare l’attività della coscienza si pose drammaticamente nel kantismo**, dove rimase intrappolata nel razionalismo oggettivistico. Che la coscienza dovesse muoversi, era evidente per tutti alla soglia dell’Ottocento, ma non si poteva trovare altra strada, per questa necessità, che il portato stesso della coscienza, da cui derivava la creazione del pensato, la quale in questo modo si riduceva a oggetto determinato dalla coscienza stessa. Un’altra soluzione finiva per ammettere l’esistenza di due coscienze, una empirica e una trascendentale, spezzando l’unità del pensiero e riducendo, comunque, la coscienza empirica ancora una volta ad oggetto del pensiero. Il caso contrario aboliva la divisione e tutto si riassumeva nella coscienza dominante, cioè quella capace di gestire il pensiero, ma non di pensare se stessa. Infatti, se la coscienza pensa in base alle regole della logica, poniamo dell’a poco a poco, queste devono essere interne alla sua esteriorità, per come la vediamo realizzata nell’accumulazione, ma allora, restando chiusa in questa esteriorità, non potrà mai conoscere né le regole che la reggono e neppure gli scopi concreti dell’intero meccanismo accumulativo, resterà per sempre legata ad un ripetersi del suo compito di controllo. Il kantismo non si è posto in questi termini il problema, ma per quanto riguarda le categorie vi si è avvicinato, non arrivando comunque ad ammettere una possibile esistenza parallela di altre regole logiche, ad esempio quelle che qui si riassumono nella logica del tutto e subito, in quanto ciò avrebbe ridotto le categorie a mera contingenza e fatto sfumare l’universalità e la necessità della sintesi a priori.

Spetterà all’empirismo inglese sviluppare una critica del razionalismo oggettivistico, con alcuni limiti, come nel caso di Locke che ripresenta i dati empirici come oggetti razionali i quali incidono in una coscienza assolutamente passiva. Forse l’apertura più interessante, con tutti i suoi limiti, sarà quella della critica negativa di David Hume, con cui ogni ipotesi dialogica della coscienza e del suo oggetto viene ridotta a semplice finzione. È l’oggettivismo che viene distrutto da quest’ultima critica e con esso la pretesa della scienza di arrivare a conclusioni valide per tutti.

La coscienza, da sola, non può trasferirsi dal meccanismo dell’accumulazione del senso, in quanto escludendolo essa stessa diventa impensabile, una semplice relazione apparente. Per esistere la coscienza ha bisogno di un contenuto e di un processo di accumulazione di questo contenuto. Per questo il kantismo aveva suggerito una sorta di soggettivismo incompleto, ma inaccettabile per le conseguenze negative che può determinare. Ma la coscienza, da sola, non può nemmeno restare nel meccanismo dell’accumulazione, almeno non può restarvi a lungo senza avvertire una mancanza. In altri termini, la spiegazione del senso non la soddisfa, in quanto si riduce ad una continua riorganizzazione dell’archivio. Da qui, la ricerca di una identità diversa, che sia determinata come persona, come individuo, quindi che si basi sul senso, ma contenga anche una specificazione, cioè un avvicinamento alla diversità. Per fare questo, la coscienza deve scindersi in una diversità ancora non specificata, ma capace di porsi il problema della specificazione, cioè di tendere verso la tensione.

La diversità inizia così una diversa spiegazione della realtà, un processo che parte verso la tensione da un punto di vista totale, in una condizione puntuale, senza cioè essere capace di portarsi dietro niente dalla coscienza e senza avere cognizione esatta di ciò che le sta davanti. Questa diversità è la totalità, per il momento in termini logici, in quanto fonda la spiegazione interpretativa dal punto di vista della logica del tutto e subito, ma come movimento relazionale concreto essa è ancora tutta da sperimentare. Al centro del campo, lo domina e lo sovrasta, forse anche lo supera, ma non è in grado di influire ancora sulla rete relazionale. Figlia della struttura non è una struttura, aspirante alla forma, non ha cognizione alcuna di cosa sia la forma. Man mano che comincerà a muoversi, in quanto diversità, compirà tutto quello che stava in lei, giacente come inerte, ma con estrema complicatezza e difficoltà. L’interpretazione, in quanto attività proiettiva della differenza, non ha nulla della semplicità che sarà poi possibile osservare nel dispiegarsi della cosa. La vita della diversità si costruisce nella totalità con movimenti circospetti e spesso contraddittori, per cui all’inizio, commisurata con l’apparente sicurezza dell’accumulazione, può addirittura sembrare un’eccezione negativa e riduttiva, un incepparsi del meccanismo del senso, un ripiego e perfino un tradimento. La grande sicurezza della catalogazione, pur producendo soltanto semplici modificazioni, sembra un gigantesco universo in movimento di fronte al semplice balbettio della diversità. Ma in questo pigolio iniziale si racchiude la vita costitutiva,

Capisco che in questa situazione della diversità si possa vedere una eccentricità, un risvolto imprevedibile e bizzarro della normalità della coscienza, per quanto quello che ho già detto a proposito della normalità debba fare riflettere su giudizi del genere, e in ciò ci sarebbe un fondo di verità. In effetti, fin dal momento del disporsi dell’apertura, c’è l’intenzione di ritagliare questo percorso e non quello di privilegiare queste scelte e non quelle. Un viaggio, non una semplice proiezione, un viaggio dove lo spostamento non appartiene a nessun luogo preciso, una ricerca che essendo interpretazione trasfigura tutte le coordinate del campo e dello stesso orientamento verso la tensione. Un viaggio di esperienze, ma anche di proiezioni concrete, di modificazioni che vengono sottoposte al vaglio interpretativo della totalità. Per cui ogni tappa è un transito perenne, un passaggio, una lieve aderenza al contesto, in netta contrapposizione con quello che altrove, nell’accumulazione, invece appariva solidificato e imponente. L’intenzione della diversità è un innamoramento della prospettiva, non per nulla ha come prospettiva estrema, certo non necessaria ma comunque presente, il delirio.

Non bisogna sottovalutare la critica negativa stessa, di cui la diversità si fa carico e non bisogna pensare che si tratta di problemi semplici nella fase iniziale dell’apertura. Qui c’è una sorta di improvvisa mancanza di senso, una privazione di quella copertura che la vita trova nell’ambito delle ripetizioni e dei luoghi comuni. Ciò persiste anche a lungo, deformando i primi movimenti e le relazioni con l’orientamento verso la tensione. La conquista di un’autonomia di movimento nella ricognizione ha un compito delicato e spesso di difficoltà insormontabili. La pesantezza dell’accumulazione e, in modo speciale, delle sue riorganizzazioni, può essere tale da procedere per conto suo, rendendo quasi inutile l’intenzione esplorativa. Non si tratta di processi sotterranei, ma di relazioni che non sono raggiungibili dalla diversità, mentre potrebbero essere facilmente controllati dall’antica disposizione della coscienza. La vita, nella sua concretezza contraddittoria, si confronta continuamente con movimenti tutt’altro che invisibili, ben conosciuti e studiati, ma allo stesso modo ben difficilmente controllabili. Queste forze dell’accumulazione sono sempre espressioni parziali* e come tali intervengono dentro i loro limiti, ma essendo forze molteplici finiscono per coprire uno spazio amplissimo, contrastando fortemente l’interpretazione. La totalità, come movimento complessivo delle relazioni, interviene anche nell’interpretazione e si presenta, il più delle volte, come movimento spontaneo, forse meno conosciuto e qualche volta meno comprensibile, ma allo stesso modo individuabile ed utilizzabile, naturalmente in senso positivo.

Le difficoltà che si vanno intensificando man mano che ci addentriamo nell’analisi negativa della logica dell’a poco a poco, trovano anche un loro riflesso nel tentativo corrispondente di dare indicazioni, quanto più possibile graduali e progressive, riguardo il funzionamento della logica del tutto e subito. Per il momento queste difficoltà possono essere superate soltanto in parte, e ciò a causa della non facile accessibilità di alcuni problemi e delle complicazioni di natura terminologica e concettuale che ne derivano. Non c’è dubbio che allo stato attuale del presente lavoro, il lettore, che non sto cercando di aiutare in alcun modo, troverà un ostacolo notevole nel capire il funzionamento della rete relazionale. Basta pensare che non ho deliberatamente ancora affrontato una trattazione dettagliata del problema della realtà, del movimento, del campo e così via. L’impostazione data a queste lezioni è anch’essa una risposta al problema della spiegazione, ed è una risposta che ho meditato a lungo. Ho sempre pensato che una discussione come questa dovesse essere un labirinto dentro cui trovare qualcosa, trovare una via d’uscita, non trovare nulla e magari morirci dentro. Ho scritto decine di libri e ho voluto mantenere un rapporto generoso con il lettore, prendendolo per mano fin dall’inizio, riconoscendogli un ruolo di destinatario, di privilegiato, come se il libro lo avessi scritto proprio per lui, per chiarirgli le idee, per sollecitarlo a migliorarsi, moralmente e culturalmente. Insomma, ho sempre scritto libri cercando di evitare che avessero problemi di riconoscimento. Essendo, quei libri, nella loro gran parte scritti di analisi rivoluzionaria e sociale, pensavo che le cose andassero sistemate in quel modo, risultando il più possibile gradevole, accettabile, insomma lavandomi la faccia prima di baciare qualcuno in fronte.

Molte delle cose dette in quei libri erano di rottura, alcune lo sono ancora e grosso modo non si può dire che li considero superati o contraddittori con quanto vado affermando qui, si tratta di un problema di esposizione, problema che si capovolge subito in uno di spiegazione. Pur essendo rivoluzionari, i miei libri precedenti si presentavano come un condensato di ortodossia culturale, erano ben disposti, accattivanti, scritti approssimativamente bene, insomma fatti in modo che la società li potesse accettare come prodotto culturale. Alcune delle tesi innovative in essi contenute, poniamo le analisi sulla società post-industriale, sono stati pubblicati espressamente da me almeno con cinque o sei anni di ritardo perché risultassero più comprensibili e quindi più facilmente fruibili.

I discorsi che faccio qui rompono con molto di quello che ho detto prima. Non come contenuto, ma come struttura. Proprio come struttura essi vogliono essere un contributo alla distruzione della struttura, come logica dell’a poco a poco un’affermazione della logica del tutto e subito. Questo capovolgimento attacca i benefici di cui ha goduto finora il lettore e, nel nostro caso, l’ascoltatore, anzi insegue quest’ultimo fin dentro le sue comodità.

Nell’ambito della ricognizione queste discussioni sono esse stesse un esempio del possibile lavoro della diversità, una spiegazione nel nascondimento, una serie di trappole a doppia entrata e uscita, un labirinto maligno, spiacevole, immorale. Se alcuni dei miei libri passati sono stati giudicati illegali, quindi immorali, e mi hanno anche fruttato anni di carcere, queste lezioni (fuori luogo) sono io stesso a definirle una reazione critica pratica della moralità, un contributo distruttivo radicale di ogni futura possibile moralità. Se il coinvolgimento richiede coraggio, questo deve venire fuori nella spiegazione, altrimenti c’è un tradimento contro se stessi, non una mancanza di carità verso gli altri, ma un’infamia verso la propria diversità, la propria intenzionalità. Occorre quindi partire da quest’ultimo punto, non da una griglia concettuale predisposta dall’accademia, valida in occasioni probabilmente contrapposte. Il rifiuto della carità mi sembra fondamentale, una tensione religiosa che non mi è mai appartenuta, che non voglio possa, anche marginalmente, contaminare un progetto, forse non conclusivo ma per grandi linee sufficientemente autonomo. Nessun aiuto agli altri, quindi, nessuna concessione che non risulti da un reciproco coinvolgimento, mio e del lettore. Sono disponibile ad un solo tipo di spiegazione, quella che si svolge nell’affinità scoperta nel compagno di lotta, forse scoperta e subito obliata, forse scoperta e messa a frutto, sviluppata. Non lo so, ma sempre nell’ambito del comune rischio, della comune avventura.

