Alfredo M. Bonanno
Lezioni (fuori luogo) di filosofia. Parma
Seconda lezione: 31 maggio 1980
Settima lezione: 8 giugno 1980
Ottava lezione: 10 giugno 1980
Decima lezione: 13 giugno 1980
Undicesima lezione: 15 giugno 1980
Dodicesima lezione: 17 giugno 1980
Tredicesima lezione: 19 giugno 1980
Quattordicesima lezione: 21 giugno 1980
Quindicesima lezione: 23 giugno 1980
Sedicesima lezione: 24 giugno 1980
Diciassettesima lezione: 27 giugno 1980
Diciottesima lezione: 28 giugno 1980
Diciannovesima lezione: 2 luglio 1980
Ventesima lezione: 10 luglio 1980
Introduzione
Il 23 marzo 1980 vengo arrestato a Catania insieme a Jean Weir e a un altro compagno anarchico: S. M. L’accusa, per noi tre, è di costituzione e partecipazione a Azione Rivoluzionaria, propaganda sovversiva e realizzazione di diverse rapine a Bologna e nei paesi vicini a banche, uffici postali e notai.
Dopo tre giorni di viaggio in furgone blindato, con soste nelle carceri di Napoli, Firenze e Bologna, veniamo portati davanti ai pubblici ministeri e ci rifiutiamo di risponde alle accuse.
Siamo pertanto trasferiti, io nel carcere di Parma, Jean in quello di Modena e S. M. nel carcere di Ferrara.
Nel frattempo una ventina di altri compagni venivano arrestati con accuse collegate con le nostre e condotti nel carcere di Bologna. Il carcere di Parma, a cui mi riferisco, è il vecchio S. Francesco, convento trasformato in casa circondariale, come tanti altri (per fare due soli esempi, da me conosciuti, san Giovanni in Monte a Bologna e il carcere vecchio di Cosenza).
Dopo alcuni mesi di isolamento vengo messo in una cella normale, sempre da solo, e ho la possibilità di vedere alcuni detenuti che, avendo di già saputo della mia laurea in filosofia, mi chiedono di fare loro delle lezioni. Veniamo autorizzati a riunirci nella sala giochi e a utilizzare il tavolo da ping pong per appoggiare i nostri libri e per prendere appunti. La direzione impone all’inizio la presenza di un educatore, dopo qualche lezione questa persona scompare e possiamo restare da soli.
Le mie ricerche, in quell’inizio del 1980, vertevano sul rapporto tra Spazio e Capitale, quindi spesso è proprio questa la tematica che fornisce l’occasione del discorso, come pure della scelta dei testi da leggere. La struttura delle lezioni era costituita da un mio intervento iniziale, dalla lettura di alcune pagine dei testi a nostra disposizione, da una discussione e dai miei interventi conclusivi.
Non essendo consentito l’uso del registratore non ho il resoconto dei dibattiti che si sono succeduti dopo la lettura dei testi alla fine di ogni lezione, ma soltanto le tracce succinte dei miei interventi esplicativi, nella maggior parte dei casi ricostruite attraverso appunti stenografici a distanza di tanto tempo [1998] quasi indecifrabili.
Alcuni di questi libri mi sono stati forniti da un compagno di Vignola che veniva ai colloqui, anche se gli era impedito di vedermi o parlare con me, altri li ho avuti da diversi compagni che me li hanno spediti per posta, altri si trovavano inusitatamente nella striminzita biblioteca del carcere.
Trieste, 7 giugno 2008
Alfredo M. Bonanno
Nota
Riguardo le citazioni, in alcuni casi ho preferito usare edizioni più aggiornate e corrette al posto di quelle disponibili all’epoca.
* * * * *
“Hanno più contribuito alla umana felicità, le cose reali o quelle immaginarie? Certo è che l’ampiezza dello spazio tra la massima felicità e la più profonda disgrazia è stata prodotta solo con l’ausilio delle cose immaginarie. Questa specie di senso dello spazio si è in seguito, sotto l’influsso della scienza, sempre più rímpicciolito: così come noi abbiamo imparato e impariamo ancora a percepire la terra come piccola, anzi a percepire lo stesso sistema solare come un punto”.
(F. Nietzsche, Aurora)
Prima lezione: 29 maggio 1980
Un luogo fuori di noi, il quale si trova in determinate interazioni con la nostra situazione, è senza dubbio, una realtà*. Ma la definizione è vaga. La realtà è principalmente la totalità di ciò che esiste. Definizione che comunque non è molto più utilizzabile della precedente. Per quanti sforzi facciamo nei nostri tentativi di penetrare la realtà questa ci sfugge in un processo all’infinito, verso l’infinitamente grande o l’infinitamente piccolo, che spezza l’apparente coglibilità della struttura o della forma (quello che comunque crediamo sia l’organismo) e ci consegna non una cosa definitiva, ma un processo relazionale. È quindi il modo in cui l’esistenza esiste che costituisce la realtà. L’antica idea di sostanza non può più essere utilizzata.
Il modo fondamentale attraverso cui cogliamo la realtà è il movimento**. Così penetriamo nel modo di essere della realtà o, meglio, nei suoi modi di essere, senza che per questo si possa stabilire una differenza tra realtà e movimento, come, ad esempio, affermando che la realtà è qualcosa che si muove, ma, al contrario, affermando che la realtà è semplicemente movimento. Tutte le espressioni in cui la realtà si suddivide, coglibili o non coglibili che queste siano dalle nostre capacità di indagine, sono realtà esse stesse e, nel loro esistere, manifestano tutti i modi della realtà, costituiscono cioè punto di riferimento potenziale (per le nostre facoltà analitiche) e reale (oggettivamente parlando) di tutta la realtà nel suo insieme. La realtà è infatti totalità proprio in questo senso. Ogni singola parte della realtà partecipa di tutte le altre parti in quanto la suddivisione è sempre un processo di polarizzazione e mai una scissione in due (o più) parti definitivamente staccate. Tutto è in contatto (anzi, in relazione).
La realtà è quindi la totalità*** delle relazioni in movimento. La considerazione atomistica (un complesso di fatti, di oggetti, di fenomeni, di misteriosi contenuti, ecc.), non fornisce elementi sufficienti alla comprensione. In ogni singolo elemento della realtà c’è tutta la realtà nel suo insieme. È, infatti, la realtà come totalità che rende concreta la realtà e comprensibile il flusso del movimento.
Testi
* «Lo spazio sacro. Per l’uomo delle società arcaiche, il solo fatto di vivere nel mondo ha un valore religioso. Egli vive infatti in un mondo che, in primo luogo, è stato creato da Esseri soprannaturali e nel quale, in secondo luogo, il suo villaggio o la sua casa sono un’immagine del cosmo. La cosmologia, cioè le immagini e i simboli cosmologici che informano il mondo abitato, è non soltanto un sistema di idee religiose, ma anche un modello di comportamento religioso. Ma se vivere nel mondo ha un valore religioso, questo è il risultato di un’esperienza particolare: l’esperienza di ciò che può essere chiamato “spazio sacro”.
«In effetti, per l’uomo religioso lo spazio non è omogeneo; ci sono parti dello spazio qualitativamente diverse da altre. Esiste uno spazio sacro e quindi “forte”, significativo; ed esistono altri spazi che non sono sacri e sono pertanto privi di struttura, forma o significato. E non è tutto. Per l’uomo religioso questa non-omogeneità dello spazio si manifesta nell’antitesi tra lo spazio che è sacro – l’unico spazio “reale” e “realmente” esistente – e tutti gli altri spazi, cioè la distesa informe che lo circonda.
«L’esperienza religiosa della non-omogeneità dello spazio è un’esperienza primordiale, paragonabile alla creazione del mondo. È infatti la rottura operata nello spazio che, in quanto rivela il punto fermo, l’asse centrale per ogni futuro orientamento, consente la costituzione del mondo. Quando il sacro si manifesta in una ierofania, non si verifica solo una rottura nell’omogeneità dello spazio; si verifica anche la rivelazione di una realtà assoluta, contrapposta alla non realtà della vasta distesa circostante. La manifestazione del sacro crea ontologicamente il mondo. Nella distesa omogenea e infinita, ove non è possibile alcun punto di riferimento e ove non si può quindi stabilire alcun “orientamento”, la ierofania rivela un punto fermo assoluto, un “centro”.
«È perciò chiaro fino a qual punto la scoperta – cioè la rivelazione – di uno spazio sacro possieda un valore esistenziale per l’uomo religioso; nulla può infatti avere inizio, nulla può essere fatto senza un preventivo orientamento – e orientamento implica l’acquisizione di un punto fermo. È per questo motivo che l’uomo religioso ha sempre cercato di stabilire la sua dimora al “centro del mondo”. Se bisogna vivere nel mondo, occorre “fondarlo”, e nessun mondo può scaturire dal caos dell’omogeneità e relatività dello spazio profano. La scoperta o proiezione di un punto fermo – il centro – equivale alla creazione del mondo. L’orientazione e la costruzione rituali dello spazio sacro hanno un valore cosmogonico; il rituale con cui l’uomo costruisce lo spazio sacro è efficace, infatti, nella misura in cui riproduce l’opera degli dèi, cioè la cosmogonia».
(M. Eliade, voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Treccani, Roma 1975, pp. 121-122).
Tracce del commento
Ogni rafforzamento metodologico fa da contrappeso a una rigidità analitica, i due aspetti bloccano le intuizioni e l’apertura alla diversità, gettando il fare nell’equivoco della completezza o nell’alibi del fare per il fare. Ciò deve anche ammettere che qualunque cincischiamento etico è prodotto dai livelli protocollari e qui trova la propria terra di nessuno. Smussare queste incrostazioni civilizzanti è difficile, in fondo il perbenismo verbale è l’estrema ratio del recupero moralistico. Tutto purché il colpo sia assestato bene, tutto purché il nemico sia morto, e se anche vi sono costretto non devo assolutamente trascinare il cadavere di Ettore nella polvere. L’aggressione violenta del nemico è agire trasformativo solo nel caso che non sia in vista dell’impadronimento di uno scopo, di un più o meno circoscritto oggetto di conquista. Se getto in faccia alla volontà la mia perdita ho subito un rigetto da parte sua, un più o meno raffigurabile salto indietro. Di questo affronto non mi salvo facilmente, il controllo aumenta e le possibilità di una circumnavigazione labirintica si riducono. C’è nella volontà una ossessiva e incessante caparbietà, una permalosità e una suscettibilità inarrivabili, del tutto sconosciute al territorio della cosa. Il fendente che taglia netto è raro e difficile da capire, quando arriva i movimenti della realtà non sono conoscibili e, a posteriori, dopo il punto di non ritorno rimasto inviolato, non sono neanche rammemorabili. Eppure l’uno che è è presente in esso, come nel mito della Grande Madre aleggia attorno alle ombre che circondano il dio dell’eccesso.
Testi
** «L’universale è dunque una funzione storica, e l’esistenza storica è la possibilità di un necessario, la particolarità di un universale, il fatto di un valore. Questa struttura della contingenza come possibilità, apertura all’universalità, che noi troviamo “accertata” nella storia, è la storicità. Senza la coscienza della nostra storicità, senza la viva esperienza della nostra attuale possibilità, del nostro muoverci alla luce di un universale che, attraverso di esso, ci permette di rapportarci “intimamente” con altri uomini, e ci serve dunque ma non ci costringe a servirlo, non potremmo neppure parlare della storia, e riconoscerla nella contingenza delle possibilità esaurite, in cui consistono i fatti, le res gestae. Proprio l’apertura all’universalità, anziché asservire al necessario, libera al possibile. La storia è luogo di contingenze, ma è storia appunto perché queste sono possibilità di universali in sé necessari, vissute intenzioni, idealità nel senso hegeliano: “ciò che l’uomo è realmente, dev’esserlo idealmente... egli frena i suoi istinti: tra l’impulso dell’istinto e la sua soddisfazione egli pone l’ideale, il pensiero... ciò che lo determina, egli lo sa... l’uomo è autonomo non perché il movimento comincia con lui, ma perché egli lo può frenare, rompendo in tal modo la sua immediatezza e naturalità”».
(A. Masullo, Antimetafisica del fondamento, Napoli 1971, p. 17).
Tracce del commento
Se interpreto il fare per via analogica e metto fuori gioco la volontà irretendola nei giochi labirintici del mito, sono sulla via dell’oltrepassamento. In queste condizioni ogni impulso al coinvolgimento è correttamente inserito in una prospettiva altra, il dio della vite lavora accanto a me, anche se io non sempre ne colgo i segni disgregativi. L’interpretazione deve affrontare un vasto territorio dove vagano confuse e confusamente le correnti determinate dall’accettazione passiva del fare, correnti a volte progressive, cioè accumulative e utopiche, riguardo le proprie possibilità di completezza, a volte regressive, dirette ad accettare confini talmente ravvicinati da causare soffocamenti e miopie indescrivibili. La volontà si pasce di queste tendenze, solo apparentemente contrastanti, e sa benissimo farle proprie senza modificare i suoi progetti di conquista e di controllo. Più l’immediatezza strilla la sua forza e la sua volontà virile, più nasconde in molti modi l’inquietudine e i propri impulsi conservativi e regressivi. Alla fine, pure odiando il fare che mi soffoca, posso concludere amando il paravento che lo nasconde. Mi invento così un’altra vita, dove l’accesso all’azione è sempre a portata di mano e diventa quasi automatico. Non sono altro che un modesto saltimbanco che esegue facili esercizi adatti a sbalordire gli sciocchi.
Testi
*** «L’estetica del Croce. Uno sguardo attento alla sua evoluzione ci mostra come essa, cominciata sotto l’influsso della Critica del Giudizio (intesa nel suo aspetto più rigorosamente critico di rivalutazione della singolarità del sentimento), finisca poi, con la dottrina della totalità o cosmicità dell’arte, in una concezione romantica del bello, che, mentre ricade nell’errore più grosso dell’estetica hegeliana, e cioè l’inflazione, per dir così, del carattere di generalità dell’estetico, perde, col vantaggio iniziale della singolarità del bello, ogni possibilità di giustificazione del mondo, della storia, della vita, fallendo infine proprio l’obiettivo più importante: e cioè il superamento del vallo apertosi, fino dal punto di partenza della ricerca crociana, fra intuizione e pensiero, fra arte e vita.
«Infatti, se nella prima fase, che culmina nel Breviario di estetica, si presenta il divorzio di arte e vita nella teoria del doppio sentimento, puro e impuro o pratico. Benedetto Croce, nella seconda e ultima fase, culminante nel libro-testamento sulla Poesia e caratterizzata dalla concezione estrema di una “cosmicità” o universalità meramente intuitiva dell’arte qua talis, da cui si distinguerebbe l’universalità “secondaria” – “mediata” dalla “poesia” – propria del pensiero e della storia, dichiarati privi della “onnilateralità” dell’arte (La poesia, p. 84), quel divorzio di arte e vita si ripresenta, con l’aggravante di una caduta nel più anacronistico romanticismo. Valga il vero. Parlando dell’ “indefinito” della poesia, Croce dice che quest’ultima non dà che “immagini puramente ideali o umane”: e che concetti e sentimenti e “tutta la realtà di cui facevan parte”, trasfigurati nella poesia, “hanno perduto l’impronta storica e unilaterale per ricevere impronta umana e onnilaterale” (op. cit., p. 185). Dove è chiaro che il Croce riecheggia la concezione – aristotelica ma d’ispirazione intimamente platonica – della storia come rappresentazione del particolare e della poesia come rappresentazione, invece, dell’universale o possibile (cfr. il Platone teorico del Bello).
«Per cui non ci stupiremo di riscoprire in queste crociane “immagini puramente ideali” quelle hegeliane “figure spirituali” che costituiscono il “sereno” regno dell’Ideale, quel regno di “ombre”, tanto lontano dalla “prosa mondana” di ogni giorno, dalla “fatica”, dall’“interesse”, dal “bisogno”, dalla “serietà della vita”. Non ci stupiremo in quanto il residuo invincibile platonismo ricollega l’epigono italiano al Maestro tedesco, in questo conclusivo atteggiamento romantico, appunto: in questa persuasione che l’arte sia assente dal mondo degli interessi quotidiani, della fatica e del lavoro; dal mondo dell’intelletto insomma».
(G. Della Volpe, Crisi critica dell’estetica romantica Roma 1963, pp. 16-17).
Tracce del commento
Ogni tentennamento non impiega molto a essere recuperato. La preparazione al coinvolgimento può improvvisamente capovolgersi nel suo esatto contrsario. Accorgersene non è sempre facile. Si continua a lavorare a lungo nella medesima direzione e, alla fine, ci si accorge di essere arrivati a un luogo del tutto impensato, anzi assolutamente impensabile. Nessuna di queste eventualità è, di per sé, improponbile, tutte sono comunque compossibili. Credersi superiori ad esse, sempre in grado di tenerle a bada, è una delle più perniciose illusioni che coltiviamo per tutta la vita.
Seconda lezione: 31 maggio 1980
L’affermazione che non possiamo conoscere tutti i fatti della realtà (cioè non possiamo pretendere che tutte le relazioni abbiano per noi identica intensità di significato), è senz’altro fondata. Ma ciò non porta alla conclusione che la totalità della realtà sia un orizzonte mistico che si vuole sempre raggiungere senza risultati apprezzabili, una meta ascetica che inganna colui che continuamente dà la caccia ai fatti come un collezionista* mette insieme francobolli. Con la mentalità del collezionista sono sicuro di perdere non la totalità della realtà, ma anche la visione di campo della realtà che in un dato momento mi interessa. Al contrario, col metodo della totalità posso avvertire la presenza di tutti i fatti possibili nel numero infinitamente piccolo dei fatti che sono in grado di padroneggiare e la posso avvertire come un fatto in relazione con altri fatti.
Lasciando da parte il problema filosofico della realtà – che approfondirò in un altro momento – dal un punto di vista sociale, lo scontro di classe** è la dimensione concreta attraverso cui posso rendermi conto del senso che la realtà ha per me. Modificandosi la situazione di classe, si modifica la realtà non come una diversa angolazione ma come diversa composizione di rapporti tra forme e strutture.
Un significato subordinato che in queste lezioni viene dato al termine realtà è quello con cui qualifico qualcosa in contrapposizione ai concetti di apparenza, illusione, fantasia, metafisica, ecc. In questo senso, parlo di movimento reale, come movimento che si sviluppa all’interno delle forme sociali, in contrapposizione al movimento fittizio*** che si sviluppa all’interno delle strutture istituzionali.
Testi
* «In un senso Suarez rafforza la difficoltà di Scoto, quando osserva che nessuna specie potrebbe rappresentare il contenuto completo di una natura. Egli specifica perché ne seguirebbe che un angelo, possedendo una specie di tale universalità, potrebbe conoscere simultaneamente un infinito numero di cose come particolari e distinte, e questo oltrepasserebbe la capacità di un intelletto finito. Egli cerca di evitare questa conseguenza riducendo le specie a rappresentazioni di collezioni finite di individuali. Al tempo stesso, non può evitare di introdurre qualche forma di conoscenza simultanea di un infinito numero, perché mantiene che, se è possibile scegliere liberamente gli oggetti del proprio pensiero, l’angelo deve avere una confusa conoscenza attuale di tutti gli oggetti rappresentati dalle sue specie. In tal modo, una dominante preoccupazione di Suarez è di spiegare come l’angelo può sempre conoscere tutte le cose che può conoscere senza mai eccedere la limitazione della sua capacità finita».
(D. Connel, The vision of God, ns. tr., Paris-Louvain 1967, p. 144).
Tracce del commento
L’immagine che formo della immediatezza è punto di partenza od ostacolo, pedana di lancio o zavorra, spetta a me decidere in merito alla sua funzione. In questo modo, tale immagine viene continuamente munita di senso, cioè alimentata e sottoposta a periodiche manutenzioni, viene così prodotta e riprodotta. Ora desiderio possedere quello che sono, ora perderlo, mai sono sicuro che questo corrisponda a quello che realmente sono, è un eterno altalenarsi senza conclusioni definitive. Il possesso è un peso che mi tiene legato al suolo. Sono in una piccolissima cella e posseggo quello che potrei mettere comodamente in due borse, libri compresi, ma sto attento che non si perdano, che qualcuno non porti via qualcosa nel corso delle perquisizioni periodiche, e mi afferro ai miei fogli dattiloscritti, che tengo in un sacchetto di tela, legato al capezzale del letto, come a un prezioso tesoro. Invece non c’è luogo al mondo in cui non ci si dovrebbe sentire più di passaggio di un carcere.
Testi
** «Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l’eguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro. Ma l’uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev’essere determinato secondo la durata o l’intensità, altrimenti cesserebbe di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale per un lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine individuale, e quindi capacità di rendimento, come privilegi naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della diseguaglianza, come ogni diritto».
(K. Marx, Critica del programma di Gotha, in Opere scelte, tr. it., Roma 1966, pp. 961-962).
Tracce del commento
Più l’immediatezza strilla la sua forza e la sua volontà visibile, più nasconde in molti modi l’inquietudine e i propri impulsi conservativi e regressivi. Alla fine, pure odiando il fare che mi soffoca, posso concludere amando il paravento che lo nasconde. Mi invento così un’altra vita, dove l’accesso all’azione è sempre a portata di mano e diventa quasi automatico. Non sono altro che un modesto saltimbanco che esegue facili esercizi adatti a sbalordire gli sciocchi. Educo la volontà a provvedere alle varie calamità della vita, gestisco sciagure e mi preparo ad affrontare quelle che presumibilmente verranno a farmi visita. Non è da ciò che deriva il mio malessere. In fondo, come ateo, sono particolarmente devoto alle mie idiosincrasie, non mi separerei mai da loro senza gli opportuni scongiuri, senza spogliarmi di tutte le pretese del possesso e del relativo controllo. Così, sono sempre sotto traccia riguardo il raccoglimento che mi abbisogna, non mi distraggo facilmente e non cerco la compagnia di seducenti facilitazioni. L’altro resta comunque lontano, se non remoto, e il mio vetusto candore non lo sfiora nemmeno. Una qualsiasi sciocchezza lo interessa molto di più della mia pretesa (per me) capacità di approfondimento culturale.
Testi
*** «Ci sono filosofi i quali, in fondo, sono soltanto teste schematiche – in loro l’elemento formale del lavoro paterno si è fatto contenuto. Il talento a classificare e a ideare tavole di categorie tradisce qualcosa: non si può essere impunemente figli dei propri genitori. Il figlio di un avvocato dovrà essere avvocato anche da ricercatore; egli vorrà in primo luogo vincere le cause e forse, in secondo luogo, anche avere ragione. I figli di ecclesiastici protestanti e insegnanti si riconoscono dall’ingenua sicurezza con cui, da eruditi, danno per dimostrate le loro opinioni purchè siano esposte calorosamente: essi sono inoltre abituati ad essere creduti, perché ciò faceva parte del “mestiere” dei loro padri!».
(F. Nietzsche, La gaia scienza, 348).
Tracce del commento
L’immagine che formo dell’immediatezza è punto di partenza e ostacolo, pedana di lancio e zavorra, spetta a me decidere in merito alla sua funzione. In questo senso, questa immagine, viene continuamente munita di senso, cioè dimenticata e sottoposta a periodiche manutenzioni, viene cioè prodotta e riprodotta. Ora desidero possedere quello che sono, ora perderlo, mai sono sicuro che questo corrisponda a quello che realmente sono, è un eterno altalearsi senza conclusioni definitive. Quando arriverà una vera e propria semplicità di spirito? Non certo dall’accumulo della conoscenza. La saggezza è altro, radicalmente altro. Non la si incontra per caso, all’angolo di una via.
Terza lezione: 1 giugno 1980
Intendo per spazio sociale l’insieme polarizzato costituito dalle forme sociali e dalle strutture istituzionali.
Nello spazio sociale si sviluppano i processi sociali che sono processi dinamici, cioè di movimento sociale.
Il concetto di spazio ha dato vita a molti problemi filosofici sia riguardo la natura dello spazio stesso che riguardo la sua realtà*. A parte vanno considerati poi i problemi di carattere geometrico che prescindono dalle discussioni riguardanti la natura e la realtà dello spazio. È importante comprendere qui le tre concezioni dello spazio come luogo dei corpi, dello spazio come recipiente dei corpi e dello spazio nel senso della teoria della relatività di Albert Einstein.
Proprio dalla soluzione di questi tre ordini di problemi si può iniziare la costruzione del concetto di spazio sociale.
Lo spazio come luogo dei corpi segna l’impostazione che il problema ha avuto fin dall’antichità. Platone identifica lo spazio con la materia mentre Aristotele con il suo concetto di limite immobile non fa altro che riproporre l’ipotesi platonica. Lo stesso veniva ripetuto da René Descartes**. Su questa base medesima, Baruch Spinoza*** arriva alla negazione del vuoto e della divisibilità della materia, concetti che riprendono le posizioni di Descartes. Con Gottfried Wihelm Leibniz si ha un’apertura al concetto di spazio “relativo”****. Qui appare chiara la concezione di luogo in termini di posizione, concezione che troverà in Martin Heidegger un ultimo difensore*****. Questa concezione in termini di posizione dell’immediatamente utilizzabile (dimensione sociale in primo luogo) troverà un certo riscontro anche nell’analisi fisica moderna.
Testi
* «Le nostre delucidazioni ci insegnano pertanto la realtà (cioè la validità oggettiva) dello spazio, relativamente a quanto ci si può presentare esteriormente come oggetto; ma, nello stesso tempo, anche l’idealità dello spazio, relativamente alle cose, qualora vengano dalla ragione considerate in se stesse, cioè a prescindere dalla natura della nostra sensibilità. Noi sosteniamo dunque la realtà empirica dello spazio (relativamente a ogni possibile esperienza esterna), e tuttavia la sua idealità trascendentale; riteniamo cioè che esso si annulli se si prescinda dalla condizione della possibilità di ogni esperienza per assumerlo come qualcosa che stia a fondamento delle cose in se stesse».
(I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it., Torino 1967, pp. 99-100).
Tracce del commento
Borges costruisce in dettaglio una duplicazione del mondo sotto specie letteraria, l’accumulo che la conoscenza ha costruito nella sua piena interezza e imperfezione, cioè nella sua condizione fisiologica di assoluta incompletezza. La biblioteca è il mondo nella sua fisicità ma anche nella sua profonda capacità di bilanciarsi nell’esistenza di regole e di controlli perennemente aggiornati e perfezionati, non in grado comunque di dare a se stesso un assetto definitivo.
Testi
** « ... i nomi di luogo e di spazio differiscono perché il luogo denota espressamente il posto anziché la grandezza o la figura e, invece, quando facciamo attenzione a queste parliamo di spazio. Spesso, infatti, diciamo che una cosa subentra al posto di un’altra, sebbene non sia esattamente né della medesima grandezza, né della medesima figura; ma allora neghiamo che essa occupi lo stesso spazio; e sempre, quando quella cosa cambia la propria posizione, diciamo che cambia il luogo anche se mantiene la stessa figura e grandezza. Quando diciamo che una cosa è in questo luogo, intendiamo soltanto che mantiene questo posto tra le altre cose; e quando aggiungiamo che riempie questo spazio o questo luogo, intendiamo anche dire che essa è di questa determinata grandezza e figura».
(R. Descartes, I principi di filosofia, in Opere filosofiche, tr. it., Torino 1981, p. 644).
Tracce del commento
Mano a mano che la saggezza si libera del contenuto della conoscenza perde ogni appesantimento procurato dal finalismo inevitabile di quest’ultima, aumenta la sua sensibilità di pensiero nel considerare la struttura residua delle regole e delle corrispondenze che tengono avvinte, nella conoscenza, i contenuti in una rete logica. Anche di fronte a un’ampia apertura di cuore queste regole resistono e, nel silenzio della saggezza, risuonano come limite. Scompariranno anche esse? Non è dato saperlo con sicurezza, non si tratta di un processo deterministico. La saggezza può subire un attacco involutivo, farsi prendere dal panico e frenare le ultime perdite, cercando di cancellare l’assenza. Da canto suo, la parola, in questo caso, tornerebbe a chiudersi presentando i rostri da combattimento, le armi che solitamente ne fanno uno spaventevole strumento di conquista. Ma, mettendo da parte la sempre possibile inversione, la saggezza rende assenti da sé per ultime le regole perché queste appartengono alla struttura stessa della parola, la quale non ne potrà mai fare a meno del tutto e ne leggerà, come in trasparenza, il loro movimento nell’aria rarefatta del silenzio in cui si è racchiusa la saggezza. Insistere a lungo significa storcere l’impiego originario della parola, farlo diventare sollecitazione, umiliazione e preghiera. Intendere questo strascicare come un passo avanti, sia pure corroborato da un intrinseco candore che non è facile fingere o camuffare in qualche modo, è errato. Di un errore che conforta e sollecita ad andare avanti. Ma non è di un conforto che si ha bisogno al punto in cui si è giunti, piuttosto di una spinta ulteriore, brutale e perfino definitiva. Mantenersi per molto tempo ai bordi del territorio pericoloso e incerto del coinvolgimento, senza penetrare in esso, non è solo un comportamento da vigliacchi ma anche un prosternarsi all’idea del dubbio, intesa come fonte di ogni certezza che prima o poi deve arrivare. Ma non c’è certezza che possa avere radicalemente la meglio sul dubbio, se quest’ultimo non è vissuto come messa in discussione ma, al contrario, come salvaguardia e giustificazione, stimolo per la garanzia e la tutela del possesso.
Testi
*** «Poiché dunque in natura non c’è vuoto... anzi tutte le parti devono concorrere affinché non ci sia, ne consegue che esse non possono essere in realtà distinte, quindi la sostanza corporea, in quanto sostanza, non può essere divisa».
(B. Spinoza, Etica, tr. it., Torino 1980, p. 100).
Tracce del commento
Ma non è la saggezza neppure qualità, essa è un riferimento cruciale tra la parola che sta per schiudersi a una nuova vita, la conoscenza che è stata sistemata nelle sue polverose biblioteche, la rammemorazione che dirà dell’azione e il destino, da cui solo io aspetto la possibilità nuova, il nuovo sussulto che rinnovi la mia vita. È questo che può essere letto con la saggezza, i suoi gesti sono privi di finalità, e non è ancora in balia della conoscenza, che importa che lo sarà tra poco, ora non lo è, guardo i suoi orizzonti e vedo i miei, chiusi, ultimi orizzonti privi di tutto, mentre la rabbia entra a disturbare la visione. Con l’occhio remoto del sedentario guarderei smarrito la mia condizione, ma non lo posseggo, sono sempre stato un transitorio, un braccato, mi sono sempre seduto su di una pienta puntuta per arrivare alle mie più gravi riflessioni, nessuna comodità d’accatto, nessun confortevole prosternarsi alle mie indubbie capacità. Che vale stare a sentire le conferme che gli altri – in modo particolare i sospettosi per definizione – si fanno passare fra le righe? Ne hai proprio bisogno? Se ne hai bisogno sei perduto per sempre, andrai dietro alla salsiccia di un qualsiasi manutengolo, il suo odore di cadavere cotto a puntino ossessionerà l’impazienza delle tue narici.
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**** «Per me, ho osservato più di una volta che considero lo spazio come qualcosa di puramente relativo, così come il tempo: è un ordine delle coesistenze, al pari del tempo, che è un ordine delle successioni. Infatti lo spazio segna, in termini di possibilità, un ordine di quelle cose che esistono nello stesso tempo, in quanto esistono insieme, senza entrare nei loro modi particolari d’esistere, e quando si vedono più cose insieme, si percepisce questo ordine di cose tra loro».
(G. W. Leibniz, Carteggio Leibniz-Clarke, in Scritti filosofici, vol. I, tr. it., Torino 1979, p. 312).
Tracce del commento
Gli occhi della saggezza sono ora i miei e con essi guardo al destino. Questo per il momento tace. Anche dovessero fare a pezzi il mio corpo, com’è probabile, non smetterò di guardare al destino e di riascoltare la rammemorazione. La saggezza è conseguenza e attrice di queste due condizioni, ma si muove da sola e da sola agisce nei due sensi, verso la conoscenza e verso la parola. Gli infiniti strati di quest’ultima non la turbano per nulla. Il capitolare è una lezione feroce che la perseveranza impartisce quotidianamente, ed è questo che suggerisce l’ostinazione, l’inesplicabile e confortante capacità di dire sempre no, anche davanti all’evidenza, perché da quel no, insistente e monotono, viene fuori un si di altro genere, un vero e proprio sì alla vita.
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***** «Né lo spazio è nel soggetto, né il mondo è nello spazio. È piuttosto lo spazio ad essere nel mondo, perché l’essere-nel-mondo, costitutivo dell’Esserci, ha già sempre aperto lo spazio. Lo spazio non è nel soggetto, né il soggetto considera il mondo “come se” fosse in uno spazio; la verità è che il “soggetto”, autenticamente inteso nella sua ontologicità, l’Esserci, è in se stesso spaziale. Ed è appunto perché l’Esserci è spaziale in questo senso, che lo spazio si manifesta a priori. “A priori” non significa qui l’appartenenza originaria dello spazio a un soggetto che, dapprima senza mondo, proietterebbe poi fuori di sé lo spazio. Qui apriorità significa: preliminarità dell’incontro dello spazio (come prossimità) in ogni incontro intramondano dell’utilizzabile».
(M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it., Torino 1978, p. 196).
Tracce del commento
Gli antichi contenuti, i modelli di conoscenza, gli abbozzi generali e particolari di nuove teorie e spiegazioni, tutto si sbriciola, spiegazione per spiegazione, tutta la logica dell’a poco a poco. La saggezza resta sola con la logica del tutto e subito, inesprimibile, indisponibile alla rammemorazione. Nell’aprirsi degli strati più profondi della parola la logica del tutto e subito viene alla luce e corrisponde, da un lato con il silenzio della saggezza, dall’altro con la rammemorazione che, a sua volta, cerca di fare sentire nella parola, nel dire che rammemora, nell’architettura intera, il silenzio della cosa. La scomparsa della distinzione è il punto essenziale, per la saggezza è allontanamento e svuotamento della conoscenza, per la parola è unificazione degli strati della parola che in caso contrario si presenterebbero come livelli specificativi della stessa parola e non come un processo in corso di natura unitaria.
Quarta lezione: 2 giugno 1980
Il secondo modo di concepire lo spazio si riassume nel concetto di recipiente dei corpi. L’antica fisica atomistica aveva fornito gli elementi essenziali di quest’analisi che viene ripresa nel Rinascimento particolarmente da Bernardino Telesio*. Il fascino di questa posizione si innalza al livello lirico con la filosofia di Giordano Bruno**. Il fascino della concezione di Bruno sta proprio nel senso di totalità che riesce ad infondere alla sua analisi dello spazio. Le cose stanno nello spazio e non è possibile individuare un rapporto posizionale tra di loro in quanto tutte occupano lo spazio nella sua totalità, essendo tutte al “centro del mondo”, anche la Terra che pure – secondo la concezione dell’epoca – non poteva in nessun modo spostarsi dal centro del mondo. Questa centralità appare parimenti nelle parole di Telesio che collega tutti gli enti fra di loro con un mezzo – lo spazio, appunto – che viene così a perdere una reale connotazione fisica, per acquistarne una più ampia e generale, la concezione filosofica della totalità. In ambedue i casi, comunque, lo spazio fisico resta “assoluto” e non può essere diversamente. Esso è una cosa anche nell’ipotesi di Telesio dove potrebbe essere considerato la “cosa” realtà. Anche per Isaac Newton lo spazio rimane “assoluto”***. In questa analisi si capisce come Newton sia stato ad un passo della soluzione del problema e come invece il generale clima filosofico della sua epoca gli abbia impedito di compiere questo passo. In pratica, lo spazio assoluto è un espediente metafisico per giustificare il modello dello spazio relativo. Da un punto di vista matematico è di questo modello che Newton parlava, per cui non sembra corretto trasferire le conclusioni ad esso relative all’ipotesi metafisica, cosa che invece viene fatta regolarmente nel tentativo di dare fondamento all’ipotesi medesima. Che la realtà abbia un’estensione è una conseguenza della nostra intuizione dello spazio relativo (per usare la terminologia di Newton). La relazione è spaziale per comodità di campo, ma oggettivamente considerata, in termini di significati e di delimitazione situazionale, essa non ha spazio, non ha necessità di ricorrere ad un modello fondato sull’estensione. Il campo, in quanto nostro modello, è certamente un prodotto spazializzato, la situazione no. Ora, siccome le due cose sono sostanzialmente identiche, essendo il primo la seconda cosa vista dal punto di vista soggettivo, ne deriva che il modello spaziale (come quello temporale) può essere considerato, parimenti, esistente e non esistente.
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* «... si può dare, e senz’altro si dà, uno spazio (spatium) diverso dalla mole degli enti, e gli enti tutti sono in esso collocati; e da quanto si è detto è lecito intendere inoltre che quelle cose che ci risulta siano nello spazio (inesse loco), abbiano cioè una spazialità e occupino una posizione, tutte sono in questo spazio primo (inesse spatio). Qualsiasi ente, invero, è in qualche porzione di spazio... E quando gli enti si muovono o recedono o vengono espulsi, esso non si muta per nulla, e nessuna sua porzione retrocedendo ne divide l’essere; ma esso rimane tutto intero perpetuamente immobile e accoglie gli enti che si succedono, e essi a uno a uno si collocano in una parte di esso, che è tanto vasta quanti sono gli enti stessi; e per quanto un ente qualsiasi permanga in una parte qualunque, mai tuttavia questa diventa ad esso simile o ad essa quello. Pertanto dal senso stesso viene compreso che si può dare uno spazio che è diverso dalla mole dei corpi e che esso veramente sussiste e che in esso sono collocati gli enti; e sempre il senso parimenti ci rivela che quelle cose che hanno una spazialità (inesse loco) son tutte in esso, ed esso (spatium) è pertanto il luogo di tutti gli enti».
(B. Telesio, De rerum natura iuxta propria principia, in Grande Antologia Filosofica, tr. it., vol. VI, Milano 1964, pp. 1247-1248).
Tracce del commento
L’agire della parola, adesso, è remoto al fare, non è più spiegabile se non all’interno della rammemorazione dove nel dire essa vive una vita collettiva, assume significati, è usata, anche se non in vista di uno scopo. C’è da fare pertanto una distinzione tra parola e dire della parola. Non tutti i livelli messi a nudo dalla saggezza entrano nel dire, né tutti potrebbero essere ascoltati nella rammemorazione. Per quanto quest’ultima abbia l’ambizioso progetto di dire l’azione, essa non è l’azione e non è la saggezza. Non è nemmeno la parola, intesa come elemento che si sta aprendo nei suoi infiniti livelli a causa della presenza della saggezza, senza che quest’ultima di questa apertura se ne faccia uno scopo. Questi rapporti, risulterebbero disseminati e inascoltati, se non fossero mantenuti insieme dalla logica del tutto e subito. Il saggio, nel silenzio che la conoscenza ha lasciato al posto del baccano dell’accumulo, sa che la sua condizione muta non gli consente altra alternativa che contribuire indirettamente alla remota parola del destino, ma deve tacere, o raggiungere livelli tali di concentrazione nel silenzio da fare sentire al destino, e a se stesso, la voce strozzata dell’uno che è. È qui che si trova la non-evidenza del vivere, semplicemente così com’è, senza orpelli esplicativi, ed è qui che trovano origine molti voltafaccia. Poiché il lavoro della saggezza non è quello di fornire spiegazioni – in qual caso avrebbe bisogno della parola come elemento costituente di se stessa non come semplice accidente estraneo e occasionale – essa è il riflesso dell’uno che è, cioè si limita a essere, vuota di contenuto ma non mancante di qualcosa solo per questo.