Enucleare una efficacia espositiva ad uso e consumo degli inetti, non mi è parso necessario. Avrei potuto monumentalizzare questo sforzo, fissarlo in uno schema rigido, immobile, fruibile nel senso che io stesso avrei imposto, con linee e confini da rispettare, insormontabili, inflessibili, aventi la tracotanza di suggerire un’arte del vivere che non può essere insegnata, né tanto meno appresa se non vivendo, e quindi meno che mai ascoltando le circostanze esterne imposte da un pedagogo fuori del tempo. Un rapporto deve essere impostato sulla passione, sulla comune passione, non può essere fissato nei canoni dell’utilitaristico interesse, fai in quel modo perché lì sta la tua utilità e con questa l’utilità di tutti. In nome della rivoluzione, o del papa re, la ghigliottina funziona sempre allo stesso modo. Discuto con voi innanzi tutto per me, per perdermi io stesso in questo labirinto, per ingannare me stesso con le mie trappole, con i miei nascondimenti, per guardarmi fisso in faccia attraverso lo specchio dalle mille duplicazioni. So che, uomo come tanti altri, in questo labirinto possono essere rintracciati altri percorsi di lettura, tutti differenti dal mio, lettore come gli altri e, accidentalmente, scrittore, propositore di un’ipotesi di lettura, non di un canone fissato definitivamente.

Un’occasione per mettere le basi per una prospettiva felice, sia pure minima, ridotta? Non credo. L’estasi felice non potrà mai più essere di questo mondo, non dell’uomo di oggi, non dell’uomo che dovrà lottare contro la protesi elettronica che lo raccorcia invece di allungarlo. L’antica condanna del cristianesimo contro la felicità ha svolto per intero il suo compito. Oggi cerca di ritagliare gli aspetti marginali, non incide più su di un edonismo che il dominio stesso sollecita e impone come ulteriore elemento di controllo. L’altra concezione, quella fondata sul dovere, impostata dal cristianesimo nella prospettiva del sacrificio e perfezionata dagli illuministi in quella del dovere per il dovere, oggi è ridotta anch’essa ai minimi termini. Sopravanza invece, con fare minaccioso, un atteggiamento che vorrebbe imporre una legge giuridica e sociale, e soltanto indirettamente da potersi codificare anche come legge morale, in base alla quale garantire la convivenza civile, la pace, il diritto e così via, tutte cose bellissime che tradotte, nel linguaggio pratico del dominio, significano sfruttamento e guerra, controllo e miseria.

Un comportamento esplicativo, se mi consentite il termine, oggi si presta molto bene ad assecondare il consolidarsi di questa nuova moralità in modo da frenare la pressione delle passioni e dei desideri che anarchicamente si affacciano in mille modi minacciando l’ordine dominante. Ecco perché propongo un percorso immorale, non solo nella sostanza, ma anche nel modo di strutturarsi, nella sua composizione, nel suo porsi all’ascoltatore. Un percorso dentro cui c’è una gran parte di me stesso, della mia vita, forse al di là di quella che potrà sembrare accessibile a un prim approccio. Ci sono piste e nascondimenti che non è facile snidare, una sfida all’ascoltatore e anche a me stesso, una scommessa, un gioco.

Che ci sia in ognuno di noi un bisogno profondo di far conoscere i propri pensieri è faccenda ormai fuori discussione. La cosa più segreta e impenetrabile, il limite che nessuna macchina elettronica per quanto sofisticata può superare, noi decidiamo, spontaneamente, di metterlo da parte. Vogliamo farci conoscere, vogliamo far sapere agli altri quello che siamo e come la pensiamo. Su ogni cosa abbiamo le nostre opinioni, tanto più radicate e irriducibili, quanto più queste opinioni sono superficiali e approssimative. Torna qui, ricorrente, il tema dell’imbecillità. Molti spiegano per nascondere i propri limiti, le proprie miserie, e spiegando si creano alibi, oppongono eccezioni, avanzano giustificazioni. Alcuni lo fanno in buona fede, spinti dalla loro ingenuità e dal loro candore di lestofanti impliciti, altri sono più velenosi e magari aspettano per anni acquattati nel loro brodo naturale fin quando trovano l’occasione e il coraggio per darti una stilettata.

Certo, per il fatto stesso che siamo noi a pensare in un certo modo riteniamo che questo sia il solo modo giusto e corretto di pensare. E ci meravigliamo altamente che gli altri non capiscano e, spesso, siamo portati a concludere per il tradimento o la vigliaccheria. Questo è umano e comprensibile. Anche l’imbecille, come il verme che attende il suo momento, si dà le sue ragioni e accampa le sue scuse. Anche coloro che si presentano sotto le vesti sacerdotali del possibilismo pluralista, sotto sotto, hanno la loro sacrosanta opinione e nessuno potrà spostarli di un millimetro. In buona o cattiva fede, quando forniamo spiegazioni, non riusciamo mai ad evitare di coprire le nostre responsabilità, non riusciamo mai ad esseri veramente noi stessi.

Proprio nella spiegazione si vede in che modo e con quale intensità siamo universi chiusi, forniti di comunicazioni standardizzate. Ci aggiriamo senza un criterio logico, a dritta e a manca, in balia delle nostre impressioni che, di volta in volta, scambiamo per fatti obiettivi. Certo, queste nostre impressioni sono accidentali, nascono dalle nostre relazioni con la realtà, con gli altri individui, le cose, le strutture, le forme, e così via, ma sono comunque parte di noi stessi, anzi sono esse proprio uno degli aspetti più visibili di noi stessi. Gli altri ci vedono come un complesso di opinioni, in nessun caso ci prendono sul serio al cento per cento. Il modo in cui ragioniamo, la scelta delle parole, il modo in cui ci vestiamo, come mangiamo, come facciamo l’amore, le nostre reazioni inconsce, tutto ciò è visibile agli altri e dà loro indicazioni più o meno precise sulla nostra individualità. Il processo attraverso il quale gli altri ci conoscono è quindi un processo di individuazione, in base al quale siamo individui noi stessi. Appare evidente come una vasta rete di rapporti di estrema incertezza e approssimazione porta alla costruzione di un dato che molte volte consideriamo assolutamente certo. Ognuno di noi dovrebbe partire quindi dall’ipotesi della poca fondatezza delle proprie opinioni, e pensare che gli altri vedono attraverso le loro opinioni che sono altrettanto poco fondate. Cosa fare? Tenere presente i propri limiti e quelli degli altri. Ecco un buon metodo.

Ognuno di noi si è costruito un suo modo di essere e di questo processo costruttivo è più o meno cosciente. Alla base ci sta il desiderio di vederci diversamente, di illuderci di potere rappresentare nella realtà un ruolo più importante di quello che i nostri limiti ci impongono. Anche l’imbecille culla questa illusione, anzi più grande l’imbecillità, più grossa la portata dell’illusione. Anche il verme e l’infame cullano la loro illusione di passare inosservati, di nascondere il loro cuore di conigli e di traditori. Purtroppo gli uomini sono fatti più o meno così, anche ottimi uomini, coraggiosi, capaci di affrontare i rischi della vita, coerenti con le loro idee, che non tradirebbero mai un altro uomo, anche questi uomini sono portati a considerare quelli che stanno dietro come meno importanti di quelli che stanno davanti. Se le loro condizioni oggettive non permettono di mettersi davanti, non resta che illudersi di poterlo fare. Questo esercizio di fantasia non conosce confini. L’operaio che compra la macchina costosa si illude allo stesso modo del dirigente industriale che si atteggia ad imprenditore. L’uomo politico che prende decisioni sul futuro della nazione si illude di dominare la scena della storia allo stesso modo dello scienziato che considera definitiva la sua scoperta illudendosi di avere catturato la realtà.

Anche i rivoluzionari si illudono. Non tanto sulla validità dei loro progetti, che questa è forse una delle cose più concrete della loro attività, quanto sulle piccole cose, sulla vita di tutti i giorni, sul mantenimento di distanze impossibili, sull’analisi di fatti lontani e sconosciuti, sull’uso del proprio coraggio, sul senso del ridicolo e su tante altre cose. Ed in momenti di stanca, quando le acque della piena sociale defluiscono, queste illusioni pesano come pietre. Anche i rivoluzionari vogliono essere più avanti degli altri, più estremisti, più efficaci, più concreti. Essi hanno poi un mito radicato in profondità, quello del poverismo. Mi si passi l’uso di questa orribile parola, per altro costruita per l’occasione, perché esprime bene il senso dello spettacolo a cui il rivoluzionario vuole partecipare. Il suo status sociale, astrattamente considerato, è quanto più lontano possibile dai codici del comportamento corrente, quindi deve essere non solo diverso, ma anche povero, per dare il segno di avvicinamento alla classe inferiore. Da qui un culto del poverismo che alcune volte rasenta il ridicolo ed altre volte serve semplicemente a coprire l’imbecillità.

Chiuso nella gabbia delle proprie incertezze e dei propri luoghi comuni, anche il rivoluzionario si adagia sulle soluzioni più facili, finisce per accondiscendere agli atteggiamenti che consentono la riproduzione di un cliché. Cede così davanti alle opinioni degli altri e si fa incasellare in certezze e in modi di essere precostituiti. Agisce solo in funzione di quello che gli altri pensano di lui ed evita accuratamente di urtare la suscettibilità dominante con la propria azione. Il gusto alla moda delle scappellate di cortesia diventa preponderante, per poi scadere in rissose colluttazioni quando la maschera cade e si viene scoperti per quello che si è, perbenisti sotto mentite spoglie. Per uscire da una situazione del gemere bisognerebbe impiegare un metodo critico capace di individuare la reale consistenza delle nostre spiegazioni.

Ognuno di noi parte da alcune certezze, sottoponiamole ad una critica negativa radicale. Scopriremo che una gran parte di queste certezze è fondata su impressioni e non su dati di fatto. Approfondiamo queste impressioni, facciamo un piccolo inventario dei dati, arriveremo alla sbalorditiva scoperta di quanto fragili siano le fondamenta del nostro giudizio. Scendiamo all’interno delle nostre impressioni, vi scopriremo come esse siano, a loro volta, frutto di altre impressioni mescolate con un numero irrisorio di dati di fatto. Approfondiamo questi ultimi e scopriremo sempre al loro interno una componente di incertezza, un giudizio soggettivo, una valenza ideologica.

Cosa concludere? Nessuna paura, è proprio quando si è criticamente certi dei propri limiti che ci si sente più forti e si possono costruire meglio i propri progetti. In effetti, esistono due modi di avvicinarsi alla realtà, uno intuitivo e l’altro analitico, deduttivo, uno che si fonda sul cuore e l’altro sul ragionamento, e sono ambedue sbagliati. L’intuitivo tutto cuore, che crede di capire subito la realtà, di sentirla, che ha la presunzione di potere fare a meno dei fatti, resta in balia delle proprie e delle altrui opinioni. Fa simpatia, come la fanno tutti coloro che si abbandonano agli atteggiamenti donchisciotteschi, ma gli manca la serietà, la precisione, l’informazione che non possono essere gettate via in un colpo. Il deduttivo tutto cervello, finisce per inaridire se stesso e il proprio progetto. È spesso scettico e sofisticato, presuntuoso per eccesso di informazione, mentre gli manca l’entusiasmo necessario per mettere a frutto il proprio patrimonio di dati di fatto. È quindi anch’egli vittima delle proprie opinioni.

Mi è stato spesso rimproverato di essere troppo rigido nel presumere che tutti possano arrivare a certe conclusioni, essere in grado di fare certe analisi. Almeno in tempi brevi, mi è stato detto, non tutti sono in grado di capire subito gli elementi essenziali di un problema. Penso che questa critica sia fondata. Esistono persone più dotate e persone meno dotate per l’analisi teorica e per la selezione pratica delle informazioni. E ciò si vede nella ristretta schiera di coloro che si dedicano a queste attività, anche fra i rivoluzionari. Ma gli altri non per questo debbono concludere per un’accettazione supina o per un rigetto di principio. Con un approfondimento critico, anche se in tempi un poco più lunghi, possono sempre arrivare a fare chiarezza nelle proprie opinioni e cogliere errori nei dati di fatto. Questo si deve pretendere, altrimenti si resterà sempre vittima dei propri fantasmi. Non lo si potrà pretendere dagli imbecilli e non lo si vorrà pretendere dai vermi e dagli infami, ma da coloro che sono in buona fede lo si può pretendere.