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** «Lo spazio di questo corpo, che lo contiene, non ne comprende uno solo, ma parecchi contemporaneamente e un corpo che sia uno spazio non potrebbe essere nel contempo in più spazi. Variando il rapporto in un luogo e in un altro, non si deve credere che il corpo sia in funzione dello spazio e lo spazio in funzione del corpo».
(G. Bruno, L’immenso e gli innumerevoli, in Opere latine, tr. it., Torino 1980, p. 447).
Tracce del commento
Per conto suo la parola dice la rammemorazione aprendo via via i propri livelli, riesce così a dire il teorico senza distinguerlo dal pratico, un teorico-pratico che è l’azione, riesce a dire il silenzio e il discorso che è l’azione dove non si distinguono, riesce a dire tutte le antiche distinzioni e spiegazioni rese assenti dalla saggezza, trovando in sé i livelli in grado di avvicinarsi meglio all’assolutezza attiva che nella solitudine della cosa il destino legge con estrema correntezza. L’architettura complessiva della rammemorazione fa scomparire nel proprio amalgama queste distinzioni. I livelli profondi della parola non sono leggibili facilmente nel dire frammisto specialmente alle tutele contro la volontà di possesso, che la non mai doma conoscenza cerca di porre davanti alla rammemorazione. Con ciò, la logica del tutto e subito obbliga all’abbandono delle tecniche e delle formule regolative, e rende più facile la lettura al destino, senza per questo banalizzarla. C’è in questo porsi di fronte al futuro una rabbia antica, un amore misto a odio che nessuno può spiegare per intero, in tutti i meandri dei suoi dettagli. Vorrei essere di già al di là di questa vuota pantomima, eppure tante cose mi trattengono dallo spingere oltre il piede, oltre questo breve tratto che si fa ogni giorno più stretto e irrisorio in termini di spazio. Perché ascolto attentamente quella voce del destino e non le impongo di tacere, di mettere da parte quello che ha da dirmi per farlo di persona, tra breve? Per il motivo, molto semplice, che questo spazio che è oggettivamente piccolo, insisto nel vederlo in sostanza come infinito, inesauribile, ed ecco perché tendo l’orecchio e detesto ogni traduttore che mi soffia nelle orecchie l’evidenza delle mille rughe e dei mille acciacchi, delle mie debolezze fisiche e delle mie inadeguate cure che dovrei, ma non faccio, rivolgere a me stesso.
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*** «Lo spazio assoluto, per sua natura privo di relazione con alcunché di esterno, perdura sempre simile e immobile. Lo spazio relativo è la misura dello spazio assoluto o una qualsiasi dimensione mobile che i nostri sensi definiscono in relazione alla sua posizione rispetto ai corpi e che comunemente viene assunto in luogo dello spazio immobile: tale la dimensione di uno spazio sotterraneo, aereo o celeste, definita in funzione della sua posizione rispetto alla Terra. Lo spazio assoluto e lo spazio relativo sono identici per specie e grandezza, ma non rimangono sempre tali rispetto al numero. E infatti, se la Terra, per esempio, si muove, lo spazio aereo, che rimane sempre lo stesso in relazione alla Terra, ora sarà in una parte dello spazio assoluto attraversata dall’aria, e ora in un’altra sua parte e così, in senso assoluto, muterà continuamente».
(I. Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica, in Grande Antologia Filosofica, vol. XVI, tr. it., Milano 1968, p. 83).
Tracce del commento
La saggezza, iniziando a porsi di fronte alla parola, è già decisa nei riguardi della conoscenza, ma è stata a lungo nel bivio interpretativo, prima dell’accesso nel territorio della cosa, ha criticato a fondo la pretesa della conoscenza di organizzare il mondo in base alle sue regole, ma ora è in procinto di svuotare la conoscenza dalle sue finalità di possesso e di governo. Non ha più dubbi, l’avventura nella cosa, l’ha convinta definitivamente, per quanto essa non conosca quest’avventura e ne abbia avuto sentore dalla coscienza diversa, abbandonata ormai, pure essendo priva di fine, al medesimo destino della conoscenza. La saggezza è silenzio e purezza, non consente in sé legame alcuno provvisto di finalità. Le regole e le corrispondenze che daranno vita alla logica del tutto e subito, sono prive di finalità, hanno la vita ora e per intero, come accadeva nell’azione, niente nella desolazione della cosa. La saggezza non è un soggetto filosofico che sa che fare, essa è la lievità assoluta, cioè la conoscenza assoluta della sua parte contenutistica, la quantità.
Quinta lezione: 4 giugno 1980
Il guaio della concezione dello spazio come recipiente dei corpi è che tratta del concetto di totalità in termini di assoluto, cosa questa che espone la teoria nel suo insieme ad un’accusa di astrattezza metafisica. In effetti, le cose non stanno così, almeno nell’impostazione rinascimentale del problema, in quanto con il concetto di recipiente si vuole dare un’indicazione pratica adatta a fare comprendere l’intuizione dello spazio come totalità, l’inizio di un’analisi sulla posizione dei corpi in movimento (come è chiaro nel discorso di Newton), e non un’assoluta collocazione del movimento in illusori rapporti di sostituzione. La scienza moderna comunque non poteva accettare l’ipotesi dello spazio come recipiente e le sollecitazioni verso la critica dei concetti realmente metafisici di causalità, di equilibrio, di ordine, ecc., sono visibili ovunque. La lotta contro queste presenze illusorie nella ricerca scientifica sacrificò anche il punto di vista della totalità, punto di vista che però riemerge di tanto in tanto come, ad esempio, nella teoria della relatività generale.
La crisi del concetto di spazio come recipiente dei corpi si ha con Ernst Mach*. Con la nuova geometria cade anche la concezione dello spazio idealizzato come omogeneo. Le idee di Bernhard Riemann furono infatti precorritrici delle teorie di Einstein. Così scrive il traduttore inglese dell’opera di Riemann sulla nuova geometria, William K. Clifford**. Questo lavoro di ripulitura delle presenze metafisiche fu condotto dai teorici della nuova geometria parallelamente alle intuizioni di Michael Faraday e di James Clerk Maxwell riguardanti la teoria del campo. In questo senso afferma Einstein***. In tale concezione appaiono quindi le nozioni di campo e di movimento, concetto quest’ultimo legato alla misura di tempo. L’inserimento della quarta dimensione è avvenuto come segue, precisano Einstein e Indeld****. Sarà la teoria dell’indeterminazione a fissare limiti altrettanto significativi ai concetti di misurabilità di questi quattro numeri, limiti che sono di notevole importanza in quanto consentono di arrivare ad un’idea diversa di movimento, un’idea che tiene conto anche della limitazione delle nostre possibilità di misura e pertanto di previsione. Concludo questo paragrafo con un cenno sull’analisi dello spazio-tempo quadridimensionale come è stata fatta da John Vavasor Durell, che è una delle cose più chiare su questo non certo facile argomento*****.
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* «Non ho potuto ritrattare nulla per quanto riguarda la mostruosità concettuale dello spazio e del tempo assoluti. Ho solo mostrato con maggior chiarezza che Newton dice diverse cose su questi argomenti, ma non ne ha fatto in nessun caso una seria applicazione».
(E. Mach, Die Mechanik in ihrer Entwicklung, ns. tr., Leipzig 1921, p. X).
Tracce del commento
Io non mi curo della saggezza, le residue forze le indirizzo alla conoscenza, solo questo so fare, o rompere tutto e agire nell’assoluta desolazione della cosa, o entrare nella realtà modificativa ed acquisire strumenti. Ma, non essendo cieco, so che né l’azione né la conoscenza possono essere ascoltate direttamente dal destino, le loro lingue divergono, l’ascoltatore è stanco. La saggezza sveglia la parola a nuova vita e la rammemorazione traduce al destino l’azione. Si tratta di una circolarità che mi coinvolge totalmente. Che importa che sono in ceppi, come spesso mi capita, il destino mi vede benissimo e sa quello che ruggisce nel mio cuore, la rammemorazione, che mai arriverà al mio cuore fino in fondo, gli descriverà mille aspetti dell’azione, ma il destino sa anche l’impronta, quello che la rammemorazione non riesce a dire. Non è questione di parole – che ogni aspetto formale è sempre riduzione all’osso di un agghindare transitorio e destinato a perire nella generale incomprensione – ma di asfissia, di non potere respirare se non attraverso il dire, legame con gli altri, anche con coloro nei riguardi dei quali l’aria stessa respirata risulta sprecata e inaccettabile, vista la miseria che come un alone impalpabile li circonda e li solidifica in una immarcescibile incomprensione. Con tutto ciò mai vorrei accedere all’abbandono totale, al fare a meno di questo legame, della parola in primo luogo, se è proprio grazie a questo legame che riesco a rammemorare, incomprensibile quanto si vuole è pur sempre qui che colloco le mie speranze di dare un senso comprensibile, un contenuto alle mie sofferenze. Non si tratta di autocommiserazione libresca, palleggiamento di automi letterari, avvincenti sorti di personaggi da romanzo, ma di sangue e lacrime, le sole linee di comunicazione con le quali è possibile entrare in contatto col destino.
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** «Possiamo immaginare che il nostro spazio abbia ovunque una curvatura quasi uniforme, ma che piccole variazioni della curvatura possano presentarsi da punto a punto, ed esse stesse mutino col tempo. Questo variare della curvatura col tempo può produrre effetti che noi naturalmente attribuiamo a cause fisiche indipendenti dalla geometria del nostro spazio. Possiamo anche spingerci tanto lontano da assegnare a queste variazioni della curvatura dello spazio “quel che realmente accade in quel fenomeno che denominiamo movimento della materia”».
(W. K. Clifford, The common sense of the exact science, ns. tr., New York 1946, p. 202).
Tracce del commento
La saggezza, svuotando la conoscenza, libera il campo della parola, permette a questa di dire quello che ha sempre saputo, che non è stato possibile dire, occorre che mille accorgimenti vengano presi per evitare che il lavoro della saggezza non risulti alla fine vanificato. La parola dice e rammemora, con questo atto profondamente nuovo crea le condizioni che fanno conoscere l’assoluta desolazione della cosa, altrimenti remota e incapsulata nella propria completezza. La parola, prima spezzata dalla conoscenza perché legata alle mille condizioni della misera pretesa della corrispondente misurabilità, ora si libra nel cielo del sapere privo di finalità. A questo punto nessuna di tali prospettive è prevalente sulle altre, anche se l’accumulo dà le poche soddisfazioni della quantità, mi è dolce rileggere nella memoria il lamento del Petrarca sulla vanità e la vergogna.
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*** «La vittoria sul concetto di spazio assoluto o su quello di sistema inerziale divenne possibile solo in quanto il concetto di oggetto materiale fu gradualmente sostituito, nel suo ruolo di concetto fondamentale della fisica, da quello di campo. Sotto l’influenza delle idee di Faraday e di Maxwell si sviluppò la nozione che l’intera realtà fisica avrebbe potuto, forse, essere rappresentata come un campo le cui componenti dipendono dai quattro parametri spazio-temporali. Se le leggi di questo campo sono generalmente covarianti, non dipendono, cioè, da una particolare scelta di un sistema di coordinate, allora l’introduzione di uno spazio indipendente (assoluto) non è ulteriormente necessaria. Ciò che, pertanto, costituisce il carattere spaziale della realtà, è semplicemente la tetradimensionalità del campo. Allora non esiste alcuno spazio “vuoto”, cioè, non esiste nessuno spazio senza un campo».
(A. Einstein, Introduzione a Max Jammer, Storia del concetto di spazio, tr. it., Milano 1966, pp. 11-12).
Tracce del commento
Sono testardamente avvinto al destino, attorno i Vandali danzano la loro rituale e propiziatrice accettazione della vita, il mio cuore è con loro, ma devo fare i conti con il mio corpo che comincia a presentare i tanti conti da saldare. La vita non è un valore in sé, e nessuno meglio di chi l’ha tolta via può affermarlo, ma il destino sì. Eppure il destino è la vita, non c’è la soluzione di continuità, non posso attendere a preoccuparmi della parola portatrice di nuova possibilità, senza tenere conto della mia vita.
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**** «Il nostro spazio fisico – precisa Einstein – così come lo concepiamo per il tramite degli oggetti e del loro moto, possiede tre dimensioni e le posizioni vengono caratterizzate da tre numeri. L’istante in cui si verifica l’evento è il quarto numero. Ad ogni evento corrispondono quattro numeri determinati ed un gruppo di quattro numeri corrisponde ad un evento determinato. Pertanto il mondo degli eventi costituisce un continuo quadridimensionale».
(A. Einstein e I. Indeld, L’evoluzione della fisica, tr. it., Torino 1963, p. 217).
Tracce del commento
La saggezza è certamente cosciente di sé, ma non nel modo della immediatezza, è una coscienza che sta abbandonando i contenuti, quindi non è neanche diversa nel senso dell’azione, dove i contenuti sono scelti e assolutamente completi, stretti nel territorio della cosa, unicamente designati per realizzare l’azione e basta. La coscienza della saggezza non è che una sfumatura, non una terza coscienza, non è una coscienza vera e propria, ma un sapere di sé. Ciò non è una tecnica di vita, ma non è neppure un sogno. La realtà si presenta alla saggezza nelle sue componenti essenziali, le regole, le quali sono semplicemente lo scheletro delle antiche regole che reggevano consistenti contenuti.
Testi
***** «Quantunque ogni osservatore faccia una netta distinzione tra tempo e spazio, la discriminazione fatta da uno è diversa da quella di un altro. Ciò che uno misura come “tempo” un altro misura parte in spazio e parte in tempo, cosicché la distinzione fra spazio e tempo è soggettiva, nel senso che è determinata, sia pure inconsciamente per parte dell’osservatore, dalle condizioni in cui questo si trova. Non possiamo perciò pensare che tale distinzione corrisponda a una realtà fisica oggettiva, cosicché siamo obbligati a concludere che viviamo in un mondo quadridimensionale, diviso arbitrariamente da ogni osservatore in tre dimensioni spaziali e una temporale, pur essendo esso in realtà un’entità unica che chiameremo spazio-tempo».
(C. V. Durell, La relatività con le quattro operazioni, tr. it., Torino 1976, p. 101).
Tracce del commento
Le regole, adesso, di fronte alla parola, si vanno proponendo come riferimento universale, non più come strumento di specificazione. La parola si apre, così sollecitata, a percorsi che non sono precisi, seppure allertati da regole, perché mancano i contenuti, questi sono nella rammemorazione, non vi vengono giustapposti da una esterna volontà di potenza. Ma, nella rammemorazione, i contenuti adottano comportamenti diversi dalle gabbie conoscitive regolamentari, sono per la maggior parte di natura circolare. Niente può essere verificato o convalidato, trasmesso in modo certo. L’azione la riconosco come mia, ma nella rammemorazione la parola la ricostruisce sempre in maniera nuova e la saggezza sa cogliere, ogni volta, nuove sfumature, che arricchiscono non il campo del sapere, ma la tensione che si va fissando, in maniera sempre più intensa, col destino.
Sesta lezione: 7 giugno 1980
La concezione dello spazio in termini di luogo* dove si trovano i corpi e quindi in termini di sola posizione dei corpi, era evidentemente condannata a trasformare ogni considerazione della realtà esterna al soggetto pensante in una specie di catalogo istantaneo delle varie situazioni staticamente considerate. La presenza dell’elemento posizionale non saliva mai al livello di interazione per il semplice motivo che un corpo** doveva abbandonare un suo luogo nello spazio prima di assumerne un altro e quindi ogni posizione risultava identificabile ma separatamente o, almeno, in momenti successivi, senza per altro che questa presunta interagibilità col tempo aprisse la discussione alle conseguenze di tipo relativistico. In questo modo, anche le moderne riflessioni esistenziali sono lo stesso racchiuse in una considerazione archeologica dello spazio e del movimento, un rinchiudersi dell’azione all’interno dei limiti del soggetto, una specie di pallido dialogo con l’altro ma sempre dentro la circospezione dell’“a poco a poco”.
La concezione dello spazio in termini di recipiente dei corpi smarriva il senso profondo della totalità nel tentativo di cristallizzare ancora una volta le diverse posizioni, sia pure non preoccupandosi più di cosa accadesse mai di un luogo abbandonato dal volume di un corpo. Il presupposto della totalità, tranne i casi estremi delle sottili intuizioni di Spinoza***, recita quindi la parte dell’alibi senza riuscire a diventare la porta aperta verso la logica del “tutto e subito”, che pure era se non proprio a portata di mano almeno possibile. Aristotele cacciato dalla porta rientra dalla finestra.
Tutto il lavorio della logica contemporanea dell’indagine fisica si racchiude all’interno di confini molti ristretti. L’inserimento del nuovo parametro apre la prospettiva a nuove intuizioni, ma c’è un’ipoteca oggettivistica ben precisa: nessuno può uscire dall’ipotesi operativa che impone la conoscenza graduale della realtà, la sua verifica (o, se si preferisce, la sua falsificabilità****), e tutto il corredo aggiornato e vecchio nello stesso tempo della logica dell’“a poco a poco”. La concezione einsteiniana dello spazio non sfugge alle critiche generali che si possono indirizzare contro la scienza di oggi. Pur nella sua natura di modello astratto che dovrebbe servire per una più corretta approssimazione alla conoscenza della realtà, il modo stesso in cui ha liquidato sotto l’accusa di metafisica le premesse dello spazio cosiddetto “assoluto”, la riconducono nell’alveo della logica filistea della prudenza e del compromesso, logica a cui si ispira, praticamente senza eccezioni, la scienza moderna che, fra le tante cose, ha contribuito alla costruzione (o distruzione?) del mondo in cui viviamo.
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* «Tutto ciò che ci è dato, tutti gli eventi psichici, siano essi sensazioni, o immagini, o riflessioni, o sentimenti, o idee, o emozioni – ogni fenomeno possibile che possa essere presente – è “questo” e ha “immediatezza”. Ma lo stampo di unicità e singolarità gli proviene dal primo e non dai secondi. Se noi distinguiamo gli aspetti dell’esistenza e del contenuto e mettiamo da un lato che qualcosa è, e dall’altro lato quale è, allora l’immediatezza si trova entro il contenuto, ma “questo” non vi si trova. Esso è il semplice segno della mia relazione immediata, del mio incontro diretto col mondo reale nella presentazione sensibile. Non starò qui a chiedere come “questo” venga riferito all’esistenza, quanto sia vero del fatto attuale, e quanto soltanto della mera apparenza; se è o sia unicamente per me. Ma una cosa è certa, che noi troviamo l’unicità nel nostro contatto con il reale, e che non la troviamo in alcun altro luogo. Questa singolarità che s’accompagna alla presentazione e che costituisce ciò che chiamiamo “questo”, non è una qualità di quel che è dato.
«Ma una simile particolarità nello spazio o nel tempo, una simile natura esclusiva è, infine, soltanto un carattere generale. Essa si trova nel contenuto e non dà l’esistenza. Contrassegna la specie ma non raggiunge la cosa. Astratta da “questo” è meramente ideale e, prescindendo da “questo”, le idee come noi le conosciamo non possono pervenire all’unicità. L’ammontare dell’immediatezza che un evento possiede non potrà escludere l’esistenza di eventi di identica natura in altre serie simili. Tale esclusione si trova tutta entro la specie, e ciò che è unicamente di questa specie è semplicemente tale e non può essere “questo”.
«In ogni giudizio, di cui analizziamo il dato, e dove come soggetto collochiamo il termine “questo”, non è un’idea che sia realmente il soggetto. Dicendo “questo” noi usiamo un’idea, e quell’idea è e deve essere universale; ma ciò che intendiamo, e non riusciamo a esprimere, è il nostro riferimento all’oggetto che viene dato come unico».
(F. H. Bradley, Apparenza e realtà, tr. it., Milano 1951, pp. 125-126).
Tracce del commento
Mancando una organizzazione accessibile, o restando un contenuto svuotato, appunto in caso di svuotamento la saggezza non può farsi cogliere dalle velleità della conoscenza. Ciò non toglie che la sua lievità non sia in grado di produrre delle polarizzazioni, che ho detto circolari, all’interno delle varie gradazioni tettoniche delle parole. Questa selezione è fortemente disponibile alla dispersione. La rammemorazione è dispersiva, infatti, manca di un’organizzazione di campo che la raffreni nella sua libera circolazione del dire. Non ci sono in essa tecniche regolate e collaudate, non c’è una conoscenza accertata e legata nell’archivio in modo che costituisca un accumulo visibile e fruibile. La grandiosità della rammemorazione ha un’architettura essa stessa sorprendente e, nel migliore dei casi, accessibile con grande difficoltà anche a me stesso che ho vissuto l’azione di cui la rammemorazione afferma di dire.
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** «Una più raffinata evoluzione della rettitudine e della scepsi rese infine impossibile anche questo genere di persone; anche la loro vita e i loro giudizi si rivelarono influenzati dagli istinti e dagli errori basilari di tutta l’esistenza percipiente. Quella rettitudine e quella scepsi più raffinate erano nate laddove paressero applicabili, alla vita, due princìpi contrapposti, perché entrambi erano compatibili con gli errori basilari: laddove, quindi, si potesse disputare sul grado più o meno elevato della loro utilità per la vita; parimenti laddove nuovi principi, pur non rivelandosi utili alla vita, almeno non sembravano nuocerle, in quanto espressione di un istinto intellettuale verso il gioco e, come tutti i giochi, innocente e felice. Gradualmente il cervello umano si empì di questi giudizi e convinzioni e così nacquero, in questo groviglio, fermento, lotta e brama di potere. Non soltanto utilità e piacere, ma anche istinti di ogni genere prendevano parte alla battaglia per le “verità”; la lotta intellettuale divenne occupazione, eccitazione, vocazione, dovere, dignità; la conoscenza e l’anelito al vero trovarono finalmente una loro collocazione come bisogno tra gli altri bisogni. Da allora fede e convinzione non furono più le uniche potenze, essendo subentrati anche esame, negazione, sfiducia, contraddizione; tutti gli istinti “cattivi” furono subordinati alla conoscenza e circondati dall’alone di quanto è permesso, venerato, utile: in ultima analisi, dall’occhio e dall’innocenza della bontà. La conoscenza divenne quindi essa stessa parte della vita, e la vita una potenza sempre in crescita: finché le conoscenze e quei primordiali errori di base non si trovarono in contrasto, insieme come vita, insieme come potenza, insieme anche nella stessa persona. Il pensatore: è in lui che l’istinto alla verità e quegli errori atti a preservare la vita hanno combattuto la loro prima battaglia, dopo di che anche l’istinto alla verità si era rivelato capace di preservare la vita. Rispetto all’importanza di questa battaglia tutto il resto è indifferente: si pone qui la domanda sulle condizioni vitali e si compie il primo tentativo di rispondere sperimentalmente a questa domanda. In che misura la verità sopporta di essere incorporata? questa la domanda, è questo l’esperimento».
(F. Nietzsche, La gaia scienza, III, 110)
Tracce del commento
Le condizioni della saggezza, così lievemente sfiorate dallo stesso processo rammemorativo, sono ideali per seguirne l’evoluzione, il che non vuole affermare che sia assolutamente possibile svuotare la conoscenza e renderne intelligibile l’intera trama dell’architettura rammemorante. Ci saranno livelli di penetrazione nella parola che resteranno estranei per sempre, anche se perfettamente inseriti nel contesto dell’azione a cui si riferiscono. Non scorre mai, da questo incontro tra saggezza e parola, un nuovo sapere, tutto quello che si può estrapolare dalla rammemorazione in questo senso, dai semplici ricordi alle complesse raffigurazioni, è una sorta di recinto a difesa che viene costruito attorno all’impronta, seguendo le tracce che ne contraddistinguono la presenza.
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*** «Lo spinozismo... tende risolutamente al panteismo, ma non sembra conquistare con sufficiente sicurezza una concezione panteistica della realtà...; come contiene in sé teismo e panteísmo, limitandosi all’esigenza di una divinità immanente, così lo spinozismo contiene in sé materialismo e spritualismo, limitandosi all’esigenza di una concezione unitaria della realtà. C’è poi da aggiungere che lo spinozismo, negando recisamente che l’idea abbia per causa l’ideato, è idealismo; ma ritenendo che le idee vere si accordano con le cose quali sono in sé, è realismo; sebbene, anche qui, cerchi di progredire su le due posizioni, affermando, al solito, l’esigenza di pensare cosa e idea come una realtà sola.
«Tutte esigenze non soddisfatte, perché lo Spinoza non riesce a dire come la sostanza si causi dall’interno, quando invece ogni cosa è determinata da cause finite, ad essa esterne; non riesce a dire come materia e spirito siano una realtà sola, mentre ci appaiono due, né come cosa e idea siano tutt’uno, nonostante che noi le concepiamo distinte, anzi contrapposte. Bensì lo Spinoza afferma che la sostanza, o Dio, è causa immanente; che materia e spirito sono aspetti diversi di una realtà unica; che cosa e idea coincidono perfettamente. E queste affermazioni, lanciate dallo Spinoza, e sostenute con grande energia, costituivano il programma, non eseguito, dello spinozismo, non dettero tregua ai pensatori finché non suscitarono sistemi capaci di risposte più concrete e più soddisfacenti.
«Ma l’esigenza centrale dello spinozismo, quella da cui il sistema è caratterizzato, è l’esigenza immanentistica per la quale non c’è cosa apparentemente ridicola, assurda e cattiva, che non abbia il suo ufficio e la sua giustificazione nell’ordine cosmico, il quale non è mai “turbato”, ma sempre riaffermato da quelli che a noi sembrano disordini. Ciò che ha la sua ragion d’essere nel fatto stesso che è; e gli “ideali” non sono che chimere se non si traducono anch’essi in realtà. Il mondo reale viene riconsacrato come il solo che abbia valore, e la nuvolaglia degli “ideali” che facevano apparire meschina, contorta, abnorme la realtà è violentemente fugata e dispersa. Non c’è una realtà superiore a ciò che è, in nome della quale ciò che è possa essere dichiarato apparenza, o inganno, o vanità, o pallida imitazione, o creatura deviata e corrotta. Ciò che è, è la suprema realtà perché è la sola realtà. Né idee platoniche, né disegni e fini della Provvidenza: il valore della realtà non è al di fuori di essa, non è né il modello a cui essa si ispiri, né il fine a cui essa tenda: è nella realtà stessa, anzi è la realtà stessa, il suo essere reale.
«Questa riconsacrazione del mondo reale, della “natura” come si diceva nel Rinascimento e nel Seicento, è l’esigenza più energicamente affermata, come dal Bruno, così dallo Spinoza; ed oggi, e sempre, quando si vuol farla finita con la trascendenza sono Bruno e Spinoza i maestri che ci si ripresentano, e ogni lotta contro la trascendenza si combatte sotto le loro bandiere. Resta a vedere se i sistemi naturalistici del Bruno e dello Spinoza, che così energicamente spronano a lottare contro ogni trascendenza, contengano tali principi, da rendere vittoriosa la lotta, o se la lotta da essi promossa possa vincersi solo in base a principi in quei sistemi non ancora sviluppati e contemplati.
«La concezione della realtà come natura, cioè come essere che è qual è, e non ha nessun dovere di essere quale non è, importa una giustificazione in blocco di tutto ciò che è, che costituisce così una massa, tutta valida, senza alcuna discriminazione. Dato che alcuni esseri della natura pensano, tutto ciò che pensano, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, è legittimo ed è vero. Dato che alcuni esseri della natura vogliono, tutto ciò che vogliono, in qualsiasi momento e contingenza, è giustificato ed è bene. Poiché nulla ha il dovere di essere come non è, non c’è colpa e non c’è errore. Tutto è bene, e tutto è vero: se pure si possono adoperar questi termini quando non si ammette più nulla di male e di falso, rispetto a cui altro sia bene e sia vero. Tutto è, insomma, positività assoluta e, più brevemente, essere, che è valore, non supremo, ma unico.
«Giunti a questo, non si può tornare indietro, e ancora distinguere classi di azioni buone e classi di azioni cattive, classi di pensieri veri e classi di pensieri falsi. O si progredisce, e si concepisce ogni pensiero come discriminazione interiore di vero e falso, ed ogni azione come discriminazione interiore di bene e male; o si resta fermi, e, rinunziando a qualsiasi distinzione di vero e falso, di bene e male, si dichiara tutto egualmente vero e tutto egualmente bene.
«Lo Spinoza non resta fermo, non si adatta a ritener tutto indistintamente vero, tutto indistintamente bene. Anzi, quante volte i suoi contraddittori gli additano questa conclusione come inevitabile conseguenza della sua concezione, egli protesta, e riafferma la distinzione di vero e falso, bene e male. Senonché, dal suo punto di vista, non è più possibile una distinzione estrinseca: “questo è vero, questo invece è falso; questo è bene, questo invece è male”. Bisognerebbe arrivare a una distinzione intrinseca, bisognerebbe attingere quella discriminazione di vero e falso che è intrinseca ad ogni affermazione di pensieri, quella discriminazione di bene e male che è intrinseca ad ogni decisione pratica.
«Lo Spinoza non assume lo stesso atteggiamento rispetto alla verità e al bene. Riguardo alla verità, il suo concetto che l’intelletto sia esso stesso facoltà di affermare e di negare, che l’idea non sia “pictura in tabula” ma affermazione di se stessa, che la verità sia testimonianza di sé nell’atto stesso che è denuncia del falso, attinge o è prossimo ad attingere il concetto che la verità è il giudizio di verità implicito in ogni nostro pensiero, il quale è sempre come la sentenza di un giudice su quale sia la verità e quale l’errore. Riguardo al bene invece, lo Spinoza si impaluda in una dottrina antiquata rispetto alla sua concezione generale, e senza decisione né vigore. Svolgendo la dottrina del bene parallelamente a quella del vero, egli avrebbe dovuto pensare il bene come affermazione del bene, come volontà buona, e questa volontà buona come “norma sui et mali”, come posizione di sé come bene, e denuncia del proprio contrario come male, come affermazione di sé come “azione”, e denuncia del proprio contrario come “passione”.
«Al contrario lo Spinoza distingue ancora classi di azioni che sono “passioni”, e classi di azioni che sono “azioni”.. Egli assume... la strana posizione, che anche le passioni fondano l’ordine naturale, e promuovono, col loro naturale svolgimento, la storia dell’umanità, ma tuttavia meglio che le passioni, vale la ragione».
(A. Guzzo, “Il pensiero di Spinoza”, in “Filosofia”, 1964, pp. 522-528).
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La saggezza conosce il cuore e sa la sua debolezza e la sua forza, ma non ha accesso all’impronta. Solo il destino ha questa linea diretta. La saggezza ha più occhio per lo stato della conoscenza, per quello che c’è ancora da togliere e portare via per rendere più leggera la propria consistenza fantastica e desiderosa di librarsi nell’aria liberamente, che per l’impronta dell’azione, che quasi non considera. Ancora una volta bisogna ricordare che il saggio non è necessariamente un uomo d’azione, il saggio è frequentatore del silenzio, è interessato agli strati profondi della parola che dicono ma non assordano con il fragore degli strati superficiali, dicono le sfumature, e qui la saggezza soggiorna. Ecco perché il rimbombo delle parole, aumentando d’intensità, scopre il suo scopo primario, coprire quello che dice, per non consentire che venga alla luce il proprio vero e proprio essere dette, la consistenza della vacuità prima di tutto. La mia personale simpatia per i lampi istantanei, anche se in profondo contrasto con l’afflato connaturale al mio modo di essere dicendo, non l’ho mai avvertito come una contraddizione spiacevole, da rimuovere, ma come un ideale irraggiungibile e non per questo meno allettante, ideale di libertà, prima di tutto.
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**** «Vengo ora al punto principale del saggio di Popper, cioè la sua critica alla nostra soluzione del problema. Nel mio articolo sulla controllabílità, presentavo una concezione che differiva sotto diversi aspetti dalla nostra prima concezione. Le influenze che mi portarono a rivedere le mie concezioni vennero soprattutto dai miei amici viennesi, con i quali ebbi molte discussioni, ma anche da altri filosofi, tra i quali Popper. (Apprezzo l’influenza delle idee di Popper, ma non sono sicuro che esse abbiano svolto proprio un ruolo così centrale nello sviluppo delle mie idee come egli attribuisce loro). Io proposi di abbandonare la condizione di verificabilità di Wittgernstein, come condizione di significanza conoscitiva e di sostituirla con la condizione della confermabilità in un senso vasto, includendo la conferma indiretta e incompleta. Il mio obiettivo era di rendere la condizione, da un lato, abbastanza debole da ammettere come significanti tutti gli enunciati della specie I e II, e, dall’altro, abbastanza forte da escludere gli enunciati della III specie. Popper presenta delle argomentazioni non soltanto contro la forma particolare del mio criterio, ma più in generale contro i criteri di questo tipo. Egli cerca di dimostrare che questi criteri accetterebbero come significanti certe asserzioni metafisiche. Sfortunatamente, la sua obiezione è basata su un radicale fraintendimento e cioè che fosse nostra intenzione risolvere il suo problema A mediante i nostri vari criteri di significanza. Popper interpreta la nostra tesi, che certe asserzioni metafisiche sono prive di significato, come se si riferisse ad asserzioni della II specie. Tuttavia, noi consideravamo e ancora consideriamo, così come fa lui, le asserzioni di II specie come significanti, e caratterizziamo come prive di significato soltanto quelle di III specie.
«Popper comincia la sua argomentazione osservando che un soddisfacente linguaggio della scienza dovrebbe contenere, con ciascun enunciato, anche la sua negazione: pertanto con gli enunciati universali anche le loro negazioni, e quindi le asserzioni puramente esistenziali. Io sono certamente d’accordo; e ho dichiarato esplicitamente che considero significanti gli enunciati con qualsiasi numero di quantificatori universali ed esistenziali. Popper giunge allora al punto decisivo: “Ma ciò significa che esso deve contenere enunciati che Carnap, Neturath e tutti gli altri anti-metafisici hanno sempre considerato come metafisici”. Questo dimostra chiaramente che egli ha frainteso la nostra tesi come se essa si riferisse al confine A: egli pensa che noi consideriamo gli enunciati puramente esistenziali di un linguaggio scientifico, i quali, secondo la sua classificazione, appartengono alla II specie, come metafisici e privi di significato. Egli continua: “Affinché le cose siano completamente chiare, scelgo come esempio estremo quella che potrebbe essere considerata come l’asserzione arca-metafisica. Esiste uno spirito personale, onnipotente, onnipresente e onnisciente”. Per i termini che appaiono in quest’ultimo enunciato, egli dà delle definizioni in linguaggio fisicalista. Pertanto, l’enunciato è chiaramente empirico; esso è metafisico soltanto nel senso di Popper (specie II) ma non nel nostro senso (specie III). È vero che noi talvolta abbiamo detto metafisici e privi di significato enunciati teologici di questo genere. Ma abbiamo fatto ciò soltanto nel caso in cui il contesto dimostrasse che l’autore dell’asserzione non intendeva dare ad essa una interpretazione empirica. Io ho in precedenza ricordato la distinzione, fatta per la prima volta da Neurath, tra teologia mitica (o magica) e metafisica. L’asserzione teologica di Popper, sulla base delle sue definizioni empiriche, appartiene ovviamente al primo tipo.
«Anche se l’argomentazione di Popper riguardo al suo esempio particolare è basata su un fraintendimento, egli potrebbe avere ancora ragione nell’asserire che gli empiristi tracciano il confine del linguaggio della scienza, o il confine delle asserzioni conoscitivamente significanti, in modo troppo ristretto. Io non credo che le cose stiano in questi termini. Non conosco nessuna asserzione che Popper considererebbe conoscitivamente significante e che noi considereremmo conoscitivamente priva di significato».
(Aa.Vv., La filosofia di Rudolf Carnap, tr. it., Milano 1974, vol. II, pp. 858-859).
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L’appiattimento non è uguaglianza, è vacuità, realtà guarita dai propri mali per congenita incapacità di pensarli esistenti, di volerli distruggere. Il fare si riflette in se stesso, si avvolge a spirale in un movimento considerato progressivo ma sostanzialmente in grado di proporre solo se stesso in quanto movimento. Voglio farla finita con la paura e l’inquietudine e innalzo barriere e distanze illusorie, ma nel sottosuolo si sente il rumore delle mandibole nemiche che scavano. La stessa avidità con cui cerco di allontanarmi e mettermi in salvo nella mia galleria che reputo sicura, l’avverto nello scavo nemico. La ferocia mia è identica a quella del nemico, non appena distraggo l’attenzione ecco che qualcuno costruisce un patibolo.
Settima lezione: 8 giugno 1980
Dobbiamo adesso fare un passo avanti verso una più dettagliata descrizione di ciò che consideriamo come spazio sociale.
Noi possediamo un’intuizione di questo concetto, cioè esso si presenta a noi immediatamente come qualcosa di sussistente, come un luogo in cui si svolgono gli eventi che chiamiamo fatti sociali. Ma il concetto di luogo si arresta sulla soglia dell’intuizione*. Quando scendiamo nei particolari esso sfuma per lasciare il posto a un concetto diverso, meno vicino al comune concetto di spazio come luogo e più vicino al concetto di spazio come recipiente dei corpi. Ciò è una conseguenza logica della differenziazione che siamo portati a fare subito tra spazio sociale, fisico, psicologico e altri spazi che riusciamo a immaginare, una specie di piani sovrapposti l’uno sull’altro all’infinito, come i piani di un immenso grattacielo che s’innalza a perdita d’occhio. Vedendo meglio ci rendiamo conto però che l’ipotesi dello spazio sociale come recipiente non regge, almeno se la si lega soltanto allo sviluppo dei diversi piani di spazio possibili, in quanto ogni singolo piano è praticamente un luogo dei corpi o degli eventi, luogo a se stante, che diventa logico solo se pensato intuitivamente. In questo modo, o si accetta l’ipotesi di una intuizione dei diversi piani spaziali, separatamente considerati, o tutte le concezioni di spazio possibili (come luogo o come recipiente dei corpi e degli eventi) spariscono.
C’è però la certezza pratica che altra cosa è una macchina da scrivere e altra cosa un’azione di solidarietà di classe, altra cosa una legge dello Stato e altra cosa il sentirsi obbligato a una coerenza d’azione. E, più ancora. Altra cosa è una macchina da scrivere dal punto di vista del fabbricante e altra cosa dal punto di vista di chi la usa per manifestare il proprio pensiero, e altra cosa ancora diventa quando chi la usa non sa di essere già stato posto nella condizione di non potere esprimere il proprio pensiero e così via. Ridurre tutto ciò all’uniformità** delle cose non significa altro che positivizzare il mondo esterno col risultato di renderlo intelligibile esclusivamente al bisturi dello scienziato che lavora per conto della Nasa.
Lo spazio sociale non è un altro tipo di spazio, cioè non è uno spazio ipotetico da esercitazioni modellistiche, in cui scienziati sociali scendono in campo per dimostrare*** una percentuale più o meno ampia delle proprie teorie. Lo spazio sociale rientra appieno nella concezione generale dello spazio che è caratterizzata dalla presente composizione della realtà, cioè dalla sua divisione in classi. Pretendere infatti che la realtà spaziale sia a se stante, ben difesa dal conflitto**** in corso, un qualcosa di eternamente fisso che noi altri andiamo scoprendo a poco a poco significa non rendersi conto di quanto di assurdamente metafisico si celi in questa pretesa. La realtà si modifica continuamente e non si vede perché il nostro modo di conoscerla debba restare immobile.
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* «Quando si segue la nozione bergsoniana di intuizione nel suo sviluppo, si è condotti a fare tre constatazioni fondamentali. La prima è che non l’intuizione, bensì la durata è la nozione fondamentale di tutta l’opera. La seconda è che la nozione di intuizione si determina progressivamente, annunziandosi fin dalle origini, ma prendendo corpo solo con l’Introduzione alla metafisica e precisando i propri contorni solo con la Evoluzione creatrice. Infine la terza è che l’antitesi con l’intelligenza, attraverso cui quest’opera definisce l’intuizione e in cui l’interpretazione corrente l’ha fissata, esprime soltanto un aspetto, senza dubbio essenziale, ma ciò nondimeno relativo ad un certo punto di vista e a certi modi d’espressione.
«Qui si colloca la nozione di intuizione. L’intuizione è, anzitutto, quella conoscenza immediata, ma confusa, che la dottrina ha scoperto alla base della percezione e della coscienza correnti. È, in secondo luogo, la conoscenza distinta che essa si propone di svilupparne. Ed è, infine, per estensione, il metodo che le permetterà di svolgerla e di svilupparla. Tutta la teoria bergsoniana della conoscenza ha, dunque, la sua chiave nel riconoscimento di tale funzione, e tutta la sua metodologia tende a porla in valore. Ma, per precisarne la natura e definirne il modo d’esercizio, occorreva ritagliarla nella continuità dell’attività psichica con l’ausilio degli usuali concetti: e questi concetti usuali erano troppo grossolani per disegnarne tutte le articolazioni».
(L. Husson, L’intellectualisme de Bergson, ns. tr., Paris 1947, p. 216).
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L’altro, nascosto alla vista, presente nell’assenza, mi lusinga con la prospettiva del cedere, dell’abbandonarmi all’intuizione. Ma non mi fornisce spiegazioni. Le spiegazioni sono farina del diavolo, albergano nelle divisioni, dilagano nel fare che non accetta prospettive di perdita. Se insisto nel fare, fingo di realizzare il fatto rivoluzionario nell’imbroglio modificativo, una finzione che gioca a rimpiattino nel palazzo dei fantasmi. Non c’è qualcosa da conquistare, ma solo qualcosa da perdere. Se insisto nella conquista mi ritrovo fra le mani un cadavere.
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** «Questa filosofia della coscienza comune o scienza della natura umana si rivela, alla fine, apertamente come un dogmatismo dell’irrazionale, o del sentimento. Lo stesso “ragionamento sottile e metafisico” pare abbia la sua giustificazione ultima nel sentimento che “si mescola con esso”: anch’esso è, infine, sospeso – con una specie di salto logico o atto di fede da parte di Hume – alla natura: esso che pure, per se stesso, non è natura, non è cioè immaginazione o credenza, almeno nel senso specifico che ha il belief nella teoria dell’esperienza; ché, secondo, invece, il criterio datoci testé della verità filosofica, questa par che mutui anch’essa, infine, tutta la sua forza da una specie di credenza (Hume peraltro non usa questo termine), di sentimento, appunto. In realtà, la forzatura dommatica è più che evidente: il “ragionamento metafisico” è semplicemente presupposto, non dedotto, e resta giustapposto alla natura: “mescolato”, infatti, al sentimento. In una filosofia della coscienza comune, o, più semplicemente, della coscienza, quale è questa, non c’è da stupire che venga meno o sia girata la giustificazione ultima della autocoscienza per eccellenza, la filosofia, e che si tenda addirittura ad abbassare questa al livello della coscienza, dell’immediatezza, del sentimento. L’astrazione dai valori logici puri, ch’è la tendenza dominante tutto il sistema, si conchiude coerentemente in questo tentativo di fondazione psicologica dello stesso ragionamento filosofico, ultimo corollario dei presupposti psicologici della “metafisica” humiana. Il fenomenismo critico di Hume, il suo “sperimentalismo”, accentua così, in questo auto-esame, i suoi fondamenti psicologistici e addita esso stesso la propria debolezza: i presupposti dommatici – dommatismo del sentimento – che lo limitano. Eppure, anche qui, in questa conclusione, il senso dei problemi supera enormemente le soluzioni raggiunte e ne fa dimenticare la debolezza. Basti notare: 1) il senso acuto del problema dei rapporti fra pensiero spontaneo e pensiero riflesso o dialettico, filosofico, al cui proposito Hume osserva che non possiamo, senza contraddirci, stabilire per regola che le “riflessioni troppo sottili non hanno influenza su di noi”: e qui egli tocca, se non erriamo, il problema e la difficoltà capitali di ogni intuizionismo e irrazionalismo; 2) il senso vivo del problema dell’unità di filosofia e vita.
«L’esame della dottrina del Trattato e della Ricerca e il loro paragone con lo scetticismo antico e il moderno ci permettono, infine, di concludere che Hume non fu uno scettico, neanche moderato o “accademico”. Cioè: c’è in lui una scepsi della ragione, ma questa è connessa al suo dogmatismo del sentimento, ne è un aspetto funzionale, non dissociabile (come, per intenderci, l’anti-intellettualismo o critica della ragione di un Bergson è momento preliminare essenziale del suo intuizionismo). Che questa “scepsi” o meglio critica della ragione sia stata isolata per l’importanza dei suoi risultati dal sistema dogmatico in cui s’inquadra, e che sia divenuta il pretesto a contrassegnare, senz’altro, la filosofia di Hume come scettica, si può comprendere, ma non giustificare. Sta di fatto che il pensiero di Hume è fondato sulla verità e precisamente sulla “verità dell’empirica, del sentimento, dell’intuizione”, come sospettò già Hegel, che contrapponeva lo “scetticismo di Hume” all’antico scetticismo, che “era così lontano dal considerare il sentimento, l’intuizione, come principio di verità, che anzi si rivolgeva, in prima linea, contro il sensibile”. (Enciclopedia, I, § 39). Questo dogmatismo dell’irrazionale esclude, altresì, ogni interpretazione unilaterale di Hume in un senso puramente prammatistico e biologistico, secondo la tendenza tradizionale, diffusa, che ha in Smith il suo ultimo e più fine rappresentante. La trattazione dei problemi ha un significato essenzialmente teoretico. Hume è il filosofo dell’istinto, delle credenze naturali, della coscienza comune, della “natura” umana, insomma. La sua logica è la logica della induzione fondata su un natural belief: ed è in tal senso ch’egli, il preteso scettico, si appella alle leggi, alle uniformità, alle cause o fatti “generali”, insomma, e si affida alle scienze politiche, naturali, ecc. Ma qui, anche, il suo cosiddetto positivismo trova i suoi limiti: e cioè nella sua fondazione psicologica dell’induzione, nel suo dogmatismo appunto. Malgrado ciò, notiamo di passaggio, la sua teoria delle cose di fatto serve, ancor oggi, da insegna a coloro che difendono ancora le basi irrazionali dell’induzione contro i sostenitori delle basi razionali, deduttive, di essa: tanto è ancor vivo il fermento del problema humiano!
«Noi possiamo ora comprendere appieno il destino di questa filosofia dell’esperienza, di questa “vera metafisica” che Hume si propose di coltivare “per distruggere la falsa e adulterata”, di questa metafisica naturalistica e fenomenistica. Con essa il pensiero moderno combatte la sua più aspra battaglia contro gli “spettri” dell’ontologismo antico e moderno. Giacché se Kant scopre la strada maestra della Critica, le pene e il travaglio più vivi per tale scoperta li patisce il suo predecessore. Le pagine della Conclusione del Trattato stanno a testimoniarlo. Ed hanno un sostanziale valore di preludio all’autocritica, tale che il critico del pensiero di Hume ha ben poco da aggiungere. Si sente la tensione patetica di una mente che ha raggiunto il limite delle sue possibilità, del suo orizzonte, e inquieta si arresta. Il testamento, e l’auto-giudizio implicito, dell’empirismo nella sua forma più alta e consapevole, sono contenuti nel Trattato e nelle sue conclusioni. La Ricerca, spogliata delle “speculazioni sottili” del Trattato, elude le difficoltà e l’intima problematica della “vera metafisica” di Hume e ne smorza il significato complessivo ed esemplare, – simbolico, diremmo».
(G. Della Volpe, Lo scetticismo di Hume, vol. I, Firenze 1939, pp. 231-234).
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L’operazione che la parola conduce sull’azione si avvale di questa presenza silenziosa della saggezza, le varie modulazioni rammemorative dicono quel silenzio ancora prima di cercare di dire l’altro, quello dell’azione. Non c’è una storia di questo rapporto, come potrebbe esserci tra la parola e la conoscenza, sono contatti e presenze, a volte anche pratiche, che connettono universi male rappresentabili reciprocamente, la saggezza a parole e le parole col silenzio. C’è un rapporto di gioco tra parole e saggezza, i due elementi si fronteggiano e le modificazioni che la saggezza sta operando nella conoscenza diventano occasioni per intervenire sulla parola. Lo svuotamento presenta un modello non finalizzato, la parola sa che ogni fine vela l’essenza intima del dire, ma sa anche che non le è possibile tacere, sarebbe una parola muta. Molti aspetti della rammemorazione evocano il silenzio, ma non si condensano mai in esso.
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*** «Istruttive al riguardo sono le ormai classiche analisi di Simmel, il quale tende a coinvolgere in un’unica critica la deduzione dei contenuti normativi e la chiarificazione della forma normativa. Egli, per esempio, denuncia con vigore “il fatto che non si sia riconosciuta l’originarietà della categoria del dovere, e si sia preteso di trovarne una fonte nella volontà di Dio, o nell’utile sociale, o nella ragione e nei suoi postulati logici, o nel vero interesse dell’individuo, e così via”, dove è evidente che non della “categoria del dovere” in realtà si tratta, ma dei contenuti che essa di volta in volta ha assunti! Simmel, tuttavia, insiste nel dire che “il dovere, come l’essere, non si deduce né si fonda”, che la legge è “solo una qualità dell’azione, un suo modo interiore unitario, per cui essa è come dovrebbe essere”, “legge individuale, totalità della vita dell’individuo esprimentesi sul piano del dovere”. Viene così arbitrariamente estesa al problema dell’origine della normatività la giustissima polemica contro la pretesa di privilegiare questo o quel contenuto normativo attraverso la presunta dimostrazione della sua assoluta fondatezza. In verità si tratta di due piani incommensurabili. La dimostrazione dell’assoluta fondatezza di un contenuto normativo è la volontà di convincere che il contenuto di un comando è più o meno prestigiosamente necessitato; la ricerca dell’origine della normatività è invece lo sforzo di capire come un comando, qualsiasi comando, sia possibile. Nel primo caso, sotto l’apparenza di una dimostrazione, che pretenderebbe di vincolare le corpulente azioni agli astratti fantasmi, in realtà non si dimostra un determinato comando, ma si comanda una certa convinzione, cioè un comportamento di fatto viene sottoposto alla pressione di un altro comportamento di fatto; nel secondo caso ci si esercita a fare affiorare lo strato più profondo della nostra vissuta esperienza. In breve, la dimostrazione dell’assoluta fondatezza di un contenuto normativo riguarda il “che” di una necessità, un “che” non logicamente verificabile, perché si tratta di un fatto, e tuttavia neppure empiricamente verificabile, perciò mero presupposto metafisico mascherante una fisica prepotenza; la chiarificazione della forma normativa riguarda, al contrario, il “come” di una possibilità, un “come” empiricamente verificabile, purché per “empiria” s’intenda con Dilthey non il modello costruito intellettualisticamente dall’empirismo, ma la globale e irriducibile vita che nel suo spessore storico e quindi dialogico noi esperiamo. La dimostrazione dell’assoluta fondatezza di un contenuto normativo si rivela, in conclusione, come un progetto repressivo; la ricerca dell’origine della normatività, invece, come un esercizio liberatorio. Ma Simmel coinvolge questa ricerca nella condanna di quella dimostrazione, convinto che non si possa tematizzare altrimenti il fondamento dell’universale, e quindi del normativo, se non come una meta-storica determinazione dei contenuti storici, cioè come fondamento necessitante».
(A. Masullo, Antimetafisica del fondamento, Napoli 1971, pp. 21-22).
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Il contrasto con la conoscenza porta la saggezza verso l’essenzializzazione del contenuto, qualcosa di simile alla qualità, la parola lo può dire, ma dicendolo pone delle tracce di contenuto nella saggezza, o segue quelle che ci sono e che conducono nei pressi dell’impronta. Il ragionamento coerente ha coperto per troppo tempo i misfatti della volontà di controllo. La trasformazione complessa della rammemorazione smonta questi ragionamenti e riflette nel proprio dire il lavoro della saggezza, completandolo al di là, nell’assenza stessa, dove la qualità non è dicibile, ma è coglibile per mille intuizioni. La parola non è più se stessa nel dire rammemorativo e non è nemmeno questo un cambiamento di facciata, la saggezza la spinge ad aprire tutti i livelli, anche quelli più reconditi, più accuratamente nascosti, che mettono in condizione il dire di avvicinarsi alla qualità dell’azione. Il gioco di cui parlo è un rimpallare dell’evidenza, negata dalla saggezza non è detta dalla parola, l’evidenza è inganno e meretricio, può sempre essere ribaltata per sostenere la tesi contraria. L’internamente non è sostenibile nel grande mare della rammemorazione, occorre perseverare verso il ribaltamento di tutto quello che è nascosto e che vuole restare nascosto.
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**** «Ma c’è di più, ed è che nel problema concreto vitale che c’interessa, la ragione non prende alcuna parte. In realtà fa qualcosa di peggio che negare l’immortalità dell’anima, il che sarebbe una soluzione; è che disconosce il problema, come il desiderio vitale ce lo presenta. Nel senso razionale e logico del termine problema non c’è tal problema. Il fatto della immortalità dell’anima, della persistenza della coscienza individuale, non è razionale, ed è fuori della ragione. È, come problema, a parte la soluzione che gli si possa dare, irrazionale. Razionalmente non c’è senso neppure a tracciarlo. Tanto inconcepibile è l’immortalità dell’anima com’è, in realtà, la sua mortalità assoluta. Per ispiegarci il mondo e l’esistenza, – tale è l’opera della ragione – non c’è bisogno di supporre che la nostra anima sia mortale o immortale. È dunque una irrazionalità il solo fatto di tracciare il supposto problema.
«Il cristianesimo è un valore dello spirito universale e ha le sue radici nella parte più intima della individualità umana. I gesuiti dicono che col cristianesimo si può risolvere principalmente il “negozio” della nostra personale salvezza e benché siano i gesuiti a sostenere questa idea, trattando il divino come un problema di economia, qui ci conviene accettarla come un postulato iniziale.
«Siccome è un problema strettamente individuale e perciò universale mi trovo obbligato a esporre brevemente le circostanze d’indole personale in cui questo scritto che ti si offre, o lettore, è stato intrapreso.
«La tirannia militarista della mia povera patria spagnola mi confinò nell’isola di Fuerteventura, dove potei arricchire la mia intima esperienza religiosa e perfino mistica. Fui liberato da un veliero francese che mi portò in Francia e così mi stabilii, qui a Parigi, dove scrivo queste pagine. In una specie di cella vicino all’Etoile. Qui, in questa Parigi, gonfia di storia, di vita sociale e civile e dove è quasi impossibile rifugiarsi in un angolo anteriore alla Storia. Qui non posso contemplare le montagne, quasi per tutto l’anno coronate di neve, che a Salamanca calmano le radici della mia anima: né la landa, la steppa che a Valencia, dove abita mio figlio maggiore, tranquillizza la mia anima; né il mare in cui ogni giorno vedevo nascere il sole a Fuerteventura. Questo stesso fiume, la Senna, non è il Nervión della mia città natale, Bilbao, dove si sente il battito del mare, il flusso e il riflusso delle sue maree. Qui, in questa cella, arrivato a Parigi, mi mettevo in pace con letture e letture, scelte un poco a caso. A caso, che è la radice della libertà. In queste circostanze individuali di indole religiosa, oso dire, mi avvicinò il signor P. L. Couchoud per chiedermi un quaderno per la sua collana “Christianisme”. Ed è stato egli stesso a suggerirmi, fra altri, questo titolo: L’Agonia del Cristianesimo. È perché conosceva la mia opera Del sentimento tragico della vita.
«Quando il signor Couchoud mi fece questa richiesta stavo leggendo L’Enquête sur la monarchie di monsieur Charles Maurras. Come siamo lontani dal Vangelo! in cui ci viene offerta in scatole carne marcia, proveniente dal mattatoio del defunto conte de Maistre.
«In questo libro così profondamente anticristiano ho letto nel programma del 1903 dell’Action Française, che “un vero nazionalista mette la patria al di sopra di tutto e perciò concepisce, tratta e risolve tutte le questioni politiche secondo il loro rapporto con l’interesse nazionale”. E allora mi sono ricordato del “mio regno non è di questo mondo” e ho pensato che per un vero cristiano – se è possibile un vero cristiano nella vita civile – ogni questione, politica o no, si deve concepire, trattare e risolvere in relazione all’interesse individuale della salvezza eterna, dell’eternità. E se la patria muore? La patria di un cristiano non è di questo mondo. Un cristiano deve sacrificare la patria alla verità.
«La verità! “Ormai non s’inganna più nessuno e la massa umana leggendo negli occhi del pensatore, gli domanda senza ambagi se alla fine la verità non sia triste”, scriveva E. Renan.
«Domenica 30 Novembre di quest’anno di grazia – e di disgrazia – 1924 ho assistito alle funzioni divine della Chiesa greca ortodossa di Santo Stefano che è qui vicino, in rue Georges Bizet, e leggendo sul gran busto dipinto di Cristo che riempie la volta quella sentenza, in greco, che dice: “Io sono la via, la verità e la vita” mi sentii di nuovo in un’isola e pensai – anzi sognai – se la via e la vita non fosse la stessa cosa della verità, se non ci fosse contraddizione fra la verità e la vita, se la verità non uccida e la vita non ci conservi nell’inganno. E questo mi fece pensare all’agonia del cristianesimo, all’agonia del cristianesimo in se stessa e in ognuno di noi. Perché è possibile il cristianesimo fuori di ognuno di noi?
«E qui sta la tragedia. Perché la verità è qualcosa di collettivo, sociale, perfino civile, è vero quello che accettiamo e su cui c’intendiamo. E il cristianesimo è qualcosa d’individuale e di non comunicabile. Ed ecco perché agonizza in ognuno di noi.
«Agonia vuol dir lotta. Agonizza chi vive lottando, lottando contro la vita stessa. E contro la morte. È la giaculatoria di Santa Teresa di Gesù: “Muero porque no muero”.
«Quello che dirò qui, lettore, è la mia agonia, la mia lotta per il cristianesimo, l’agonia del cristianesimo in me, la sua morte e la sua resurrezione in ogni momento della vita intima.
«L’abate Loyson, Jules Théodore Loyson, scriveva a suo fratello, il padre Giacinto, il 24 giugno 1871: “Qui sembra, anche a quelli che ti hanno sostenuto di più e sono senza pregiudizi, che tu scriva troppe lettere, soprattutto nel momento in cui tutte le preoccupazioni sono assorbite dagli interessi generali. Si teme che sia una tattica dei tuoi nemici per trascinarti su questo terreno e poi sconfiggerti». Dunque: nell’ordine religioso e soprattutto nell’ordine della religione cristiana non è possibile trattare i grandi interessi generali religiosi, eterni, universali, senza dare loro un carattere personale, anzi direi addirittura individuale. Ogni cristiano, per mostrare il proprio cristianesimo, la sua agonia per il cristianesimo, deve dire di se stesso ecce christianus, come Pilato ha detto: “Ecco l’Uomo!”. Deve mostrare la sua anima cristiana, la sua anima di cristiano, quella che si è fatta nella sua lotta, nella sua agonia del cristianesimo. E il fine della vita è farsi un’anima, un’anima immortale. Un’anima che sia la propria opera».
(M. De Unamuno, L’agonia del Cristianesimo, tr. it., Milano 1946, pp. 7-8).
Tracce del commento
De Unamuno si può non condividere, e non lo condivido, ma il leggerlo è sempre un’esperienza sconvolgente. Dice qualcosa, e non sono molti quelli che scrivendo affidano qualcosa da dire alla parola. Meno che mai quando si tratta di conflitto, di lotta. Non si è portatori di libertà che a condizione di essere portatori di conflitto, non di pace. I pacificatori lavorano sempre per il boia, anche quando non ne hanno l’aria. Ma il conflitto mi coinvolge, e anche coinvolgendomi corro sempre il rischio di smarrirmi, e allora sorgono domande dolorose alle quali non so come rispondere.
Ottava lezione: 10 giugno 1980
In fondo, c’è da chiedersi che cosa facciamo concretamente quando verifichiamo le dimensioni dello spazio o la durata del tempo. Queste nostre operazioni non sono indagini filosofiche sulle proprietà dello spazio e del tempo, ma sono semplici ricorsi a unità di misura*, fissate a priori e considerate arbitrariamente uguali fra loro. In effetti, che cosa ci dice che la durata di un secondo è identica a quella del secondo successivo? Nient’altro che il meccanismo dei nostro orologio che è stato costruito apposta, e convenzionalmente, in modo che le unità di tempo siano uguali fra loro. Anche della distanza dello spazio non ci rendiamo conto finché non la misuriamo con un oggetto come una barra rigida. Ma questa barra, per essere accettata per buona come unità di misura, deve essere paragonata con altre barre convenzionali. Ma queste considerazioni così ragionevoli, non appena si rifletta più approfonditamente, mettono allo scoperto il fondamento metafisico delle loro premesse: l’operatività è strettamente collegata con la pretesa della logica dell’“a poco a poco”** e quindi con tutta la congerie ben strutturata di concetti come la modificabilità, l’aggiustamento, il compromesso***, il miglioramento, il progresso, ecc. La spiegazione meccanica dei fenomeni o la continuità della natura rappresentano due altri tipi di concetti metafisici che però vennero a suo tempo imposti dalla scienza come altrettanti punti di forza per lottare contro la metafisica. Lo stesso è accaduto con la spiegazione causale dei fenomeni, con la comprensibilità della natura, con la forza dimostrativa della chiarezza e dell’evidenza con il potere non contraddittorio della razionalità****: tutti presupposti metafisici impiegati dalla scienza anche oggi e considerati, almeno in parte, moneta corrente della lotta contro l’irrazionale metafisica a cui vìene ricondotta erroneamente e per imbrogliare le cose ogni logica del “tutto e subito”. Oggi il concetto operativo è diffuso fra i fisici e con questo strumento viene spostato il problema della natura dello spazio (e del tempo). Ma aver fatto ciò per loro non è sufficiente. Poiché sono servitori di un padrone molto pretenzioso devono trasformare il concetto iniziale, quanto si vuole parziale e limitato, non nel senso di un allargamento concreto della sua capacità di trasformare la realtà, ma nel senso astratto e metafisico di interpretare la realtà. In questo modo, il concetto operativo diventa fatto obiettivo e necessario*****, insostituibile e indiscutibile, la prima pietra per una nuova costruzione metafisica.
Testi
* «Chi oggi sceglie il lavoro filosofico come professione, deve rinunciare all’illusione con la quale prendevano precedentemente l’avvio i progetti filosofici: che sia possibile afferrare, in forza del pensiero, lo totalità del reale. Nessuna ragione giustificativa potrebbe ritrovare se stessa in una realtà il cui ordine e la cui forma respingono e reprimono ogni pretesa della ragione: solo polemicamente essa si offre al conoscente come realtà intera, mentre concede solo tra sparsi frammenti e in semplici tracce la speranza di giungere un volta alla vera e giusta realtà. La filosofia, quale essa oggi si spaccia, non serve ad altro che a mascherare la realtà e ad eternizzare il suo stato presente. Prima di ogni risposta tale funzione è già contenuta nella domanda; quella domanda che oggi viene definita radicale, e che invece è la meno radicale di tutte: la domanda vertente senz’altro sull’Essere, così come la formulano espressamente i vari progetti ontologici e così come era anche, a dispetto di tutti i contrasti, alla base dei sistemi idealistici che si ritengono superati. Questa domanda presuppone come possibilità della sua risposta che l’essere sia affatto corrispondente al pensiero e ad esso accessibile e che l’idea dell’Ente sia attingibile domandando. Ma la corrispondenza del pensiero all’essere come totalità è andata distrutta e con ciò è divenuta inattingibile attraverso domanda l’idea stessa dell’ente che potrebbe stare in chiara trasparenza – come una stella – solamente sopra una compatta e armonica realtà, e che forse è impallidita all’occhio umano per tutti i tempi, da quando le immagini della nostra vita sono avallate solo attraverso la storia. L’idea dell’essere è divenuta impotente in filosofia; non più di un vuoto principio formale, la cui arcaica dignità aiuta a rivestire qualsivoglia contenuto. Né la pienezza della realtà, come totalità, si lascia sottoporre all’idea dell’essere che le assegnerebbe il senso; né l’idea dell’essere si lascia costruire con gli elementi della realtà. Tale idea è perduta per la filosofia e con essa è colpita alla base la sua pretesa alla totalità del reale.
«Testimonianze di ciò offre la stessa storia della filosofia. La crisi dell’idealismo equivale ad una crisi della pretesa filosofica alla totalità. La ratio autonoma – questa era la tesi di tutti i sistemi idealistici – doveva essere in grado di sviluppare, a partire da se stessa, il concetto di realtà e tutta la realtà stessa. Questa tesi è andata in fumo. Il neokantismo della scuola di Marburgo, che si sforzò al massimo per guadagnare il contenuto della realtà a partire dalle categorie logiche, ha sì mantenuta la sua sistematica compiutezza, ma per ottenere ciò ha rinunciato ad ogni diritto sulla realtà e si vede confinato in una regione formale, in cui ogni determinazione di contenuto si dilegua nel virtuale punto terminale di un processo senza fine. La posizione contrapposta alla scuola di Marburgo nell’ambito dell’idealismo, la filosofia della vita di Simmel, orientata in senso psicologizzante e irrazionalistico, ha certo mantenuto il contatto con la realtà di cui essa tratta, ma per ottenere ciò ha perduto ogni diritto alla donazione di senso verso l’empiria incalzante e si è rassegnata all’oscuro e non preciso concetto naturale di vivente, che essa invano ha tentato di innalzare alla non chiara, apparente trascendenza del Più-che-vita. La scuola tedesca sudoccidentale di Rickert infine, la quale media i due estremi, ritiene di disporre, con i valori, di unità di misura più concrete e maneggevoli di quelle che i Marburghesi possedevano con le loro idee, e ha sviluppato un metodo che pone 1’empiria in relazione con quei valori, anche se in relazione sempre discutibile. Ma luogo e origine dei valori restano indeterminati; essi se ne stanno da qualche parte tra necessità logica e varietà psicologica; privi di legame vincolante nel reale, senza trasparenza nello spirituale. Una ontologia apparente che regge tanto poco la domanda circa l’origine del valore, quanto poco quella sullo scopo. Al di fuori dei grandi tentativi di soluzione della filosofia idealistica, lavorano le filosofie scientifiche, che fin da principio rinunciano alla domanda idealistica fondamentale relativa alla costituzione della realtà, e che tale domanda lasciano valere ancora solo nell’ambito di una propedeutica delle compiute scienze singole e in particolare delle scienze naturali. Con ciò esse credono di possedere una base sicura nella realtà data: sia sul terreno della connessione consapevolizzante che su quello della ricerca specialistica. Prendendo il nesso con i problemi storici della filosofia, esse hanno dimenticato che le loro constatazioni sono in ogni presupposto indissolubilmente legate con i problemi storici e con la storia dei problemi e che non si lasciano risolvere indipendentemente da quelli.
«In questa situazione si colloca quello sforzo dello spirito filosofico che ci si presenta con il nome di Fenomenologia: lo sforzo di raggiungere, – dopo la caduta del sistema idealistico e con lo strumento dell’idealismo, la ratio autonoma, – un ordinamento dell’essere rigorosamente coerente sui piano soprasoggettivo. La profonda paradossalità di tutti gli intendimenti della fenomenologia consiste proprio nello sforzarsi di raggiungere, per mezzo delle medesime categorie che il pensiero soggettivo postcartesiano ha generato, quella oggettività alla quale questi intendimenti in origine contraddicono».
(Th. W. Adorno, “L’attualità della filosofia”, tr. it., in “Utopia” n. 7-8, luglio-agosto 1973, pp. 3-7).
Tracce del commento
L’ideale del fare è l’assenza di carattere, la disinvoltura e la superficialità sono le molle della modificazione. Non andare mai in profondità, non scendere nei problemi sotto la superficie. Non contano le doti personali e gli strumenti che si posseggono, alla lunga risultano di ostacolo, amare, odiare, tutto deve restare simbolico, limitato, per dare vita al fare che è l’elemento comune del mondo creato a comune immagine e somiglianza. Se non sono insensibile ecco che le offese che il fare mi arreca mi offendono, intaccano il nerbo della mia capacità di aspirare a qualcosa di diverso, mi allineano e mi rendono riconoscente nei riguardi delle catene. L’unica riserva a mia disposizione sono i simulacri della qualità, ai quali faccio l’abitudine e dai quali non riesco più ad allontanarmi.
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** «Non esiste una definizione della filosofia; o per meglio dire, la definizione di essa coincide con l’esplicito resoconto di ciò che essa ha da dire. Tuttavia, alcune osservazioni sulle definizioni da una parte e sulla filosofia dall’altra serviranno forse a chiarire la funzione che la seconda potrebbe avere; ci offriranno inoltre l’occasione di spiegare meglio quel che intendiamo quando usiamo termini astratti come natura e spirito, soggetto e oggetto.
«Le definizioni acquistano pieno significato solo nel corso di un processo storico. Non si può farne uso in modo intelligente se non a patto di ammettere con umiltà che le circonda per così dire un alone di penombra, difficilmente penetrabile alle scorciatoie del linguaggio. Se, per timore di possibili fraintendimenti, eliminiamo gli elementi storici cercando di formulare definizioni che supponiamo atemporali, ci neghiamo il retaggio intellettuale trasmesso alla filosofia da tutta la storia del pensiero e dell’esperienza umana. L’impossibilità di un rifiuto così completo degli elementi storici è dimostrata da un’ammissione cui è costretta la filosofia fisicalista più antistorica del nostro tempo, l’empirismo logico: anche i filosofi di questa scuola fanno posto ad alcuni termini non definibili del linguaggio quotidiano nel loro dizionario di scienza rigorosamente formalizzata, e pagano così tributo alla natura storica del linguaggio.
«La filosofia deve diventare più sensibile alle mute testimonianze del linguaggio, e scandagliare gli strati d’esperienza che si sono sovrapposti a formarlo. Ogni linguaggio reca in sé un significato in cui prendono corpo le forme di pensiero e di fede religiosa radicate nell’evoluzione del popolo che lo parla; vi si conservano insieme la visione del mondo del principe e quella del povero, quella del poeta e quella del contadino; le sue forme e contenuti sono arricchiti o impoveriti dall’uso ingenuo che ne fa ciascuno. Sarebbe però un errore credere che possiamo scoprire il significato essenziale d’una parola solo chiedendolo alla gente che ne fa uso; le inchieste sull’opinione pubblica sarebbero di poco aiuto in questa ricerca. Nell’era della ragione formalizzata, anche le masse contribuiscono al deterioramento delle idee e dei concetti. L’uomo della strada o, come oggi lo si chiama talvolta, l’uomo dei campi e delle fabbriche, sta imparando ad usare le parole in modo quasi tanto schematico e astorico quanto quello degli esperti. Il filosofo non deve seguirne l’esempio; non può parlare dell’uomo, dell’animale, della società, del mondo, dello spirito, del pensiero, così come uno scienziato parla di una sostanza chimica: il filosofo non può parlare per formule.
«Non esistono formule, in filosofia: il compito del filosofo è ancora quello di dare descrizioni adeguate, chiarendo fino in fondo il significato di quei concetti e illuminandone tutte le sfumature e i rapporti con altri concetti. Qui la parola, con tutti i suoi semi-dimenticati strati di significato e di associazioni, è un principio guida; queste implicazioni devono essere rivissute e conservate, per così dire, in idee più illuminate ed universali. Oggi siamo troppo facilmente indotti a evitare la complessità arrendendoci all’illusione che le idee fondamentali saranno chiarite dal progresso della fisica e della tecnica. L’industrialismo esercita la sua pressione anche sui filosofi, inducendoli a concepire il loro lavoro nei termini dei processi adatti a produrre, per esempio, posaterie standardizzate. Alcuni filosofi sembrano pensare che i concetti e le categorie dovrebbero uscire dal loro laboratorio ben rifiniti e lustri, così da apparire nuovi di zecca. “Il definire rinunzia quindi anche da sé a vere e proprie determinazioni di concetto, che essenzialmente sarebbero i princìpi degli oggetti, e si contenta di note, cioè di determinazioni dove l’essenzialità è per l’oggetto stesso indifferente e che hanno anzi soltanto dei contrassegni per una riflessione esterna. Una tale singola, esteriore determinazione è troppo sproporzionata alla totalità concreta e alla natura del suo concetto, per potere essere per se stessa eletta e presa nell’intento che un insieme concreto abbia in lei la sua vera espressione e determinazione”.
«Ogni concetto dev’essere visto come un frammento di una verità più vasta in cui esso trova il suo significato. Il primo compito della filosofia sta per l’appunto nel costruire con questi frammenti la verità.
«Non esistono strade maestre per arrivare alla definizione. L’idea che i concetti filosofici debbano essere incasellati, identificati e usati solo quando rispondono esattamente ai dettami della logica dell’identità è un sintomo della ricerca di certezza, dell’impulso fin troppo umano di ridurre le necessità intellettuali a un formato tascabile. Questo renderebbe impossibile convertire un concetto in un altro senza menomare la sua identità, come facciamo quando parliamo di un uomo, di una nazione, di una classe sociale come se ciascuna di queste cose rimanesse identica a se stessa, nonostante i cambiamenti che le sue qualità e tutti gli aspetti della sua esistenza materiale subiscono nel corso del tempo. Così, lo studio della storia può dimostrare che gli attributi dell’idea di libertà hanno subito un costante processo di trasformazione; i postulati dei partiti politici che combatterono per la libertà possono essere stati contraddittori anche nel corso di una stessa generazione; ma pure è quella identica idea a stabilire tutte le differenze fra i partiti e gli individui che combattono per la libertà e, dall’altra parte, i nemici di essa. Se è vero che dobbiamo sapere che cos’è la libertà per poter stabilire quali partiti hanno combattuto per essa, non è men vero che dobbiamo conoscere il carattere di quei partiti per stabilire che cos’è la libertà. La risposta sta nelle concrete caratteristiche delle epoche storiche. La definizione della libertà è la teoria della storia, e viceversa».
(M. Horkheimer, L’eclisse della ragione, tr. it., Torino 1969, pp. 140-145).
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La tolleranza verso il nemico lascia indifesi. La tolleranza armata è una ipocrisia. La tolleranza verso le idee di repressione e autoritarismo è condiscendenza alla debolezza, propensione alla schiavitù. Gli intellettuali sono potenzialmente schiavi rifuggendo di regola dai mezzi che, al momento opportuno, potrebbero liberarli. Le loro orge di dubbi preparano la futura servitù alle nuove idee. È da sottolineare che non sto parlando di stupidi imbecilli, il che sarebbe solo tragicomico, ma di lucidi predatori, il che è tragico. Per chi abbraccia un divisamento del genere c’è la prospettiva di un tormento morale che viene scambiato, di regola, per impegno sociale. Il fatto è che non c’è modo di frenare lo spasimo della condizione di servitù una volta intrapresa. Il paravento dello humor non serve a niente, è trasparente. Nei migliori, e ce ne sono, l’accesso alla lucidità è contrassegnato da virulenti attacchi critici contro simboli del potere ormai senza significato concreto, basta pensare all’attuale antifascismo. Le catene più sono invisibili e più difficile è spezzarle. Le si preferisce ignorare.
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*** «In generale l’autorità non incoraggia mai il misticismo, e se gli ostacoli alla fine spaventano il viandante e lo inducono a ripiegare sulle vecchie vie, perché le nuove gli sono rese impraticabili – ebbene, tanto meglio, dal punto di vista dell’autorità. Sotto questa categoria deve essere anzitutto sussunta la spiccata avversione delle grandi religioni istituzionalizzate per i mistici laici, ossia per i mistici non istruiti, che l’intensità della loro emozione accende al punto da indurli a credere di poter rinunciare alle vie tradizionali e concesse dall’autorità. Quanto più un candidato all’illuminazione mistica era ignorante e digiuno di cultura teologica, tanto più immediato era il pericolo del suo conflitto con l’autorità. Tutti i manuali di misticismo che sono stati scritti dal punto di vista dell’autorità tradizionale illustrano questo punto con tutta l’ampiezza desiderabile, indipendentemente dal loro contenuto dottrinale specifico. Per esempio nell’ebraismo si cercava di prevenire il possibile confitto con la norma che riservava l’accesso alla via della prassi mistica e della speculazione mistica ai dotti perfettamente a conoscenza del Talmud. In questo senso tutti i libri citavano il monito di Maimonide: “Nessuno è degno di entrare in Paradiso [e cioè nel regno del misticismo], se non ha preso a sazietà pane e carne” ossia il cibo consueto del sobrio dotto rabbinico. Nella realtà storica tali ammonimenti hanno avuto certamente molto meno peso che nella letteratura. La storia delle grandi religioni abbonda di fenomeni di misticismo laico e di movimenti che ne sono derivati. La capacità di penetrazione di questo misticismo laico è testimoniata dalla storia delle sette cristiane, dagli gnostici ai fratelli dei libero spirito fino agli alumbrados spagnoli e alle sette protestanti degli ultimi quattro secoli. È vero, nel cristianesimo tali movimenti restarono effettivamente segnati dal marchio dell’eresia. Nell’ebraismo la situazione è diversa, almeno in parte. Sebbene molti dei grandi cabbalisti soddisfacessero pienamente a quella richiesta di Maimonide, che aveva un senso conservatore, tuttavia non sono mai mancati cabbalisti che avevano scarse conoscenze rabbiniche, o comunque non avevano seguito studi talmudici adeguati. Anzi, il più celebre di tutti i mistici degli ultimi secoli, Israel Ba’al Shem, il fondatore del hasidismo polacco, è addirittura un caso esemplare. Il suo “sapere” nel senso tradizionale era piuttosto limitato, non aveva avuto un maestro in carne e ossa che lo guidasse sulla sua via – la sola guida spirituale di cui egli abbia mai parlato è il profeta Ahijah di Shiloh, con cui aveva un continuo contatto spirituale e visionario. Insomma, fu un mistico laico puro, e tuttavia il movimento da lui inaugurato, dove questo elemento laico riaffiorava continuamente e costituiva almeno uno dei fattori decisivi del suo sviluppo, riuscì a ottenere il pieno riconoscimento dell’autorità tradizionale (sebbene a prezzo di un compromesso). Altri movimenti mistici ebraici in cui l’elemento laico svolgeva parimenti una parte importante, ad esempio il movimento sabbatiano, non riuscirono a ottenere tale riconoscimento e furono spinti a un aperto conflitto con l’autorità rabbinica».