Penso che la spiegazione non possa piegarsi alle necessità del detto, cioè del flusso relazionale che ad un certo punto ci raccoglie e che riusciamo a cogliere. Ci sarà sempre una sfasatura. Sia verso il senso che verso la tensione non possiamo mai trovare sicurezza, ed è questo il motivo fondamentale che conduce questo lavoro, che fornisce una spiegazione diversa sia dalle accumulazioni analitiche, sia dalle intuizioni che presumono di arrivare per vie traverse alla totalità. Il terreno dove si verifica la fondatezza delle possibilità è sempre la ricognizione, prima di ogni ulteriore passo avanti bisogna interpretare, e la spiegazione che qui fornisco sta tutta in questo interpretare, forse anche al di là delle stesse relazioni interpretate. Il crollo dei sistemi complessi fondati su principi di certezza non poteva essere più completo. Non possiamo dire se a crollare siano solo le illusioni o anche alcuni elementi concreti che rendevano ipotizzabile una vita migliore della presente. Considerazioni del genere non sono soltanto conservatrici e nostalgiche, sono anche stupide. Non siamo noi a determinare le condizioni in cui viviamo, almeno non nella loro gran parte, ma per la parte sia pur minima su cui possiamo intervenire, se vogliamo farlo, dobbiamo fornirci degli strumenti necessari, e dobbiamo anche spiegarceli. Per quest’ultimo compito occorre un certo stile.

Certo, l’incertezza finalmente accettata fornisce una migliore agibilità e uno strumento critico superiore, ironicamente superiore che però può annientare completamente il senso non solo rifiutandone l’accumulazione, che sarebbe il compito critico del primo momento, ma anche imponendo una specie di sospettosa contro-realizzazione. In un mondo che velocemente distrugge e ricostruisce, trovando in questo alternarsi la migliore difesa degli interessi dominanti, purché la distruzione venga mantenuta dentro certi limiti diciamo tollerabili, ci può essere il rischio poco evidente ma molto serio di precipitare lo stesso soggetto in una mancata realizzazione. Così, la spiegazione che sarebbe dovuta partire verso un’apertura della tensione, liberando almeno il terreno ricognitivo da una parte dei sedimenti analitici, finisce per disgregare tutto, rimettendo continuamente in questione ogni conoscenza, ogni principio, ogni intenzione.

Nell’ironia, come segno stilistico del nascondimento, si riflette una duplicità ineliminabile, una considerazione critica che tende a sottolineare le limitazioni oggettive, ed una proiezione attiva che ridimensiona le velleità soggettive. La complicità con cui gli strumenti conoscitivi vengono considerati dall’ironia, realizzata nelle tecniche del nascondimento, scende nei risvolti positivi e negativi della decisione, nei limiti della volontà, nelle contraddizioni della struttura. In questo modo si possono individuare, nel percorso ricognitivo, le passioni che sospingono al di là del confine tra morale e bellezza, tra necessità e possibilità, tra senso e tensione. Ma per fare tutto ciò non basta la semplice accortezza, o l’avara attenzione di chi ama risparmiarsi, è necessario un coinvolgimento capace di mostrare a se stessi e agli altri l’assenza della paura, l’urgenza del desiderio che spinge a scoprire i modi, infinitamente vari, di raggiungere movimenti che non possono essere poi facilmente imprigionati dentro l’armatura del senso e dell’accumulazione.

Il problema della spiegazione penso possa trovare una giusta collocazione nel corso dello svolgimento di tutto il presente lavoro e ciò perché essendo entrati senza indugi, fin dall’inizio, nel movimento relazionale, possiamo spiegarlo solo agendovi dall’interno, fornendo di volta in volta, e spesso occasionalmente, lo stretto indispensabile dell’apparato metodologico che così viene costruito man mano che lo si impiega. Ora, lo stretto indispensabile, a volte, è troppo poco, occorre pertanto avere pazienza, fino a che i diversi contributi si completeranno a vicenda, riorganizzandosi in un quadro di comprensione che è poi il lavoro di filosofia relazionale a cui penso di pervenire.

Fra i problemi fondamentali c’è quello che nella riflessione relazionale non è facile fissare i limiti del campo, quindi occorre, di volta in volta, passare dal modello strettamente umano, in cui alcuni elementi della logica dell’a poco a poco continuano ad avere valore, ad un modello complessivo di relazione, con l’intenzione di superare i limiti del campo ed ottenere una visione totale della realtà, con un ricorso sempre più approfondito alla logica del tutto e subito. Dobbiamo capire che non è ricorrendo ad un umanesimo superficiale ed approssimativo che capiamo meglio. Ad esempio, bisogna accuratamente evitare tutti i ragionamenti occasionali che trovano origine dalle cosiddette relazioni umane, considerate come espressione pura del soggetto, mentre lavorando ai movimenti relazionali della coscienza ci si accorge l’importanza e l’influenza degli elementi oggettivi, accumulati nell’enorme catalogazione del senso. Ciò si capisce meglio considerando che la ricerca della qualità non è solo un effetto della spontaneità umana, ma è principalmente un effetto di calcolata perizia. Le due cose si fondono e si completano a vicenda, siamo d’accordo, ma non si possono fondare ragionamenti seri partendo da un preteso isolazionismo dell’individuo, cosa che corrisponde più o meno alla sua sacralizzazione. Nell’uomo di oggi non c’è soltanto, e spesso, l’intenzione di lasciarsi andare approfittando, quando si può e più che si può, delle condizioni favorevoli ed evitando quelle sfavorevoli, c’è anche la ricerca precisa di una artificiosità decadente, la riduzione adeguata della creatività, la formalizzazione dei mezzi comunicativi, l’appiattimento dei sentimenti, insomma una serie notevole di elementi diversi che non può essere tutta riassunta nella cellula uomo che, in questo modo, finirebbe per non significare più nulla.

Nello stesso tempo bisogna però evitare un’analisi esclusivamente obiettiva, se si preferisce naturalistica, costruendo il disegno ideale di flussi relazionali che solo in parte rappresentano veramente la realtà, mentre quel disegno corrisponderebbe soltanto a un progetto da laboratorio, una forzatura alle necessità ordinative del pensatore. In ambedue i casi si perderebbero di vista l’assoluto fondamento di libertà della relazione e l’assoluta anarchia del flusso relazionale. Mi sembra necessario approfondire meglio il problema della spiegazione, prospettando un maggiore avvicinamento al campo.

Dall’interno del campo, in quanto porzione del reale, la sostanziale libertà delle relazioni e la loro implicita anarchia sono scarsamente visibili in quanto, calandosi in una dimensione più specificamente umana, sorgono una serie di ostacoli non facilmente superabili. Per prima cosa, l’uomo non è libero, ma è prigioniero, ostacolato da mille catene che gli vengono chiuse dall’esterno. In queste condizioni, anche considerando la libertà dal punto di vista della totalità, non si vede altro che il movimento relazionale, il quale può anche essere scambiato per l’assoluta necessità. La libertà, infatti, per essere capita, deve essere conquistata, come qualsiasi altra qualità, non osservata da lontano, essa è possibile come lotta, allo stesso modo in cui la relazione è possibile come flusso. Nel campo, si rendono però comprensibili alcuni movimenti, che già conosciamo, come l’accumulazione del senso, la frattura della coscienza, la ricognizione e il salto, i quali fissano alcune caratteristiche sia del meccanismo che cerca di impadronirsi dell’oggetto, come dei tentativi del soggetto di aprirsi la strada verso la qualità. Noi conosciamo di già questi movimenti, i quali troveranno ulteriore applicazione in seguito. Qui voglio invece aprire, per la prima volta, il discorso sul livello più avanzato dell’effettualità, cioè la trasformazione, in pratica un discorso capace di dirci qualcosa in merito alla saldatura possibile tra tensione e senso, all’interno del territorio della cosa e fuori da questo territorio, nel momento in cui l’intenzionalità soggettiva guadagna il flusso ormai ricomposto nei sue due orientamenti.

Dobbiamo considerare di già unificato questo flusso, di già concretizzato il lavoro della diversità, e dobbiamo anche considerare superato il pericolo di compromissione definitiva all’interno del territorio della desolazione. La diversità, a questo punto, ritorna alla coscienza, nei limiti e alle condizioni che il suo itinerario all’interno della cosa riesce ad imporre al senso. Non dobbiamo dimenticare che il più alto livello dell’effettualità è la trasformazione e che la diversità capace ormai di trasformare si trova in una posizione di vantaggio nei confronti della coscienza capace soltanto di ordinare e modificare. La diversità non rientra nella coscienza come elemento acquietato, né vi rientra per sobillare la coscienza, essa cercherà sempre di riprendere ulteriori e praticamente infiniti tentativi di ricomporre la dolorosa separazione tra senso e tensione, ma ogni volta riproporrà alla coscienza un’unione produttiva di trasformazioni della realtà, quindi anche di senso nel significato riduttivo del termine, cioè di senso in quanto prodotto dell’accumulazione.

Il motivo per cui anticipo qui alcune linee dello studio del più alto livello dell’effettualità dipende dal fatto che per me la spiegazione degna di questo nome, cioè considerata dal punto di vista della logica del tutto e subito, è la trasformazione. Io penso che le cose si spiegano soltanto trasformandole, non essendo spiegazioni accettabili, e nemmeno plausibili, quelle legate alla modificazione e nemmeno quelle, pur necessarie, legate all’interpretazione.

Anche l’antico frazionamento orientativo trasmetteva un significato ed era il prodotto di una trasformazione, ma noi non possiamo sapere il motivo di quella rottura degli orientamenti, noi possiamo solo parlare di movimenti in corso i quali, una volta descritti, ci possono anche dare indicazioni in merito a possibili future divisioni tra senso e tensione, in quanto il lavoro nell’interno del territorio della cosa non è definitivo in nessun caso. Basta un semplice cedimento, un soprassalto di paura, una ridimensione del rischio, un minore coinvolgimento e tutte le conquiste qualitative si sbriciolano riproponendo un’altra volta la scissione orientativa. In questo modo, intendo quindi che questa scissione è sempre un fatto trasformativo, perché avviene in questo preciso livello dell’effettualità e non può avvenire nei due livelli subordinati. Tutto ciò va ovviamente moltiplicato all’infinito. Si tratta di un continuo mutamento relazionale che disegna un territorio complessivo di relazioni che individualmente identifichiamo in un campo, ma che totalmente non può considerarsi mai come una semplice somma di campi. I flussi relazionali sono movimenti unitari, cioè composti di tensione e senso e solo a causa di trasformazioni diventano orientamenti separati. Queste trasformazioni che consideriamo negative per facilitare la comprensione, avvengono sempre all’interno del campo, di un campo specifico, e sono leggibili in modo preciso solo all’interno di questo campo. Fuori si affievoliscano come differenza e polarizzazione, come frazionamento vero e proprio, ed entrano a far parte, disperdendosi definitivamente, di altri flussi relazionali o di altri orientamenti frazionati all’interno di altri campi e nella totalità delle relazioni.

Testi

* «Ho detto astratta oggettività; e intendo che l’oggettività attribuita in tal caso al pensiero come oggetto del nostro pensiero, non è, a sua volta, la concreta oggettività che di fatto gli si conferisce affermandolo, cioè pensandolo, ma una interpretazione inadeguata di essa per opera d’astrazione. Un pensiero altrui, pur volendolo pensare come altrui, non possiamo pensarlo se non pensandolo come pensiero, intendendolo, ossia scorgendone e riconoscendone il valore e, in altri termini magari provvisoriamente, consentendovi e facendolo nostro. Un pensiero nostro, ma già pensato, non si ripensa se non in quanto si rivive nel pensiero attuale; e cioè solo e in quanto esso non è il pensiero d’una volta, distinto dal pensiero presente, ma lo stesso pensiero attuale, almeno provvisoriamente. Sicché pensare un pensiero (o porre il pensiero oggettivamente) è realizzarlo; ossia negarlo nella sua astratta oggettività per affermarlo in un’oggettività concreta, che non è di là dal soggetto, poiché è in virtù dell’atto di questo».

(G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, p. 184).

Tracce del commento

La circolazione attorno alla volontà, operata dalla interpretazione è in massima parte di tipo analogico, si sviluppa sempre nell’accumulo, quindi è tradotta in senso a sua volta codificabile, ma si muove per condensazioni successive non databili temporalmente. Ogni processo che tiene distante la volontà in maniera critica si riferisce indirettamente all’immagine della cosa, anche se non sa come precisare questa immagine se non nei modi e nei limiti accidentali della rammemorazione, cioè alla cosa confinata nel dire che la descrive e la riduce a oggettualità commestibile nei processi del fare. I simboli mitici che impiego sono certamente progetti labirintici nei riguardi dei quali innalzo gli equivoci del dire e del fare, ma sono anche ridondanze del rammemorare. Una doppia linea interpretativa è qualche volta nettamente visibile, mentre altre volte resta nella semioscurità del mito. In quest’ultimo caso la componente prospettiva è minore e si accentua il suggerimento di possibile accesso alla cosa come oltrepassamento diretto. Il rapporto con l’uno che è diventa più concreto, come se il fare fosse tappezzato di segni diretti a estorcere il mio convincimento prima ancora di arrivare all’apertura verso la cosa.

Testi

** «Preistoria, rispetto alla storia della filosofia, è quella formazione spirituale, che perennemente si ripete nello sviluppo dello spirito umano anteriore e indirizzato all’acquisto dell’esplicita coscienza del problema filosofico: preistoria, che ordinariamente si denomina filosofia dello spirito; ma che speculativamente è sulla stessa linea della vera e propria storia della filosofia. La quale rappresenta il progresso dello spirito nella coscienza del problema filosofico: progresso, che può parer passaggio da un errore ad un altro, ma è passaggio da una verità a una verità superiore. Non è, si badi, mosaico, che lo spirito venga componendo con tanti pezzetti di verità, singolarmente apprestati dai singoli filosofi, di tra la congerie di errori ond’essi a volta a volta li deturparono. Non è possibile, infatti, concepire un sistema filosofico come una serie di affermazioni, parte vere e parte false, tra cui la filosofia posteriore poi sceglierà le prime e rifiuterà le altre. Il sistema è un’unità, come l’organismo del fanciullo, che tutto si conserverà e tutto si trasformerà nell’organismo dell’adulto. Il sistema è tutto vero nel momento suo, tutto falso nel momento posteriore, se non s’integri in un principio più alto. Tutto, non già nel complesso delle singole dottrine speciali, che possono essere anche incoerenti; ma nel principio tutto il sistema che dicesi platonismo, aristotelismo, cartesianismo, spinozismo, kantismo, e così via: termini, nessuno dei quali designa propriamente l’insieme delle dottrine particolari formolate dai rispettivi filosofi. Il sistema è unità, perché uno è lo spirito filosofico, che vi si realizza. Spirito storicamente condizionato, che si chiama Platone, Aristotele, Cartesio, Spinoza, Kant, ecc., e che si conosce e si apprezza con verità soltanto se si considera nella sua individualità storicamente condizionata. Questa condizionalità storica per altro non è accidentalità: perché se essa offre, per dir così, la materia alla ragion filosofante, proponendole il problema in un determinato modo, essa, alla sua volta, è determinata dal lavoro anteriore dello spirito, implicitamente o esplicitamente filosofante. Di guisa che idealmente è da dire che la ragione pone a sé e risolve quell’eterno problema filosofico che è eterna soluzione».

(G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 128-129).

Tracce del commento

Perdo ma non mi impoverisco nell’azione, non sono in grado di agirla nella piena coscienza del controllo, del mio controllo, la agisco nelle sue regole, che non sono le mie e che mi ospitano come la bufera ospita il fuscello trascinandolo via. Più avanzo nell’agire e più le antiche corrispondenze sfumano nel vecchio corrusco orizzonte e si rendono enigmatiche. La mia spada è adesso affilata, il mio coltello è stato a lungo accarezzato dalla pietra, amorevolmente, ed è pronto a colpire, io stesso sono diventato un’ombra, un’ombra che si aggira nella notte, le mie ritrosie sono sparite insieme alla mia altezzosità di kantiano critico, non sono più vulnerabile, perdo tutto perché non ho niente da acquisire, e quel niente sono io, sono io adesso l’oggettività da cui partire per muovere nel territorio della cosa. Nell’attacco contro il nemico, se voglio agire al di là del semplice desiderio inconsulto, devo colpire anche me stesso, uccidere il padre in me, l’autorità che io sono per me stesso, non il padre dei miei figli, ma il padre per me, l’ordine primordiale che mi sommuove contro ogni sovversione, che mi sollecita al ritorno all’ordine. Conosco la forza che si ostina a considerarsi superiore di un simile componente nascosto nelle più remote radici di me stesso, ma non è sempre facile attaccare per sradicarla o almeno per circoscriverla in una differente traiettoria di influenza. Questo mio essere padre di me stesso balbetta una sua pretesa di superiorità di organo che se mi appare ridicola alla luce del fare, balena sinistri segnali nelle ombre improvvise dell’oltrepassamento. È qui che raccolgo le offese alla mia mania di possesso, che accumulo le pulsioni di rivincita e di riconquista di quello che reputo mi sia stato sottratto. Uccidere il padre è sempre un po’ un suicidio. Per compenso la perdita è qui che trova la prima chiarificazione critica che poi porterà all’oltrepassamento e all’azione priva di banalizzazioni possessive.

Ventiquattresima lezione: 28 giugno 1990

La vita umana* si presenta come contemporanea azione di sapere e di fare, fusione più o meno critica e problematica di consapevolezza e di attuazione pratica. Ciò è vero in quanto la mia vita, quella per cui posso anche permettermi di parlare di una vita umana in generale, non è soltanto una banale contemplazione di immagini metafisiche, ma è essenzialmente azione che rende attiva anche la consapevolezza di sé e del mondo. Non è possibile quindi proporre due momenti separati, quello della teoria e quello dell’azione. Un primo momento in cui si conosce e un secondo momento in cui si agisce. La volontà, come espressione della coscienza non ancora diversificata, non può determinare l’azione, occorre prima che la diversità produca le condizioni opportune attraverso la ricognizione e attraverso il salto, quindi attraverso un livello dell’effettualità che possiamo identificare col sapere, nella prospettiva del campo, ma la conoscenza non può aversi senza il desiderio di conoscere, la spinta appunto della diversità.

La realtà, considerata come oggetto della conoscenza e dell’agire, presenta a sua volta una specie di contraddittorietà. Il dominio ha sempre avuto interesse a indicare questa contraddittorietà tra leggi teoriche, da un lato, e fenomeni, dall’altro, come qualcosa di insormontabile, racchiudendo la scienza e la riflessione dell’uomo all’interno di un relativismo assoluto che finisce per mortificarle. In sostanza, nel campo, nella ristrettezza delle nostre capacità, conosciamo il mondo, questo nostro mondo, che è quello genericamente indicato come l’ambito dell’agire umano, il mondo all’interno del quale l’uomo ha decodificato la natura e l’ha resa reale. Non si tratta di un mondo di oggetti resi immutabili da una feticizzazione del loro ruolo nei confronti dell’uomo, ma di un mondo in cui le cose, i rapporti e i significati sono elementi venuti fuori dall’agire stesso dell’uomo, un prodotto della sua vita sociale.

Sarebbe un errore proporre un modello di rapporto tra il mondo reale e l’uomo sulla base della coscienza che l’uomo ha del mondo, rinviando l’acquisizione della conoscenza ad un momento successivo e da costruirsi. L’uomo non ha coscienza assoluta del mondo più di quanto non l’abbia di se stesso, né in termini di totalità del reale, né in termini, più ridotti, di campo. La coscienza non può considerarsi come un sapere insufficiente ma generale, che si contrappone alla conoscenza come sapere sufficiente ma limitato. Io posso avere coscienza di una situazione di sofferenza in cui si trova il mio corpo e posso facilmente localizzarla nei denti. Posso quindi essere cosciente di avere mal di denti, ma questo processo può evolversi sul piano della consapevolezza in molti modi, attraverso l’intervento dei processi conoscitivi, la mia bocca è provvista di denti, qual è la forma di questi denti, perché essi sono sensibili al dolore, quali malattie li intaccano, e così via, senza per altro che si possa dire che questa fase conoscitiva abbia reso adeguato il mio sapere di fronte alla inadeguatezza della coscienza che avevo di esso. Potrei infatti, malgrado l’allargamento dei piani conoscitivi, intervenuto dopo, potrei non sapere cosa fare per porre rimedio al dolore.

In effetti, la conoscenza contrapposta alla coscienza di una realtà non è un diverso modo di conoscere, ma un modo di conoscere il diverso. All’interno del campo io posso avere coscienza di determinati rapporti sociali che mi collocano in una situazione di classe più o meno precisa, e posso verificare movimenti della coscienza, o reazioni, più o meno adeguate a questa situazione di classe, reazioni che mi possono infastidire oppure sollecitare ad una maggiore accettazione. Se questa coscienza resta monolitica, si avvierà a esternarsi solo verso l’orientamento del senso, cioè verso l’accumulazione di dati di fatto, di contenuti, ma non raggiungerà la consapevolezza della sua situazione complessiva, quindi anche del meccanismo d’accumulazione, se non attraverso un frazionamento nella diversità. In tal modo, la consapevolezza diventa coinvolgimento, quindi consapevolezza di diversi stati di coscienza, per poi trasformarsi in conoscenza vera e propria di diversi stati di cose. Esaminando bene questa fase, attraverso l’itinerario dell’apertura, dell’abbandono e della ricognizione, anche senza andare oltre ci si accorge che non c’è differenza, in termini relazionali, tra fare e pensare.

Ciò non vuol dire che la spiegazione non finisca per accampare diritti indipendenti, capaci di condizionare la decisione del singolo, di obbligarlo a fare, ed anche a pensare secondo moduli tutt’altro che liberi. Si consolida quindi, davanti a noi, una opinione feroce, che ci sollecita ad un comportamento adeguato, in pensieri e opere, comportamento che poi ritroviamo per intero nel meccanismo dell’accumulazione, in quell’esteriorizzazione che la coscienza fa propria e di cui non riuscirà mai a liberarsi definitivamente. Non resta che battersi contro questa ferocia, imparando a rifiutare ancora prima di imparare a criticare. Il rifiuto, anche per principio, è sempre un’ottima scuola contro la spiegazione che non solo non sapremmo dare ma che, molto più spesso, non potremmo dare. Sta qui la radice dell’agire considerato deviante, anche formalmente deviante, semplicemente ed esteriormente deviante, come pure del pensare deviante. Questa devianza non è ancora diversità e forse non lo sarà mai, ma è qualcosa, come il segnale che le primi luci dell’alba riverberano nel cielo.

Nei periodi di profonde trasformazioni sociali queste si riflettono nella scala dei valori che subisce, a sua volta, più o meno profondi sconvolgimenti. Uno degli elementi fondamentali di questa scala, diciamo uno dei livelli di fondo, è dato dal valore della vita. Della mia vita come di quella degli altri. Più o meno da sempre gli uomini hanno avuto un gusto per il rischio e l’avventura ed anche per le forme distorte del gioco violento, come il duello o la caccia. E sono anche antichi i giochi che mettono a repentaglio la vita del giocatore, spesso anche senza una posta adeguata. Senza volere tornare troppo indietro nella storia dell’uomo, basta pensare alla roulette russa, di cui tutti ricordano le pagine di un grande romanziere o le scene di un non molto vecchio film americano. Negli anni cinquanta, un altro film sempre americano illustrava la violenza dell’America rurale facendo vedere un gioco che si chiamava il salto del coniglio e che consisteva nel fare una gara tra due giovani al volante di due vetture lanciate entrambe verso un abisso, vinceva il gioco chi saltava giù per ultimo. Recentemente si è parlato di una forma di roulette sull’autostrada, consistente nel percorrere un pezzo di carreggiata andando nel senso contrario a quello obbligatorio di marcia, vince chi percorre il tratto più lungo. Fra i ragazzi israeliani, anche più piccoli di dieci anni, è in voga un altro gioco consistente nel mettere la cartella di scuola sulla strada e prenderla giusto nel momento in cui arriva un’auto, vince chi la prende per ultimo.