(G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, tr. it., Torino 1980, pp. 34-36).
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I livelli più intimi della parola sono motivo di sospetto per l’occhiuta ignoranza di qualsiasi tipo di potere, per quello religioso sono un pugno in un occhio. La chiave di volta della parola che cerca di dire l’indicibile, e il misticismo, per altre vie, procede nella medesima direzione, è nel lavoro della rammemorazione, non perdere mai di vista il movimento di scavo della saggezza e la sua profonda incidenza sulla parola. Il dire che ne viene fuori descrive, nell’intero arco della architettura rammemorante, quello che non sono capace di cogliere dell’assenza, anche se nell’azione, ora dichiarata assente, ero tutto completo nel mio agire e nella desolazione della cosa. Ciò che mi è negato per sempre è l’accesso diretto al destino, che porterebbe a una profonda trasformazione di me stesso, qualcosa di più impalpabile ancora della saggezza. Il destino non parla, ma il suo silenzio è quello dei confini della cosa, dove neanche il vento nero della notte si fa udire.
Testi
**** «Quest’argomento del consenso universale, di cui ci si serve per provare i princìpi innati, a me sembra una dimostrazione che non ce ne sono: giacché non ce n’è nessuno cui tutta l’umanità dia un assenso universale. A questa stregua non ci sarà alcuna differenza fra le massime dei matematici e i teoremi che ne deducono; tutti dovranno essere ugualmente innati, giacché tutti sono scoperte fatte con l’uso della ragione e verità che una creatura razionale può certamente venire a conoscere se applica correttamente il suo pensiero in questo senso. Sono quindi d’accordo con i sostenitori dei princìpi innati che non c’è conoscenza nello spirito di queste massime generali e autoevidenti finché non giunge all’esercizio della ragione; ma nego che il giungere all’uso della ragione sia il momento preciso in cui si scorgono per la prima volta; e se quello fosse il momento preciso, nego che ciò provi che siano innate».
(J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, tr. it., Torino 1971, pp. 70-71).
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Mettersi al servizio dell’ascoltatore è bruciare incenso sull’altare della chiarezza, come stiamo facendo qua, in queste discussioni che mi rifiuto di chiamare “lezioni”. Comunque, questo è un altro discorso. Quando finalmente il destinatario del messaggio lo coglie, non sempre per la verità lo qualifica subito come banalità che non giustifica il tempo perso per stare ad ascoltarlo e per capirlo. Prendere per mano l’ascoltatore non è solo un errore didascalico, per altro fra i più odiosi, è un errore logico. Pascal, grande in moltissimi casi, ha peccato molto in questa direzione.
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***** «È necessario fondare il concetto di traduzione nello strato più profondo della teoria linguistica, poiché esso è di portata troppo ampia e grave per poter essere trattato in qualunque rispetto a posteriori (come a volte si pensa). Esso acquista il suo pieno significato dal comprendere che ogni lingua superiore (a eccezione della parola di Dio) può essere considerata come traduzione di tutte le altre. Col detto rapporto delle lingue come mezzi (medii) di spessore diverso è data anche la traducibilità reciproca delle lingue. La traduzione è la trasposizione di una lingua nell’altra mediante una continuità di trasformazioni. Spazi continui di trasformazione, non astratte regioni di eguaglianza e di somiglianza, misura la traduzione. La traduzione della lingua delle cose in quella dell’uomo non è solo traduzione del muto nel sonoro, è la traduzione di ciò che non ha nome nel nome. È quindi la traduzione di una lingua imperfetta in una lingua più perfetta, e non può fare a meno di aggiungere qualcosa, vale a dire la conoscenza. Ma l’oggettività di questa traduzione è garantita in Dio. Poiché Dio ha creato le cose, il verbo creatore in esse è il germe del nome che le conosce, come anche Dio alla fine chiamò ogni cosa, dopo che essa fu creata. Ma evidentemente questa denominazione è solo l’espressione dell’identità della parola divina e del nome conoscente in Dio, e non la soluzione anticipata del compito che Dio assegna espressamente all’uomo: quello cioè di nominare le cose. Accogliendo la lingua muta senza nome delle cose e trasponendola in suoni nel nome, l’uomo risolve questo compito. Esso sarebbe insolubile se la lingua nominale dell’uomo e quella innominale delle cose non fossero imparentate in Dio, rilasciate dallo stesso verbo creatore, che è divenuto nelle cose comunicazione della materia in magica affinità, e nell’uomo lingua del conoscere e del nome in spirito beato. Hamman dice: “Tutto ciò che l’uomo originariamente ha udito, ha visto con gli occhi e le sue mani hanno toccato, era parola vivente; poiché Dio era la parola”. Con questa parola in bocca e nel cuore l’origine del linguaggio era così naturale, facile e spontanea come un gioco da bambini».
(W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo; tr. it., in Angelus Novus, Torino 1982, p. 64).
Tracce del commento
La rammemorazione mi porta via con sé, e questo nuovo viaggio è tanto più lungo e significativo quanto più la saggezza svuota di contenuto la conoscenza. La parola tenta di governare l’impatto con la saggezza, cercando di rispondere nel solito modo, cioè dicendo proposte per l’accumulo, non può ammettere che la propria capacità di dire venga posta davanti al bivio dell’assenza di contenuto, niente, dire niente è lo sforzo maggiore per la parola, e per affrontarlo penetra in se stessa, nei livelli conosciuti e sconosciuti di sé. L’accesso alla saggezza non è consentito alla parola, ma un movimento contrario si verifica costantemente quando la rammemorazione comincia a dire. Non ci sono criteri specifici, non ci sono binari sicuri, movimenti che garantiscono il dire, può essere che la lezione della saggezza sia troppo dura e non ammetta titubanze, può darsi che l’abbandono e lo svuotamento della conoscenza sia troppo radicale, ma la parola è là pronta a testimoniare il proprio impegno totale nel dire rammemorativo e nella sua architettura.
Nona lezione: 12 giugno 1980
Lo spazio sociale vede presente l’insieme dei fatti ma dal punto di vista della totalità. Il fatto che in fisica, poniamo, si insista nel considerare lo spazio fisico come qualcosa di diverso è un preconcetto metafisico in quanto, come abbiamo visto, questa diversità non è riscontrabile al di là del concetto di luogo* dove è possibile fare delle misurazioni. Ma, se ben si riflette, anche in quello spazio considerato speciale, e che viene chiamato spazio sociale, è possibile fare misurazioni. Non è certo questa la caratteristica che potrà far differenziare spazi con connotazioni differenti. Il non riuscire a capire ciò comporta una serie di cambiamenti** verso cui si indirizza la scienza con una inclinazione sempre più ripida. La pretesa di alzare compartimenti stagni isola, in una vuota e formale attività, i contributi della ricerca che potrebbero avere frutti per tutti, per gli uomini che soffrono in primo luogo. Invece, la divisione di classe assegna questi frutti esclusivamente ai dominatori***. I ricercatori vengono pagati per questo. La loro schiavitù più o meno dorata corrisponde al mitra nelle mani dei poliziotti e alla spada nelle mani della giustizia dagli occhi cancrenosi. Quelle stesse considerazioni operative che si credeva, da parte della teoria della relatività, di rinserrare nella struttura**** asettica della scienza per comprendere meglio lo spazio, hanno contribuito alla realizzazione di strumenti di morte che la stessa scienza ha messo nelle mani del potere, strumenti che possono realizzare fenomeni tali da rendere lo spazio un problema superato o, almeno, privo di quella caratteristica essenziale che lo fa significativo: la presenza della vita*****. In questo modo, l’azione nello spazio dimostra la sua impossibilità a restare rinchiusa dentro i confini metafisici che la scienza scambia per garanzie contro la metafisica. Travalicando questi confini, quelle azioni si trasformano in potenti forze nelle mani dei dominatori e, successivamente, in strumenti di distruzione e di morte. Cercare di capire in modo attivo che cosa sia lo spazio, e se è possibile parlare di spazio sociale in termini di spazio senz’altro, non può fare a meno di partire da riflessioni di questa portata, è questo il metodo del “tutto e subito”?
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* «Come Marx ed Engels dissero: “I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche, oro-idrografiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli uomini”.
«Dopo la correzione dei più gravi equivoci, in che consiste dunque il rapporto fra psicoanalisi e materialismo storico?
«La psicoanalisi può arricchire la concezione globale del materialismo storico in un punto specifico. Essa può fornire una conoscenza più comprensiva di uno dei fattori operanti nel processo sociale: la natura dell’uomo stesso. Essa pone l’apparato istintuale dell’uomo tra i fattori che modificano il processo sociale, benché vi siano dei limiti anche per questa modificabilità. L’apparato istintuale dell’uomo è una delle condizioni “naturali” che fanno parte della sottostruttura del processo sociale. Ma noi non stiamo parlando dell’apparato istintuale “in generale”, o in una forma biologica primitiva, giacché esso si manifesta solo in forme “specifiche”, che sono state modificate dal processo sociale. La psiche umana – o le forze libidiche che ne stanno alla radice – sono parte della sottostruttura; ma esse non costituiscono l’intera sottostruttura, come vorrebbe un’interpretazione psicologistica. La psiche umana rimane sempre una psiche che è stata modificata dal processo sociale. Il materialismo storico esige una psicologia, cioè una scienza della struttura psichica dell’uomo, e la psicoanalisi è la prima disciplina in grado di fornire una psicologia di cui il materialismo storico possa realmente servirsi.
«Il contributo della psicoanalisi è particolarmente importante per le seguenti ragioni. Marx ed Engels postularono la dipendenza di tutti i processi ideologici dalla sottostruttura economica. Essi videro nelle creazioni intellettuali e psichiche “le basi materiali riflesse nella testa dell’uomo”.
«A molti interrogativi, senza dubbio, il materialismo storico poteva fornire le risposte esatte senza bisogno di presupposti psicologici. Ma solo dove l’ideologia era l’immediata espressione di interessi economici, o dove si stava tentando di stabilire la correlazione tra la sottostruttura economica e la sovrastruttura ideologica. Mancando di una psicologia soddisfacente, Marx ed Engels non potevano spiegare in che modo la base materiale si riflettesse nella mente e nel cuore dell’uomo.
«La psicoanalisi può evidenziare come le ideologie dell’uomo sono prodotte da certi desideri, impulsi istintuali, interessi e bisogni che, in larga misura, si esprimono inconsciamente sotto forma di razionalizzazioni – cioè di ideologie. Può evidenziare che, mentre gli impulsi istintuali si sviluppano da istinti determinati biologicamente, la loro quantità e i loro contenuti dipendono in gran parte dalla condizione socio-economica e di classe dell’individuo. Marx afferma che gli uomini sono i produttori delle loro ideologie; la psicologia analitica sociale può descrivere empiricamente il processo di produzione delle ideologie e dell’interazione dei fattori “naturali” e sociali. Di conseguenza la psicoanalisi può evidenziare come la situazione economica si trasformi in ideologia attraverso gli impulsi istintuali dell’uomo.
«Un punto importante da notare è il fatto che questa interazione fra istinti e ambiente si manifesta nei cambiamenti che intervengono all’interno dell’uomo stesso, proprio come il suo lavoro cambia la natura extra-umana. Qui possiamo soltanto suggerire la direzione generale di questo cambiamento. Esso comprende, come Freud ha ripetutamente affermato, lo sviluppo dell’organizzazione dell’Io umano e il corrispondente sviluppo delle capacità di sublimazione. Così la psicoanalisi ci permette di considerare la formazione delle ideologie come un tipo di “processo produttivo”, come un’altra forma del “metabolismo” esistente fra la natura e l’uomo. L’aspetto caratteristico di tale concezione è che la “natura” è anche dentro l’uomo, non solo fuori di lui.
«La psicoanalisi può anche dirci qualcosa sul modo in cui le ideologie o le idee agiscono sulla società. Essa può evidenziare che lo sviluppo di un’idea dipende essenzialmente dal suo contenuto inconscio, il quale si richiama a determinati impulsi; vale a dire che è la qualità e l’intensità della struttura libidica di una società a determinare l’effetto sociale di una ideologia.
«Se risulta chiaro che la psicologia analitica sociale occupa un posto importante nel materialismo storico, possiamo ora illustrare il modo in cui essa può immediatamente risolvere certe difficoltà che interessano tale dottrina».
(E. Fromm, La crisi della psicoanalisi, tr. it., Milano 1971, pp. 170-175).
Tracce del commento
Non ci sono opere compiute, quale che sia l’intenzione dell’autore, a un certo punto finisce l’inchiostro o la pagina si esaurisce. Forse le sole che si possono definire compiute sono quelle lasciate aperte per un motivo qualsiasi, a esempio la morte dell’autore stesso, in questo caso non c’è stato modo di continuarle. Chi scrive, in fondo, scrive sempre lo stesso libro per tutta la vita. Che poi esca, questo eterno libro, in tanti libri diversi, è questione secondaria, a volte banalmente editoriale, cioè economica.
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** «Occorre rilevare, nello stesso tempo, che il pragmatismo non si schiera per nessuna soluzione particolare.
«Esso è soltanto un metodo. Ma il trionfo universale di questo metodo determinerebbe un cambiamento notevole in quello che ho chiamato temperamento filosofico. Come vediamo il tipico uomo di corte mummificarsi in una repubblica e il tipico prete ultramontano inaridire in un paese protestante, così vedremmo mummificarsi il tipico professore ultrarazionalista. Fra la scienza e la metafisica si avrebbe un preziosissimo avvicinamento: le vedremmo lavorare in collaborazione nel modo più assoluto.
«La parola designa il principio del mondo e il possederla, in certa guisa, equivale a possedere il mondo stesso. “Dio”, “la materia”, “la Ragione”, “l’Assoluto”, “l’Energia”: ecco nomi che sono altrettante soluzioni. Una volta in possesso di questi nomi, non vi rimane più niente da fare: avete raggiunto il termine della vostra ricerca metafisica!
«Seguite, invece, il metodo pragmatista? Allora vi è impossibile considerare queste parole come il termine della vostra ricerca. Bisogna che spogliate ogni parola del valore che può avere nell’uso comune e le facciate adempiere la sua funzione nel campo stesso della vostra esperienza. Allora, più che una soluzione, vediamo in essa il programma per un nuovo lavoro da iniziare; e, più particolarmente, vediamo in essa un orientamento su diversi modi in cui è possibile modificare le realtà esistenti
«Col pragmatismo, dunque, le teorie diventano strumento di ricerca, invece di essere la risposta a un enigma e la fine di ogni ricerca. Esse non ci servono per riposare, ma per andare innanzi; e, se occorre, ci consentono di ricostruire il mondo. Le nostre teorie erano tutte cristallizzate: il pragmatismo ha dato loro un’elasticità che non avrebbero mai avuto e le ha messe in movimento. Poiché esso non ha in sé niente di nuovo, si accorda con un gran numero di antiche correnti filosofiche. Si accorda, a esempio, col nominalismo, richiamandosi sempre ai fatti particolari; con l’utilitarismo, a causa dell’importanza che attribuisce all’aspetto pratico dei problemi; col positivismo, a causa del suo disprezzo per le soluzioni verbali, per i problemi senza interesse, per le astrazioni metafisiche.
«Mentre ha questa affinità con le tendenze anti-intellettualiste, il pragmatismo si leva completamente armato in atteggiamento di lotta contro le pretese e il metodo del razionalismo. Esso, tuttavia, lo ripeto, non si schiera per nessuna soluzione particolare.
«Il pragmatismo non possiede dogmi e tutta la sua dottrina si riduce al suo metodo. Come ha detto molto bene il pragmatista italiano Papini, il pragmatismo occupa fra le nostre teorie la posizione di un corridoio in un albergo. Numerose camere si aprono su questo corridoio. In una possiamo trovare un uomo intento a scrivere un trattato a favore dell’ateismo; in quella vicina uno che prega in ginocchio per ottenere la fede e il coraggio; nella terza un chimico; in quella successiva un filosofo che sta elaborando un sistema secondo il metodo idealista; mentre nella quinta uno che è in grado di dimostrare l’impossibilità della metafisica. Tutte queste persone si servono necessariamente dello stesso corridoio: tutte lo devono attraversare per entrare nella propria stanza e per uscirne.
«Un atteggiamento, un orientamento al di fuori di ogni teoria particolare: ecco, ancora una volta, in che cosa consiste, per ora, il metodo pragmatista. E tale orientamento, tale atteggiamento consiste nel distogliere lo sguardo da tutto ciò che è causa prima, primo principio, categoria, supposta necessità, per volgerlo ai risultati, alle conseguenze, ai fatti».
(W. James, Aspetti essenziali del pragmatismo, tr. it., Lecce 1967, pp. 136-137).
Tracce del commento
Un uomo di fede mette fatica a capire i mistici, la loro fede è molto vicina alla realtà dell’uno che è, e questo spesso li rende intelligibili. La qualità non è adatta a quello che di regola è detto uomo di fede, questo è sempre abbarbicato al fare, alla coerenza che il fare richiede, il contrario dell’avventura nella realtà. Il respiro della fede tiene in piedi la produzione, la cosa non respira, il mistico abita nella qualità trattenendo il respiro, nelle sue parole non c’è segno di quell’ansia che il respiro scandisce inevitabilmente. L’incontro con un imbecille è sempre una sventura, ma può avere i suoi aspetti positivi se uno ha il polso e la freddezza per sperimentare quanto può essere stupida una persona. Un solo esempio. Un imbecille è inalterabile, non decade, non si affloscia, come si dice, muore in piedi. Per un imbecille un incontro con una persona che non appartiene alla sua categoria, non è pericoloso, è come non avvenuto. Che uomo noioso, ecco una sua possibile conclusione.
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*** Il “metodo” che compare nel titolo dell’opera di Gadamer è introdotto dall’autore in un senso fondamentalmente polemico: nella mentalità filosofica moderna, metodo è lo strumento con cui un soggetto, concepito originariamente come contrapposto al suo “oggetto”, si assicura la possibilità di disporre di quest’ultimo. La nozione di metodo, che anche le cosiddette scienze dello spirito hanno preso a modello quando hanno cominciato a riflettere sui propri limiti e sulle proprie possibilità, è improntata alle esperienze che il pensiero scientifico ha fatto a partire dal XVII secolo. Inscindibili dal concetto di metodo così come la tradizione europea lo è venuto costituendo sono le nozioni di obiettività e di dimostrabilità, che escludono, almeno tendenzialmente, ogni interesse e intervento del soggetto, cioè in definitiva ogni carattere “eventuale” della verítà che si tratta di raggiungere.
«Il primo passo da fare per mettere in chiaro l’insostenibilità di questa nozione di metodo o almeno i suoi limiti è riconoscere quelle esperienze di verità che pure si verificano di là dei confini che esso stabilisce, cioè quelle che potremmo chiamare esperienze “extrametodiche” della verità. Non si tratta di un problema che si introduca dall’esterno, giacché anzi, a partire dalla seconda metà dell’ottocento, una larga corrente del pensiero europeo è stata proprio occupata nello sforzo di applicare la nozione di metodo elaborata dalle scienze della natura a quelle che da allora si chiamano moral sciences o Geisteswissenschaften, le scienze morali o scienze dello spirito. Il risultato di questi sforzi, però, è stato finora solo quello di trasferire in modo meccanico la nozione di metodo propria delle scienze della natura, con il suo ideale di dimostrabilità e obiettività, al campo delle scienze dello spirito, con la conseguenza di perdere di vista la specifica verità che caratterizza questi tipi di conoscenza. In generale, come si vede, secondo Gadamer dalle aporie insolubili in cui si avvolge lo storicismo ottonovecentesco, la nozione di metodo elaborata dalle scienze della natura non è in grado di comprendere la verità delle scienze dello spirito; non solo, però, il problema rimane irrisolto, ma questi tipi di conoscenza vengono più o meno esplicitamente esclusi dall’ambito delle possibili esperienze di verità.
«È ciò che si vede, prima e più radicalmente che nella riflessione sulla storia, nel modo di concepire e teorizzare l’esperienza estetica. Parallelamente all’affermarsi di un ideale “scientifico” della conoscenza, modellato sul metodo delle scienze naturali, si afferma nella coscienza europea una mentalità estetica, che tende a relegar l’arte in una zona dello spirito che non ha nulla da fare con il vero e il falso, il bene e il male, ecc. “Il dominio del modello conoscitivo delle scienze naturali conduce a screditare ogni possibilità di conoscere che si collochi fuori di questo nuovo ambito metodologico”: questa è la radice del costituirsi di un dominio dell’esperienza estetica accanto al dominio della realtà, senza nessun rapporto con quest’ultimo. In particolare, questa costituzione di un regno del bello come mondo di apparenza accanto al mondo reale, che è iniziata e fondata dalla critica kantiana, si compie in modo decisivo in Schiller. Da allora in poi, l’estetica dell’Ottocento (salvo, ovviamente, Hegel) e del Novecento ha continuato per lo più a ragionare sull’arte in termini di contrapposizione tra apparenza e realtà. È questa la base su cui si costituisce quella che Gadamer chiama la “coscienza estetica”, che prende il posto della nozione kantiana e poi romantica del genio (nozione che ha ancora una risonanza ontologica) come principio costitutivo del mondo del bello e dell’arte.
«La coscienza estetica ha in Gadamer i caratteri di quella che Nietzsche, in un altro contesto, chiama la “malattia storica” (e il nesso è ben più profondo che un puro richiamo analogico, come è chiaro dal legame che Gadamer stabilisce fra la critica della coscienza estetica e la critica della coscienza storica), e dell’esteticità di cui Kierkegaard parla in senso morale, come stadio dell’esistenza. Il mondo della bella apparenza non dispone di alcun principio ontologico che lo definisca e lo delimiti, come poteva essere, prima di Kant, il principio della mimesis (che poneva un ben preciso rapporto tra l’opera e il reale) o, in Kant e nei romantici, il genio come talento innato attraverso cui la natura fonda la legalità dell’opera d’arte. Per la coscienza estetica, il principio che costituisce e regge il mondo della bellezza non è altro che il riconoscimento, da parte della coscienza stessa, della qualità estetica; ma tale qualità, qui, non è altro che la separazione dell’oggetto da ogni nesso reale, separazione che si annuncia già nella ateoreticità e apraticità del giudizio estetico kantiano. L’esteticità, concepita in questi termini, è necessariamente un corrispettivo della “coscienza estetica”; essa infatti sussiste solo in quanto prodotto di un atto di “dífferenziazione estetica” che colloca l’oggetto (di per sé sempre radicato nella storia e in rapporti concreti: funzione pratica, significato simbolico, allegorico, celebrativo, culturale, ecc.) nella pura sfera della qualità estetica, la quale consiste appunto nel suo costituirsi in mondo autonomo accanto al mondo reale e senza rapporti con questo.
«D’altra parte, la coscienza estetica – che in ciò riproduce esplicitamente i caratteri della mentalità storica descritta da Nietzsche nella seconda Considerazione inattuale – non è neanche definibile come un gusto particolare, che abbia princìpi precisi di approvazione e di rifiuto: anche questo sarebbe ancora un modo di radicare il mondo del bello nel mondo reale; principio del mondo della bella apparenza sarebbe il gusto storico determinato di una certa epoca e di una certa società elevato a canone universale. La coscienza estetica non opera delle scelte; si limita a liberare l’oggetto della sua considerazione da tutto ciò che lo lega al mondo reale come mondo del sapere e del decidere, trasferendolo nella sfera della pura apparenza. In questa sfera l’oggetto entra non in quanto fornito di questa o quella qualità positiva, ma solo in quanto, negativamente, è suscettibile di una fruizione ateoretica e apratica.
«L’istituzione sociale che corrisponde alla coscienza estetica e che la incarna nel modo più pieno è il museo. Il museo è ben diverso da quello che erano in altri tempi le raccolte principesche o private di opere d’arte, che si organizzavano sempre in base a precise scelte di gusto. Il museo è piuttosto una “raccolta di raccolte”, che anche nel criterio storico-cronologico del suo ordinamento svela la mistificata universalità della coscienza estetica.
«In questo orizzonte, l’esperienza estetica interpreta (falsamente, come vedremo) sé stessa senza alcun riferimento alla verità: l’incontro con l’opera d’arte sembra essere una sorta di evento onirico, che slega l’osservatore da ogni appartenenza al proprio mondo, e che quindi presenta il carattere di discontinuità proprio della vita estetica kierkegaardiana, il cui emblema è la figura di Don Giovanni. Il tratto saliente di Don Giovanni (a cui, come si sa, Kierkegaard contrappone, in Aut-Aut, la figura del marito) è di non avere autentica storia. Il lettore italiano può trovare un esempio di questa astoricità della sfera estetica, questa volta intesa proprio come mondo dell’arte, nel rifiuto crociano della nozione di storia dell’arte.
«La coscienza estetica, come si è accennato, non è però che il risultato dell’erronea interpretazione che l’esperienza estetica dà di sé alla luce del pregiudizio moderno che riserva la conoscenza della verità alle scienze e al loro metodo. Si tratta quindi di interrogare l’esperienza estetica in base a ciò che essa davvero è, anche di là dal suo modo di autointerpretarsi. Questa via, del resto, è già stata aperta in modo decisivo dalla riflessione fenomenologica della prima metà del Novecento, che ha giustamente fatto piazza pulita dî tutta una serie di luoghi comuni della psicologia e della gnoseologia ottocentesca: Tutti i concetti come imitazione, apparenza, “derealizzazione”, illusione, incanto, sogno, presuppongono il rapporto con un essere autentico da cui l’essere estetico dovrebbe venir distinto. Ora, però, il ritorno fenomenologico sull’esperienza come tale insegna che questa non pensa per nulla in base a tale relazione, ma anzi vede ciò che esperisce come verità autentica. L’esperienza estetica non termina in un disinganno, come accade invece nel caso del sogno e dell’illusione. Essa è e rimane fondamentalmente certa della verità del proprio “oggetto”.
«È da questa certezza che, fenomenologicamente, bisogna riprendere le mosse per riconoscere l’esperienza di verità che è propria dell’arte e quindi per mettere in discussione l’idea di conoscenza e di metodo che sta alla base della “coscienza estetica”. Dire che l’arte è incontro con la verità equivale a dire che “nell’esperienza dell’arte vediamo attuarsi un’esperienza che modifica realmente colui che la fa”: se l’incontro con l’opera d’arte è capace di segnare così profondamente la vita di una persona, rappresentando per esempio l’inizio di un rinnovamento nel suo modo di vedere il mondo e di atteggiarsi in esso, non possiamo liquidare l’opera mediante il concetto di incanto, sogno, apparenza. Il fatto che il soggetto si modifichi realmente nell’incontro con l’opera toglie a quest’ultima la sua falsa e mistificata “autonomia”, la sua pretesa purezza. In quanto in tal anodo viene ricondotta al contesto reale, alla storia del singolo e del mondo, l’opera ricupera una cormessione con la verità. Inutile dire che qui – e su ciò torneremo – non è solo la nozione di bellezza e di esperienza estetica che si modifica, ma anche quella di verità (come obiettività e dimostrabilità) a cui essa è legata. Per ora importa segnalare che gioca anche qui in Gadamer l’eredità hegeliana: la rivendicazione della valenza di verità dell’opera d’arte e dell’esperienza estetica è fatta in nome dell’esperienza; ma l’esperienza non è intesa in un senso empiristico, bensì nel senso che il termine Erfahrung ha nella hegeliana Fenomenologia dello spirito: è una vera esperienza (e un’esperienza di verità) quella che modifica effettivamente chi la fa (e insieme anche, sia per Hegel che, come vedremo, per Gadamer, l’oggetto).
«Se dunque muoviamo dalla constatazione che l’esperienza estetica modifica realmente chi la fa, che cioè l’incontro con l’opera d’arte è per lo più e nella sua essenza ben altro che il perdersi provvisoriamente in un mondo di sogno, ma piuttosto un effettivo raggiustamento di tutto il proprio modo di stare al mondo, siamo in grado di vedere che “l’esperienza estetica è un modo dell’autocomprensione”.
«Con ciò non si è fatto che il primo passo sulla via del recupero della valenza di verità dell’esperienza estetica. Nello sforzo di definire positivamente questa verità dell’opera d’arte (sforzo che presuppone e sviluppa un concetto di verità sostanzialmente diverso da quello delle scienze della natura e del loro metodo) si ritrova anche ciò che di valido era contenuto nelle istanze fatte valere dalla coscienza estetica. Per esempio, la certezza di verità che caratterizza l’esperienza estetica sta al di là di ogni confronto puntuale con la realtà. Ma questo, che la coscienza estetica interpretava come “autonomia” del mondo della bella apparenza segregato da ogni rapporto col “reale”, non è altro che la stessa verità dell’arte. Davanti all’opera d’arte si prova la stessa gioia della conoscenza che si prova davanti alla “realtà”: solo perché è essa stessa realtà, l’opera non si lascia confrontare con il reale.
«Tuttavia, nella erronea interpretazione che la coscienza estetica dà della propria esperienza, c’è anche un altro elemento che si tratta di recuperare in una interpretazione corretta. Quei caratteri (che potremmo riunire sotto il termine hegelíano di idealizzazione) per cui l’opera si distingue dal mondo quotidiano e appare come irreale, cioè la perfezione della forma, la sua conchiusività e definitezza, lungi dal rappresentare un elemento di irrealtà sono il segno che, nell’opera, la realtà si presenta con una verità che non possiede nell’esperienza comune. Nella nozione di “trasmutazione in forma”, Gadamer riprende e interpreta in senso hegeliano la classica nozione di mimesis. Trasmutazione in forma è trasferimento del reale sul piano della verità: l’opera è più vera della realtà proprio in quanto è Gebilde, forma-immagine, struttura compiuta e conchiusa, potremmo anche dire supremamente intelligibile in quanto liberata dalla casualità e dall’indefinitezza che caratterizza l’esperienza quotidiana. “La trasmutazione è una trasmutazione nella verità. Non è una specie di incantesimo magico che aspetta sempre la parola che ce ne liberi facendoci ritornare al mondo di prima; è invece essa stessa una tale liberazione e un ritrovamento del vero essere. Nella rappresentazione... viene in luce ciò che è. In essa è tratto in luce ciò che altrimenti sempre si sottrae e si cela”.
«Non è il caso di ripercorrere qui tutta la sottilissima analisi che Gadamer conduce dei concetti di rappresentazione e di gioco (Spielen, con tutte le risonanze che il termine ha in tedesco). Sarà bene però richiamare l’attenzione su un elemento che rimane decisivo anche nello sviluppo ulteriore del discorso, in base al quale Gadamer passerà dall’analisi critica della coscienza estetica al più vasto problema della coscienza storica e dell’ermeneutica. Che nella rappresentazione venga in luce ciò che è, non significa soltanto che la rappresentazione artistica (ma anche la messa in scena o comunque l’esecuzione di un’opera già formata) dice la verità sulle cose di cui parla, che prende dal reale trasmutandole in forma. Al concetto di rappresentazione e a quello di gioco Gadamer lega strettamente la nozione di Selbstdarstellung, autopresentazione o autorappresentazione. Che l’arte sia una forma di conoscenza non solo per chi la contempla, ma anche per l’esecutore e per l’artista stesso, significa che in essa c’è ben più di quanto il soggetto ci mette. Anche per l’artista l’opera è un conoscere, l’incontro con una verità. Nella rappresentazione, a qualunque livello, viene in luce, cioè si mostra, ciò che è. La rappresentazione è anzitutto un evento di cui l’artista, l’esecutore, l’interprete-lettore non sono autori, ma partecipi. Solo così il concetto di mimesis si libera di quelle implicanze didascaliche o moralistiche che avevano dato luogo a dottrine come quella del miscere utile dulci, nelle quali l’esperienza conoscitiva dell’arte non riusciva ad essere autentica per il lettore proprio in quanto non lo era anzitutto per l’autore stesso, considerato demiurgicamente (e soggettivisticamente) come colui che dispone del vero e nell’opera si limita a ornarlo perché sia meglio recepito e assimilato.
«Su questa base possono essere avviati a soluzione i problemi che si pongono appena si riconosca che l’incontro con l’opera è un’esperienza di verità.
«Tolta l’opera dall’isolamento in cui l’aveva posta la coscienza estetica viene in chiaro che “incontriamo l’opera nel mondo e un mondo nell’opera”; nasce quindi il compito di una integrazione ermeneutica di questi mondi diversi. Se la rappresentazione non è riconosciuta veramente come evento che modifica l’essere del rappresentato, ma solo come riproduzione o copia, l’esecuzione dell’opera d’arte diventa un problema insolubile: che si può vedere emblematicamente riassunto nella impossibilità di istituire un confronto tra l’esecuzione e l’opera (dove si fa visibile, infatti, l’opera se non nell’esecuzione?); o nell’aporia dell’impostazione schleiermacheriana dell’ermeneutica che assegna all’interprete il compito di ricostruire la fisionomia originaria dell’opera e il mondo passato da cui essa viene. Ora, mentre è vero che una certa ricostruzione del mondo originario dell’opera è indispensabile alla sua comprensione, legare però così strettamente a tale ricostruzione il significato stesso dell’opera ha il risultato di rendere senz’altro impossibile l’interpretazione. “Dal punto di vista della storicità del nostro essere, la ricostruzione delle condizioni originarie, come ogni altro tipo di restaurazione, si rivela un’impresa destinata allo scacco. La vita che viene restaurata, recuperata dal suo stato di estraneità, non è più la vita originaria”».
(G. Vattimo, Introduzione a H. G. Gadamer, Verità e metodo, Milano 1972, pp. V-XII).
Tracce del commento
La nozione del dire rammemorativo è relazionata alla particolare condizione in cui si viene a trovare la saggezza, una volta intrapresa la strada della estraneità nei riguardi della conoscenza. La saggezza tratta la conoscenza come l’altro, ma si tratta di un’alterità del tutto diversa, che non si può paragonare con la cosa. A questo punto l’alterità nei riguardi dell’agire, di cui la rammemorazione deve pure occuparsi, è contrassegnata da una serie di preparativi che lavorano sulla conoscenza. Quello che risulta difficile in questo nuovo rapporto con due generi di assenza differenti, è la pari mancanza di utilità. La parola dice senza aspettarsi una risposta, la saggezza svuota la conoscenza senza aspettarsi un motivo che la giustifichi. Racchiuso nel bozzolo utile della conoscenza sono incapace di fare parlare la parola, se lo faccio, mostrando agli altri la storia della mia vita, divento un pagliaccio che ha concluso la sua esibizione. Più forte è il mio legame con l’assolutamente altro, nell’azione, e più devo restare lontano dal proporre esempio o comparazione, un pedagogo avanti con gli anni che parla e mostra qualcosa che quasi certamente avrebbe difficoltà a riprendere in mano.
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**** «La dialettica del fondamento intersoggettivo, dischiudendo la possibilità stessa della fondazione delle scienze umane, partecipa loro l’istanza relativistica dello storicismo, senza gettarle in braccio ad un irrazionalismo, che ne sarebbe certo la morte poiché, erigere in principio il fatto che i fenomeni culturali debbano assomigliare a una rapsodia di immagini irrelate, prive di coerenza e struttura, non riconducibili a interpretazioni ragionevoli e funzionali, equivale a dichiarare che dell’uomo e della sua condotta non esiste scienza possibile».
(R. Cantoni, Illusione e pregiudizio, Milano 1967, pp. 60-61).
Tracce del commento
Non credo sia possibile imparare a sentire me stesso, il mio proprio corpo. So che chi possiede certe tecniche riesce a sentire una parte e perfino a gestire diversamente muscoli autonomi come il cuore, ma io parlo del corpo nel suo insieme. Di questo ho cognizione, ferma ai vent’anni, ma non ho conoscenza, posso sviluppare conoscenze varie, ma non avvicinarmi a coglierlo nella sua interezza. La mancanza della qualità me lo taglia in due tronconi inaccessibili reciprocamente. Niente gioia completamente libera, niente afflizione che sia degna di questo nome, fino in fondo, dolore cieco fino ai confini dell’annientamento. Così monconi strappati con violenza, qua e là, sottoprodotti da cui dedurre l’indeducibile, furori provvidenziali e amarezze di seconda mano. La gioia, anch’essa, sembra essere una consolazione caritatevole, piovuta dal cielo, come manna occasionale, colta per uno strano scherzo del caso, non aspettata e, in un certo senso, perfino meritata. Preferirei l’inclemenza del tiranno alla parsimoniosa accondiscendenza dello sbirro democratico che prima di alzare la mano armata dà un ultimo sguardo al comma opportuno della legge che mi riguarda e ci riguarda.
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***** «La scientificità richiesta... è una scientificità nuova, non è di tipo matematico e non è una scientificità logica nel senso tradizionale; non ha di fronte a sé una matematica già conclusa, una logica, una logistica, norme già compiutamente definite, perché queste sono scienze obiettive proprio nel senso che si è rivelato problematico e, ora che sono diventate un problema, non possono fungere da presupposti usabili come premesse. Dapprima, fintanto che ci si limita a definire il contrasto e la contrapposizione dei due mondi, potrebbe sembrare che non occorra affatto qualcosa di diverso o qualcosa di più della scienza obiettiva, allo stesso modo che la vita pratica quotidiana comprende una serie di considerazioni razionali, sia particolari che generali, pur non avendo bisogno della scienza. E infatti è proprio così: abbiamo fatti comunemente familiari, tacitamente accolti, fatti fondamentali non ancora formulati come tali e non ancora diventati peculiari di pensiero – il fatto cioè che esiste un duplice ordine di verità: da un lato la verità pratico-quotidiana della situazione, che è sì relativa, ma che, come già abbiamo rilevato, è proprio quella che la prassi, nei suoi progetti, persegue e adopera costantemente. Dall’altra parte, le verità scientifiche; la loro fondazione riconduce alle verità di situazione, ma in modo tale che il metodo scientifico non ne è affatto intaccato nel suo senso peculiare perché esso vuole e deve usare proprio queste verità.