Ma perché giocarsi la vita? La prima risposta, molto facile, sarebbe quella legata alla crisi dei valori della società industriale avanzata, che non sa proporre un futuro valido a questi giovani. Un altro film recente, sempre americano, descrivendo la guerra fra bande a Los Angeles, finiva con una scena in cui un giovane sparava ad un poliziotto invece di farsi arrestare, gridando: non c’è futuro**. E potrebbe essere una buona risposta, nel senso che le esperienze di tutti i giorni, quelle che insieme formano la personalità, sono fortemente condizionate da profonde modificazioni intervenute in questi ultimi anni nella struttura sociale ed economica dei paesi industriali avanzati. I pensieri, le emozioni, le azioni degli individui sono immersi, quindi, in una situazione complessiva che ha allentato quei sistemi di controllo a priori capaci di dare spiegazioni e quindi mettere ordine e fornire sicurezze.

Ciò porterebbe i giovani, non ancora in grado di gestire una situazione sociale come questa, oppure non ancora in possesso di interessi e di idee ben radicati, a sentirsi privati di valore e quindi non disposti a dare valore alla vita. Ma perché è troppo facile questa risposta? Prima di tutto perché non mi sembra opportuno, ogni volta, rinviare soltanto ad un meccanismo sociale di base, con funzionamento deterministico, una struttura attraverso cui fornire una spiegazione onnicomprensiva. Dietro questa abitudine mentale, per altro non molto vecchia, c’è una sorta di causalismo delle idee che impedisce di cogliere le reali motivazioni che stanno dietro i fatti, motivazioni che se messe allo scoperto qualche volta potrebbero darci migliori indicazioni su cosa fare.

Il disgregamento sociale sopravvenuto, in modo massiccio, alla ristrutturazione economica degli anni Ottanta, è certo una delle cause dello sfaldarsi della scala dei valori costituitasi all’incirca nell’immediato dopoguerra e, più o meno, rimasta intatta fino agli anni Sessanta compresi. Un’istituzione come la famiglia***, che si sta rivelando sempre meno salda e capace di risponde al compito importante che la società capitalista e borghese del secolo scorso le aveva assegnato, non sta ricevendo i suoi colpi solo dalle mutate condizioni del mondo del lavoro e della produzione, ma anche da una diversa circolazione delle idee, da una trasformazione culturale, da una diversa concezione del tempo e dello spazio all’interno del campo sociale, e così via. Tutti questi elementi, che sarebbe troppo facile accorpare sotto l’insegna dell’economia, hanno prodotto trasformazioni che vanno esaminate una per una, che sono della massima importanza, e che costituiscono il tessuto effettivo dove si innestano le emozioni, i pensieri e le azioni di coloro i quali oggi si giocano la vita in cento modi, scoprendosi senza futuro, senza certezze, senza speranze.

D’altro canto, non siamo davanti ad un fenomeno marginale, come è sempre esistito e determinato dalla non immediata integrazione del giovane nelle condizioni imposte dalla vita sociale. Qui si vede un fenomeno di una consistenza e di una estensione mai raggiunte prima. Per spiegarlo dobbiamo rivedere anche i nostri schemi di ragionamento. Una volta pensavamo, giustamente, che le condizioni di lavoro fossero centrali per capire i motivi per cui i proletari potevano impegnarsi nella lotta di classe e quindi entrare in una prospettiva rivoluzionaria. Adesso le cose non stanno più così, le condizioni oggettive si stanno trasformando velocemente. Una volta pensavamo che la mancanza di lavoro, lo sfruttamento, le lotte delle masse lavoratrici, proprio a causa di difetti intrinseci al sistema produttivo, potevano in un determinato momento produrre una presa di coscienza rivoluzionaria. A parte i problemi che questa presa di coscienza solleva, e non da oggi, c’è da aggiungere, ad ulteriore complicazione e riconferma delle più antiche preoccupazioni, che adesso non si può più seriamente pensare ad un automatismo del genere.

In un passato lontano ed anche recente abbiamo affermato che una delle condizioni di freno della lotta sociale era, senza dubbio, l’integrazione educativa di già in funzione all’interno della famiglia, base di quell’uniformità di giudizio che veniva poi perfezionata nella scuola, nell’esercito e nel lavoro. Oggi la famiglia si sta smembrando, concezioni diverse vi sono entrate dentro, vi spira un’aria di tolleranza e paternalismo, se non proprio di puerocrazia. L’informazione entra direttamente nelle case e non rende più possibile il filtro della censura dei genitori, i quali stanno anche perdendo una parte dell’autorità che viene dalla semplice forza fisica, visti i migliori controlli da parte dello Stato riguardo le violenze sui minori. L’antico affetto, quello delle oleografie ottocentesche, su cui doveva basarsi una famiglia, affetto che è stato per lo più una creazione dei letterati, adesso non riesce a coprire la grave mancanza di sentimenti reali all’interno di questa istituzione.

Testi

* «Hegel resta al punto di vista dell’economia politica moderna. Egli intende il lavoro come l’essenza, l’essenza che si avvera dell’uomo: vede soltanto l’aspetto positivo del lavoro, non quello negativo. Il lavoro è il divenir per sé dell’uomo nell’alienazione o in quanto uomo alienato. Il lavoro che Hegel soltanto conosce e riconosce è il lavoro spirituale astratto. Questo, che costituisce dunque in genere la essenza della filosofia, l’alienazione dell’uomo che conosce se stesso o la alienata scienza autocosciente, questo intende Hegel come l’essenza di essa filosofia e può quindi rispetto alla filosofia anteriore ricapitolarne i diversi momenti e presentare la sua filosofia come la filosofia. Ciò che gli altri filosofi hanno fatto – cioè di intendere momenti particolari della natura e della vita umana come momenti dell’autocoscienza e invero dell’astratta autocoscienza – Hegel lo sa come il fare della filosofia. Perciò la sua scienza è assoluta».

(K. Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, in Opere, vol. III [1843-1844], tr. it., Roma 1976, pp. 360-361).

Tracce del commento

Viste le condizioni di estrema povertà vitale che caratterizzano il fare coatto, il mito suggerisce spesso una spinta che prende forma concreta bene indirizzata, al di là dell’originario destino distortivo a cui poteva essere indirizzata dalle mie scelte interpretative critiche dell’inizio, quando ancora l’immane lavoro rammemorativo era di là da venire. L’uno che è mi indirizza una forza vitale che viene verso di me dal destino, quindi dall’esterno del fare. Questa forza creatrice è indirizzatrice, anche se non sono in grado di accostarla o di ridurla a motivo centrale della rammemorazione e quindi della creazione del mondo nell’ambito del fare. Questa traccia mi sostiene nell’agitazione frenetica che la presenza simbolica può a volte scatenare nella mia convinzione interpretativa, mi fornisce punti di riferimento che alla fine risultano noti a me soltanto. La potenzialità dell’oltrepassamento come concreta realizzazione attiva di un viaggio nel territorio desolato della cosa è certo stimolata dalla intuizione e da tutte le operazioni di storno e ridondanza labirintica realizzate a carico della volontà, ma in fondo quella potenzialità giace a volte inespletata nel fare. Lo slancio contenuto in un attacco che vive e muore nell’ambito del fare, come pure il suo contrario, un velleitario desiderio d’azione non fondato sulla concreta conoscenza degli strumenti indispensabili al fare, sono i due lati di una medesima vuotaggine priva di senso, cioè priva di ogni possibile agire.


Testi

** «È noto che in un capitolo centrale del suo poema filosofico, Nietzsche rappresenta il tempo nella forma di due sentieri che si dipartono da una porta carraia: “Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li ha mai percorsi sino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via fuori della porta e in avanti – è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’uno contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: attimo”. Il testo di Nietzsche offre una delle formulazioni più sintetiche dell’eterno ritorno, ovvero di una dimensione temporale estranea all’orrida via che passa per la porta carraia. La realtà che sovrasta la via e gli esseri che non l’hanno imboccata, o che si soffermano davanti alla porta, possono sfuggire alle due dimensioni del tempo perché vivono un’altra eternità: “Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori – deve camminare ancora una volta! E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti esserci stati un’altra volta? – e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno?”. Nel testo di Nietzsche, alla “visione” orrida del tempo, l’eternità del passato e l’eternità del futuro che si scontrano nell’attimo (Augenblick) del presente segue la scena enigmatica di un giovane pastore che si rotola per terra, soffocato da un serpente che gli penzola dalla bocca. “La mia mano tirò con la forza il serpente, tirava e tirava – invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggi dalla bocca: “Mordi! Mordi! – Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente –: e balzò in piedi. – Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!”. Secondo un’interpretazione delle due allegorie, la seconda integra la prima (l’orrida necessità del tempo) mediante la decisione di interrompere e di rifiutare (“mordere”) la fatalità che soffoca l’umanità. Ma di che fatalità si tratta? Nella prima allegoria, è senza dubbio quella del tempo così come appare a chi si ponga sul limitare della porta dell’attimo: il passato e il futuro gli appaiono come due abissi senza fondo, e il presente annientato nell’istante. Ma nella seconda, è la fatalità dell’eterno ritorno come nuda necessità soffocante (le spire del serpente), da cui ci si libera, con la decisione, accettandola e trascendendola (il “riso” del pastore trasfigurato). E come se il residuo di temporalità contenuto nella nozione di eterno ritorno (un movimento paradossale ed enigmatico, ma pur sempre un movimento – Wiederkehr) fosse eliminato per proclamare l’eternità dell’eterno ritorno. Si direbbe insomma che il senso profondo della visione e dell’enigma non sia soltanto l’affermazione del carattere ricurvo di tutto ciò che esiste (come maldestramente afferma il nano che accompagna Zarathustra), ma l’estraneità come conquista mediante la decisione».

(A. Dal Lago, “L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut” n. 222, 1987, pp. 10-12).

Tracce del commento

I movimenti dotati di una forte dinamicità che metto in moto attorno al monolite produttivo alimentato dalla volontà, sono solo parzialmente controllati dalla mia perspicace attenzione, per lo più diretta a verificare la maggiore o minore corrispondenza con i protocolli. Spesso aggiungo, come accade qui, riferimento al mito, in particolare quello di Dioniso, allo scopo di costruire camminamenti distortivi, rappresentazioni collettive dove i simboli non corrispondono esattamente al sottofondo che sono incaricati di simboleggiare. Lo spazio e il tempo, in queste condizioni interpretative, si dilatano o si restringono, in ogni caso entrano in conflitto con i riferimenti di controllo senza comunque riuscire a formulare un’alternativa concreta alle residue capacità di controllo potenzialmente integre nel movimento volontariamente diretto a garantire la produzione. Posso avere, più o meno chiara, una prospettiva dell’uno, un progetto assolutamente altro, ma devo inserire ciò all’interno di una negazione del processo di controllo realizzato dalla volontà. La visione dell’accumulo ingigantisce la mia immediatezza, la culla nei suoi segni di completezza, nel suo luogo della soggettività circondato da altre mura, nell’arena di piccoli scontri e modeste conquiste che alienano la possibilità di andare oltre.

Testi

*** «Per l’uomo religioso le principali funzioni fisiologiche possono diventare sacramenti. Mangiare è un rituale, e il cibo viene variamente valorizzato dalle diverse religioni e culture. Gli alimenti vengono considerati sacri, o come doni della divinità, o come offerta votiva agli dèi del corpo (per esempio, in India). Anche la vita sessuale viene ritualizzata, e quindi equiparata a quella divina (ierogamia Cielo-Terra).

«Con il matrimonio si verifica un passaggio da un gruppo socio-religioso a un altro. Il giovane sposo lascia il gruppo degli scapoli ed entra a far parte, da quel momento in poi, del gruppo dei capifamiglia. Ogni matrimonio implica una tensione e un pericolo e perciò provoca una crisi; ecco perché richiede un rito di passaggio.

«I “riti di passaggio” hanno un ruolo notevole nella vita dell’uomo religioso. Senza dubbio, il più importante rito di passaggio è rappresentato dall’iniziazione – nell’età puberale –, dal passaggio cioè da un gruppo di età a un altro (dall’infanzia o dall’adolescenza all’età adulta). Ma vi sono riti di passaggio anche in occasione della nascita, del matrimonio, della morte: può infatti dirsi che ognuno di questi eventi comporta sempre un’iniziazione, dato che implica un mutamento radicale dello status ontologico e sociale. Al momento della nascita il bambino non ha che un’esistenza fisica, non è ancora riconosciuto dalla famiglia, né accettato dalla comunità. Sono i riti celebrati immediatamente dopo la nascita che danno al nuovo nato lo status di effettiva “persona vivente” ed è solo in grazia loro che egli viene ammesso nella comunità dei viventi.

«Per quel che concerne la morte, i riti sono ancora più complessi: non si tratta infatti solo di un “fenomeno naturale” (la vita – o l’anima – che lascia il corpo) ma anche di un mutamento nello status sia ontologico che sociale. Il defunto deve passare attraverso determinate prove che riguardano il suo destino nell’al di là, ma deve anche essere riconosciuto dalla comunità dei morti e da loro accettato. Per taluni popoli solo la sepoltura rituale conferma la morte; colui che non viene sepolto secondo la tradizione non è morto. Altrove, la morte non è ritenuta valida fino a quando la cerimonia funebre non sia stata celebrata o fino a quando l’anima della persona morta non sia stata ritualmente condotta alla nuova dimora nell’altro mondo e ivi accettata dalla comunità dei morti».

(M. Eliade, voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Treccani, Roma 1975, pp. 128-129).

Tracce del commento

La monarchia domestica della volontà è roccaforte troppo profondamente radicata per essere accerchiata e strappata via di punto in bianco. Sotto molti aspetti non sono ancora riuscito a entrare dentro il cerchio delle catene volontarie, tanto meno a romperle, eppure sono convinto che è qui che si nasconde il meccanismo dell’oppressione. Dirlo e agire diversamente di come tutto è accettato, metabolizzato e riproposto, sono universi remoti uno all’altro. La fonte attiva dell’operare non è individuabile con certezza, anche se sono in possesso di sufficienti indicazioni riguardo il coinvolgimento, condizione fra le tante per arrivare all’oltrepassamento. Non è però centrale il coinvolgimento se non inserito all’interno della zona di risposta da cui metto in moto la serie complessa di movimenti verso l’apertura alla coscienza diversa. È in questa zona dei desideri che le mie strutture di controllo entrano in contraddizione con i protocolli e i riferimenti fissati attorno a me dalla mia volontà di controllo. L’oltrepassamento è così non tanto una meta quanto una regione di compenetrazioni reciproche che proieta le proprie caratteristiche diverse e unitarie fino all’ambito modificativo dove vengono percepite, appunto, in maniera diversa. Di per sé l’oltrepassamento non è una zona ma un processo non individuabile come spazio, né può essere colto come fatto compiuto, perché fatto non è, ha l’ambivalenza del passaggio che è questa parte ma anche l’altra, l’autentica diversità non assolutizzabile in quanto persistenza. L’ambivalenza è subito evidente e non può essere soppiantata da un ordine surrettizio se non radicando il movimento nell’ambito modificativo. Ma questa eventualità, per altro inevitabile per la stessa ricostruzione rammemorativa dell’azione, non può essere confinata nella scelta come manifestazione volontaria.

Venticinquesima lezione: 30 giugno 1990

Lo stesso dicasi per la scuola*, contro cui da più di un secolo si è indirizzata la critica libertaria, prontamente agguantata dagli intellettuali di regime, per cui adesso occorrerebbe un ulteriore sforzo di approfondimento per capire i limiti e i difetti della stessa educazione libertaria. Occorrono quindi spiegazioni sovversive, nel senso di essere capaci di sconvolgere l’assetto tendenzialmente uniforme di quanto ci viene imposto. Ma per arrivare a ciò occorrono grinta, stile, capacità di approfondimento e una buona dose di pessimismo verbale. Ci sono persone accomodanti, in sostanza brave persone, che forse possono anche essere convinte di alcune realtà tutt’altro che accettabili, eppure la loro mal riposta bontà li spinge alla tolleranza e a chiudere gli occhi, in nome di un principio superiore di astratta libertà. Queste persone penso siano altrettanto responsabili di quanti attivamente si danno da fare per reggere e gestire il dominio, e sono responsabili proprio per il loro semplice chiudere gli occhi.

Come condannare una spiegazione ringhiosa e rusticana, quando appare, improvvisamente dietro la patina che sta appiattendo tutto? Io non me la sento, per carattere e per riflessione. Innanzi tutto l’ostilità contro questo assetto perbenista e tollerante, l’ingiuria e il disprezzo contro questa società di scemi e di furbi, un controllo bigotto e feroce che schiaccerebbe come un insetto molesto qualsiasi spiegazione semplicemente deviante. Un peso che ci sta deformando occorre, per prima cosa, che venga violentemente respinto. Per questo è importante che la spiegazione, quando è realmente capace di tenere conto della totalità relazionale, sia un vero e proprio pugno nello stomaco, in grado però di velarsi fino alle tecniche più raffinate del nascondimento di Hölderlin, cioè fino al delirio**. La monotonia e la tetraggine non sono indispensabili, ma hanno la loro importanza nella spiegazione quando sanno capovolgersi nell’ironia e nel riso.

Sia la teoria che l’azione sono relazioni, quindi si inseriscono in flussi, orientamenti e così via. Non sarebbe giusto dire che le teorie determinano conseguenze sulle teorie e le azioni sulle azioni, in quanto non esistono relazioni teoriche e relazioni teoriche. Quando ho parlato di relazioni apparenti mi sono riferito a relazioni che a causa del loro più o meno immediato affievolimento si smarriscono disperdendosi nella rete universale di tutte le relazioni non arrivando a sviluppare flussi e movimenti significativi. A riconferma di questa impossibilità di distinzione, c’è da dire che non è vero che le teorie interagiscono in un loro universo chiuso, poniamo quello delle accademie, ma, come constatiamo tutti i giorni, producono effetti molto concreti nella realtà, ed anche effetti su altre teorie che poi finiscono per tradursi in effetti su altre realtà e così via. Le azioni allo stesso modo producono effetti non solo nella realtà sociale, nei cosiddetti fatti, ma anche nelle riflessioni relative a quei fatti, cioè nelle teorie.

L’elemento che caratterizza in modo profondo questa dimensione teorica e questa dimensione pratica è dato dal confronto tra le strutture e le forme, questo confronto, all’interno del campo, prende l’aspetto di una conflittualità di classe. L’agire umano, almeno nelle attuali condizioni, è fondato sulla divisione in classi della società, sulla conseguente gerarchia delle posizioni sociali, sulla divisione del lavoro, sulle spiegazioni che di questa situazione strutturale vengono fornite, sviluppate, criticate e così via. In quanto partecipe dell’agire umano, la teoria, cioè queste spiegazioni, è anch’essa fondata sugli stessi elementi, quindi è caratterizzata dalla medesima conflittualità.

Il nostro agire è quindi funzione di quello che la realtà è per noi, cioè dal punto di vista del campo che ci costruiamo. Tutto ciò con relativi chiaroscuri, contraddizioni, verità e inganni. Di questa realtà, e di noi stessi, abbiamo coscienza immediata, che corrisponde al modo in cui la coscienza si inserisce nella realtà relazionale totalmente considerata e nel meccanismo dell’accumulazione preso nella sua specifica oggettività. Ma già il nostro semplice fare, all’interno della catalogazione, modifica questa coscienza iniziale, portandola a una più ampia consapevolezza di quanto di distinto e di confuso esiste al suo interno. Questa maggiore consapevolezza, che non ha ancora nulla del futuro coinvolgimento, costituisce l’avvio del processo di conoscenza, sempre all’interno del meccanismo accumulativo. Questa conoscenza elementare, circoscritta al primo livello dell’effettualità, è già conoscenza in atto, cioè capace di riorganizzare l’accumulazione, quindi di produrre autonomamente processi modificativi.

L’apertura non sarà più un modo di fornire spiegazioni del primo livello, ma di interpretare queste stesse spiegazioni, trasformandole in qualcosa di diverso. Nell’ambito del campo, la diversità venutasi a creare con l’apertura si profila subito come espressione della conflittualità di classe, modo di essere della coscienza che comunemente viene indicato come presa di coscienza. Noi non siamo qualcosa di esterno a questa conflittualità, che per determinate condizioni favorevoli può capire quello che avviene al suo interno, noi siamo la conflittualità stessa in quanto siamo la realtà con tutte le trasformazioni che avvengono grazie al movimento totale.

Dopo la ricostituzione unitaria del flusso relazionale a seguito dell’azione di ricongiungimento della tensione con il senso, attraverso la trasformazione incidiamo sulla realtà. Questa è la spiegazione più adeguata alla logica del tutto e subito, ma è anche il livello più alto dell’effettualità. Questa conclusione è una conseguenza della relazione che siamo riusciti a costruire tra coscienza e conoscenza, ben al di là dei meccanismi dell’accumulazione.

L’azione del nostro nemico di classe, come la sua teoria, è diretta a rafforzare il suo dominio in quanto da una situazione di divisione, ordine e gerarchia, esso ricava tutti i vantaggi del dominatore. In questa prospettiva il termine azione è quanto mai improprio, perché il fare della coscienza chiusa si apre soltanto all’interno del processo di accumulazione ed ha come obiettivo il controllo. La spiegazione che la coscienza dominante fornisce è diretta a modificare il meno possibile perché tutto resti come prima. La struttura istituzionale assume pertanto l’aspetto frastagliato e meccanico di uno sviluppo ramificato che contrasta fortemente con l’aspetto sfumato e continuo della forma, ma qui entriamo in approfondimenti che per il momento risulterebbero quasi incomprensibili. Voglio però aggiungere che l’azione di chi subisce lo sfruttamento è quasi sempre diretta a cambiare le cose perché si possa avere un miglioramento, non una effettiva trasformazione rivoluzionaria, ma almeno non soltanto esteriore. La forma sociale è quindi in movimento continuo dall’alto verso il basso del campo, la struttura istituzionale è invece statica o si modifica molto lentamente e con processi faticosi dal basso verso l’alto.

Quanto detto riguardo l’azione dello sfruttato che tende a liberarsi e del dominatore che frena questa liberazione, cioè per quello che si potrebbe definire pratica rivoluzionaria, vale anche per la teoria della liberazione che si contrappone alla teoria della conservazione o teoria reazionaria. Certo, non tutte le teorie e le azioni del dominio solidificano quest’ultimo, come non tutte le azioni e le teorie della liberazione lo distruggono. Se nella fase della coscienza immediata, all’interno del processo accumulativo, queste distinzioni sono molto schematiche, quindi possono apparire abbastanza chiare, nelle fasi successive la realtà dello scontro sfuma in elementi più tenui, specialmente nella fase intermedia dell’interpretazione, per poi riconquistare una chiarezza diversa nell’ultimo livello dell’effettualità, al momento della trasformazione.

Una volta ricostituita l’unità del flusso, all’interno del campo, si fissano percorsi sufficientemente costanti che risultano costituiti da azioni e teorie che, escludendo i fenomeni non rari di recupero o degenerazione, si possono definire come percorsi di azione rivoluzionaria e percorsi di teoria rivoluzionaria. In questi ultimi, orientamenti diversi possono dar vita a teoria della liberazione e teoria rivoluzionaria vera e propria. Il servizio principale che la teoria rivoluzionaria rende alla rivoluzione sociale è quello di indicare i limiti dell’azione e della teoria che gli oppressi portano avanti, elevando il livello di quella proposta esplicativa che questa azione e questa teoria, nel loro insieme, costituiscono. Nello stesso tempo, la teoria rivoluzionaria indica quanto di utilizzabile per la rivoluzione sociale ci sia nella pratica che oggi consente la permanenza del dominio, mentre denuncia le componenti reazionarie e mistificatorie della teoria ideologica del dominio di classe.