«Così – se ci si lascia tagliare dall’inavvertita ingenuità della vita, anche nel passaggio dalla prassi extra-logica del pensiero a quella logica, a quella scientifico-obiettiva – potrebbe sembrare che una tematizzazione specifica del “mondo-della-vita” sia semplicemente uno scrupolo intellettualistico determinato dalla mania, propria dell’epoca moderna, di teorizzare tutto. Se può nascere un sospetto di questo tipo, è tuttavia ormai evidente, almeno in ugual misura, che quest’ingenuità non può essere giustificata per il fatto che nel corso dell’indagine che cerca di penetrarla insorgono incomprensibili paradossi; il paradosso, per esempio, di un sedicente superamento delle relatività meramente soggettive attraverso la teoria logico-obiettiva, una teoria che, in quanto prassi teoretica dell’uomo, rientra nella sfera meramente soggettiva-relativa e insieme deve trovare in essa le proprie premesse e le proprie fonti di evidenza. Già in base a questo paradosso è noto che tutti i problemi concernenti la verità e l’essere, tutti i metodi pensabili, tutte le ipotesi, tutti i risultati – sia che investano il mondo dell’esperienza, sia che investano mondi metafisici sopra-sensibili – possono attingere la loro chiarezza, il loro senso evidente o l’evidenza della loro contraddittorietà soltanto attraverso questa presunta ipertrofia intellettualistica. E così anche tutte le domande ultime attorno al senso proprio o al controsenso di tutto l’attuale affannarsi, chiassoso quanto fuorviante, attorno alla “risorta metafisica”.
«Attraverso quest’ultima serie di considerazioni abbiamo chiarito l’importanza, il significato universale e specifico del problema del mondo-della-vita in una intuizione anticipatrice. Di fronte a esso, il problema del mondo “obiettivamente vero”, e quindi della scienza logico-obiettiva – per quanto torni a porsi continuamente, e con buoni motivi – diventa un problema di interesse secondario e particolare. Anche se le operazioni della scienza obiettiva moderna continuano a rimanere incomprensibili, essa rimane per il mondo-della-vita una struttura di validità sorta da attività specifiche, e rientra nella sua stessa concrezione. In ogni modo, per chiarire la scienza obiettiva, e tutte le altre attività umane, dev’essere dapprima considerato il concreto mondo-della-vita, e dev’essere considerato nell’universalità realmente concreta in cui esso, in quanto attualità e in quanto orizzonte, include in sé tutti i complessi di validità raggiunti dagli uomini rispetto al mondo della loro vita in comune, e in cui, in definitiva, li riferisce nel loro complesso a un nucleo del mondo che dev’essere dipanato per via astrattiva: il mondo delle dirette esperienze intersoggettive. Certo noi non sappiamo ancora come il mondo-della-vita possa diventare un tema del tutto indipendente, completamente autonomo, come debba poter rendere possibili gli enunciati scientifici, i quali, in quanto tali, anche se in modo diverso da quello delle nostre scienze, devono avere una loro “obiettività”, una validità necessaria puramente metodica, che noi, come chiunque altro, possiamo verificare appunto metodicamente. Qui cominciamo in senso assoluto, non possediamo alcuna logica che possa ritenersi normativa, non possiamo interrogare che noi stessi, dobbiamo approfondire il senso ancora nascosto del compito che ci siamo proposti, dobbiamo provvedere con estrema cura a escludere qualsiasi pregiudizio, a mantenerci esenti da intromissioni estranee (e su questa via abbiamo già fatto qualche passo importante); e perciò da queste precauzioni, come in qualsiasi impresa che si attui per la prima volta, deve nascere il nostro metodo. Chiarire il senso dei nostri compiti significa raggiungere l’evidenza stessa del fine in quanto fine, e per essenza rientrano in questa evidenza anche le possibili “vie” che portano ad essa. La precisione e la difficoltà delle considerazioni preliminari che ancora dovremo compiere si giustificheranno da sé, non solo per l’importanza del fine, ma anche per la essenziale novità e perigliosità dei pensieri che cercheranno di venire a capo di quest’impresa.
«Così il problema che supponevamo investire soltanto i fondamenti delle scienze obiettive, e che ritenevamo un problema parziale nel problema universale della scienza obiettiva, ha finito di fatto per dimostrarsi (come già avevamo preannunciato) il vero e proprio problema, il problema più specificamente universale. Si può anche dire: esso si presenta dapprima come il problema del rapporto tra pensiero scientifico-obiettivo e intuizione; abbiamo cioè, da un lato, il pensiero logico in quanto pensiero attorno a problemi logici; per es. il pensiero fisico attorno alle teorie fisiche, oppure il pensiero meramente matematico attorno alla sede della matematica in quanto sistema dottrinale, in quanto teoria. Dall’altro lato abbiamo un intuire e un intuito che rientrano nel mondo-della-vita prima di qualsiasi teoria. Proprio qui sorge l’apparenza di un pensiero puro il quale, indifferente, in quanto puro, all’intuizione, ha già una propria verità evidente, addirittura una verità del tipo di quella che è propria del mondo; un’apparenza che rende problematici il senso, la possibilità e la “portata” della scienza obiettiva. Siamo nell’estraneità reciproca e assoluta: intuizione e pensiero. Perciò, in generale, la “teoria della conoscenza” rimane una teoria della scienza, fondata su una duplicità correlativa (e la scienza rimane costantemente quella definita dal concetto comune di scienza: la scienza obiettiva). Ma mentre il titolo vago e vuoto di intuizione, invece che qualcosa di trascurabile e di svalutato rispetto all’alto valore della logica che si supponeva contenere l’autentica verità, è diventato il problema del mondo-della-vita, mentre, attraverso una seria penetrazione, l’importanza di questa tematica si è rivelata poderosa, si delinea anche un grande mutamento nella “teoria della conoscenza”, nella teoria della scienza; infine la scienza perde la sua autonomia sia come problema sia come complesso di operazioni, e diventa un problema meramente parziale.
«Ciò che s’è detto concerne naturalmente anche la logica in quanto dottrina normativa a priori di ogni “sfera logica” – del logico nel senso dominante, nel senso cioè per cui la logica è una logica dell’obiettività rigorosa, delle verità logico-obiettive. Non si è mai pensato di risalire alle connessioni predicative e alle verità che precedono la scienza, e alla “logica” che è normativa entro questa sfera delle relatività; non si è mai pensato alla possibilità di indagare anche i principi normativi a priori di questa logica che si adegua descrittivamente al mondo-della-vita. Anzi si ammette senz’altro che la logica obiettiva tradizionale possa valere quale norma a priori anche in questa sfera soggettivo-relativa di verità».
(E. Husserl, Ricerche logiche, tr. it., Milano 1968, pp. 160-163)
Tracce del commento
Chi si accinge a disputare l’accesso all’azione non ammette suggerimenti o correzioni. Per questo motivo è impossibile scrivere un manuale della qualità. I trattati di estetica sono esilaranti passatempi, ci sono passato anch’io. Quello che colgo grazie al mio personale coinvolgimento non posso condividerlo con qualcuno, se non dopo averlo ridotto in briciole. La dolcezza di certi gesti di cui sono capaci gli orientali mi sembra l’unico modo di rifiutare, con radicalità, ogni collaborazione del genere.
Decima lezione: 13 giugno 1980
Capiamo meglio adesso come lo spazio sociale possa anche essere inteso come un qualche recipiente o, se si preferisce, un qualche luogo in cui è contenuto* l’insieme dei fatti sociali; ma, nello stesso modo, ci rendiamo conto che questo luogo ha problemi di delimitazioni. Ora, un luogo provvisto di queste contraddizioni, al limite diventa per forza di cose un non-luogo** o, per lo meno, un luogo con caratteristiche particolari. Che poi queste caratteristiche particolari siano tali esclusivamente per una nostra limitazione, che ci porta a standardizzare i confini dei luoghi fisici in delimitazioni precise, mentre anche in questo caso andrebbero avanzate le ipotesi di “non-luogo”, questo è un problema che mi riconforta nella tesi dell’assoluta ipotesi modellistica nella concezione dello spazio e del tempo. È proprio sulla comune impossibilità di delimitazione che si identificano gli spazi pensabili (fisico e sociale ai primi due posti). E in questo senso non esistono fatti sociali*** che restano tali per sempre, come non esistono fatti fisici che non possono diventare sociali.
Nello spazio sociale c’è quindi una caratteristica precisa, se si preferisce un punto di cominciamento, ci siamo noi con la nostra azione e, fin dall’inizio del nostro rapporto col mondo, ci siamo noi con la nostra capacità intuitiva, la quale, fra le altre cose, ha la possibilità di intuire anche il nostro stesso essere in una situazione di spazialità, cioè in una situazione interrelazionale****.
Testi
* «Come la moda spirituale, anche questa è del tutto indipendente da tutto ciò che ha avuto valore di sacro in epoche diverse e presso diversi popoli, considerato in cose, potenze o persone reali (dalle rappresentazioni feticiste al più puro concetto di Dio). Tutto ciò riguarda la consistenza dei “beni positivi” in questa sfera di valori, e non la dottrina apriorica dei valori e della loro gerarchia. Piuttosto è da rilevare che, con i valori del sacro, tutti gli altri sono dati simultaneaniente come loro simboli. Stati corrispondenti a questa serie di valori sono i sentimenti della beatitudine e della disperazione, indipendenti dalla felicità e dall’infelicità, e idonei a darci, per così dire, la misura del “vicino” o “lontano” del sacro nella vita vissuta. Specifiche reazioni a questa modalità sono la fede, l’incredulità, la venerazione, l’adorazione e simili atteggiamenti. L’atto, poi, nel quale apprendiamo originariamente i valori del sacro, è l’atto di una determinata maniera d’amore (che precede e determina, in quanto le dirige, tutte le rappresentazioni ed i concetti degli oggetti sacri), e a cui è essenziale di rivolgersi a persone, cioè a qualcosa di esistente in forma personale, restando indifferenti sia il contenuto da attribuirvi, sia il particolare concetto che si possa averne. Il valore genuino, cioè non consecutivo, nella sfera del sacro è dunque essenzialmente un valore personale. Valori consecutivi invece sono rappresentati da cose e forme di adorazione, date in parte nel culto, in parte nei sacramenti; e sono veri valori-siniboli, non già semplici simboli di valori. Non possiamo descrivere qui, dove ci limitiamo alle cose elementarissime, in che modo questi valori (consecutivi) fondamentali si intrecciano con le idee di persona e di società e diano luogo a tipi personali, come il santo, il genio, lo spirito conduttore, l’artista del godimento, e alle rispettive professioni tecniche (esempio il prete), nonché a tipi di collettività, come la comunità d’amore (e la sua forma tecnica, la Chiesa), la comunità giuridica, quella culturale e quella vitale (e la loro forma tecnica, lo Stato) e infine le semplici forme della cosiddetta società. Tutte le nominate modalità di valore sono ordinate gerarchicamente a priori, e questa gerarchia si riflette sulle qualità appartenenti alle singole modalità; ugualmente essa vale per i “beni” corrispondenti ai diversi valori, perché vale per i valori dei beni».
(M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, tr. it., Milano 1943, p. 107).
Tracce del commento
Mi pongo spesso domande che non hanno un contenuto preciso, ma non mi aspetto risposte. Qualche volta, all’ombra di un albero, mi sono chiesto il perché dell’ombra, rifiutandomi di accettarla in termini di efficacia. Eppure molti lucidi analisti si fermano a questo livello quando, ponendosi domande non dissimili, si dicono certi delle risposte. Se smetto di possedere, se mi impongo di non stringere al petto le mie modificazioni, mi trovo sbalestrato, navigo in un mare sconosciuto e non c’è terra in vista. Combatto con incubi incerti, che nemmeno riescono ad assolvere al loro compito di farmi paura. Il rumore dell’autobus che sento in lontananza ha un suono e una consistenza funebri. Dovrei racchiudermi in me stesso e non pormi domande, diventare un blocco monolitico incapace di interessi, una balla di lenzuoli sporchi, sigillata e dimenticata qui dentro da anni, superiore a qualsiasi preoccupazione. Il carcere ti sollecita a queste chiusure, ogni concessione è uno sminuire le tue forze, le tue resistenze. Quando ciò accade uno nemmeno se ne accorge.
Testi
** «Se, poi, per persona s’intende la personalità pratica dell’artista, la filosofia dello spirito è pronta ad avvertire che tale personalità si riduce tutta all’opera morale, la quale con l’opera d’arte non ha nulla a che fare, perché mentre quella rappresenta l’azione effettivamente compiuta dall’artista in quanto uomo, questa si limita ad esprimerne i sogni e le aspirazioni. “È necessario tener gelosamente distinte la personalità poetica e la pratica, e le due diverse vite dell’uomo poeta, ed escludere rigorocamente ogni deduzione dall’una all’altra”. Bisogna evitare accurata mente ogni “invasione della personalità empirica voluta dall’artista nella personalità spontanea e ideale”, ogni equivoca commissione “della personalità biografica con la personalità estetica”. Nemmeno in questo senso, dunque, si può parlare di rapporti fra arte e persona, se non a costo di violare il principio della distinzione che regola la vita delle spirito, confondendo la sfera estetica con la sfera morale.
«Se, infine, per persona s’intende la persona stessa del poeta, indipendentemente dalla sua opera, la filosofia dello spirito rammenta che il pensiero storico non conosce nulla che non si esaurisca integralmente nell’opera, e quando si voglia approfondire la “vicenda di quell’inesistente essere nostro fuori dell’opera nostra”, non si rinviene altro “se non la comune, la generica umanità”: campo dell’indefinibile e dell’indistinto, ambito caotico e informe di elementi che incessantemente si avvicendano e si travolgono, si sovrappongono e si confondono, sino a che il ribollimento delle passioni si placa nella calma contemplazione dell’arte o nella robusta energia del lavoro. Da questo sfondo passionale e sentimentale si stacca dunque, con un atto d’energia, la personalità che vive nelle opere di bene e nelle opere di bellezza. Ma “prescissi i valori ideali che soli, individuandosi, compongono la personalità vera, quel che resta è l’individuo biologico bruto, che, lasciato a sé, appare mostruoso e morboso”. Col che si rischia di vanificare la stessa personalità poetica, quando si voglia definire “l’opera dal fondo animale dell’individualità, in cui essa va sommersa e perduta”. E se la persona è questo inframondo sentimentale e questa generica sottostoria, è bene il caso di rimemorare, con la filosofia dello spirito, “la vanità della persona per sé presa e la sublimità del fondersi e perdersi nell’opera impersonale”, e di riconoscere, ancora una volta, l’impossibilità di proporre la questione dei rapporti fra arte e persona».
(L. Pareyson, Teoria dell’arte. Saggi di estetica, Milano 1965, pp. 10-11).
Tracce del commento
La rammemorazione racconta qualcosa di inutile, lo inserisce nel pieno di un movimento globale che è quello dell’azione, ma le sue interrogazioni non convincono la cosa a dire o ad accennare una traccia di utilità. Se la rammemorazione mi rende felice non è per quello che riconduce alla luce, ma perché lo può fare e la saggezza le spiana la strada. Questo ossuto gramo rammemorare è la mia vita, là come un giorno è stata da me totalmente giocata, senza limiti e senza parzialità. Questo segno si è avverato, e poi ha smesso di sussistere, il liberatore è tornato più volte, ma non sempre le condizioni erano favorevoli. Mille turbamenti adesso mi impediscono un accesso diretto dalla conoscenza alla parola che dice la rammemorazione, lo svuotamento esercitato dalla saggezza conduce a una lieve pienezza di sé, dove i turbamenti vengono lasciati e la parola può essere ascoltata direttamente nelle sue profondità.
Testi
*** «L’origine del compossibile, il fondamento intersoggettivo come originarsi della ragione storica e dialogica, in breve la “natura storica” dell’uomo, va rigorosamente distinto dal fenomeno sociale, dalla gregalità che appartiene alla “storia naturale” della specie umana. A tal fine, è interessante confrontare la già ricordata concezione simmelliana dell’individualità della norma con la tesi nietzschiana dell’origine della normatività.
«Confondere il fondamento della compossibilità con il fenomeno sociale suppone lo scambio dell’umano come sempre diverso nascere culturale, “natura storica”, con la vicenda delle tappe geneticamente evolutive, cioè con la “storia naturale” della specie umana. Che l’uomo sia un “animale sociale” è cosa che s’adatta benissimo ad essere un risultato della “storia naturale” della specie, così come avviene per le api, le formiche o i castori. Ma il problema proprio dell’umano non è quello della genesi della società, o delle pressioni sociali che alla lunga, per evoluzione genetica, determinerebbero certe cadenze comportamentali, bensì quello dell’universalità, pratico-normativa e teorico-concettuale, come orizzonte comune, autonoma compossibilità di innumerevoli possibilità individuali. La socialità della specie umana non va confusa con il fondamento della “natura storica” dell’uomo. Essa, se mai, è quella tappa della “storia naturale” della specie in cui maturano condizioni materiali favorevoli alla nascita dell’uomo storico. È, in altri termini, la situazione biologica nella quale si occasiona, un processo nuovo, di tipo non-biologico, il rapporto intersoggettivo come mediazione inconscia che, “dileguando”, fonda la coscienza immediata del mondo. Il fungere di questo rapporto è la possibilità del compossibile, l’originario erompere delle innumerevoli possibilità di cui vive la “natura storica” dell’uomo come vita, direbbe Hegel, “sovra-naturale”, cioè ideale, ma insieme pluralistica e relativa, insomma come ragione dialogica. Che in un punto del divenire si diano tutte le condizioni necessarie all’irruzione del rapporto intersoggettivo e alla rottura della semplice naturalità dell’uomo, è certo un “colpo del caso”, come ogni decisivo mutamento nella natura; ma da quel punto, in cui il rapporto intersoggettivo vive, non il caso, bensì l’ordine governa l’angolo del divenire occupato dall’uomo, il cosmo dei compossibili, della ragione storica, di cui l’intersoggettività è appunto il non necessitante fondamento. Solo in questo senso, che il “primo” fatto della storia sia l’“ultimo” della natura umana, e sia dunque, come fatto-limite, non un fatto, ma il fatto stesso della storia, onde si possa, a partire dalla natura, concepire non naturalisticamente la storia, come crisi della natura per la naturale insorgenza di una funzione non naturale, qual è l’intersoggettività, si può ripetere con Nietzsche che “l’uomo va enumerato fra i colpi più felici, più inattesi e appassionati, giocati dal grande fanciullo d’Eraclito, che si chiama Giove o il Caso”».
(A. Masullo, Antimetafisica del fondamento, Napoli 1971, pp. 38-40).
Tracce del commento
Sono sospeso su fili tenui e invisibili di decisioni altrui, la libidine decisionale di altri gestisce la mia vita, e anche la vostra, è questa la condizione carceraria. Tutto ciò non ha senso, almeno non direttamente percepibile. Se accettassi una percezione, diciamo normale, ne rimarrei sbalordito. Non c’è qualità alcuna in questa condizione, nessuna quantità può essere allontanata, vivo giorno per giorno seduto sull’orlo dell’incredibile. Cerco di alzarmi ma non ci riesco.
Testi
**** «Ci sono, anzitutto, una serie di problemi formali che pongono la sociologia del sapere in una relazione molto stretta con la gnoseologia e la logica da una parte e con la psicologia evolutiva dall’altra. Tutti insieme tali problemi si basano su tre possibili relazioni fondamentali che il sapere ha con la società: il sapere che i membri di un certo gruppo hanno gli uni degli altri e la possibilità del loro reciproco “comprendersi”, non è, in primo luogo, qualcosa che si aggiunge a un gruppo sociale, bensì qualcosa che con-costituisce l’oggetto chiamato “società umana”. Ciò che viene oggettivamente collegato insieme soltanto mediante il nostro pensiero (per esempio le razze, sistemate secondo caratteristiche oggettive, quali il colore della pelle o la forma del cranio; o i concetti statistici: i coloniesi morti nel 1914) non è oggetto della sociologia. Un “gruppo” implica anche un sapere, per quanto vago, circa la sua esistenza, e inoltre riguardo a fini e valori riconosciuti in comune. (Nessuna classe, dunque, senza una coscienza di classe, ecc). Ogni sapere, e soprattutto ogni sapere comune sugli stessi oggetti, determina in qualche modo l’esser-così della società sotto tutti i possibili aspetti. Ogni sapere, infine, è anche determinato dalla società e dalla sua struttura.
«Tutta una serie di princìpi, pertanto, costituiscono gli assiomi supremi della sociologia del sapere, ancor poco conosciuti nel loro pieno significato.
Che ogni uomo sappia di essere “membro” di una società generale, non è un sapere empirico, ma a priori. Questo sapere, infatti, precede genericamente i gradi della cosiddetta autocoscienza e della coscienza del proprio valore: non c’è alcun “Io” senza un “Noi”, e genericamente il “Noi” raggiunge la sua pienezza di contenuto sempre prima dell’“Io”.
«Il rapporto empirico di partecipazione di un uomo all’esperienza dei suoi simili si realizza di volta in volta in modi differenti a seconda della struttura essenziale del gruppo. Questi “modi” devono intendersi idealtipicamente. A un polo si trova l’identificazione, come la troviamo, per esempio, presso i primitivi, nelle masse, nell’ipnotismo, in determinati stati patologici, nella relazione tra madre e figlio. All’altro polo si trova l’inferenza analogica dal gesto corporale all’esser-così dell’esperienza vissuta. E questa la forma in cui esclusivamente nella forma individualisticamente sociale dell’“uno” si ha e si coglie la vita dell’“altro, per esempio anche riguardo all’“estraneo”. Ma l’“estraneo” è anche colui col quale prima di tutto si stipula un “patto” cosciente. Là dove il patto lega giuridicamente soggetti dotati di volontà, dal punto di vista gnoseologico si ha l’inferenza mediata...
«Nella sfera della religione, una coscienza religiosa anonima, legata all’anima del gruppo, ossia una religione autoctona della gens, della tribù, del popolo, precede sempre le religioni personali dei “fondatori”. L’unità della religione, inoltre, e l’unità dei culti e dei riti appare ovunque primariamente nelle associazioni consanguinee e familiari, e pertanto non è legata a comunità economiche né a comunità politiche o commerciali o di formazione. Solo l’emergere di un homo religiosus eccezionale, “carismatico”, che appare cioè assolutamente degno di “fede” e ciò in considerazione della sua persona e senza alcun fondamento razionale – degno di fede per le sue personali e straordinarie relazioni di esperienza con la divinità –, si tratti d’un profeta, o d’un eroe guerriero che fonda religiosamente la propria autorità, o d’un mago o d’un “fondatore” consapevole; solo l’apparire d’un tale homo religiosus può sciogliere la religione, in epoca politica, da questo suo originario vincolo col sangue. Qui lo stregone, e anche lo sciamano, non deve essere affatto considerato come homo religiosus, bensì come tecnico che lavora con “forze” soprannaturali. Il “prete”, invece, ossia il tecnico incaricato del culto, si situa sempre nel quadro d’un homo religiosus che sta al di sopra di lui.
«Il passaggio alla religione del fondatore viene indirettamente facilitato dall’altro passaggio, già sempre realizzato, dalla forma preponderante delle associazioni familiari alla grande associazione politica, il più delle volte monarchica, di dominio. Questa nasce sempre nella rude opposizione alle associazioni familiari e consanguinee e ai capi patriarcali delle medesime, e prende l’avvio dallo stabilizzarsi del comando militare. Tale passaggio spezza anche l’autorità religiosa dei patriarchi delle associazioni familiari e tende in genere a dissolvere la grande famiglia in favore della piccola famiglia. Per questo le religioni del fondatore, e in generale le collettività e i movimenti religiosi legati a una persona, non appaiono mai prima di quel grado di sviluppo della società che W. Wundt chiama la “società politica”, la quale è sempre anche la fase dell’incipiente formazione delle classi, della progressiva oppressione della donna. La religione del fondatore è d’origine marcatamente virile e spirituale.
«Sempre e dappertutto, le prime fonti del sapere religioso non sono – come a lungo si è pensato – l’animismo e il culto degli avi ed ancor meno le inferenze metafisiche della ragione, ma un contatto esperienziale, supposto e creduto, dal gruppo, di persone eminenti col medesimo Sacro superiore, contatto testimoniato da determinati riti e azioni e garantito dai creduti “miracoli”. Prima della comparsa delle religioni dei fondatori, i primi portatori di questa proprietà “carismatica” sono i capi patriarcali delle comunità consanguinee; nelle religioni superiori, nelle religioni dei fondatori, è un sacerdozio permanente, ereditario o non ereditario, “istituito” dal fondatore».
(M. Scheler, Sociologia del sapere tr. it., Roma 1976, pp. 131-132).
Tracce del commento
Nel fare è visibile l’accanimento che porta alla fine di ogni vivente, nessuna opportunità di risparmio, se non quei piccoli ridicoli margini che si riesce a mettere da parte di tanto in tanto. L’istinto di conservazione è un dettaglio di fronte al dispendio senza fine di cui la vita si rende interprete. Mi batto continuamente per fare, e non mi rendo conto di quanto questo atteggiamento sia ridicolo se non è nello stesso tempo inframmezzato con l’aria respirabile delle interruzioni. È nei tempi morti che la sopravvivenza si allarga alla comprensione dei propri limiti e si persuade che il suo destino non è nei limiti ristretti della modificazione.
Undicesima lezione: 15 giugno 1980
La nostra intuizione dello spazio sociale è l’intuizione della nostra situazione di classe*.
Lo spazio sociale, per contro, (e per noi) è l’ambito totale della nostra coscienza di classe**. Questa è infatti illimitata nella sua capacità di acquisire sempre nuovi ampliamenti di esperienza, allo stesso modo in cui non possiamo mai delimitare lo spazio come qualcosa di nettamente circoscritto perché così facendo lo inscriviamo in un altro spazio e così all’infinito.
Fissato il concetto di spazio sociale dobbiamo chiederci, che cosa avviene in questo spazio? L’azione*** delle forme sociali e delle strutture istituzionali****, azioni che, come sappiamo, sono reciproche tra di loro e questa reciprocità sì traduce in relazioni sociali.
Ma queste nozioni non ci danno una visione sufficientemente chiara di come questi fenomeni si realizzano nella realtà sociale. Sappiamo infatti che questa realtà è lacerata dal conflitto di classe, sappiamo anche che questa lacerazione segna una linea ben precisa (non sappiamo ancora come rintracciabile), e sappiamo che questa linea può prendere il nome di livello dello scontro di classe*****. Ma tutto ciò è ancora molto confuso. In che modo le forme sociali si contrappongono alle strutture istituzionali? In che modo si sviluppano le diverse contraddizioni? Come si realizza nei fatti il movimento concreto di queste forze sociali? E tante altre domande restano, per il momento, senza risposta.
Servirebbe adesso un modello****** visuale abbastanza chiaro e non molto complicato, capace di dare altre indicazioni utili a capire lo svolgimento di questi fatti, di questi movimenti, la nascita e la variazione di questi fenomeni.
Testi
* «Quando, nel corso dell’evoluzione, le differenze di classe saranno concentrate nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni d’esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe. Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti».
(K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, in Opere di Marx-Engels, tr. it., vol. VI, Roma 1972, p. 497).
Tracce del commento
L’avventura che rompe la monotonia della modificazione rende irriconoscibili. Ecco perché non appena mi sforzo di rivolgermi all’azione sento il bisogno di parlare in prima persona. Questo movimento lo faccio per me, ed è diretto all’azione futura, si realizzi o meno, il fare semplicemente produttivo lo faccio per gli altri, ed è qui che richiamo l’attenzione, perfino nell’atto meritorio della rammemorazione. L’accaduto, una volta resosi tale, mi è incomprensibile, gli altri lo capiscono per quello che simbolicamente sono riuscito a trasmettere. L’azione è per me che ha una possibile rammemorazione che mi dice qualcosa, agli altri la stessa rammemorazione dice altro ancora, del tutto altro, o non dice assolutamente nulla. Il fare produce fantasmi, l’agire concretezze che per essere conosciute devono modificarsi in fantasmi. Le trasformazioni, effettivamente oggetti unici, mi persuadono esattamente del contrario, e devo fare uno sforzo enorme per non assomigliare al gatto che fugge davanti allo specchio.
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** «Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita nella società civile nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee. L’emancipazione politica è certamente un grande passo in avanti, non è, bensì, la forma ultima dell’emancipazione umana in generale, ma è l’ultima forma dell’emancipazione umana entro l’ordine mondiale attuale. S’intende: noi parliamo qui di reale, di pratica emancipazione».
(K. Marx, Sulla questione ebraica, in Opere, vol. III, tr. it., Roma 1976, pp. 165-166).
Tracce del commento
La ghigliottina, simbolo stupefacente di perfezione nella pena di morte, può essere elevata a simbolo del fare, lasciatela lavorare in pace, avrà solo il problema di come tagliare la testa al boia. L’altro non accetta commistioni facilmente. Secondo Platone per ottenere questa unione fu necessario un ricorso alla coazione, violenta. Emanciparsi dalla propria condizione di servitù non è un principio di categorizzazione esterno, non si riassume in regole o procedimenti precostituiti, è un gioco difficile perché occorre fare combinare elementi che non intendono accettare nessun genere di combinazione. È una categoria del pensiero che entra in campo, ma non solo, è anche un fatto costruttivo, cognitivo e costruttivo, che produce e viene prodotto, che si incontra con spiegazioni quantitative e da queste fugge lontano. Ogni dicotomia mi ostacola nel tagliare teste, quanto sarebbe più facile avere appreso soltanto i meccanismi con cui la lama della ghigliottina cala e trancia, ma ho appreso anche altro, e questo altro mi torce il cuore, mi suggerisce trappole e trabocchetti, opposizioni che mi frenano e mi rendono migliore, cioè inefficace, dubbioso, accessibile alla diversità.
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*** «La moralità consiste pertanto nel rapporto di ogni azione con quella legislazione che è la condizione del regno dei fini. Ma questa legislazione deve valere per ogni essere ragionevole e deve poter derivare dalla sua volontà, secondo questo principio: non compiere alcuna azione secondo una massima diversa da quella suscettibile di valere come legge universale, cioè tale che la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice».
(I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, in Scritti morali, tr. it., Torino 1986, pp. 92-93).
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Molte volte mi viene ripresentato il mondo attivo dell’azione, il mio inserimento nella desolazione che lo caratterizza. Molte volte lo conosco e molte volte mi è sconosciuto. A seconda dello svuotamento in corso. Dire la rammemorazione mi sollecita nel mio lavoro di svuotamento, l’inutilità del primo movimento deve corrispondere all’inutilità del secondo. Insisto sulla conoscenza per avere a disposizione un più ampio raggio di profondità nelle parole che dicono la rammemorazione. I due momenti sono compenetrati fortemente, ma senza la parola non posso dire l’azione e senza la saggezza che ha svuotato la conoscenza la direi in altro modo. Di per sé, l’utilità, se fossi un angelo, potrei accettarla, e quindi galleggiare con le mie lunghe ali bianche sull’accumulo, ma non sono un angelo e mi lascerei distogliere dall’utilità, la volontà mi porterebbe verso il dominio sugli altri e verso la negazione della conoscenza vera e propria, quella che la saggezza ricostruisce dopo avere svuotato l’accumulo. Ci sono punti di attrazione che mi attirano verso il basso e verso l’alto, non riesco a individuarli con esattezza. Non si tratta di simmetrie o congiungimenti, mancanze che devono essere ripagate con perfezione nelle corrispondenze, tutte queste polarità alla lunga mi annoiano e riprendo la strada verso una sistemazione semantica che rimette al loro posto l’antica esperienza diversa, la sensazione desolata dell’azione. Ho tante corrispondenze fonologiche che mi accudiscono come fossi un bambino in fasce, si presentano nella loro veste di infermiere specializzate, poi passano alla cassa per esigere il dovuto. Si tratta di acquietamenti che trovano possibile origine negli opposti tentativi di essere diverso da quello che sono e proprio quello che sono. La parola stiracchiata si risveglia a mobilità originarie ed affettività per me sconosciute. L’intuizione mi spossa.
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**** «L’analisi scientifica della cultura, però, può indicare un altro sistema di realtà che anch’esso si conforma a leggi generali, e può così essere utilizzato come guida per l’osservazione, come mezzo di identificazione di realtà culturali, e come base dell’ingegneria sociale. L’analisi ora delineata, in cui noi tentiamo di definire la relazione fra un’azione culturale e un bisogno umano, fondamentale o derivato, può essere chiamata funzionale. Infatti la funzione non può essere definita altrimenti che come il soddisfacimento di un bisogno tramite un’attività in cui gli esseri umani cooperano, usano prodotti e consumano beni. Tuttavia questa stessa definizione implica un altro principio con cui possiamo integrare concretamente ogni fase del comportamento umano. Qui il concetto essenziale è quello di organizzazione. Al fine di realizzare un certo intento, raggiungere un certo scopo, gli esseri umani debbono organizzarsi. Come ora mostreremo, l’organizzazione implica uno schema o una struttura ben definita, i cui principali fattori sono universali in quanto applicabili a tutti i gruppi organizzati, che, ancora, nella loro forma tipica, sono universali per tutta l’umanità. Io propongo di chiamare una tale unità di organizzazione umana con il termine antico, ma non sempre definito chiaramente o usato coerentemente, di istituzione. Questo concetto implica un accordo su una serie di valori tradizionali per i quali gli esseri umani si riuniscono insieme. Esso implica anche che questi esseri umani stanno in una relazione definita l’uno con l’altro e con una parte fisica specifica del loro ambiente, naturale e artificiale. Sotto lo statuto della loro finalità o mandato tradizionale, obbedendo a norme specifiche della loro associazione, lavorando con l’apparato materiale che essi trasformano, gli uomini agiscono assieme e soddisfano così alcuni loro desideri, mentre producono anche un effetto sul loro ambiente. Questa definizione preliminare dovrà esser resa più precisa, più concreta e convincente».
(B. K. Malinowski, Teoria scientifica della cultura e altri saggi, tr. it., Milano 1962, pp. 44-45).
Tracce del commento
Il destino mi appartiene, proprio questo destino inopportuno ad affrontare in campo aperto, che non riesce a mettere del tutto da parte la volontà, anche impiegando la rammemorazione dell’inutilità apertamente accettata, lo svuotamento della conoscenza a opera della saggezza, i fatti e i camminamenti della lotta quotidiana contro le convenzioni e i muri della prigione che mi circondano. La parola che commemora dice alla saggezza, non alla conoscenza, non riconferma quest’ultima bardando la prima con i gonfaloni della vittoria. Attorno alla parola che dice non c’è solo la rammemorazione, c’è anche l’alone soffice e lieve della saggezza, c’è un modo del tutto nuovo di penetrare nella parola e di condurla al dire. Ogni ostacolo nel dire riprende i prossimi passaggi, i camminamenti e i fatti che hanno stornato la volontà, ma mette in mostra la parola della saggezza, i livelli sconosciuti e profondi, spesso non percepibili in base all’orientamento classico e avvicinabili solo attraverso la lieve carezza della saggezza. Se il rapporto con la saggezza è costante, se l’incidenza di quest’ultima sulla parola non ha soluzione di continuità la rammemorazione porterà alla luce la desolazione dell’azione, e anche una parte, sia pure piccola, della parola del destino. Questo rimpallare continuo tra parola che dice e destino che comprende il silenzio, ha un rapporto semantico sconosciuto, che oscuramente rinvia agli archetipi in generale e, in particolare, al rapporto tra ciò che diventa continuo e ciò che permane discreto.
Testi
***** «La concezione comune della storia della filosofia degli ultimi trenta anni vuole vedere in questo accontentarsi della fenomenologia il suo limite, e lo considera come inizio di quell’ulteriore sviluppo che alla fine condurrebbe alla progettazione compiuta di quell’ordinamento dell’essere, che nella descrizione husserliana del rapporto noesi-noema sarebbe avvicinato solo in modo formale.
«Io devo controbattere apertamente questa concezione. Il passaggio alla “fenomenologia materiale” è solo apparentemente riuscito e al prezzo di quella attendibilità del reperto che, sola, conferiva la giustificazione fondamentale al metodo fenomenologico. Quando nello sviluppo del pensiero di Max Scheler le eterne verità fondamentali si sono scambiate l’un l’altra repentinamente, per poi venire alla fine esiliate nell’impotenza della loro trascendenza, si può certo vedere in ciò l’instancabile impulso alla ricerca di un pensiero che partecipi alla verità solo nel movimento da errore a errore. Ma l’enigmatico e inquieto sviluppo di Scheler richiede di essere compreso in maniera più rigorosa, che sotto la mera categoria dell’individuale destino spirituale. Piuttosto esso mostra come il passaggio della fenomenologia dalla regione formale-idealistica a quella materiale obbiettiva non abbia potuto andare esente da dubbi e salti, e come anzi le immagini di verità sovrastorica, che quella filosofia venne abbozzando in maniera così seducente, sulla base nascosta della chiusa dottrina cattolica, si siano confuse fino a dileguare, non appena furono ricercate proprio in quella realtà, il cui rilevamento viene determinato dal programma della “fenomenologia materiale”. L’esemplare giustificazione dell’ultima svolta del pensiero scheleriano mi pare consistere propriamente nel fatto che egli abbia riconosciuto come materiale-metafisico il salto tra le idee eterne e la realtà –, per il superamento del quale la fenomenologia si era dedicata alla sfera del materiale, – e abbia abbandonato la realtà a un oscuro istinto, il cui rapporto col cielo delle idee è assai problematico e lascia spazio solamente alla più debole traccia di speranza. In Scheler la fenomenologia materiale ha dialetticamente ripreso indietro se stessa: del suo progetto ontologico è restata la semplice metafisica dell’istinto; l’ultima eternità di cui la sua filosofia dispone è quella della dinamica priva di confini e di controllo.