Al concetto di spiegazione trasformativa che abbiamo elaborato fin qui, contrapposta alla spiegazione analitica basata esclusivamente sul meccanismo dell’accumulazione, viene oggi contrapposta un’altra spiegazione, né attiva, né scientifica nel senso più semplice che si può dare a queste parole. Si tratta di una spiegazione indiretta, costruita attraverso la gestione dei mezzi d’informazione e gestita dal potere, il risultato, anch’esso di natura accumulativa, viene chiamato immaginario collettivo. Si tratta di un concetto buttato lì spesso come cosa da tutti risaputa ma con esiti non del tutto accettabili. Per quello che si può capire dell’uso di questo strumento di dominio, ancora in corso di perfezionamento, si tratta dell’insieme dei sentimenti che un fatto o una situazione socialmente significanti determinano nella società intesa come insieme di individui. Nello stesso tempo, col medesimo concetto ci si vuole riferire ai moderni mezzi di comunicazione che realizzano il passaggio di questi fatti sociali significativi, dal semplice accadimento circoscritto nel tempo e nello spazio, alla diffusione di massa. È questa diffusione allargata che consente una spiegazione costruita in modo specifico capace di avere una persistenza nel tempo e una dilagazione senza paragoni nello spazio.

In altre parole, si tratterebbe di un meccanismo inconscio, o almeno non del tutto sotto il controllo della coscienza, ma pienamente inserito nell’accumulazione, attraverso cui i membri della società rappresentano a se stessi i fatti sociali più significativi, attraverso una spiegazione non proprio razionale, realizzata dalle strutture di comunicazione di massa e nelle forme volute dalla struttura politica e culturale dominante. Che questa realtà esista, viene dato per scontato. Non c’è dubbio infatti che la gran massa delle persone sia in balia dell’informazione di potere, della cultura e, quindi, delle idee elaborate dal potere. Non c’è nemmeno dubbio, a quanto sembra, che la gran parte della gente reagisca in modo sufficientemente uniforme, tanto da consentire proiezioni e previsioni politiche molto attendibili partendo da campioni assai modesti purché opportunamente selezionati. La società di massa pensa ed agisce in modo massificato, quindi prevedibile. Ciò molto più di quanto accadeva una volta, al tempo in cui la coesione era garantita da un vasto analfabetismo di fondo. È facile capire il gran lavoro che occorrerebbe fare in tale direzione per spaccare questa uniformità facendola diventare critica e contraddittoria, confusa e disperata.

In pratica accade il contrario. E ciò anche fra i rivoluzionari e nel loro movimento, dove si dovrebbero realizzare le operazioni di dissacrazione e di rottura. Anche qui l’immaginario viene accettato come un possibile referente, cioè come un qualcosa di omogeneo e di già costituito, su cui fare pressione, un qualcosa di non chiaramente distinto, da utilizzare a scopi rivoluzionari. Quando questa premessa viene prodotta in modo più fondato, almeno da un punto di vista analitico, cosa che oggi non è molto comune, viste le carenze generalizzate che ci circondano, l’immaginario sembra potere riassumere in sé l’antica coscienza di classe o, in altre parole, sembra potere trasformare in sensazioni ed immagini personali la realtà delle differenze di classe, della situazione produttiva, del grado di mobilità sociale, delle strutture in cui la società è divisa, e così via. Per cui il singolo, attraverso questo filtro sufficientemente omogeneo, avrebbe la possibilità di cogliere la sua posizione all’interno del corpo sociale.

Ecco alcune considerazioni che mi sembrano utili. Il concetto di immaginario si avvicina a quello di mito nel senso sorelliano. Non che la cosa possa fare impressione, essendo ormai lontani i tempi delle condanne senza appello in base a semplici istruttorie ideologiche. Il fatto è che può fare paura un uso sconsiderato e acritico dei processi irrazionali di massa, specialmente quando questi sono presi in considerazione da un punto di vista rivoluzionario. Poi, non è affatto vero che ci sia un rapporto diretto tra immaginario e coscienza di classe in senso complessivo o collettivo, se non altro perché non è possibile, attraverso i processi di formazione dei sentimenti collettivi indotti, quali appunto quelli formati attraverso l’impiego dei grandi mezzi di informazione, arrivare a spiegazioni trasformative, cioè realmente in grado di intervenire nello scontro sociale. Prendiamo l’esempio dell’immaginario imperniato sulla paura del nucleare, così come si è andato sviluppando in questi ultimi anni Ottanta. Si tratta di una unità amorfa, variamente diffusa in tutte le classi sociali, la quale tende proprio a superare un discorso di differenza, per accomunarci tutti sotto il denominatore della morte atomica. Impostando un discorso su questo elemento dell’immaginario, non ne viene fuori un raccordo con i livelli di coscienza, sia pure immediata, ma un collegamento con una reazione collettiva genericamente irrazionale. In altre parole, siamo addirittura al di sotto del progetto legato al mito dello sciopero generale.

Non bisogna neanche sottovalutare il fatto che semplicemente il sapere dell’esistenza di un patrimonio disponibile di tal genere, come un contenitore facilmente raggiungibile dove attingere una base per qualsiasi progetto rivoluzionario, è certamente negativo perché ci porta ad ipotizzare possibile un uso del mezzo di grande informazione per stornare a vantaggio del movimento rivoluzionario quel patrimonio, cioè l’immaginario, che invece può essere solo raggiunto, accresciuto o, comunque, modificato a beneficio esclusivo dei progetti di potere. In questa ottica siamo portati ad accettare per buone solo quelle azioni che possono fornire spiegazioni in chiave immaginaria e non ci rendiamo conto che questa chiave è gestita dal potere attraverso la sua informazione.

Infine, che l’immaginario, sociale o collettivo che sia, risulti essere un’organizzazione di immagini, è fuori discussione, in caso contrario perché mai utilizzare questo orribile neologismo? Infatti, non è pensabile che chi lo usa abbia in mente un’accozzaglia farraginosa e impenetrabile di immagini, ma deve per forza pensare a un tutto con una certa struttura più o meno chiara. Quindi, se si vuole usare questo concetto, lo si usi nel senso di un qualcosa di organizzato, a livello immaginativo, cioè a livello di simboli, di sentimenti, di sensazioni, di immagini per l’appunto, che vengono prodotti dalla realtà, in quanto fatti socialmente significativi, e poi trasferiti alla collettività con lo strumento classico dei grandi mezzi di informazione.

Ora, a ben considerare, il concetto di una organizzazione di immagini è proprio quello sorelliano, cioè si tratta delle stesse parole con cui l’ingegnere francese definiva il mito sociale. In questi ultimi tempi, e ciò spiegherebbe l’emersione confusa del concetto di immaginario, c’è stata non tanto una rivalutazione del sorelismo, quanto una rivalutazione del concetto di mito. Ciò è accaduto parallelamente ad una profonda modificazione nella struttura produttiva e sociale, sotto la spinta di nuovi stimoli culturali e davanti alla caduta dei vecchi luoghi comuni del centralismo e del dirigismo ideologici. In una realtà piena di provvisorietà ed incertezza, mentre tutte le fedi del passato cadono e vengono sostituite da modelli probabilistici, mentre il capitalismo classico ormai si è installato su di una base di provvisorietà stabile, il concetto di mito politico o sociale riprende la sua strada sotto la nuova veste di immaginario.

Ci sono delle pagine molto belle nel grande e poco conosciuto corpus delle opere di Schelling, proprio quelle scritte dopo che la morte del suo antico compagno e acerrimo nemico gli aveva consentito di tornare all’insegnamento, pagine dove si capisce veramente cosa è e come nasce un mito. Sono pagine ancora oggi valide che mi impressionarono moltissimo quando le lessi da giovane, senza sapere quali riflessioni su di esse aveva già fatto l’ingegnere francese di cui parlavo sopra. Fu proprio grazie a quelle intuizioni che non mi riuscì mai successivamente di accettare la tesi anticlericale pura, che sostiene essere il cristianesimo una invenzione dei preti. Ecco, c’è nel mito una traccia della sofferenza collettiva, del bisogno che esseri sofferenti hanno di liberarsi, di cambiare una vita amara e senza speranza. E questa traccia, almeno nel cristianesimo delle origini, non si può ricondurre all’opera di qualche monaco solitario.

Lo stesso si può dire per il mito della rivoluzione realizzata, così come milioni di persone l’hanno sognato e identificato nella presa del potere da parte dei bolscevichi. In quell’avventura non si può solo vedere l’opera di propaganda esercitata a posteriori da uno Stato che intendeva, almeno fino ad un certo momento della sua storia, esportare un modello di conquista del potere. Le grandi masse che ricevettero quel messaggio crearono al suo posto un mito mondiale, un mito di vera e propria liberazione, contro cui si è esercitata per decenni la critica degli anarchici e non solo la loro. Ma una critica non basta per scalzare un mito, come non bastano le prove concrete che ne dimostrano falsi i presupposti. Un mito, proprio perché tale, non ha alcun bisogno di essere vero, e la rivoluzione, identificata semplicemente con la conquista del potere, non aveva bisogno di essere vera, faceva il suo effetto anche nella propria sostanza di palese contraddizione logica, forniva cioè una spiegazione immaginaria. La gente ci credeva e si mobilitava per esso. Ecco la funzione del mito, che può essere portata alle estreme conseguenze solo dopo che movimenti reali oggettivi hanno prodotto conseguenze trasformative nella struttura sociale.

Quando le condizioni oggettive che dettero vita al mito, condizioni su cui si innestano sia le riflessioni critiche come quelle di sostegno e propaganda del mito stesso, quando queste condizioni si trasformano radicalmente, il mito crolla. E il crollo è disastroso, nel senso che trascina con sé tutto il complesso teorico che reggeva e giustificava, a posteriori, il mito, per quanto vi possano anche essere modificazioni parziali e nascite di miti paralleli e continuativi. Si deve pensare che per come stanno le cose adesso non ci resti da fare altro che aspettare la nascita di un nuovo mito? Se consideriamo le condizioni oggettive che restano, nella grande maggioranza, ancora quelle dell’antica sofferenza per miliardi di persone, se consideriamo che davanti alla miseria e alla fame la gente continua a rimuovere la situazione sperando in qualcosa di nuovo, non c’è dubbio che i miti del passato possono essere rinnovati e altri possono ancora nascere.

Ora, senza volere essere cinici alla Sorel, nel senso di cercare di usare questi miti in modo da spingere la gente alla rivolta, c’è da dire che il lavoro del rivoluzionario resta sempre quello di contribuire alla critica e all’approfondimento per indicare quali sono effettivamente le condizioni oggettive che legittimano il mito, dimostrando che quest’ultimo non solo non risolve il problema causato da quelle condizioni, ma anzi svolge un ruolo di recupero rendendole più sopportabili e pertanto più difficili da estirpare. Ciò non vuol dire che con questo lavoro critico si possa veramente convincere la gente a non credere nei propri sogni, si può solo contribuire a ridurre le conseguenze negative delle illusioni, mentre si lavora contemporaneamente a rimuove quelle condizioni oggettive su cui il mito era riuscito ad innestarsi.

Per tornare all’immaginario e al problema della spiegazione, non solo non condivido un uso acritico del primo termine, ma ritengo indispensabile un approfondimento delle conseguenze negative di un suo impiego spensierato. E ciò in modo particolare in tempi come quelli correnti, in una situazione fortemente disgregata, con un gran bisogno di critiche negative e non di protesi ideologiche, critiche che ci facciano capire come agiscono i mezzi di convincimento, come si muovono i grandi persuasori, come si stia per sostituire ai vecchi idoli nuovi concetti altrettanto affascinanti e altrettanto mistificatori. Non voglio dire di essere per una fredda analisi che metta le cose a posto, che impianti un solo albero ideologico al posto di una rigogliosa e variegata foresta spontanea di piante esotiche. Solo che non si possono accettare concetti operativi tanto complessi e contraddittori come se fossero fatti ormai acclarati e messi definitivamente fra gli strumenti da utilizzare.

Molto più importante sarebbe un’analisi in profondità del movimento dei messaggi informativi, cioè come si costruiscono le reazioni di massa e come queste differiscono in funzione della divisione in classi. L’immaginario che il potere realizza per i suoi scopi non è omogeneo, non è un processo perfetto. Al suo interno si aprono spiragli contraddittori. La gente si convince, ma non può fare a meno, nello stesso tempo, di alimentare sospetti e potenzialità di rivolta. Per il momento, non disponiamo di elementi tali da garantire ulteriori approfondimenti di questo tipo di spiegazione.

Per completare il discorso sulla spiegazione c’è da ricordare il momento specifico del salto, il passaggio finale dalla ricognizione alla cosa. Si tratta, com’è ormai ovvio, della spiegazione che più delle altre si avvicina alla logica del tutto e subito e ciò perché, come si è visto, coglie il momento della riunificazione tra tensione e senso. Si può dire che fino a quel momento la diversità, con tutto il suo lavoro ricognitivo, non è riuscita a cogliere il flusso e quindi a proporre un effettivo approfondimento della conoscenza. Questa pertanto si precipita sulla diversità, nel momento del salto proprio con quell’imprevedibilità che soltanto le cose amate sanno fornire, quando il desiderio prende il sopravvento e mantiene lontano il battere delle ore. Si tratta di una spiegazione che troverà esplicazione definitiva nel flusso ricomposto, ma che viene fuori proprio nel territorio della cosa. Il nuovo apporto qualitativo suggerisce immagini nuove ai vecchi contenuti, rotture delle monotonie dell’accumulazione, effetti esplicativi prima impensabili, nuove associazioni deduttive e, principalmente, messa in crisi dell’antropomorfismo esclusivo dell’antica coscienza immediata.

Non che in questo modo si possa capire, al di là della rasoiata puramente scettica, l’universo paperocentrico di Montaigne, ma si tratta di esperienze esplicative che si sostituiscono alla sufficienza anche morale di quelle analitiche. Qui tutto è assegnato alla consequenzialità logica, all’approssimazione materiale, fatta di piccoli passi, lì tutto avviene sulla base di una consequenzialità diversa, scaturita dai travagli della coscienza protattisi, attraverso la ricognizione, fino al salto. Nell’intero discorso interpretativo sta già la premessa, minuziosa fino al dettaglio, di questo avvicinamento che non deve essere confuso con l’approssimazione materiale del meccanismo accumulativo. I problemi speciali che sorgono nel corso del tentativo di dare conto di questo radicarsi nella ricognizione, contribuiscono nello stesso tempo, a costruire un’immagine del tutto diversa, della spiegazione conclusiva, quella che costituirà poi, nell’interno della cosa il riflesso forse speculare ma certamente complementare alla iniziale spiegazione analitica. Il cammino dello strumento logico, dall’a poco a poco al tutto e subito, procede parallelamente al procedere concreto della realtà.

Testi

* «Giovanni Gentile è stato il primo e, finora, l’unico ad averci dato una filosofia dell’educazione.

«Platone comprese la portata educativa della filosofia, ma non pose l’equivalenza reciproca: l’educazione come filosofia. Certamente, per avere una filosofia dell’educazione non è necessario giungere all’identificazione dell’educazione e della filosofia, così come per avere un’estetica non è necessario giungere alla conclusione dell’autonomia della vita artistica (l’equivoco crociano, dal quale ancora non ci si è tirati fuori). Platone comprese la necessità di esaminare filosoficamente anche l’educazione, ma non espletò questa ricerca; nella Repubblica, nelle Leggi, nel Teeteto ci sono pagine e tesi di filosofia dell’educazione, ma vi manca ancora una fondazione organica e piena del problema.

«Né vi provvide Aristotele, che, mentre ci ha dato una filosofia della politica, dell’arte, e ricerche sul teatro, le costituzioni e le piante, e ha posto concetti notevoli di psicologia e di antropologia, tuttavia non mise mano ad un esame filosofico dell’educazione.

«Nuclei se ne sono offerti, molti e validi; in Locke la lotta contro la degenerazione umanistica – già denunciata da Erasmo, Rabelais e Bruno – si fa consapevole e organica; ma il contesto gnoseologico empiristico ha compromesso molto di questo sforzo; in Rousseau ci sono intuizioni formidabili, una maturità per tragitti più o meno lunghi, e poi quella sua anima, refrattaria al pensare organico, ha prevalso e lasciato in tronco abbozzi e schizzi, come sovente nella bottega di un artefice frettoloso e genialmente indomabile. Pestalozzi ha tentato di filosofare l’educazione nelle Mie indagini sopra il corso della natura nello svolgimento del genere umano, dove sono tragitti fichtiani, trascritti in una coscienza non fichtiana ma cristiana; le divagazioni dei romanzi, e la sintesi finale del Canto del cigno non riescono a dare elucidazione gnoseologica alla conclamata intuizione; il Pestalozzi non poteva darci quella filosofia, alla quale la sua mente non era disposta. I difetti di quell’intuizionismo furono rilevati subito dal nostro Romagnosi – che mostrava come ogni intuizione sarebbe cieca se non trovasse la sua luce nelle logìe, o strutture apriori della ragione; il Rosmini, con molta maggior forza speculativa, mostrò, nel saggio sul Principio della metodica, come l’universale razionale e il particolare dell’intuizione siano indissociabili; era, questa del Rosmini, la promessa di una filosofia dell’educazione – anticipata dal saggio Sull’unità dell’educazione; ma, distratto da altri problemi di maggiore momento, egli abbandonò questo campo dell’educazione, e non ci diede quella filosofia dell’educazione che ancora mancava.

«Né si può invocare l’Herbart, il quale era certamente un talento speculativo non secondario; ed aveva compreso l’esistenza della problematica tra psicologia e educazione; ma la preoccupazione dialettica soverchiò il proposito filosofico, e la sua filosofia dell’educazione svanì nelle discussioni metodologiche, senza potersi riavere neanche presso i discepoli, i quali, anzi, deteriorarono ulteriormente 1’herbartismo, sminuzzandolo in una casistica metodologica e descrittiva, che provocò la giusta reazione italiana. Non sono filosofie dell’educazione le divagazioni dei nostri positivisti, perché alla filosofia essi abdicarono, succubi del mito della scienza e delle sue forze euristiche; e quella che essi chiamavano filosofia era o polemica anticlericale, o scientismo, o psicologia, o metodica; il che non toglie che, qua e là, affiorassero spunti pregevoli, specie in menti sincere e prudenti come quella di Aristide Gabelli».

(G. Giraldi, Giovanni Gentile, filosofo dell’educazione, pensatore politico, riformatore della scuola, Roma 1968, pp. 53-54).

Tracce del commento

La forza plasmatrice da cui emerge l’azione non è catturabile in un flusso unitario di movimenti, dal coinvolgimento all’oltrepassamento vero e proprio è un continuo accettare e rifiutare modificando le motivazioni volontarie, allo scopo di sfruttare quello che sta al di là della volontà stessa, oppure al di qua, questa scelta di posizione è poco importante. Non è la traccia di una dicotomia utopica, tra la marginalizzazione e la pragmaticità cieca, qualcosa da riequilibrare e tollerare. Piuttosto è una rottura di tutto questo, senza essere il polo opposto è un disequilibrio, è l’affermazione di una profonda unicità, remota a ogni elitarismo e a ogni tentativo di assimilazione. Questa forza di cui insisto a discutere è e resta sconosciuta. Il desiderio non può essere un movimento di conservazione, regressivo, diretto a tutelare acquisizioni consolidate che magari una volta furono oggetto di desiderio ma che ora non lo sono più. Un desiderio di riposare al sicuro non esiste, come desiderio è vestito di panni non suoi, nasconde la negazione del desiderio stesso che è non solo la rassegnazione ma anche la chiusura. Il pessimismo può smuovere molte trame negative e contribuire così ad allargare la critica, ma non può andare oltre. Scava in drammatiche contraddizioni ma non le fronteggia, alla fine subisce il fascino e il ritmo delle loro frenesie. Se rifiuto violentemente me stesso, e la conoscenza che ho costruito, un accumulo che è questo me stesso che rifiuto, posso puntare la mia attenzione sulla violenza del rifiuto o sul rifiuto stesso. Nel primo caso posso anche racchiudermi in un narcisistico compiacimento fondato sulla edulcorata immagine di quanto sono bravo a capire la realtà, solo io, e nessuno insieme a me, compresi coloro che battono le mani. Se metto l’accento della mia attenzione sul rifiuto mi astraggo dal metodo e posso anche racchiudere tutto nell’aristocrazia glaciale della mia solitudine. Nessuno ha mai affermato la salvificità della violenza o la taumaturgica potenza della parola. La proiezione all’oltrepassamento è altro.

Testi

** «Si ripropone, ormai più chiaramente articolata, la questione: cos’è che rende possibile l’ideale, e quindi la liberazione dell’umano nel possibile? e, poiché nessuna possibilità è tale se non è con-possibilità, cos’è che rende possibile la liberazione dell’umano nella pluralità dei con-possibili? e, infine, poiché nessuna pluralità è tale se non è definita da una qualche relazione dei suoi termini, e qui, dove i termini sono dei progetti, la loro relazione è propriamente tale solo se rientra come una dimensione essenziale nelle stesse progettazioni, cos’è che rende possibile il liberarsi dell’umano nell’unità della relazione, senza che si dissolva con ciò la pluralità autentica? In breve, cos’è che rende possibile il passaggio dalla molteplicità atomistica delle individualità naturali alla molteplicità dialogica della storia, dall’insignificanza delle mere forze alla ragione significativa? Conoscere il fatto storico non è, come per ogni altra contingenza, scoprirne la “ragion sufficiente”, ma decifrare quel significato nella cui progettazione esso è consistito, riconoscere in esso un’intenzionalità e comprenderne il messaggio, in una parola dialogare con esso e così esprimerne distanza e prossimità insieme, il suo esser altro da noi e il suo partecipare con noi ad una comune intimità. Ora se, criticamente, si restringe la storia al piano dell’idealità e della ragione dialogica, si può dire che la storia è ragione senza che per questo sia minacciata la problematicità della coincidenza di individuale e universale: tale problematicità, infatti, non è altro che la ragione stessa come relazione dialogica, intreccio di plurime e tutte varie ragioni, vita soggettiva multanime nel comune orizzonte dell’oggettività, entro il quale soltanto ha senso il disaccordo non meno che l’accordo, il combattersi non meno che il collaborare, il fanatismo non meno che la ragionevolezza. Il dialogo ha in sé anche la possibilità della polemica rissosa, della scambievole ingiuria e del raggiro. La ragione ha in sé anche la possibilità del delirio: sragionare è una possibilità della ragione, e della ragione soltanto».

(A. Masullo, Antimetafisica del fondamento, Napoli 1971, p.18).

Tracce del commento

Molte associazioni spontanee si realizzano attraverso l’intuizione anche se soltanto alcune, e spesso nemmeno le più importanti in termini di senso, arrivano a caratterizzare l’intero processo intuitivo che prende costrutto nella forma associativa. Nel derubricare queste associazioni, la metodologia fattiva ne attenua l’originalità e la spontaneità restituendole con i protocolli capaci di confortare la garanzia produttiva. Tutto ciò può essere considerato come un movimento duplice, da un lato produce il restringimento delle pulsioni associative emerse grazie all’intuizione, dall’altro presenta ostacoli produttivi che gettano nel fare il germe dell’oltrepassamento mettendo le regole a dura prova emotiva. Penetrare nei processi che incardinano la ribellione alle implicazioni autoritarie richiede qualcosa di più di un semplice inventario delle pressioni sociali che tengono legata insieme la trama del fare, l’intera impalcatura del produrre. Non posso lasciare l’attacco in balia dell’osservazione di me stesso mentre mi dibatto in un rifiuto impossibile di ciò che la conoscenza volontaria mi sospinge a essere. L’autonomia personale o è un veicolo che decolla verso cieli sconosciuti o è un peso che garantisce sufficiente zavorra per continuare a sopravvivere. Non mi aiuta molto, nella individuazione del nemico, sapere di essere in possesso di negazioni critiche che molti sconoscono, non sono un acculturato d’avanguardia, le varie liberazioni parziali mi sono stucchevoli come caramelle molto zuccherate. Devo sapere qualcosa di più, sapere chi sono non solo che voglio. Chi sono? Questa domanda non posso porla alla volontà che sarebbe, e soltanto in parte, in grado di rispondere alla domanda, che voglio? Ma non esiste un accesso diretto al veramente ciò che io sono attraverso la negazione critica. Il nemico, se mi limito a questo aspetto, mi arruola senza indugi nel suo esercito incurante del mio chiasso etico.

 
 

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