«Alla luce di questo autoriprendersi indietro della fenomenologia, anche la dottrina di Martin Heidegger si presenterà diversamente da come la fa apparire il pathos dell’inizio, che spiega il suo successo. In luogo della domanda relativa alle idee e all’essere obiettivo, in Heidegger è subentrato, almeno negli scritti pubblicati, il soggettivo; la rivendicazione dell’ontologia materiale si è venuta riducendo all’ambito della soggettività, e cerca nelle sue profondità quello che non le riesce di trovare nella aperta pienezza della realtà. Non è perciò casuale, casuale anche in senso storico, il fatto che Heidegger torni a riprendere l’ultimo progetto di una ontologia soggettiva che il pensiero occidentale abbia prodotto: la filosofia esistenziale di Kierkegaard. Ma il progetto di Kierkegaard è irreversibilmente fallito. Non riuscì alla instancabile dialettica di Kierkegaard di raggiungere nella soggettività alcun essere saldamente fondato; la massima profondità che le si dischiuse, fu quella della disperazione, in cui la soggettività si decompone; una disperazione oggettiva che tramuta il progetto dell’Essere nella soggettività del progetto dell’inferno; da questo inferno essa non si sa salvare che con un “salto” nella trascendenza, che resta un atto di pensiero soggettivo, improprio e privo di contenuto, e che trova la sua massima determinatezza nel paradosso costituito dal fatto che lo spirito soggettivo deve qui sacrificare se stesso e con ciò tenersi una fede, il cui contenuto, casuale per la soggettività, corrisponde solo alla parola biblica. Heidegger riesce a sottrarsi a una tale conseguenza solo mediante l’ipotesi di una realtà “utilizzabile”, per principio adialettica e storicamente predialettica. E il salto e la negazione dell’essere soggettivo ne danno anche qui l’unica giustificazione: solo che l’analisi del trovabile, in cui Heidegger resta legato alla fenomenologia e si differenzia per principio dalla speculazione idealistica di Kierkegaard, vieta la trascendenza della fede e la sua spontanea assunzione nel sacrificio dello spirito, e in luogo di ciò riconosce solo una trascendenza al vitale Esser-così, cieco e buio: nella morte. Con la metafisica della morte la fenomenologia suggella uno sviluppo che già Scheler aveva inaugurato con la dottrina dell’istinto. Non può tacersi che con ciò la fenomenologia sia sul punto di finire presso quel vitalismo, a cui essa in origine aveva dichiarato guerra: la trascendenza della morte in Simmel si differenzia da quella heideggeriana solo nella misura in cui resta sul piano di categorie psicologiche; mentre Heidegger ne parla in categorie ontologiche senza che nella cosa, – vale a dire nell’analisi del fenomeno dell’angoscia – sia reperibile un sicuro mezzo di differenziazione.
«Concorda con questa interpretazione del trapasso della fenomenologia in vitalismo il fatto che Heidegger si sia saputo sottrarre alla seconda grossa minaccia dell’ontologia fenomenologica – lo storicismo – solo con la ontologizzazione del tempo stesso, che egli pose a elemento costitutivo dell’essenza “uomo”. Con ciò paradossalmente si conclude la fatica della fenomenologia materiale volta a ritrovare l’eterno nell’uomo: come eterna non resta altro che la temporalità. Alla pretesa ontologica bastano anche solo quelle categorie, dal cui dominio assoluto la fenomenologia voleva liberare il pensiero: mera soggettività e mera temporalità. Con il concetto “dell’esser-gettato”, che viene posto come condizione ultima dell’essere umano, la vita diventa di per sé così oscura e priva di senso, come lo era solo nella filosofia della vita, e la morte le sa attribuire un senso positivo tanto poco qui che là. La pretesa alla totalità del pensiero è stata rigettata indietro sul pensiero stesso e alla fine anche là distrutta. Basta solo l’esame della limitatezza delle categorie esistenziali heideggeriane di Esser-gettato, Angoscia e Morte, che non sono proprio in grado di bandire la pienezza del vivente, ed ecco che il puro concetto di vita usurpa interamente l’heideggeriano progetto ontologico. Se tutto non inganna, si prepara già con queste prosecuzioni la definitiva rovina della filosofia fenomenologica. Per la seconda volta la filosofia si trova impotente davanti alla domanda concernente l’Essere. Essa è stata tanto poco in grado di descrivere l’Essere come indipendente e autonomo, quanto prima a dispiegarlo a partire da se stessa.
«Mi sono addentrato nella recente storia della filosofia, non per amore del generale orientamento verso la considerazione storica dello spirito, ma solo perché la domanda filosofica di attualità si lascia determinare con precisione solo a partire dall’intrecciarsi delle domande e delle risposte. E invero, dopo che gli sforzi in direzione di filosofie universali sono naufragati nella semplice domanda se la filosofia stessa sia ancora attuale. Per attualità non si intende la sua vaga “scadenza” o “non scadenza”, sulla base di rappresentazioni non strettamente pertinenti della generale situazione dello spirito, ma molto di più: se dopo il fallimento degli ultimi grandi sforzi sussista in genere corrispondenza tra le domande filosofiche e la possibilità che esse abbiano risposta; o se piuttosto l’impossibilità di principio di risposta alle domande filosofiche capitali non sia l’autentico risultato della più recente storia della filosofia. La questione non va presa affatto retoricamente, ma alla lettera. Ogni filosofia, che abbia oggi interesse non alla sicurezza spirituale e sociale, ma alla verità, si trova davanti il problema della liquidazione della filosofia. La prospettiva della liquidazione della filosofia è stata appena presa con la dovuta serietà dalla scienza, almeno quella logica e matematica; serietà che trova la sua ragion d’essere nel fatto che da tempo le scienze matematiche della natura si sono liberate dal complesso degli apparati concettuali naturalistici che nel diciannovesimo secolo le avevano poste in ginocchio di fronte alle teorie della conoscenza idealistiche, e hanno incorporato completamente il contenuto reale della critica della conoscenza. La logica più avanzata (e penso alla nuova Scuola viennese, come essa si è sviluppata da Schlick e oggi viene portata avanti da Carnap e Dubislav e opera in stretto rapporto con gli studiosi di logistica e con Russell), intraprende il tentativo, con l’aiuto dei più acuti metodi della critica della conoscenza, di riservare esclusivamente all’esperienza tutta la conoscenza che progredisce e di cercare solo in tautologie e proposizioni analitiche la validità di quegli enunciati che esulino in qualche modo dall’esperienza e dalla sua relatività. Dopo di che, la domanda kantiana relativa alla costituzione di giudizi sintetici a priori diverrebbe affatto priva di contenuto, dal momento che non ci sono in nessun modo giudizi di tal fatta; ogni andare al di là del verificabile verrebbe impedito in nome della esperienza; la filosofia diventerebbe solo istanza di ordinamento e di controllo delle scienze particolari senza poter aggiungere di proprio ai loro reperti nulla di essenziale. All’ideale di una tale filosofia assolutamente scientifica si aggiunge come complemento e appendice – non certo per la scuola viennese ma per ogni altra concezione che voglia difendere la filosofia di fronte alla pretesa di assoluta scientificità, eppure al contempo mantenere questa pretesa – un concetto di poesia filosofica, il cui carattere non vincolante e non rigoroso di fronte alla verità è superato solo dalla sua estraneità all’arte e dalla sua inferiorità dal punto di vista estetico. Sarebbe stato meglio liquidare con decisione la filosofia e risolverla nelle singole scienze, che non venirle in aiuto con un ideale poetico, il che non significa altro che un rivestire con cattivi ornamenti falsi pensieri.
«Si deve dire tuttavia che la tesi della risolvibilità di principio di tutti gli interrogativi filosofici nelle scienze particolari non è neppur oggi per nulla qualcosa di incontrovertibile, al riparo da dubbi e soprattutto essa stessa non è affatto così filosoficamente priva di presupposti come si spaccia. Vorrei soltanto ricordare due problemi, dei quali non si viene a capo sulla base di quella tesi: anzitutto il problema del senso della realtà data, della categoria, fondamentale di tutto l’empirismo. Con essa il quesito relativo al soggetto corrispondente continua sempre a sussistere ed è suscettibile di risposta da un punto di vista storico-filosofico giacché il soggetto della realtà data non è astorico, identico e trascendentale, ma assume con la storia forma mutevole e storicamente fondata. Questo problema non è stato affatto posto nell’ambito dell’empiriocriticismo, anche nella sua versione più moderna che ha invece assunto ingenuamente, in suo luogo, il punto di partenza kantiano. Il secondo problema gli è ben noto, ma fu risolto solo arbitrariamente e senza rigore: quello della coscienza “altra”, dell’io estraneo che, attinto solo attraverso analogie, per l’empiriocriticismo giunge a costituirsi solo posteriormente, sulla base della propria esperienza vissuta; mentre invece il metodo empiriocriticista, già nella lingua di cui fa uso e nel postulato della verificabilità, presuppone proprio come necessaria la presenza di coscienze “altre”. È solo attraverso la posizione di questi due problemi che la scuola di Vienna viene fatta rientrare in quella continuità storica che essa appunto vorrebbe tenere lontana da sé. Tuttavia ciò non dice nulla contro la straordinaria importanza di questa scuola. Io non ravviso il suo significato nel fatto che essa sarebbe riuscita di fatto a realizzare la progettata trasposizione della filosofia nella scienza, lo vedo piuttosto nel fatto che, proprio mediante l’acume con cui formulò che cosa fosse scienza entro la filosofia, essa fece risaltare .i contorni di tutto ciò che nell’ambito della filosofia dipende da altre istanze che non quelle della logica e delle singole scienze. La filosofia non si tramuterà in scienza ma, sotto la pressione dell’attacco empirista, bandirà da sé tutti gli interrogativi che spettano come specificamente scientifici alle scienze e intorbidano gli interrogativi filosofici.
«Con ciò non intendo dire che la filosofia dovrebbe rinunciare o allentare quel contatto con le singole scienze, che essa si è finalmente riconquistato, e il cui raggiungimento è da annoverarsi fra i risultati più felici della recente storia della filosofia. Al contrario. La filosofia potrà ricavare pienezza materiale e concretezza di problemi solo dal rispettivo stato delle varie scienze. Essa non dovrà elevarsi sopra di esse, nel senso che essa prenda i loro “risultati” come belli e fatti e vi mediti sopra a distanza sicura. Piuttosto i problemi filosofici sono sempre racchiusi, in certo senso in modo indissolubile, entro alle domande più determinate delle singole scienze. La filosofia non si differenzia dalla scienza, come vuole la banale opinione corrente, per un più elevato grado di generalità. Essa non si separa dalla scienza né per astrattezza di categorie, né per la natura del materiale. La differenza consiste piuttosto principalmente nel fatto che la singola scienza accetta i suoi reperti, in ogni caso gli ultimi più profondi, come non scioglibili e riposanti su sé, mentre la filosofia intende già il primo reperto che incontra come segno che a lei spetta decifrare. Detto semplicemente: l’idea della scienza è la ricerca, quella della filosofia l’interpretazione. Con ciò il grosso, forse perpetuo paradosso, che consiste nel fatto che la filosofia deve procedere continuamente interpretando, con la pretesa alla verità senza mai possedere una chiave certa della interpretazione e senza che le venga dato qualcosa di più dei cenni fugaci che dileguano nelle figure enigmatiche dell’ente nei loro strani intrecci. La storia della filosofia non è altro che la storia di questi intrecci; per questo sono dati così pochi “risultati”; per questo essa deve cominciare sempre da capo; per questo essa non può fare a meno del più piccolo filo che tempi remoti hanno filato e che forse completerebbe proprio 1’ordito che potrebbe trasformare le cifre in un testo.
«Non coincide dunque affatto l’idea dell’interpretazione con il problema di un “Senso”, con cui viene perlopiù confusa. In primo luogo non è compito della filosofia provare un siffatto senso come positivamente dato e giustificare la realtà come “dotata di senso”. Ogni giustificazione di questo tipo dell’ente è impedita dalla lacunosità dell’essere stesso. Le nostre percezioni possono sempre essere forme, ma il mondo, nel quale noi viviamo e che si costituisce diversamente che a partire da mere percezioni, non lo è. Il testo che la filosofia deve leggere è incompleto, pieno di contrasti e lacunoso e molto vi può essere attribuito alla cieca demonia; allora il leggere è forse proprio il nostro compito, perché con ciò noi, leggendo, si possa imparare a meglio riconoscere e bandire le potenze demoniache. In secondo luogo, l’idea di interpretazione non incoraggia la supposizione di un secondo mondo che stia dietro e che dovrebbe venir dischiuso dalla analisi di quello fenomenico. Il dualismo di intelligibile e di empirico, come Kant lo ha statuito e come fu attribuito a Platone per la prima volta invero a partire dalla prospettiva postkantiana (Platone, il cui cielo delle idee ancora non sbarrato resta aperto allo spirito); questo dualismo, dicevo, è da ascriversi all’idea di ricerca piuttosto che a quella di interpretazione, all’idea di ricerca, che attende la riduzione della domanda a elementi dati e conosciuti, dove nulla sarebbe necessario se non la risposta. Chi interpretando ricerca dietro al mondo fenomenico un mondo in sé, che ne costituisca il fondamento e che lo sottenda, si comporta come chi in un enigma voglia ricercare il riflesso di un essere che gli sta dietro, un Essere che l’enigma riflette e dal quale si lascia sorreggere, laddove la funzione della soluzione dell’enigma è quella di rischiarare a lampi e di sciogliere (aufheben) la forma dell’enigma, non quella di persistere dietro l’enigma e di essergli simile. L’autentica interpretazione filosofica non coglie un senso che si trovi già e persista dietro la domanda, ma la rischiara repentina e istantanea e la consuma al contempo. E – come le soluzioni degli enigmi si costruiscono mediante un procedimento che consiste nel condurre gli elementi singoli e dispersi della domanda in differenti disposizioni, fino a che essi non si riuniscano a formare una figura, da cui salti fuori la soluzione, mentre la domanda dilegua – così la filosofia deve condurre i suoi elementi, che essa riceve dalla scienza, in mutevoli constellazioni, o, per dirla con una espressione meno astrologica e scientificamente più attuale, in mutevoli tentativi di disposizione, fino a che essi formino una figura, che sia leggibile come risposta, mentre la domanda dilegua».
(Th. W. Adorno, “L’attualità della filosofia”, tr. it., in “Utopia” n. 7-8, luglio-agosto 1973, pp. 7-5).
Tracce del commento
Il ritmo del mondo non mi intralcia con le sue burocratiche procedure. Voglio danzare liberamente, in modo inverso alla sua parsimoniosa lentezza, sono certo che così spezzerò la ruota della storia. La soglia della fine, della fine della pantomima del fare, si può oltrepassare solo in questo modo. Me lo devo ricordare. Scoprirlo di nuovo sarebbe un abbassamento di tono, una trivializzazione della morte. L’appetito di conoscere è sempre pregno di disgrazie, ma senza i suoi frutti sarei un imbecille come qualsiasi apparecchiatore di sofismi teologici. Scendendo nelle partizioni, anche se prendo a piene mani questi frutti, devo fare attenzione alle loro conseguenze sanguinose. Le funzionalità si pagano, non per nulla i verbi simulano interazioni sostanziali irrisolvibili, capovolgendole, queste funzionalità mettono in luce una zona d’ombra che non dice nulla al predicato, mentre è proprio quello che ci si aspettava facesse. Le sue conferme apparenti sono soltanto fumo, compendi di constatazioni fattive, generiche rispondenze interazionali, concetti indecisi tra omogeneo e eterogeneo.
Testi
****** «La strategia dell’incasellamento, caratteristica delle scienze naturali e giustificata nel loro caso e in ogni caso in cui il fine sia l’uso pratico, tratta i concetti, come se fossero atomi intellettuali. I concetti vengono messi insieme così da formare affermazioni e proposizioni, e queste a loro volta sono combinate in modo da formare dei sistemi. In tutto questo processo, le componenti atomistiche del sistema rimangono immutate; esse si attraggono e si respingono a vicenda, secondo i princìpi della logica tradizionale – le leggi di identità, contraddizione, tertium non datur eccetera – che usiamo quasi istintivamente. La filosofia segue un metodo diverso; anch’essa si serve, certo, di questi princìpi consacrati dalla tradizione, ma trascende questo schematismo mediante atti di conoscenza in cui la struttura logica coincide con i caratteri essenziali dell’oggetto. Per la filosofia la logica è logica tanto dell’oggetto come del soggetto; è una teoria comprensiva delle fondamentali categorie e relazioni della società, della natura e della storia.
«Il metodo formalistico di definizione si dimostra particolarmente inadeguato quando viene applicato al concetto di natura. Perché definire la natura e il suo completamento, lo spirito, significa inevitabilmente affermarne il dualismo o l’unità, e attribuire all’una o all’altro il valore d’un principio ultimo, di un “fatto”, mentre in realtà queste due fondamentali categorie filosofiche sono inestricabilmente connesse una con l’altra. Un concetto come quello di “fatto” si può del resto, esso stesso, spiegare solo come conseguenza dell’alienazione della coscienza umana dalla natura extraumana ed umana, alienazione che a sua volta è una conseguenza della civiltà. Questa conseguenza, è vero, è rigorosamente reale: il dualismo di natura e spirito non si può negare in favore della loro pretesa unità originaria, nello stesso modo come non si possono invertire le tendenze storiche che si riflettono in questo dualismo. Affermare l’unità di natura e spirito significa tentar di uscire dalla situazione presente per mezzo di un inefficace coup de force, invece di trascenderla intellettualmente in conformità con le possibilità e tendenze in essa implicite.
«In realtà, ogni filosofia che culmini nell’affermazione dell’unità di natura e spirito presentandola come un dato ultimo – vale a dire, ogni tipo di monismo filosofico – riafferma solo e difende l’idea del dominio dell’uomo sulla natura, di cui abbiamo cercato di illustrare il carattere ambivalente. La tendenza stessa a postulare l’unità rappresenta un tentativo di confermare la pretesa dello spirito al dominio totale, anche quando questa unità è affermata in nome di ciò che è l’opposto dello spirito, in nome cioè della natura; perché si suppone che nulla rimanga al di fuori del concetto che tutto abbraccia. Così, anche l’affermazione della supremazia della natura maschera l’affermazione dell’assoluta sovranità dello spirito: perché è lo spirito a concepire la supremazia della natura e a subordinarle ogni altra cosa. Tenuto conto di questo fatto, non ha molta importanza a quale dei due estremi si risolva la tensione fra natura e spirito; non fa molta differenza che l’unità sia affermata in nome dello spirito assoluto, come nell’idealismo, o in nome della natura assoluta, come nel naturalismo.
«Storicamente, questi due contraddittori indirizzi di pensiero hanno servito scopi identici. L’idealismo glorificò il reale, l’esistente, affermando che la sua essenza era tuttavia spirituale; con l’armonia delle sue costruzioni concettuali fece velo ai fondamentali conflitti della società, e in tutte le sue forme incoraggiò la menzogna che innalza l’esistenza al grado di dio, attribuendogli un “significato” che esso ha perduto in un mondo antagonistico. Il naturalismo – come abbiamo visto nel caso del darwinismo – tende a glorificare quel cieco potere sovrannaturale che si suppone abbia il suo modello nel cieco gioco delle forze naturali; quasi sempre vi si accompagna il disprezzo per il genere umano – mitigato, è vero, da una gentilezza intrisa di scetticismo, simile all’atteggiamento del medico che scuote la testa – un disprezzo che sta alla radice di tante forme di pensiero semi-“illuminato”. Quando si assicura all’uomo che egli è natura e null’altro, nel migliore dei casi si potrà avere pietà di lui. Passivo come qualunque essere o cosa che sia soltanto natura, egli appare come un essere da “curare” e infine come un essere dipendente da capi più o meno benevoli.
«Le teorie che non distinguono lo spirito dalla natura oggettiva e semiscientificamente lo definiscono come natura, dimenticano che lo spirito è anche diventato non-natura; che cioè, se anche non fosse nulla più che un riflesso della natura, grazie a questa sua capacità di riflettere la natura esso già trascenderebbe l’hic et nunc. Dalla negazione di queste qualità dello spirito – la qualità di essere nello stesso tempo identico alla natura e diverso da essa – si passa direttamente alla concezione che vede nell’uomo solo un elemento e un oggetto di ciechi processi naturali. In quanto elemento della natura, egli non è essenzialmente diverso dalla terra di cui è fatto; come quella non ha nessun intrinseco valore, in base ai criteri della sua stessa civiltà – il valore dei cui complicati prodotti industriali, delle cui macchine e dei cui grattacieli si può in un certo senso misurare dal fatto che l’uomo non vale più del materiale di cui sono fatte le sue inutili metropoli.
«La vera difficoltà, nel problema del rapporto fra spirito e natura, sta nel fatto che non si può.né ridurre una di queste due entità all’altra, né ipostatizzarne la polarità. In questa difficoltà particolare trova espressione la difficoltà fondamentale di tutto il pensiero filosofico. Esso è inevitabilmente portato a ipostatizzare astrazioni come “spirito” e “natura”, mentre ciascuna di queste astrazioni implica una rappresentazione svisata dell’esistenza concreta, che in ultima analisi influisce negativamente sull’astrazione stessa. Per questa ragione i concetti filosofici diventano falsi e vuoti quando siano astratti dal processo attraverso il quale si è giunti a formularli. Supporre una dualità ultima è inammissibile – non solo perché l’esigenza tradizionale e quanto mai discutibile di un principio ultimo è logicamente incompatibile con una costruzione dualistica, ma anche a causa del contenuto dei concetti in questione. I due poli non possono essere ridotti a un principio monistico, e tuttavia anche la loro dualità va intesa in gran parte come un prodotto.
«Da Hegel in poi molte dottrine filosofiche hanno gravitato verso un approfondimento del rapporto dialettico fra natura e spirito. Possiamo ricordare qui solo pochi esempi importanti di speculazione su questi argomenti. One Experience di Bradley indica, secondo l’interpretazione corrente, l’armonia di elementi concettuali divergenti. In John Dewey, l’idea di esperienza è in stretto rapporto con la teoria di Bradley. Dewey – che altrove, facendo nel soggetto una parte della natura, sottoscrive al naturalismo tout court – definisce l’esperienza “qualcosa che non è né esclusivo e isolato soggetto od oggetto, materia o spirito, né l’uno più l’altro”. Così egli dimostra di appartenere alla generazione che ha sviluppato la Lebensphilosophie, Bergson, la cui opera filosofica è tutta ispirata al tentativo di superare l’antinomia, ha riaffermato l’unità di materia e spirito in concetti come quello di durée e di élan vital, la separazione invece postulando un dualismo di scienza e metafisica e quindi di non-vita e vita. Georg Simmel ha formulato la dottrina della capacità della vita di trascendere se stessa. Tuttavia il concetto di vita implicito in questi sistemi filosofici sembra indicare il regno della natura. Anche quando lo spirito è definito la forma più alta della vita, come nella teoria metafisica di Simmel, il problema filosofico si risolve ancora in favore di un raffinato naturalismo contro il quale la filosofia di Simmel è nello stesso tempo una costante protesta.
«Il naturalismo non è in tutto e per tutto un errore. Lo spirito è inseparabilmente legato al suo oggetto, la natura. Questo è vero non solo per quanto riguarda la sua origine (il proposito di autoconservazione, che è il principio fondamentale della vita naturale) e non solo da un punto di vista logico (nel senso cioè che ogni atto spirituale implica una materia di qualche genere, e quindi un elemento di “natura”), ma anche nel senso che, quanto più audacemente lo spirito è presentato come un assoluto, tanto più grave è per esso il rischio di regredire a puro mito e di modellarsi precisamente su quella natura che afferma di riassorbire in sé, addirittura di creare. Così i sistemi idealistici più estremi conducono alle filosofie della natura e alla mitologia; quanto più lo spirito, liberato d’ogni freno, cerca di rivendicare come proprio prodotto non solo le forme della natura (come nel kantismo) ma anche la sostanza di essa, tanto più esso si svuota della propria specifica sostanza e tanto più le sue categorie diventano metafore dell’eterno ripetersi di sequenze naturali. I problemi dello spirito, insolubili dal punto di vista epistemologico, si fanno sentire in tutte le forme dell’idealismo. Benché si affermi che lo spirito è la giustificazione e persino la sorgente di tutta l’esistenza e della natura, del suo contenuto si parla sempre come di qualcosa al di fuori della ragione autonoma, sia pur solo nella forma completamente astratta del dato; questa inevitabile aporia d’ogni teoria della conoscenza testimonia del fatto che il dualismo di natura e spirito non può essere postulato nel senso di una definizione, come nella classica teoria cartesiana delle due sostanze. Da una parte, ciascuno dei due poli è stato staccato dall’altro con un processo d’astrazione; dall’altra parte, la loro unità non può essere concepita né accertata come un fatto.
«Il problema fondamentale esaminato in questo libro – quello del rapporto fra la concezione soggettiva e quella oggettiva della ragione – dev’essere considerato alla luce di queste riflessioni sullo spirito e la natura, il soggetto e l’oggetto. Quello che nel primo capitolo abbiamo chiamato ragione soggettiva è l’atteggiamento dello spirito che si adatta consapevolmente e senza riserve all’alienazione di soggetto e oggetto, al processo sociale di reificazione, per timore che altrimenti esso sfoci in irresponsabilità, arbitrarietà, e diventi un semplice gioco d’idee. I sistemi odierni della ragione oggettiva rappresentano invece un tentativo di evitare che l’esistenza sia abbandonata alla mercè del caso cieco. Ma i difensori della ragione oggettiva corrono il rischio di non saper tenere il passo con gli sviluppi dell’industria e della tecnica, di difendere valori illusori e di dar vita a ideologie reazionarie. Così come la ragione soggettiva tende al materialismo volgare, così la ragione oggettiva rivela un’inclinazione al romanticismo, e il più grande tentativo filosofico di costruire un sistema della ragione oggettiva, il tentativo hegeliano, deve la sua forza incomparabile all’acutezza con cui Hegel ha messo in luce questo pericolo. Come il materialismo volgare, la ragione soggettiva difficilmente può salvarsi dal cadere in un cinico nichilismo: quanto alle tradizionali dottrine affermative della ragione oggettiva, hanno molte affinità con l’ideologia e le bugie. Le due concezioni della ragione non rappresentano due separati e indipendenti modi d’essere dello spirito, benché la loro opposizione esprima una reale antinomia.
«Il compito della filosofia non sta nel difendere ostinatamente una di queste due concezioni a spese dell’altra ma nell’incoraggiare la critica reciproca e così, se possibile, preparare nel regno delle idee la loro riconciliazione nella realtà. La massima kantiana: “Una sola strada è ancora aperta, quella della critica” – che fu formulata avendo in mente il conflitto tra la ragione oggettiva del dogmatismo razionalistico e la ragione soggettiva dell’empirismo inglese – si applica in modo ancor più pertinente alla situazione odierna. Dato che nel nostro tempo trionfa su tutta la linea, con risultati fatali, la ragione soggettiva, la critica dovrà necessariamente mettere l’accento sulla ragione oggettiva più che sui residui della filosofia soggettivistica, le cui genuine tradizioni, alla luce dei progressi compiuti dal processo di soggettivizzazione, ora appaiono anch’esse oggettivistiche e romantiche».
(M. Horkheimer, L’eclisse della ragione, tr. it., Torino 1969, pp. 145-150).
Tracce del commento
Per molti aspetti il pregiudizio positivo della conoscenza tarda a morire, l’uso che tutti si aspettano degli strumenti che mette a disposizione apre baratri sempre più grandi di cui la tecnologia e l’etica sono solo pallidi aspetti marginali. C’è la profondità fisica della modificazione che entra in gioco. Vivo in uno scorcio d’epoca, il mio, in cui a queste modificazioni si accede spontaneamente, senza nemmeno essere capaci di invelenirsi e di tagliare la gola al proprio nemico. L’odio insaziato ha una estensione ormai universale che non riesco nemmeno più a indicare con sufficiente precisione. Partendo dalla critica negativa posso costruire costellazioni sempre più complesse di rifiuto che conducono, per mano, a una sola accettazione, la più semplice di tutte, in grado di mettere in fuga ogni forza residua nel gioco semantico alternativo, nella negazione stessa, l’accettazione della conoscenza. Se accetto l’uniformità e l’omogeneità del continuo ripetere del fare, finisco per costruire una falsa negazione che possiede tutto l’aspetto di una negazione che nega realmente ciò che le sta davanti, ormai rappacificato nel bilancio delle corrispondenze. Se mi indirizzo verso l’eterogeneo, dove la simmetria danza i passi macabri della propria resa mortale, la critica negativa riacquista indicazioni non simmetriche che riescono a sfuggire alle corrispondenze di fondo. L’andamento di queste due posizioni è irrimediabilmente circolare.
Dodicesima lezione: 17 giugno 1980
Il problema di che cosa sia realmente il rapporto tra simbolo e cosa simboleggiata* è problema gravissimo che frequentemente ci sì ritrova tra le mani e che difficilmente si riesce a situare in modo corretto. Certo, un modello può essere considerato un simbolo di un fenomeno reale, e nei fatti lo è; ma, così ragionando, si commettono due errori, si consegna al modello un compito che non gli può competere e si relega la realtà all’interno di una scatola chiusa e ben confezionata. Il modello non può simboleggiare in tutto e per tutto la realtà. Può sempre interpretarla, pochissime volte può aiutare a trasformarla. La realtà non può essere racchiusa all’interno del modello, nemmeno in sedicesimo o in trentaduesimo; quando questo accade è un’operazione metafisica sulla realtà che ha consentito il tutto, operazione che sistematicamente penalizza le possibilità di trasformare la realtà stessa.
Così, il rapporto tra simbolo e cosa simboleggiata ci interessa nei termini in cui il simbolo diventa strumento** e la realtà non viene violentata all’interno di un concetto prefabbricato altrove.
Più modestamente qui considero il tentativo di costruire un modello dello spazio sociale come una rappresentazione più semplice di alcune analisi che hanno una loro difficoltà in gran parte legata alla tecnica stessa del linguaggio. Un modello geometrico***, mi sembra, dovrebbe fornire un grado di utilizzazione più elevato delle analisi stesse. Fin qui nulla da dire se queste poche parole, nella loro semplicità, non contraddicessero alcune ipotesi di partenza di queste stesse discussioni. In fondo, non voglio fornire strumenti che siano più o meno utilizzabili in funzione della loro maggiore o minore facilità****. Questo concetto è relativo ed è legato alla situazione precisa in cui ogni individuo si trova e non solo (come spesso banalmente si afferma) alla sua maggiore o minore preparazione tecnica. D’altro canto, però, non c’è dubbio che due cose non voglio fare, primo, illudermi che quanto vado dicendo sia lo specchio “vero” di come nella realtà si svolgono i fatti*****, secondo, che non mi riguarda per nulla una utilizzabilità delle analisi qui esposte. Un modello non è la verità******, non è nemmeno una verità in forma ridotta, come una carta geografica della Francia scala 1/1000 non è un millesimo della Francia; ma per chi vuole andare da Marsiglia a Parigi ha una qualche utilità, e questa utilità è poi ancora maggiore per chi abbia fretta di arrivare a Parigi come avevano fretta i popolani marsigliesi che andavano cantando la loro canzone per andare a Parigi e partecipare all’insurrezione.
Testi
* «Per molti popoli primitivi, così come per le società urbane del Vicino Oriente antico, i riti più importanti venivano celebrati durante le feste del Capodanno. Tutti questi riti hanno un significato cosmogonico: simbolicamente, ripetono la Creazione del Mondo. In altre parole, ogni Capodanno determinava un rinnovamento del Mondo e la rinascita della Vita. Il caso più famoso è quello del Capodanno mesopotamico (akttu). Una serie di riti faceva rivivere la battaglia fra Marduk e Tiamat (il Dragone simboleggiava l’oceano primordiale “caotico”), la vittoria del dio e le sue fatiche cosmogoniche; si recitava nel tempio il Poema della Creazione. Come dice H. Frankfort, “qualcosa di essenziale accomunava ogni Capodanno al primo giorno in cui il mondo fu creato ed ebbe inizio il ciclo delle stagioni”. Per quel che concerne il rituale del Capodanno ebraico, è stato dimostrato che una delle idee centrali era la rappresentazione della vittoria di Yahweh sui suoi nemici – sulle forze del caos come sui nemici tradizionali di Israele – e della sua investitura come re del mondo. Ovviamente, la ripetizione simbolica della cosmogonia nel Capodanno mesopotamico e in quello ebraico non ha lo stesso significato. Tra gli Ebrei, il rituale arcaico del periodico rinnovamento del mondo fu progressivamente storicizzato pur conservando qualcosa del suo significato originario. A. J. Wensinck ha dimostrato che il rituale di Capodanno, che simboleggiava il passaggio dal caos al cosmo, fu riferito ad avvenimenti storici quali l’esodo e il passaggio del Mar Rosso, la conquista di Canaan, la cattività babilonese e il ritorno dall’esilio».
(M. Eliade, voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Treccani, Roma 1975, pp. 127-128).
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Non c’è possibilità di eccesso, di oltrepassamento, se non si afferra nella sua originale e unica essenza la realtà dell’uno che è, se non mi abbandono in me stesso, se non tengo lontano ogni intenzione di impotenza. La coerenza con me stesso è del tutto incomprensibile all’esterno se propone una scissione con la totalità della mia vita, qualcosa di riassumibile in un simbolo provvisorio e traditore. Non ci possono essere piccole vigliaccherie nascoste da qualche parte, nascoste sotto un vestito di normale comportamento. Se articolo una negazione critica questa si stabilisce in uno statuto coerente, per restare tale questo statuto deve incontrare termini molto generali di riferimento la cui articolazione è condivisa con qualsiasi affermazione. C’è un gioco perverso in questa condivisione sistematica che la critica deve perseguire e smontare, non lasciare nelle grinfie di una occhiuta opposizione che prima di tutto difende se stessa. Negare non significa superare gli antagonismi, al contrario significa radicalizzarli fino all’estremo limite della intolleranza. Nessuna mediazione, nessuna coincidentia oppositorum.
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** «Il mistico, che dà un nuovo significato simbolico ai suoi testi sacri, alle dottrine e al rituale della sua religione (e questo è appunto ciò che hanno fatto quasi tutti i mistici e che determina in larga misura la loro influenza nella storia della religione), scopre una nuova dimensione, una nuova profondità, all’interno della propria tradizione. Nel mentre utilizza i simboli per descrivere la propria esperienza e formulare le idee che se ne è fatto, in realtà si accinge a convalidare l’autorità religiosa con la sua reinterpretazione, sia che attribuisca un carattere simbolico ai contenuti della tradizione, sia che cerchi di illuminarli con nuovi simboli. Ma con questo atto, che dischíude la dimensione simbolica, egli trasforma l’autorità religiosa, e i suoi simboli sono lo strumento di questa trasformazione. Egli s’inchina davanti all’autorità con pietà e devozione, ma questo atteggiamento nasconde male il fatto che egli la trasforma, e spesso in una maniera audace e talvolta anche estrema. Utilizza vecchi simboli e conferisce loro un senso nuovo, può persino usare nuovi simboli e attribuire loro un vecchio significato – in entrambi i casi ci troviamo di fronte a un processo dialettico in cui gli aspetti conservatori del misticismo e quelli nuovi, produttivi rivelano la loro interdipendenza. A questo punto si pone un altro problema: sarebbe giusto e opportuno, distinguere l’uno dall’altro questi due diversi atteggiamenti rispetto all’autorità nel senso di processi consci e, rispettivamente, inconsci?».
(G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, tr. it., Torino 1980, pp. 30-31).
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Il fare è litigioso ed è per questo che ha una storia interessante. Il dire, senza il quale il fare non sarebbe, è capriccioso e parziale, avanza secondo il caso e quando propone piani logici bene organizzati si tratta di vernice superficiale. Per ottenere qualcosa di serio da cui partire per altri lidi, occorre una grande versatilità, e anche un certo distacco divertito da quello che si dice, o ancora peggio si scrive. Se si sta troppo addosso ai propri fantasmi si risulta didascalici, e non è detto che anche questo non abbia i suoi aspetti interessanti, ma non più per me. Ho smesso di scrivere freneticamente, avvinghiato alla pagina come fosse l’ultimo relitto utile a salvarmi. Sono stato preso in giro troppe volte per non essere diventato sospettoso nei riguardi delle parole, forse ingeneroso. Non mi interessa più ciò che richiama l’attenzione, ciò che provoca o sovverte l’altro, lettore o fruitore per sentito dire, categoria quest’ultima che ho scoperto essere più numerosa del previsto. Non amo più perdere tempo nel mettere in scena quello che voglio dire. E poi non sono certo che quello che voglio dire sia una bella recitazione soltanto, e non la miseria che tengo sotto gli occhi, e che mi saltella intorno mostrando le sue piaghe. Ho lavorato tanto a fortificare i contrafforti delle mie idee e ora, quando qualcuno mi chiede qualcosa, mi sento una macchina a gettoni, pronta a sfornare in breve tempo quanto pagato con la monetina. L’istrionismo dilaga anche in rivoli sperduti che potevo pensare esenti, qualcuno alza il tono della voce, non più di questo per carità, solo per dire che esiste, solo per affermare la sua miseria di vita, la controparte è rientrata nel palazzo dei fantasmi. Contrastiamo felici di contrastare, dibattiamo perché è questo uno dei modi più conosciuti per dire che viviamo, malgrado tutto, malgrado il posto in cui ci troviamo, davanti a questo tennis da tavolo.
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*** «Dobbiamo dunque concludere che gli assiomi della geometria sono verità sperimentali? Ma non si esperimenta su rette o su circonferenze ideali; non si può farlo che su oggetti materiali. A che porterebbero dunque le esperienze fatte al fine di fondare la geometria? È facile la risposta. Abbiamo visto... che si ragiona costantemente come se le figure geometriche si comportassero alla maniera dei corpi solidi. Ciò che la geometria prende in prestito dall’esperienza, sono dunque le proprietà di questi corpi. Le proprietà della luce e la sua propagazione rettilinea hanno dato così l’occasione, da cui sono sorte alcune proposizioni della geometria, e in particolare quelle della geometria proiettiva; da questo punto di vista, quindi, si sarebbe tentati di dire che la geometria metrica è lo studio dei solidi e che la geometria proiettiva è quello della luce. Ma una difficoltà sussiste, ed è insormontabile. Se la geometria fosse una scienza sperimentale, non sarebbe una scienza esatta, e andrebbe soggetta a una continua revisione. Che dico? Essa sarebbe fin d’ora riconosciuta erronea, poiché sappiamo che non esiste solido rigorosamente invariabile. Ora la geometria euclidea è e resterà la più comoda: 1° Perché è la più semplice; e lo è, non solo in rapporto alle nostre abitudini intellettuali, o per non so quale intuizione diretta che noi avremmo dello spazio euclideo; ma anche essa è la più semplice in sé, come un polinomio di primo grado è più semplice di un polinomio di secondo grado, e come le formule della trigonometria sferica sono più complicate di quelle della geometria rettilinea, e tali ancora sembrerebbero a un analista che ne ignorasse il significato geometrico. 2° Perché la geometria si accorda assai bene con le proprietà dei solidi naturali di questi corpi che noi tocchiamo e vediamo, e coi quali facciamo i nostri strumenti di misura».
(H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, tr. it, Firenze 1949, pp. 58-59).
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Retori sanguinari dilagano per il mondo mostrando le loro pustole, grandi e piccole, ma delle idee nemmeno l’ombra. La repressione ha cancellato anche quelle. Se sviluppi una traccia di critica negativa, sono solo belle frasi o mugolii sconnessi. Il silenzio, a questo punto, potrebbe essere una vanità. Ecco perché continuo a scrivere. L’anarchia è rifiuto dell’omologazione, ho pensato per anni, poi ho capito che non è l’anarchia il rifiuto, l’anarchia è una parola, e una parola non basta per lo scandalo del rifiuto, questo è solo quando è l’uomo stesso a essere anarchico, a rifiutare, anche nel delirio dell’assolutamente altro. Posso pensare mille sfumature del mio rifiuto di essere quello che il potere pensa debba essere, ma solo in un modo questo rifiuto diventa negazione critica, cioè radicale, quando dico no. Rispondendo con una delle mille sfumature possibili, la speranza del potere di rimpadronirsi di me si acquieta in una quasi-certezza che mette poco a diventare certezza. Un rigido paradigma duale si/no è quasi sempre bisognoso di una spiegazione, cioè di parole, non di asserzioni isolate. Ed è qui che mi aspettano al varco.
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**** «I filosofi medievali si erano assai preoccupati di mostrare che le varie branche della filosofia si ripartiscono naturalmente in un certo ordine, e gradualmente divenne tradizionale quel modo di considerare il problema che è esposto in sintesi da Cartesio nella sua introduzione ai Principii della filosofia. “La filosofia, scriveva Cartesio, è simile a un albero le cui radici sono la metafisica, il cui tronco è la fisica, e i cui rami, che si dipartono da questo tronco, sono tutte le altre scienze”. Hume si propone di dimostrare che le radici sono la teoria della natura umana, e non la metafisica, e che le scienze morali, non la fisica, sono il tronco. Questo è il proposito principale del suo positivismo. La metafisica, egli argomenta, è in parte un díscorso vacuo, in parte una psicologia travestita. È vacua quando parla delle essenze, delle qualità occulte e di simili cose; è psicologia quando si occupa della causalità, della sostanza e dell’identità. Così, per esempio, il metafisico dichiara di descrivere la natura della connessione necessaria, e di dimostrare che ogni avvenimento ha una causa. Ma, nel pensiero di Hume, questo compito, come viene concepito dal metafisico, è un compito impossibile; tutto quello che egli può sperare di fare è di descrivere il modo in cui giungiamo a credere che una cosa è necessariamente connessa con un’altra – e questo non è altro che psicologia descrittiva. L’analisi humiana della causalità è un esempio dimostrativo della filosofia, come egli sarebbe lieto che fosse; la vera metafisica – la scienza della natura umana, la scienza autenticamente fondamentale – prendeva il posto della metafisica falsa, o visionaria. Ma egli è ridotto a difficoltà disperate quando cerca di applicare lo stesso genere di analisi all’identità, alla sostanza e alla continuità. Le incongruenze che ora abbondano risultano direttamente dalle deficienze di una metafisica psicologistica, deficienze sulle quali lo stesso Hume attira candidamente la nostra attenzione.
«Hume presume sempre che le scienze morali abbiano ovviamente il loro fondamento nella scienza della natura umana; e la logica, come abbiamo già visto, è inclusa, come una specie di scienza morale. Così egli è costretto a sostenere che le relazioni logiche possono ridursi a connessioni psicologiche; come le categorie metafisiche, le costanti logiche sono legami associativi, o combinazioni di tali legami. In effetti, la metafisica e la logica vanno assieme, in quanto la connessione causale non è per Hume un legame fisico ma il metodo più importante d’inferenza. La logica formale deve dunque essere abbandonata: un progetto che porta a difficoltà di proporzioni schiaccianti ma che, ancora una volta; affina la discussione, aiutandoci in questo caso a vedere proprio quanto sia impossibile il definire la logica come “l’arte del ragionamento”.
«Dal momento che le scienze morali sono fondamentali, dovrebbero chiaramente essere trattate per prime; in seguito possiamo “metterci a piacere a scoprire con maggior completezza quelli che sono gli oggetti della pura curiosità”. Ma avremo ancora bisogno della scienza dell’uomo: “anche la matematica, la filosofia naturale e la religione naturale, dipendono in qualche misura dalla scienza dell’uomo, poiché sono sotto la giurisdizione degli uomini, e sono giudicate dalle loro capacità e facoltà”.
«A prima vista, questa conclusione non regge: dal fatto che tutti i fisici sono esseri umani non si può dedurre immediatamente che una conoscenza più progredita degli esseri umani sarebbe vantaggiosa per la nostra fisica. Hume si fonda su di una dottrina sussidiaria, la cui ispirazione è cartesiana; cioè che tutto ciò di cui abbiamo conoscenza diretta sono le “percezioni della mente umana”. La “Filosofia Naturale” deve essere perciò, o una costruzione elaborata da, o una congettura tratta da (Hume preferisce la seconda opinione, lockiana, alla prima, berkeleiana) alcuni degli eventi che accadono nelle nostre menti. Se questo è vero, più conosciamo intorno a questi eventi, meglio è. Che ciò sia vero, Hume quasi non si disturba ad affermarlo, poiché era un punto sul quale i filosofi concordavano. Descartes aveva sostenuto che “la mente umana è conosciuta più facilmente del corpo”. “Anche i corpi, egli argomenta, non sono conosciuti, propriamente parlando, dai sensi... ma soltanto dall’intelletto, e poiché non sono conosciuti per il fatto che sono visti o toccati, ma soltanto perché sono compresi intellettualmente vedo chiaramente che non vi è nulla di più facile per me da conoscere che la mia stessa mente” Hume non approverebbe questo modo di esprimersi, ma la sua linea di ragionamento è essenzialmente la stessa. Noi non conosciamo nulla direttamente, tranne le nostre percezioni, queste percezioni unite assieme costituiscono la mente umana; perciò soltanto la mente può essere oggetto di esperienza diretta.
«Quando Hume mette in rilievo il fatto che la filosofia naturale impiega “le facoltà o capacità” dell’uomo, dice qualcosa che richiama il punto di partenza di Locke; a meno che non siamo assicurati, in primo luogo, dell’attendibilità delle nostre facoltà, non possiamo conoscere null’altro, e solo un’investigazíone dell’intelletto può darci questa assicurazione. Nella Ricerca Hume rifiuta un simile “scetticismo antecedente”, per il motivo che implica un regresso all’infinito, in quanto ogni ricerca di questo genere deve fare uso proprio di quelle facoltà che si suppone siano poste sotto accusa. Ma questo tipo di scetticismo gioca una parte significativa nello stabilire la priorità della scienza dell’uomo: se Hume giunge a disapprovarlo, ciò dipende dal fatto che esso minaccia la scienza dell’uomo tanto gravemente quanto ogni altra scienza.
«Invero Hume è desideroso di proclamare che non abbiamo alcuna ragione di essere scettici, purché ci limitiamo allo studio dell’uomo. “Finché restringiamo la nostra speculazione al commercio, alla morale, alla politica o alla critica, facciamo appello ogni momento al senso comune e all’esperienza”. Egli si sente obbligato ad ammettere, discutendo la scienza politica, che “le apparenze irregolari e straordinarie si scoprono frequentemente nel mondo morale, così come in quello fisico”, cosicché, per tutte le certezze quasi matematiche della politica, dobbiamo andare molto cauti nel formulare massime generali. Ancora, sebbene non possiamo sempre predirle, possiamo almeno giustificare tali apparenze dopo che sono avvenute, partendo “da sorgenti e principii di cui ognuno ha, nel proprio intimo, o dall’osservazione (ovvia), la sicurezza e la convinzione più forti”. E quando ci occupiamo dell’analisi della mente umana in se stessa, come distinta dalle sue attività nel commercio e nella politica, possiamo sentirci ancor più fiduciosi. Questo è un punto sul quale Hume insiste regolarmente. “Il mondo intellettuale, sebbene involuto in oscurità infinite, non è confuso da alcuna contraddizione del genere di quelle che abbiamo scoperto nel mondo naturale”. I ragionamenti, “o piuttosto congetture” della fisica, ci portano in mezzo a “contraddizioni e assurdità”, mentre “le percezioni della mente sono perfettamente conosciute”. Qui lo scetticismo deve chiedere una sosta: “né può rimanere alcun sospetto, che questa scienza sia incerta e chimerica; a meno che non nutriamo uno scetticismo tale, da sovvertire ogni speculazione, e anche ogni azione”. Questo è il motivo per cui Hume è così turbato dalla difficoltà che prova nel dare una descrizione dell’identità personale. I principii irriconciliabili sono acqua al suo mulino, quando si trovano nella metafisica: la luce delle scienze morali brilla tanto più vivida per contrasto. Ma le antinomie nella scienza dell’uomo stesso sono un’altra faccenda, e una faccenda realmente seria. Hume può soltanto sperare che “altri, forse, o lui stesso sulla base di più mature riflessioni, possano scoprire qualche ipotesi, che riconcilii quelle contraddizioni”. Ma egli non accoglierebbe in alcun modo volentieri una analoga riconciliazione, quando si tratti della metafisica».
(J. A. Passmore, Hume’s Intentions, ns. tr., London 1952, pp. 12-15).
Tracce del commento
Occorre una molla per agire, e per non limitarsi al fare, e questa può essere data dal pensiero anarchico, ma il resto viene dopo. Non basta, non è sufficiente, uno sfoggio di spirito e di intelligenza, alle volte occorre quella insistenza, quella forza di ricominciare daccapo che rasenta l’ottusità. In ogni caso non è la vanità delle parole bene azzeccate a decidere, ma il mettersi in gioco fino in fondo, non calcolare con indolenza gli aspetti positivi e negativi di prendere posizione. Non è pertanto una questione di fissare le correlazioni tecniche che permettono l’individuazione di una classe di inclusione e una di esclusione, a reggere il gioco è la mia personale partecipazione. La negazione non mi vede partecipe, escludo ciò che non voglio e nell’escluderlo mi escluso da una supposta mia appartenenza a questa classe. La negazione semplice, quindi non critica, annega nelle aporie descritte da Peirce, Russell e altri.
Testi
***** «Si prenda ad esaminare tra queste, per il momento, la cosiddetta proposizione ipotetica. Questa risulta composta da una proposizione duplicata oppure da proposizioni fra loro differenti e collegate per mezzo della congiunzione “se” o “se davvero”: così, ad esempio, da una proposizione duplicata e dal “se” congiunzione viene a risultare la seguente ipotetica: “se è giorno, è giorno”; invece da proposizioni fra loro differenti e collegate mediante la congiunzione “se davvero” viene a risultare quella che suona così: “se davvero è giorno, c’è luce”. Ragion per cui, se si rispetta questa promessa e se il conseguente tien dietro all’antecedente, anche l’ipotesi risulta vera; se, invece, questa promessa non viene mantenuta, l’ipotetica risulta falsa. Perciò, prendiamo subito le mosse da questo punto e mettiamoci a considerare se si possa trovare una qualsiasi proposizione ipotetica che sia vera e rispettosa delle premesse suddette».
(Sesto Empirico, Contro i logici, II, 109-117).
Tracce del commento
Gli accadimenti fatti, che si accavallano nella storia, uno dietro l’altro, uno sollecitando l’altro ad andare avanti o a farsi da parte, hanno un pallore crepuscolare, vanno mano a mano perdendo la forza barbarica di un tempo, sono accadimenti civilizzati. Ne deriva che puntando i piedi su di essi, tutti ordinatamente spiegati e messi in fila, ho poche probabilità di spezzare con l’azione il cerchio di parole che mi soffoca. Devo farlo esplodere, devo agire in modo che queste stesse parole non si trovino più in una tale connessione da garantire l’ordine che le costituisce e le rende materiali di controllo. Non si è mai riflettuto abbastanza sulla difficoltà di porre la negazione critica come oggetto a se stante, come classe dei non-A. La necessità di ricorrere a opposizioni meno rigide e complementari, munite di dualismi frammentari e molteplicizzati, rende sulle prime più facile tenere lontano quello che si vuole negare in modo semplice, ma poi o si cade nell’eccessiva semplificazione o si radicalizza il tutto con l’inclusione del me stesso nel movimento di rifiuto.
Testi
****** «Gli Stoici sognano un gran numero di ragionamenti indimostrati, ma ne espongono specialmente questi cinque, ai quali sembrano ridursi tutti i rimanenti: 1° quello che dalla connessione e dall’antecedente conclude il conseguente, come “Se è giorno, c’è luce. Ma è giorno. Dunque c’è luce. 2) Quello che dalla connessione e dal contrario del conseguente conclude il contrario dell’antecedente, come: “Se è giorno, c’è luce. Ma non c’è luce. Dunque non è giorno”. 3) Quello che da un collegamento negativo e da una delle parti del collegamento conclude il contrario dell’altra parte, come “Non è giorno è notte. Ma è giorno. Dunque non è notte”. 4) Quello che da un collegamento disgiuntivo e da una delle parti collegate conclude il contrario dell’altra, come “O è giorno o è notte. Ma è giorno. Dunque non è notte”. 5) Quello che da un collegamento disgiuntivo e dal contrario di una delle parti collegate conclude l’altra, come: “O è giorno, o è notte, ma non è notte. Dunque è giorno”».
(Sesto Empirico: Schizzi pirroniani, II, 109-117).
Tracce del commento
Sufficienti, per quanto Sesto possa essere in disaccordo. So bene che l’enorme tela delle contrapposizioni e dei sillogismi ha poco da offrire nel senso della negazione critica, ma sono sicuro che qualcosa di diverso possa sopraggiungere in qualsiasi momento, inserendosi in questa tela sconvolgendola. Sarà magari un disastro imperfetto, uno completo è impossibile da concepire, e avrebbe esiti non rammemorabili, ma sarà sempre un alito di vento per gli impazienti di catastrofi, i febbrili di sommovimenti. Il deserto si avvicina, la desolazione è nel clima storico che respiro, nel tempo in cui vivo, non c’è niente che mi faccia dubitare di questa certezza. Una normale deduzione logica. Anche se il mondo può ancora ospitare spazi di vivibilità e bellezza, un altro significato balza evidente, quello della necessità di distruzione. Se il mostro tiene fra le sue fauci il mondo intero avvolto fra le fiamme, c’è sempre la forza di desiderare altro che può, per un attimo rinviare questa insaziabile fame. La negazione critica negativa è quindi una espulsione fuori di me di qualcosa che considero insopportabile, per cui l’abolisco, mentre introduco in me l’affermazione di ciò che considero movimenti adeguati al mio avvicinamento all’azione, cioè a quella qualità che mi rende in grado di espellermi fuori da ciò che aborro.
Tredicesima lezione: 19 giugno 1980
Il modello è quindi una semplificazione della realtà, possibilmente è anche una chiarificazione e una messa in evidenza dei fenomeni* più importanti e provvisti di significato. Può anche non essere tutto ciò e tradursi in un ostacolo, sia per la sua complessità linguistica che per le sue pretese di eccessiva semplificazione o eccessiva rappresentazione**. Ma si tratta di giocattoli difficili non solo da usare ma anche da costruire e bisogna prenderli per quello che sono. Nel caso non fossero utili e quindi si rivelassero di ostacolo alla comprensione del fenomeno per cui, indirettamente, risultassero di ostacolo anche alla trasformazione della realtà, bisogna distruggerli*** senza perdere tempo.
Prima di passare alla costruzione**** vera e propria del modello che qui presento devo fare cenno ad un particolare equivoco che si genera di regola quando si fa uso di questo tipo di rappresentazioni simboliche. Si tratta dell’equivoco che si basa sulla pretesa uniformità della natura. In pratica, succede che chi sviluppa un’analisi coglie questi aspetti che, secondo lui, sono i più significativi e interessanti e tralascia tanti altri aspetti considerati di secondario peso. Da questa scelta alla fase successiva, che lo porta a concludere che la realtà si fonda “esclusivamente” sui parametri da lui scelti, il passo è molto breve. In più, a spingere a questo passo c’è la necessità di semplificare il modello e di renderlo quanto più facile sia possibile. Su questo piano bisogna stare molto attenti.
In queste analisi parto sempre dal punto di vista della logica del “tutto e subito”, cioè della logica della totalità*****. Anche quando prendo in considerazione aspetti particolari, che per ragioni di limitatezza dell’analisi occupano un posto preminente su altri aspetti che tralascio, non bisogna concludere che la totalità degli aspetti si racchiuda in quelli scelti per dare vita alla rappresentazione. Ciò apparirà chiaro tutte le volte che pur trattando di un numero limitato di parametri svilupperò conseguenze non direttamente riconducibili a quei parametri stessi, ma legate a interazioni con l’insieme degli aspetti possibili, spesso nemmeno presi in considerazione.
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* «Il nostro conoscere è la stessa esperienza. Ma l’esperienza non è stata mai concepita, come si sarebbe dovuto, quale pura esperienza: né pur da chi ha scritto modernamente la Critica dell’esperienza pura. Il concetto dell’esperienza è sempre stato fondato, anche da coloro che la discriminazione di oggetto e oggetto ritengono postuma ed estranea all’essenza della pura esperienza, sul presupposto, o almeno sul sospetto di un’opposizione tra realtà da conoscere e principio conoscitivo. Il fenomenista stesso, quand’anche neghi la legittimità del concetto di una cosa in sè, del quale il fenomeno sia manifestazione soggettiva, non cessa di vedere in questa soggettività un carattere estrinseco alla natura dell’oggetto conosciuto; ciò che implica la trascendenza di un inconoscibile rispetto all’atto del conoscere, in cui il fenomeno si realizza. Sicché il concetto dell’esperienza rimane sempre quello di Kant: il concetto di un rapporto tra l’Io e il non-io; rapporto necessariamente soggettivo, quantunque importi la presenza e l’azione di qualche cosa esterno al soggetto. Concetto, come è facile vedere, oscurissimo, e principio infatti, nel kantismo e nelle filosofie che non ne hanno sorpassato il punto di vista, di difficoltà inestricabili in tutta la teoria della conoscenza e in tutta la metafisica: poiché il perno, attorno al quale gira ogni questione intorno alla natura del reale, è in questo problema gnoseologico. Tra l’Io e il non-io, concepiti come due assoluti opposti (come quel molteplice, che Kant fa termine della sensibilità, e la sensibilità stessa) non è possibile, per definizione, rapporto di nessuna specie. Giacché codesto Io che è assolutamente opposto al non-io, è appunto l’Io che è soltanto Io, e nient’altro, senza nulla di comune col suo opposto, e quindi avente natura immanente di Io in una sfera infinita: Io che all’infinito non s’incontrerà mai nel suo opposto».
(G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 241-242).
Tracce del commento
Diversi sono i ritmi del fare, sotto certi aspetti l’aleatorietà della vita rientra nella necessità dell’uno che è. La purezza di una vita semplice e quantitativa, risultato perfetto dell’orientamento del senso, è un sogno della scienza, una delle tante illusioni dell’uomo. L’uno l’ingloba nella qualità assoluta, ma su questo nulla si può dire, perché la pura assenza è uguale alla pura alterità, e ambedue tacciono. Non potendo dire nulla in merito, il fare resta separato, ne osservo lo svolgimento, lo studio, ne fisso i limiti di superabilità. Così imparo a conoscere questi ritmi e non mi curo di rifletterli nella immobile e indurita non commozione dell’uno. Come posso entrarvi dentro? Come posso cantare le parole dell’apertura? L’unico modo è sempre quello di non ritenerlo lontano anche se libero di pensare alla mia condizione prigioniera come a quella della paura in quanto assenza di libertà. Rigetto il pensiero non pensabile perché mi fa sentire malato, è non pensabile proprio perché se pensato è insopportabile a pensarsi. Accettazione e rifiuto assoluti discordano tra loro, ma la mia arcaica concezione del dire non impedisce al meccanismo stesso di discriminarmi. Vengo accettato e il processo ricomincia. Ricostruisco il senso, lo oriento, me ne distanzio e cerco di negarlo criticamente. Gödel mi dice che non è possibile. Io lo faccio lo stesso.
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** «Il cristianesimo trovò già la rappresentazione di pene infernali in tutto l’impero romano: su di essa hanno covato con particolare compiacimento i numerosi culti misterici, come sul più fecondo uovo della loro potenza. Epicuro aveva creduto di non poter fare niente di meglio per i suoi simili che di strappare le radici di “questa” credenza: il suo trionfo, che per l’ultima volta risuona in modo bellissimo nella voce del più oscuro, eppur poi divenuto chiaro, discepolo della sua dottrina, del romano Lucrezio, venne troppo presto, – il cristianesimo prese sotto la sua particolare protezione la già appassionata credenza negli orrori dell’oltretomba e in ciò agì con intelligenza. Come avrebbe potuto, senza questa ardita incursione in pieno paganesimo, riportare la vittoria sulla popolarità dei culti di Mitra e di Isis! Così tirò dalla sua parte i pavidi, – i più forti seguaci di una nuova fede! (Un martire ebreo di cui si può leggere nel secondo libro dei Maccabei, non pensa di rinunciare ai visceri che gli hanno strappato: nella resurrezione egli li vuole avere – questo è ebraico!). 1 primi cristiani erano del tutto lontani dal pensiero di eterni tormenti, essi pensavano di essere stati liberati “dalla morte” e di giorno in giorno aspettavano una trasformazione e non più una morte. (Che strano effetto deve aver avuto tra questi uomini in attesa il primo caso di morte! Come si mischiavano a questo punto meraviglia, giubilo, dubbio, vergogna, fervore! – un vero tema per grandi artisti!). Paolo non sapeva dire niente di meglio del suo redentore se non che avrebbe aperto ad ognuno l’accesso all’immortalità, – egli non crede ancora alla resurrezione degli irredenti, anzi, in conseguenza della sua dottrina della inadempibilità della Legge e della morte come conseguenza del peccato egli ha il sospetto che in fondo nessuno sia sinora divenuto immortale (o almeno assai pochi, e in tal caso per grazia e senza merito); soltanto adesso l’immortalità comincerebbe a aprire le sue porte, – e alla fine anche per essa assai pochi sarebbero gli eletti: come l’alterigia dell’eletto non può tralasciare di aggiungere. – Da un’altra parte, dove l’istinto della vita non era altrettanto forte come tra gli ebrei e gli ebrei cristiani, e la prospettiva dell’immortalità non appariva senz’altro più preziosa della prospettiva di una morte definitiva, quell’aggiunta pagana, ma neanche del tutto non ebraica, riguardo all’inferno diveniva un gradito strumento nelle mani dei missionari: sorse la nuova dottrina secondo cui anche il peccatore e l’irredento sarebbero immortali ed essa fu più potente del pensiero, oramai del tutto sbiadito, della morte definitiva. Solo la scienza ha dovuto riconquistarselo di nuovo, e questo lo ha fatto respingendo nel contempo ogni altra rappresentazione della morte e ogni vita ultraterrena».
(F. Nietzsche, Aurora, I, 72).
Tracce del commento
L’abbandono mi porta nell’uno e nella straordinaria esperienza della diversità. Ciò non mi lascia nudo nel fare, ma mi consente di sperimentare la qualità, sia pure per uno sprazzo. Questa esperienza non è necessaria, anzi non è che l’eccezione alla contingenza, ed è possibile che viene avanti dal destino. L’intima composizione dell’uno io la vivo solo come possibilità che si apre nella mia vita, derubricata nella rammemorazione. L’uno che è e che non conosce me e il mio fare. Mi accetta nell’esperienza diversa e mi mette in condizioni di capire nell’abbandono quello che il destino sta fornendomi. Quindi il mio destino sono io, una parte indivisibile da me che però non è in me ma giace nell’uno. Più facile è per me la negazione, più mi sento integrato in quello che accetto. Costruisco un baluardo negatorio che mi familiarizza automaticamente con quello che considero comportamento accettabile di tipo integrativo. Mi adatto quindi a considerare una negazione non critica che mi rende possibile vivere in un mondo di accettazioni camuffate da negazioni (ovviamente simboliche).
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*** «Compito della filosofia non è quello di scrutare le intenzioni nascoste e palesi della realtà, ma quello di interpretare la realtà priva di intenzioni, nella misura in cui scioglie le domande – la pregnante formulazione delle quali è compito della scienza – attraverso la costruzione di figure e di immagini partendo dagli elementi isolati della realtà (cfr. Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berlin 1928, pp. 9-44, in particolare p. 21 e p. 33). È un compito a cui la filosofia resterà sempre legata, perché il suo potere illuminante non può accendersi diversamente che su quella dura domanda. Si può ricercare qui l’affinità, apparentemente così stupefacente e sorprendente che sussiste tra la filosofia interpretativa e quella guisa di pensiero che tiene lontana nel modo più rigido la rappresentazione dell’“intenzionale” e del “significativo” dalla realtà: il materialismo. Interpretazione del Privo-di-Intenzione mediante la composizione di elementi analiticamente isolati e rischiaramento della realtà in forza di tale interpretazione: questo è il programma di ogni schietta gnoseologia materialistica: un programma al quale il modo di procedere materialistico è tanto più fedele, quanto più si tiene distante da ogni “Senso” dei suoi oggetti e quanto meno si richiama esso stesso a un senso implicito in qualche modo religioso. Ché da tempo l’interpretazione si è separata da ogni domanda relativa al senso; detto in altri termini, i simboli della filosofia sono andati in rovina. Se la filosofia deve imparare a rinunciare alla domanda relativa alla totalità, questo significa in primo luogo che essa deve imparare a farcela senza la funzione simbolica, nella quale finora, almeno nell’idealismo, il particolare pareva rappresentare l’universale. Questo significa che deve imparare a abbandonare i grandi problemi, la cui grandezza voleva avallare per l’addietro la totalità, mentre oggi l’interpretazione dilegua tra le larghe maglie dei grandi problemi. Se la interpretazione riesce veramente solo facendo uso della composizione dell’infinitamente piccolo, allora essa non ha più parte ai grandi problemi, nel senso tradizionale, oppure l’ha solo nella misura in cui essa tira giù in un concreto reperto la domanda totale, che esso prima sembrava rappresentare. La costruzione di piccoli elementi privi di intenzione va annoverata dunque tra i presupposti fondanti dell’interpretazione filosofica.
«L’orientamento verso i “resti del mondo fenomenico”, che Freud proclamò, ha valore al di fuori dell’ambito della psicoanalisi, così come l’indirizzo della filosofia sociale avanzata verso l’economia non proviene solo dal predominio empirico dell’economia stessa, ma da una esigenza immanente della interpretazione filosofica stessa.
«Io non vorrei qui fare alcuna asserzione di contenuto, ma solo indicare quali sono le direzioni, secondo le quali io vedo perseguibili il compito dell’interpretazione filosofica. Fossero questi compiti correttamente formulati, con ciò avremmo stabilito anche qualcosa riguardo alle domande filosofiche di principio, la cui esplicita posizione io vorrei invece evitare. Vale a dire che la funzione, che la domanda filosofica tradizionale si aspettava da idee sovrastoriche e simbolicamente significative, viene invece svolta da idee asimboliche intrastoricamente costituite. Con ciò sarebbe posto in maniera radicalmente differente anche il rapporto fra storia e ontologia, senza che ci sia bisogno di ricorrere all’artificio di ontologizzare la storia come totalità, nella forma di mera “Storicità”, col che sarebbe perduta ogni specifica tensione tra interpretazione e oggetto e resterebbe solo un mero storicismo. Infatti, secondo la mia concezione, la storia non sarebbe più il luogo a partire dal quale le idee si elevano, si pongono in risalto da sole e scompaiano di nuovo, ma le immagini storiche sarebbero esse stesse idee e sarebbe la loro connessione ad accertare la verità priva di intenzione, invece che la verità a venire nella storia come intenzione.
«Ma io interrompo qui il pensiero, perché in nessun luogo le dichiarazioni generali sono più problematiche che per una filosofia che voglia escludere da sé le dichiarazioni astratte e generali, delle quali ha bisogno soltanto nei momenti in cui si pone l’esigenza del mutamento. A tal fine vorrei dimostrare una seconda connessione essenziale tra filosofia interpretativa e materialismo. Io ho detto come la risposta relativa all’enigma non sia il “senso” dell’enigma, in modo che entrambi possano sussistere nel medesimo momento, come la risposta sia contenuta nell’enigma e come l’enigma soltanto costruisca la sua apparizione fenomenica e contenga in sé la risposta come intenzione. La risposta sta piuttosto in stretta antitesi all’enigma; essa ha bisogno della costruzione a partire dagli elementi dell’enigma ed essa distrugge l’enigma stesso, che non è pieno di significato ma privo, non appena venga impartita la risposta che colpisce nel segno. Il movimento che si esegue qui per gioco lo esegue il materialismo sul serio. Sul serio vuol dire che la risposta non continua a restare nello spazio chiuso della conoscenza, ma viene impartita dalla prassi. L’interpretazione della realtà data e il suo superamento si richiamano l’un l’altra. Vale a dire la realtà non viene superata nel concetto, bensì dalla costruzione della figura del reale deriva praticamente l’esigenza di una sua reale trasformazione. Il gesto modificante dell’enigma, non la mera soluzione in quanto tale, dà il modello delle soluzioni delle quali solo la prassi materialistica dispone. Il materialismo ha chiamato questo rapporto con un nome che è filosoficamente giustificato: dialettica. Solo dialetticamente mi pare possibile la interpretazione filosofica. Quando Marx rimproverò ai filosofi di aver solamente interpretato in modi diversi il mondo e si oppose loro affermando che ciò che importava era di modificarlo, la affermazione era legittimata non solo dalla prassi politica, ma altrettanto da quella filosofica. Nella distruzione della domanda si conferma innanzitutto la autenticità della interpretazione filosofica e il puro pensiero non riesce a eseguirla fino in fondo da se stesso. Perciò la prassi la trascina a sé. È superfluo distinguere espressamente dal pragmatismo una concezione come quella dialettica, nella quale teoria e prassi si intrecciano in tal modo.
«Così come sono consapevole dell’impossibilità di svolgere il programma che vi ho dato – un’impossibilità che non deriva solo dalla limitatezza del tempo, ma che sussiste in generale, dato che d’altra parte tale programma non si lascia svolgere come programma, in completezza e generalità – così ritengo doveroso d’altra parte darvi alcuni accenni. Innanzitutto l’idea di interpretazione filosofica non indietreggia di fronte a quella liquidazione della filosofia, di cui mi pare siano segni i fallimenti delle ultime pretese filosofiche alla totalità. La rigida esclusione di ogni domanda ontologica in senso tradizionale, l’evitare concetti generali invarianti – anche quello dell’uomo –, la esclusione di ogni rappresentazione di una totalità autosufficiente dello spirito, anche di una “Storia dello spirito” in sé conchiusa, la concentrazione delle domande filosofiche su concreti complessi intrastorici, dai quali esse non devono venire sciolte: questi postulati sono oltremodo simili a una risoluzione di ciò che si chiamò finora filosofia. Dal momento che il pensiero filosofico dei nostri giorni, in ogni caso quello ufficiale, ha tenuto lontane fino adesso queste esigenze o tutt’al più ha cercato di assimilare a sé singole esigenze attenuate, la critica radicale del pensiero dominante appare come uno dei primi e più attuali compiti. Non temo il rimprovero di negatività infeconda – un’espressione che Gottfried Keller caratterizzò una volta come “espressione pandipepe”. Se l’interpretazione filosofica può di fatto svilupparsi solo dialetticamente, allora un primo punto di attacco glielo offre una filosofia che coltiva proprio quei problemi la cui messa a lato appare più urgentemente necessaria che non la aggiunta di una nuova risposta: tutte vecchie. Solo una filosofia, per principio adialettica e indirizzata ad una verità priva di storia, potrebbe immaginarsi che i vecchi problemi si lascino eliminare nella misura in cui li si dimentichi e risolutamente si ricominci da capo. Proprio la illusione dell’inizio è ciò che soggiace nella filosofia di Heidegger in primo luogo alla critica. Una effettiva modificazione della coscienza filosofica può riuscire solo attraverso la più stretta comunicazione dialettica con i più recenti tentativi di risoluzione della filosofia e della terminologia filosofica. Questa comunicazione acquisterà il materiale scientifico specialistico principalmente dalla sociologia, materiale consistente nei piccoli elementi privi di intenzione eppure legati al materiale filosofico, cristallizzati, come il raggruppare interpretativo ne ha bisogno.
«Uno dei più influenti filosofi accademici dei nostri giorni avrebbe risposto alla domanda relativa ai rapporti tra filosofia e sociologia all’incirca in questi termini: mentre il filosofo, paragonabile al costruttore edile, fa il progetto di una casa e lo esegue, il sociologo è lo scalatore di facciate che si arrampica dall’esterno su per le pareti della casa e tira fuori ciò che gli è a portata di mano. Sarei disposto a riconoscere il paragone e a svilupparlo a favore della funzione della sociologia per la filosofia. Infatti la casa, questa grande casa, è da tempo divenuta cadente dalle fondamenta e minaccia non solo di ammazzare tutti quelli che vi sono dentro, ma minaccia di far andare perdute tutte le cose che vi sono tenute in serbo e delle quali alcune sono insostituibili. Quando il ladro da facciata ruba queste cose singole spesso mezze dimenticate, fa un buon lavoro, perché esse vengono salvate. Difficilmente però le terrà con sé a lungo, perché per lui sono di scarso valore. In verità, il riconoscimento della sociologia da parte della interpretazione filosofica esige una delimitazione. È importante per la filosofia interpretativa costruire chiavi davanti a cui la realtà si spalanchi di scatto. La situazione per quanto riguarda le dimensioni delle categorie-chiave è davvero: strana. Il vecchio idealismo le sceglieva troppo grandi, così che esse non entravano nella serratura. Il puro sociologismo filosofico le sceglie troppo piccole: la chiave entra sì, ma la porta non si apre. Una gran parte dei sociologi spinge il nominalismo così avanti che i concetti diventano troppo piccoli per indirizzare su di sé gli altri, con i quali entrare in costellazione. Resta una immensa connessione – priva di consequenzialità – di mere “determinazioni-qui” che si fa beffa di ogni organizzazione di tipo conoscitivo e che non concede unità di misura di alcun genere. Così si è soppresso il concetto di classe e lo si è rimpiazzato con innumerevoli descrizioni di singoli gruppi, senza poterli più ordinare, sebbene nell’empiria si rendano visibili come tali; oppure si è tolta tutta la incivisità a uno dei concetti più importanti, quello di ideologia, determinandolo formalmente come coordinazione di determinati contenuti coscienziali in determinati gruppi, senza più lasciare spazio alla domanda relativa alla verità o non verità dei contenuti stessi. Questa forma di sociologia si inquadra in una forma di generico relativismo, la cui genericità può così poco venire rimessa in gioco dalla interpretazione filosofica come ogni altra, e per la correzione del quale essa possiede un mezzo efficace nel metodo dialettico. Nella trattazione del materiale concettuale da parte della filosofia non parlo a caso di raggruppamento e tentativo di disposizione, di costellazione e di costruzione. Infatti le immagini storiche, – che non fissano il senso della esistenza ma che ne sciolgono e risolvono le domande –, queste immagini non sono semplici autodatità. Esse non se ne stanno già pronte organicamente nella storia, non c’è bisogno di alcuna visione o intuizione per divenirne consapevoli, né esse sono magiche divinità storiche, da assumere e venerare. Piuttosto esse debbono venire prodotte dagli uomini e legittimarsi in definitiva solo attraverso il fatto che la realtà si condensa intorno a loro in maniera stringente. Qui esse si differenziano essenzialmente dalle mitiche “immagini originarie”, come la psicoanalisi le vede e come Klages spera di confermarle in qualità di categorie della nostra conoscenza; possono anche essere loro simili in cento tratti, ma se ne differenziano là dove quelle descrivono il loro cammino fatale sulla testa dell’uomo. Esse sono strumenti maneggevoli e comprensibili, anche là dove paiono indirizzate su se stesse come centri magnetici di un essere obbiettivo. Esse sono modelli con i quali la ratio si avvicina, saggiando e provando, a una realtà che sfugge alla legge, ma che può sempre imitare lo schema del modello, purché esso sia formulato correttamente. Si può vedere qui un tentativo di riprendere quella vecchia concezione della filosofia che Bacone formulò e sulla quale Leibniz si affaticò una vita: una concezione che l’idealismo derise come stravagante: quella della ars inveniendi. Ogni altra spiegazione del modello sarebbe gnostica e tale da non potersene assumere la responsabilità. Organo di questa ars inveniendi è la fantasia. Una fantasia esatta, una fantasia che si trattiene con fermezza sul materiale che le scienze le offrono e che va al di là di esse solo nei tratti più piccoli della sua disposizione, tratti che essa deve darsi originariamente e a partire da se stessa. Se l’idea di interpretazione filosofica, che ho intrapreso a sviluppare davanti a voi, sussiste a buon diritto, allora essa si lascia esprimere come esigenza di dare risposta alle domande di una realtà che si trova davanti, mediante una fantasia che raggruppa assieme gli elementi della domanda, senza andare al di là del perimetro degli elementi stessi, e la cui esattezza diviene controllabile al dileguarsi della domanda.
«So bene che molti, forse la maggior parte di voi, non sono d’accordo col programma che io qui propongo. Non solo il pensiero scientifico, ma ancor più l’ontologia dei fondamenti, contraddice alle mie convinzioni sui compiti attuali della filosofia. Un pensiero che va in cerca di rapporti sostanziali e non di un isolato accordo presso se stesso suole provare la propria ragione d’essere, non contestando le obiezioni che gli si levano contro e affermando se stesso come inconfutabile, ma nella sua fecondità, in quel senso in cui Goethe intendeva il concetto. Non di meno, posso forse dire due parole circa le obiezioni più attuali, non come le ho costruite io, ma come le enunciarono i rappresentanti dell’ontologia dei fondamenti, e che mi indussero alla formulazione di una teoria, in esclusivo accordo con la quale ho proceduto nella prassi dell’interpretazione filosofica. Posizione centrale ha l’obiezione secondo cui anche alla base della mia concezione, ci sarebbe un concetto di uomo, un progetto di esistenza, solo che io, per cieca paura di fronte alla potenza della storia, non espliciterei chiaramente e con coerenza queste invarianti e le lascerei nell’ombra; in luogo di ciò, io darei in prestito alla fattività storica o al suo ordinamento il potere che spetterebbe propriamente alle invarianti, alla sfera ontologica, e praticherei l’idolatria con l’essere storicamente prodotto, toglierei alla filosofia ogni scala di misura costante dissolvendola in un estetico gioco di immagini e trasformerei la “prima philosophia” in Essaysmus filosofico. Di fronte a queste obiezioni io prendo posizione nel senso di riconoscere la maggior parte di quello che è il loro contenuto e difendendolo tuttavia come filosoficamente legittimo. Non starò a giudicare se alla base della mia filosofia ci sia una determinata concezione dell’uomo e della esistenza. Ma contesto la necessità di ricorrere a questa concezione. È una esigenza idealistica quella dell’inizio assoluto, quale solo il puro pensiero può soddisfare presso se stesso; è un’esigenza cartesiana quella di credere di dover portare il pensiero alla forma dei suoi presupposti, dei suoi assiomi. La filosofia che rinuncia all’assunzione dell’autonomia, che non crede più alla realtà fondata sulla ratio, che sempre e poi sempre ammette la rottura dell’ordinamento legislativo autonomo-razionale da parte di un essere che non gli è adeguato e che non è da delinearsi come totalità razionale, non percorrerà fino alla fine il cammino verso i presupposti razionali, ma si tratterrà là dove la realtà irriducibile fa irruzione. Se la filosofia si spingesse ulteriormente nella regione dei presupposti, potrebbe conseguire quest’ultimi solo formalmente, e al prezzo di quella realtà nella quale sono riposti i suoi compiti autentici. L’irruzione dell’irriducibile si compie in maniera concretamente storica e perciò la storia ordina l’alt al movimento del pensiero verso i presupposti. La produttività del pensiero può dialetticamente dar buona prova di sé soltanto nella concrezione storica. Entrambe vengono in comunicazione attraverso i modelli.
«Per lo sforzo circa la forma di tale comunicazione, faccio volentieri mia l’accusa di Essayismus. Gli empiristi inglesi, proprio come Leibniz, hanno chiamato saggi i loro scritti filosofici, perché la potenza della realtà da poco dischiusa, contro cui urtava il pensiero, imponeva il rischio del tentativo. Il secolo postkantiano, per primo, assieme alla potenza della realtà, ha smarrito il tentare e il rischiare. Con ciò il saggio è divenuto, da forma della grande filosofia, piccola forma dell’estetica, nella cui apparenza si rifugiò tuttavia una concrezione dell’interpretazione della quale più non dispone la filosofia vera e propria, nella grande dimensione dei suoi problemi. Se con il crollo di ogni sicurezza riposta nella grande filosofia fa il suo ingresso il tentativo; se quest’ultimo si collega alle interpretazioni circoscritte, tratteggiate nei loro contorni, asimboliche del saggio estetico, ciò non mi pare meritevole di condanna, purché siano reali. Giacché non è dato allo spirito di produrre o di abbracciare la totalità del reale, ma gli è dato di penetrare nel piccolo e di spezzare nel piccolo le misure del puro Ente».
(T. W. Adorno, “L’attualità della filosofia”, tr. it., in “Utopia” n. 7-8, luglio-agosto 1973, pp. 5-11).
Tracce del commento
Nessuno conosce il modo di afferrare l’uno e legarlo in una connessione significativa. L’uno rifiuta ogni laccio, scioglie ogni rapporto, lo risolve in se stesso, scende dentro il vincolo e lo rende assoluto, cioè lo assolve da ogni rapporto. Non va avanti, non accetta novità, quindi il vecchio è di già il giovane e viceversa, non accetta e non respinge, non vibra nella tensione ridotta dell’orientamento. È prima della separazione e liberamente rifiuta di separarsi nell’articolazione. La molteplicità è immobile nell’uno, i singoli momenti di essa non sono riscontrabili e quelli che sperimento nel fare, nel suo ritmo, non sono che produzione mia, mia modestissima invenzione che è fagocitata nell’evolversi delle possibilità, diventato accadimento fatto, terreno di coltura per le future possibilità che arriveranno da altre terre, più desolate. Non posso prendere al laccio l’uno e nemmeno le possibilità che mi arrivano dal destino, queste ultime si separano in cicli e in mondi che di volta in volta fanno in modo che la mia vita si carichi di significati, ma possono anche annientarsi, distruggersi e scomparire in occasioni perdute. L’ordine imposto al mondo è la somma di queste occasioni perdute, di ogni genere di corruzione, di ogni possibilità non portata fino in fondo. La tecnica è l’espressione più elevata e articolata di questa dissoluzione riorganizzatasi in nuove forme di ordine e di efficienza. L’uno resta impensabile nella sua perfetta assenza di misura e circoscrivibilità.
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**** «La dottrina di Spinoza concorda col principio fondamentale del panlogismo, secondo cui il mondo è nella sua totalità un processo logico eterno; solo essa pone questo processo, come distinto in un ordine finito (condizionato dalla conoscenza inadeguata), in cui hanno origine per l’uomo la passione, la schiavitù, la miseria; ed un ordine eterno (condizionato dalla conoscenza adeguata), in cui alla passione succede l’attività pura, alla schiavitù la libertà, alla miseria la beatitudine perfetta. Sorvolando per ora sull’esame del principio fondamentale del panlogismo –in se stesso, limitiamoci a due osservazioni in rapporto alla forma particolare che esso assume nel sistema di Spinoza. La prima si riferisce alla posizione assoluta dell’estensione e al conseguente parallelismo dei due attributi e dei rispettivi modi; della quale posizione assoluta di una forma dell’essere, che non può in nessun modo (anche di errore, di possanza ma anche di impotenza; è vero; ma in sé venir posta indipendentemente dallo spirito e che non può venir considerata che come un momento di quel processo, in sé essenzialmente spirituale, onde risulta la realtà, derivano a Spinoza numerosi e gravi imbarazzi.
«Da questa posizione assoluta dell’estensione deriva appunto al sistema di Spinoza quel carattere ambiguo, per cui esso oscilla in certo modo fra l’idealismo e il naturalismo. Poiché la natura divina di Spinoza, che è estensione nello stesso tempo che pensiero e da cui sono esclusi l’intelletto e la volontà, è senza dubbio sotto un certo aspetto un’entità più vicina alla cieca forza universale ed eterna del naturalismo che non all’idea del panlogismo idealistico: il che ci spiega appunto come fra i suoi espositori alcuno abbia potuto, negligendo l’aspetto logico, e mettendo in rilievo l’aspetto opposto, presentare il sistema di Spinoza come un pretto naturalismo.
«La seconda osservazione si riferisce al modo con cui egli deriva, o almeno dovrebbe derivare logicamente il mondo dal suo principio. A questo riguardo dobbiamo notare che, anche limitando la nostra considerazione agli attributi divini e ai modi eterni, da cui il mondo dovrebbe risultare per una specie di costruzione geometrica, Spinoza non ha punto esplicato né come dalla sostanza unica possano logicamente derivarsi i suoi attributi, né come da questi derivino i modi eterni primitivi, né come dalla composizione di questi risulti l’infinita varietà delle essenze particolari. Già è stato anzi da altri osservato come questa dispersione dell’unità della natura divina in una infinità di attributi distinti contrasti gravemente con l’unità della sostanza ed interrompa la continuità della derivazione logica del mondo della natura divina.
«Tutte queste considerazioni critiche non ci impediscono tuttavia certo di riconoscere la profonda verità del principio affermato da Spinoza: che il mondo dell’eternità non è un mondo di esseri trascendenti, separato da una profonda diversità di natura dal mondo che non vediamo, ma è questo mondo stesso considerato sotto il suo aspetto eterno. In ogni essere vi è qualcosa di eterno, anzi ogni essere è qualche cosa di eterno non appena noi lo consideriamo non nella sua individualità divelta dall’ordine delle cose, ma come un momento di quell’ordine ideale, in cui sembra disvelarsi a noi una realtà più profonda. Soltanto quest’ordine intelligibile non solo non assorbe in sé (anche empiricamente) l’ordine sensibile, da cui si distingue come si distingue, il noumeno dal fenomeno: ma non è esso medesimo un reale assoluto che costituisca rispetto al mondo sensibile un prius logico eterno ed immutabile. Anche l’ordine intelligibile è una forma, in cui la coscienza aspira a rendere l’Unità assoluta, ed ha rispetto a questa un puro valore fenomenico; l’Unità non è un primo assoluto, da cui discenda per un processo egualmente assoluto una molteplicità intelligibile, ma è il termine ideale verso cui questa stessa molteplicità aspira, è l’assoluta realtà verso cui tendono tutte le serie fenomeniche possibili, come verso il loro fine assoluto ed il loro fondamento immanente».
(P. Martinetti, Introduzione alla metafisica, Milano 1926, pp. 348-364).
Tracce del commento
Che io non possa dire l’uno non significa che il suo ordine sia definitivo. Non avendo completezza possibile non può esserci completamento, quindi definitività. Le mie parole sono invece aspetto, apparenza, alternanza e possono arrivare perfino alla inimicizia e alla distruzione, ma sono elementi del fatto, contenuto al quale è stata sottratta la qualità. Il dire rappresenta il chiuso, il circondato dalla corrispondenza, il cerchio magico in cui tutto è possibile come apertura, ma anche ciò in cui nulla è ancora possibile come di già accaduto. Rappresenta il plurale che l’uno respinge, e nel plurale la molteplicità avvolgente e generatrice di meraviglie e di affascinanti limiti e separatezze. La morte campeggia sullo sfondo, mentre la volontà non vacilla ma si appresta a riprendere il controllo messo in discussione. Io dico la meraviglia del mondo e la sua menzogna, ne sogno e ne immagino il favoloso sviluppo, ma devo anche prepararmi al contraccolpo dell’apertura negata, alla grande eco della indefinibile necessità che avvia la ruota della morte di tutti i mondi, sulla base dell’insopportabile legge dell’uno.
Testi
***** «Spinoza, abbandonando l’astrattezza dogmatica delle entità intellegibili degli scolastici, intende partire dalla fonte e dalla origine razionale della natura, riprodurne le formalità costitutive, ma in un modo tale che il pensiero sia qui adeguato all’assoluto sistema razionale e quindi non influenzato dall’accidentalità dell’esperienza, ma agisca secondo le assolute leggi della ragione. In tal modo i rapporti dell’essere non risolti nelle pure relazioni teoretiche, il fondamento reale è risolto nel principio razionale; la causa è identificata alla ratio, e in ciò si è sciolta da ogni elemento di empiricità. Ciò è possibile appunto perché nella scienza il concetto fisico di causa è stato risolto nella necessità funzionale dei rapporti matematici.
«Sorge così il concetto del metodo geometrico come dell’assoluta risoluzione dell’oggetto nel rapporto razionale: si tratta cioè di dedurre tutto il sistema logico da un solo principio e di estendere tale deduzione sino agli esseri empirici. Ora tale principio è l’attualità stessa della ragione in sé posta, come assoluta, la Sostanza. Essa è il concetto più universale implicato negli altri, ma libero dalla loro determinazione parziale e che, nella propria assoluta unità, costituisce il loro fondamento e il principio della loro sistematica connessione, principio indipendente che non ha dal di fuori determinazione alcuna, ma è causa sui, ragione logica dell’esistenza propria e del tutto. Nel concetto di Sostanza, considerato nella sua razionale purezza, non è posto un principio in sé al di fuori della realtà determinata empirica, ma la legge razionale dell’empiricità stessa. La necessità per cui il pensiero trapassa dal suo concetto a quelli sussunti, non ha perciò nulla a che fare con una deduzione analitica; è un processo sintetico per cui l’idea della sostanza, la pura sistematicità razionale, ricavata come limite ideale della conoscenza, si concreta fuor dal mero presupposto, nella sua totalità ed universalità concreta, che abbraccia ed invera tutta la sfera dell’esperienza. Da questo punto di vista, l’infinità degli attributi è l’espressione dell’infinità del sistema della ragione, che non può mai essere assolutamente concluso nel dato dell’esperienza. E gli attributi si specificano a loro volta nei modi eterni ed infiniti che sono le categorie supreme implicite alla natura stessa degli attributi e dominano e connettono i modi finiti, le essenze individuali, come le leggi che fondano la loro validità razionale. La Sostanza, da questo punto di vista, è l’universale sistematicità della ragione, che ha la sua attualità nella totalità infinita del reale, ed è la connessione universalmente autonoma in cui i modi finiti della realtà hanno l’assoluta validità del loro essere stesso: “nam etsi unaquaeque res ab alia re singolari determinetur ad certo modo existendum, vis tamen qua unaquaeque in existendo perseverat, ex aeterna necessitate naturae Dei sequitur”. (Ethica II, prop. 45 sch.). Appunto per ciò la loro determinatezza non ha validità assoluta, e l’ordine razionale è la legge stessa della sua negazione, ossia del divenire infinito dei modi finiti, che ha la forma dell’attività nel tempo, e per cui nel loro essere stesso è immanente l’universalità della Sostanza.
«Ma questo ideale di autonomia della ragione non trova, e non poteva del resto trovare, date le condizioni della scienza e 1’ínterpretazione della vita spirituale nella cultura del tempo, se non, di nuovo, un’espressione dogmatica: esso è trasposto nella sfera dell’essere, come l’assoluto essere stesso, Deus sive Natura, a cui compete pertanto il carattere d’identità e l’immobilità dell’essere parmenideo. Di qui derivano tutte le difficoltà metafisiche della teoria spinoziana; e prima di tutto l’impossibilità di concepire il rapporto tra l’identità in sé perfetta della sostanza e la determinazione degli aspetti del reale, tra l’assoluto immanente rapporto razionale di necessità, che all’estremo limite dogmatico coincide con quello di identità, e il divenire nel tempo in cui si risolve infinitamente, senza annullarsi mai, l’essere determinato delle cose. Nell’essere della pura e assoluta sostanza la determinazione degli attributi introduce un elemento non razionalmente giustificabile; e, d’altra parte, la definizione dell’estensione e del pensiero come attributi della assoluta sostanza è causa non solo di un’erronea interpretazione dei rapporti fisici e psicologici, ma delle difficoltà che nascono dalla concezione parallelistica, quando sia sviluppata nella sua universalità. E ugualmente, la determinazione dei modi finiti, tali che la loro essenza non involge l’esistenza, e che l’ordine di natura può fare tanto che ciascuno di essi sia, quanto che non sia, la loro reciproca limitazione e la passività che li affligge, esigono che nella pura coincidenza di essenza e di esistenza della Sostanza sia introdotto un principio di negazione e di limitazione, che l’assoluto essere in sé di quella non giustifica».
(A. Banfi, Spinoza e il suo tempo, Firenze 1969, pp. 238-240).
Tracce del commento
L’uno non fa. Ma il fare fa parte dell’uno. Certo non come fare, restando indifferente all’uno nella sua immediata separatezza. Io faccio e, nel fare, sono la mia stessa povera separata condizione, ma mi posso aprire all’assenza e allora l’abbandono mi accoglie come innocenza perfetta, come azzeramento delle vicende imperfette e molteplici degli oggetti che mi confondono e mi umiliano col loro possesso. Il mio abbandono all’apertura verso l’uno è indifferente al fare ma parte dal fare, se quest’ultimo non ci fosse non avrei dove puntare i piedi, sarei nulla, nemmeno una possibile indifferenza al fare. Infatti non posso oltrepassare il fare riflettendo sui suoi limiti. L’oltrepassare è l’assenza che mi porta via secondo un suo processo che non posso né conoscere né codificare. Posso leggere questo atto trasformativo a priori come apertura del fare, come eccezione e implosione di un processo che doveva andare altrove, ma non posso leggerlo nel suo agire, non posso descrivere i movimenti della qualità se non come rammemorazione. Se quest’ultima è un’arte e quindi rientra nel dire, l’esperienza nell’uno, nel territorio desolato dell’azione, è l’assolutamente altro. Ma questa esperienza altra non è un procedere a caso, un getto qualsiasi di dati. Intrinseco all’uno c’è l’ordine dell’uno che è anarchia, assenza di ordine, e prima ancora, assenza assoluta. Un gesto oltre l’apertura è libera qualità, ma deve restare nell’eccesso e nel coinvolgimento assoluto, non appena cerca di cogliere un limite, sia pure come semplice domanda, ricade nel fare e non gli resta che l’opera costruttiva e indispensabile del rammemorare. L’imprevedibile dell’assenza può apparire a rendere ancora più ampia e complessa l’avventura, oppure tutto può risolversi in un battito di ciglia.
Quattordicesima lezione: 21 giugno 1980
Rappresentiamo lo spazio sociale specifico della situazione dell’individuo con una figura topologica semplice (fig. 1).
Questa figura comprende due zone delimitate, contenute in uno spazio maggiore. Le zone delimitate sono chiuse in se stesse e quindi risultano costituite da una parte esterna (il resto dello spazio sociale) e da una parte interna (lo spazio sociale della situazione del singolo individuo).
L’orientamento dei flussi di significato polarizza le relazioni finendo per consentire l’emersione delle situazioni individuali (dal punto di vista oggettivo) e dei campi (dal punto di vista soggettivo). Come ricorderemo, le due cose sono sostanzialmente una medesima cosa vista da due punti diversi di osservazione. Quello che vediamo nella fig. 1 è uno spazio topologico, un modello ipotetico di situazione individuale determinato come somma di una serie grandissima di azioni individuali (nei tre diversi livelli). Le apprensioni dell’individuo, le sue valutazioni e le decisioni che riassumono i due primi momenti hanno un’uniformità.
In psicologia si spiega la percezione di colore che si prova in un punto del campo visivo con uno stato eccitatorio globale di tutto il campo visivo stesso. Nel medesimo modo, si spiega l’impressione di un peso che si alza non con lo sforzo del gruppo muscolare in movimento ma con il tono di tutta la muscolatura del soggetto nel suo insieme. Parlando della psicologia della forma così David Katz*. Questo tipo di concetto, come si vede, è molto utile per capire i fenomeni dell’interazione e per spiegare come avvengono i processi di autorganìzzazione all’interno della forma sociale.
Da notare che il concetto di campo presuppone la concezione “non metrica” dello spazio, ipotesi topologica che si colloca accanto alle altre ipotesi, come quella del rapporto tra un punto e la zona circostante nei termini di un rapporto tra la parte e il tutto, o come quella di una linea che unisce due punti privi di dimensione, ecc.
Seguiamo lo sviluppo dell’applicazione fatta da Kurt Lewin della teoria del campo alla psicologia. Egli comincia a studiare il conflitto tra la concezione aristotelica e la concezione galileiana nella psicologia contemporanea, conflitto che è in pratica alimentato da due modi diversi di vedere il mondo (come accade anche in fisica). Lewin afferma che lo stesso sforzo fatto dalla fisica è in atto nella psicologia, sebbene proceda con grandi stenti. Lo sviluppo della fisica e il suo passaggio dalla fisica di Aristotele a quella di Galilei, non è segnato da una trasposizione in termini matematici della fisica aristotelica, ma da un profondo cambiamento. Le concezioni di Bruno, di Keplero o di Galilei sono basate essenzialmente sull’idea di una universalmente comprensiva unità del mondo fisico. Una legge identica regola il movimento degli astri, la caduta di un sasso e il volo degli uccelli. Mentre per Aristotele un corpo leggero “aveva la tendenza ad andare verso l’alto”, per Galileo la legge della caduta dei corpi non afferma che i corpi cadono molto frequentemente verso il basso, ma dice che la caduta libera di un corpo si verifica regolarmente, dalla qual cosa si deduce una legge che resta valida indipendentemente dalla maggiore o minore frequenza con la quale si verifica l’evento in questione.
In psicologia – continua Lewin – si verifica lo stesso problema riguardo al comportamento. Un modo di pensare aristotelico fa assumere un carattere aleatorio all’evento individuale. Esso sembra fortuito, irrilevante, senza valore per la ricerca scientifica. Da ciò quindi il problema della frequenza come fondamento della conformità ad una legge. Da ciò la grande importanza attribuita alla statistica nella psicologia contemporanea. Infatti, il procedimento statistico, dice Lewin, assume valore rappresentativo come, ad esempio, nel caso dell’età mentale che serve a caratterizzare le proprietà di un bambino di una certa età fisica.
Partendo da questo punto di vista la psicologia, che Lewin definisce aristotelica, non considera le eccezioni come prove negative fin quando la loro frequenza non diviene troppo grande.
Una visione galileiana in psicologia, invece, parte da un superarnento delle classificazioni valutative. In questo modo, ad esempio Freud, ha superato le partizioni che si facevano tra ciò che è patologico e ciò che è normale, tra l’insolito e l’ordinario. Questo superamento ha contribuito a formulare quella base di omogeneizzazione che in fisica è caratteristica del pensiero di Galilei.
Parla specificamente della tendenza associazionistica in psicologia Lewin**.
Ma questa antitesi tra due mondi diversi che si riflette in due modi di vedere il problema della psicologia come scienza, assume carattere ancora più chiaro riguardo la concezione della dinamica sia fisica che psicologica. In fisica, infatti, è con Galilei che si apre l’orizzonte della dinamica, quasi del tutto assente nella prospettiva aristotelica. Nel sistema di Aristotele l’ambiente esiste solo nell’ipotesi che determini perturbazioni. La tendenza del corpo leggero ad andare verso l’alto risiede nel corpo stesso. Al contrario, per la fisica moderna la tendenza di un corpo leggere ad andare verso l’alto o quella di un corpo pesante ad andare verso il basso è in relazione all’ambiente, anzi lo stesso peso del corpo è fatto dipendere dall’ambiente. Galilei non studia il grave in se stesso, ma il processo della caduta libera o del movimento lungo un piano inclinato. Da questa nuova prospettiva si ricava che i vettori che determinano la dinamica di un evento non possono essere definiti che in funzione della totalità concreta che comprende, nel contempo, l’oggetto e la situazione. Cioè, con la nuova dimensione di ricerca viene a mancare ogni riferimento ad una media astratta calcolata sul numero più grande possibile di casi storicamente dati, ma è fatto riferimento solo alla piena concretezza di situazioni particolari.
La critica di Lewin accusa di aristotelismo i principali concetti che oggi si trovano in psicologia e l’accusa mi pare giusta. Solo che poi, nel razionalizzare i processi galileiani all’interno di schemi fissati e isolabili, se pur interdipendenti, ritrasforma il concetto di totalità in un concetto di tipo aristotelico. Egli giustamente nota che in psicologia dinamica vengono impiegati quantità orientate i cui vettori sono connessi solo con l’oggetto studiato e vengono considerati indipendenti dalla situazione***.
In contrasto con questo modo di pensare, continua Lewin, si pone la problematica attuale della psicologia della percezione, secondo la quale diventa impossibile definire, mediante una considerazione di elementi separati, che cosa sia la figura. Come ha cercato di dimostrare tutta la corrente che fa capo alla psicologia della forma, l’intera dinamica dei processi psicologici che riguardano la percezione di una figura è in stretto rapporto con quella dei processi attraverso i quali ha luogo la percezione dello sfondo e della struttura del campo totale circostante. Dalla psicologia della percezione si è quindi appreso che la dinamica dei processi deve sempre essere derivata dalla relazione fra l’individuo concreto e la situazione concreta. Mentre, nella misura in cui questi processi derivano da forze di origine interiore, allora la dinamica deve essere derivata dal complesso delle mutue relazioni tra i diversi sistemi funzionali che costituiscono l’individuo. Lewin, seguendo una strada consimile, cerca così di indicare un chiarimento del rapporto tra situazione e individuo****.
Vedremo più avanti perché queste posizioni di Lewin abortiscono in una visione accumulativa tipica della logica dell’“a poco a poco”, pur partendo da una premessa che poteva portare alla strada verso una concezione della totalità e quindi ad un’applicazione della logica del “tutto e subito”.
Testi
* «La psicologia della forma respinge il concetto che i nostri organi sensoriali rispondano agli stimoli locali con sensazioni locali, indipendenti da altri stimoli. Essa invece sostiene che l’organismo reagisce a una data costellazione di stimoli con un processo globale. Fenomenologicamente, essa parte dalla nozione di forma come fatto ultimo non ulteriormente riducibile: gli elementi della forma vengono determinati dalla forma globale, e non viceversa... Secondo Kóhler, i vari settori del “campo” si trovano in correlazione dinamica; perciò la sua dinamica interna contribuisce a determinare la distribuzione dei processi e la loro qualità locale... Così come nel campo fisico, anche nel campo psicofisico si produce spontaneamente una autorganizzazione».
(D. Katz, La psicologia della forma, tr. it., Torino 1960, pp. 74-75).
Tracce del commento
La saggezza di fronte alla parola non cerca mai di fare prevalere la propria capacità di essere per l’inutilità, essa ha capito che la conoscenza utile non rende la qualità perduta, ma la parola non lo sa, né può dirlo. Per cominciare a rammemorare deve aprirsi anche lei, al suo interno le vicende della qualità, come si sono svolte nell’azione, sono implicite, per cui aprendosi la parola vengono fuori pezzi disordinati di quel meraviglioso periodo.
Testi
** «La psicologia associazionistica rappresenta un tentativo di omogeneizzazione di questo tipo, ed essa è stata realmente di utilità essenziale in questo senso. Analogamente, nel nostro tempo, la riflessologia e il beaviorismo hanno contribuito alla omogeneizzazione di uomo ed animale, di corporeo e mentale. Ma il modo aristotelico di fondare la conformità a leggi sulla frequenza (senza la quale sarebbe stato impossibile sostenere la legge dell’associazione) ha reso infruttuoso questo sforzo. Di conseguenza, la psicologia sperimentale associazionistica, nel suo tentativo, alla fine del diciannovesimo secolo, di derivare l’intera vita mentale da una singola legge, rivela il carattere circolare, e nel contempo astratto, che è tipico dei primi studi speculativi e dei concetti classificatori aristotelici».
(K. Lewin, Teoria dinamica della personalità, tr. it., Firenze 1965, p. 31).
Tracce del commento
Tutto quello che riguarda una specificità sfuma nella parola che rammemora e la saggezza ne raccoglie i riferimenti lievi che nella rammemorazione sarebbero incomprensibili. Non ci sono funzioni che vengono alla luce, o parti della parola che si collegano con altre parti per dare vita a una catena di significanze, ogni pezzo è detto e si inserisce nella rammemorazione, non vengono dati compiti o riconosciute assegnazioni di specificità. Tutte le parole si aprono e guardano al mondo della rammemorazione così come guarderebbero a un mondo che nasce, nuovo, e ogni tentativo di ricollegarsi con l’azione potrebbe abortire per un forte richiamo all’utilità, ecco perché la parola costruisce un’architettura dove il falso e i labirinti sono parte non trascurabile dell’insieme.
Testi
*** «Il concetto di istinto, nella sua forma classica, è forse, a questo riguardo, l’esempio più notevole. Gli istinti sono la somma di quei vettori condizionati da predisposizioni, che si ritiene debba essere ascritta ad un individuo. Gli istinti vengono definiti essenzialmente mediante selezione di quelle azioni che si verificano più di frequente, o regolarmente, nella vita concreta di un individuo o di un gruppo di individui fra loro simili. Ciò che è comune a questi atti frequenti (per esempio, procurarsi il cibo, combattere o aiutarsi vicendevolmente) è considerato come l’essenza, o la natura essenziale dei processi. Inoltre, e ancora in senso del tutto aristotelico, questi concetti classificatori astratti sono posti, nel contempo, come il fine e la causa del processo. Gli istinti, definiti mediante questo procedimento come medie derivate da casi concreti, sono così considerati tanto fondamentali quanto più astratto è il concetto classificatorio utilizzato, e quanto più diversi sono i casi dai quali la media è stata tratta. Si pensa che, in questo modo, e solo in questo modo, possa essere neutralizzata l’influenza di quegli “accidenti” che sono inerenti al caso particolare ed alla situazione concreta. In realtà, il modo di procedere della psicologia in vasti campi di indagine è ancora dominato completamente dallo sforzo di liberare la ricerca psicologica dalla connessione con le situazioni specifiche».
(K. Lewin, Teoria dinamica della personalità, tr. it., Firenze 1965, p. 44).
Tracce del commento
La saggezza è lieve pressione sulla parola, la mano di un fantasma, ma è sufficiente ad aprirla alle mille avventure rammemorative. La pressione esercitata dalla rammemorazione stessa ha, al contrario, tutta la forza della logica del tutto e subito. La vita filtra tra questi movimenti, la mia vita, stanca, piena di fatti e di azioni, filtra e si riversa nella rammemorazione. Qui il fatto trova la sua lettura, direi ufficiale, si incastona nella modesta produzione produttiva, la parola non perde tempo a dirlo, lo sbriga con la superficialità della comunicazione quotidiana, l’azione è sempre aggredita e mai detta sino in fondo. Anche la saggezza ha paura ad andare avanti, a penetrare nelle parole, e anche la parola non si apre con facilità, respingendo con decisione anche l’ala leggera del fantasma. Sa che nel segno del silenzio, cioè della saggezza da un lato e dell’azione dall’altro, non c’è spazio per la parola.
Testi
**** «Il riferimento alla situazione concreta considerata nel suo insieme deve prendere il posto del riferimento alla raccolta più vasta possibile di eventi che storicamente si sono ripetuti con frequenza. Questo significa, da un punto di vista metodologico, che l’importanza di un evento, ed il suo valore di prova, non possono essere valutati sulla base della frequenza con la quale esso si verifica. Infine, esso significa per la psicologia, così come ha significato per la fisica, un passaggio da un procedimento astrattamente classificatorio ad un metodo costruttìvo essenzialmente concreto».
(K. Lewin, Teoria dinamica della personalità, tr. it., Firenze 1965, p. 49).
Tracce del commento
Nessuna autocompletezza, tutto è lasciato aperto, le tracce quantitative proposte alla parola sono le stesse della conoscenza, prive di contenuto, nessuna importanza è data alla singola affermazione, non ci sono condizioni di certezza confermata nell’esercizio della inutilità. La saggezza manca di nucleo centrale, di fondamento che conforta, che nei momenti di dubbio dà la risposta, a parte il giudizio di esattezza o falsità. La saggezza è se stessa, si svuota lentamente delle tracce di conoscenza, ma non le abbandona mai del tutto, presenta però alla parola una lievità che non è conosciuta nell’ambito della modificazione produttiva. Non attira l’attenzione su tutte le possibili connessioni, anzi respinge, non monopolizza, lascia che la parola dica, distogliendosi dalla rigidità della struttura, per prima suggerisce la leggerezza e la meravigliosa condizione del silenzio. Così la parola comincia a dire la rammemorazione.
Quindicesima lezione: 23 giugno 1980
Torniamo adesso all’analisi della fig. 1. Questa presenta limiti che però non sono “confini” in senso classico. Non si può quindi delineare una parte interna e una parte esterna se non per ipotesi simbolica* assolutamente fuorviante. Sarebbe più corretto indicare la linea di demarcazione della figura topologica con una serie continua di frecce di andata e ritorno indicanti graficamente l’effetto concreto dell’interazione** (fig. 2).
Lo spazio sociale ha pertanto una caratteristica complessa che è quella della forma sociale che possiamo rendere con un certo tipo di punteggiatura uniforme (modo di rappresentazione non corretto, come vedremo meglio più avanti, quando parleremo della forma sociale in senso specifico, ma per il momento di una qualche utilità per capire in che maniera è costituito il campo), lo spazio*** all’interno della delimitazione delle interazioni si può rendere con una duplice presenza di punti e linee in quanto facente parte contemporaneamente dello spazio sociale in senso lato e dello spazio sociale specifico del campo (fig. 3).
Lo spazio della situazione****, circoscritto dalle delimitazioni di interazioni è costituito dall’insieme dei flussi di significato di cui l’individuo ha coscienza. E così alcune interazioni diventano patrimonio comune, come appare nella fig. 4 che riproduco qui in forma semplificata. In questa figura, ogni punto della delimitazione in comune tra le due situazioni è chiaramente costituito da una serie di interazioni comuni.
Ciò significa che le diverse situazioni individuali non stanno come patate in un sacco, l’una vicino all’altra, senza compenetrarsi né totalmente in un’unica unità né parzialmente, ma si possono sovrapporre quasi sempre parzialmente essendo l’ipotesi di una esatta corrispondenza***** di due situazioni praticamente un’ipotesi limite. Due individui possono avere affinità in comune. Questo patrimonio, che essi condividono, indica una serie di interazioni nei confronti dello spazio sociale nel suo complesso, e indica anche che le linee di delimitazione si incrociano in quanto le loro due situazioni si sovrappongono parzialmente.
La divisione in zone dello spazio della situazione individuale può dare una visualizzazione più o meno esatta dell’ambito di influenza dei tre momenti dell’azione, l’apprensione, la valutazione e la decisione (fig. 5).
Considerando in ordine d’intensità i tre momenti, abbiamo la fig. 6 che ci fa vedere la rappresentazione su tre piani differenti, equivalenti a tre intensità dei diversi momenti dell’azione.
Il concetto di intensità si ricollega qui ai processi di interazione tra bisogno ed esperienza sociale con il relativo fenomeno della permeabilità, ai processi di viscosità culturale che caratterizzano il momento della valutazione e, infine, ai processi di intuizione del momento decisionale. 1 due poli del ragionamento sono dati dal bisogno (momento meno intenso) e dalla intuizione (momento più intenso). Il concetto****** di più e meno qui è chiaramente relativo. L’intensità genetica può diventare altissima e fare scadere l’intensità intuitiva a un ruolo periferico, come può verificarsi il caso inverso di un bisogno a intensità bassissimo e un’intuizione ad altissima intensità: tra l’ottusa spontaneità del bruto e la creativa sensibilità del poeta c’è (fortunatamente) tutta una vasta gamma d’intensità che però non si dispone su una linea correttamente mediana, ma presenta, spesso, una tendenza ad esaltare l’intensità intuitiva nei confronti dell’intensità genetica. Ciò potrebbe spiegarsi con una prevalenza ormai inarrestabile dei condizionamenti sociali sugli stimoli genetici.
Testi
* «Il concetto di eguaglianza induce a riflettere proponendo problemi che ad essa si connettono e che non trovano facile risposta. È una relazione? Una relazione fra oggetti oppure fra nomi, ossia segni, di oggetti? Nella mia Ideografia io avevo accettato quest’ultima ipotesi. La eguaglianza esprimerebbe in ogni caso la relazione di una cosa con se stessa, cioè quella relazione che ogni cosa ha con se stessa e nessuna cosa ha con un’altra cosa. Allora non ci resta da pensare altro che a=b voglia dire che i segni, o nomi, “a” e “b” denotano la stessa cosa, e che l’eguaglianza si instauri fra i segni e consista nell’affermazione che c’è una relazione fra questi segni. Così anche espressioni come “stella della sera” e “stella del mattino” avrebbero medesima denotazione, ma non medesimo senso».
(G. Frege, Ricerche logiche, tr. it., Bologna 1970, pp. 135-136).
Tracce del commento
Le possibilità che al mio destino provengono dall’uno non sono movimenti di questo, non sono sue espressioni, che sarebbe impossibile. Sono conseguenze indirette del fare e del fare che riesce ad aprirsi all’avventura del coinvolgimento. La possibilità non sommuove l’uno dalla sua impassibilità, è l’uno che si esprime virtualmente nella mia vita, ma sono io che la rendo possibile subendola come fare, o prendendo l’iniziativa e agendo come trasformazione nell’agire. L’uno è immobile e questa immobilità deve essere considerata qualcosa di diverso dalla immobilità apparente che riscontro nella modificazione, è una immobilità che contiene tutto, quindi anche il fare e il movimento che lo caratterizza, questo contenere è l’essenza dell’uno non secondo lo schema progressivo, o ordine che può essere detto, ma nella condizione istantanea in cui l’uno è e non può non essere. Questa immobilità riflette il mondo che io creo e lo rende possibile nei mille modi in cui il mio relazionarmi si sviluppa. Per capovolgere questo riflettere devo allontanarmi dalla logica che conta e misura, devo passare all’azione abbandonandomi in quello che considero l’oltrepassamento.
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** «I fini ideali, a cui noi leghiamo la nostra fede, non sono ombre vacillanti. Essi assumono forma concreta nella nostra comprensione dei rapporti che ci costringono gli uni agli altri, e dei valori impliciti in queste relazioni. Noi, che adesso viviamo, siamo parte di un’umanità che si estende nel lontano passato, di un’umanità che è stata impegnata in un processo di interazione con la natura. Le cose della civiltà, a cui noi attribuiamo il massimo pregio, non sono soltanto nostre. Esse esistono per opera delle fatiche e delle sofferenze della perpetuantesi comunità umana, di cui noi siamo un elemento. Nostra è la responsabilità di conservare, trasmettere, rettificare ed espandere il retaggio di valori che abbiamo ricevuto, in modo che coloro che verranno dopo di noi possano riceverlo più saldo e sicuro, più largamente accessibile e più generosamente condiviso di quanto l’abbiamo ricevuto noi. Qui ci sono tutti gli elementi per una fede religiosa non confinata nei limiti di una setta, di una classe o di una razza. Una simile fede è sempre stata, implicitamente, la comune fede dell’umanità. Quel che resta da fare, è renderla esplicita e militante».
(J. Dewey, Una fede comune, tr. it., Firenze 1959, pp. 92-93).
Tracce del commento
Il fare è il riflesso dell’intero, una illusione fugace che non riesco a trattenere fra le mani. È una vita intera che rifletto su questo lancio di dadi, su questa partita a carte interminabile. Da vecchio giocatore so che il numero delle possibilità non è infinito e non è del tutto imprevedibile il numero delle passate, l’ordine in cui le combinazioni logiche si presentano in maniera ordinata. Non riesco però a raggiungere l’assenza senza alzare l’ancora dal porto della logica. Mi attirano le nebbie e il rischio. Ancora oggi.
Testi
*** «Così è accaduto che, cercando il concetto della filosofia, abbiamo insieme trovato quello della filosofia e quello della storia, come un concetto solo, che è unità di entrambi fuor del quale si ha la filosofia astratta dei greci, e la storia egualmente astratta degli eruditi, senza significato. Perché se la filosofia moderna è storia, se è la graduale conquista che, lo spirito fa di se stesso come attività dell’essere, o come essere che diviene; per converso, la storia non è altro che la filosofia. E ogni storia speculativa si risolve appunto nella storia della filosofia. Giacché la filosofia non è una direzione determinata dell’attività dello spirito, ma è la stessa attività dello spirito, considerata in ciò che ha di essenziale davvero e assoluto. Questo punto merita, se non m’inganno, tutta l’attenzione. Oggetto della storia, com’è noto, è l’attività umana, in ogni sua forma, in quanto operante, empiricamente, nel tempo e nello spazio. E tante storie perciò si distinguono, quante sono le forme d’attività umana che si possono distinguere l’una dall’altra. Così c’è, per esempio, una storia dell’arte, una storia del costume, una storia dello Stato, una storia delle istituzioni economiche».
(G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 117-118).
Tracce del commento
Investire nell’oltrepassamento equivale a disinvestire nell’immediatezza, ma né il primo movimento è sommatorio né il secondo è azzerativo. Niente è mai pieno e completo nella sua totalità, diversità e fare, agire e coazione, mantengono processi traslativi che sono attaccamenti non bene identificati né all’interno dell’accumulo né sul territorio dell’azione. Nell’oltrepassamento ritrovo me stesso nelle brume della cosa, ma un me stesso oggettivo, incompleto, a sprazzi, distorto dall’assenza dei protocolli che mi regolano impunemente nel fare prigioniero.
Testi
**** «Le leggi della gerarchia prevedono che i dotti, appartenendo al ceto medio intellettuale, non possano trovarsi di fronte a problemi e interrogativi davvero grossi: inoltre il loro coraggio e persino il loro sguardo non sono in grado di arrivare fin là, e quella situazione di bisogno che fa di loro dei ricercatori, il loro intimo anticipare e augurarsi che le cose possano essere fatte così e così, i loro timori e le loro speranze trovano troppo presto quiete e appagamento. Quel che per esempio rende tanto entusiasta, a modo suo, il pedante inglese Herbert Spencer e gli fa tracciare un trattino di speranza, una linea dell’orizzonte dell’auspicabilità, quella riconciliazione finale di “egoismo e altruismo” di cui favoleggia, dà quasi la nausea ai nostri pari: un’umanità le cui ultime prospettive sono le prospettive spenceriane ci sembrerebbe meritevole di disprezzo e di annientamento! Ma già il fatto che egli dovesse percepire come estrema speranza quanto agli altri sembra semplicemente una possibilità obbrobriosa, già questo è un problema che non era in grado di prevedere... Lo stesso dicasi di quella fede che oggi soddisfa tanti studiosi di scienze naturali, la fede in un mondo che deve avere il suo equivalente e la sua misura nel pensiero umano, in un “mondo di verità” a cui si potrebbe accedere definitivamente con l’aiuto della nostra piccola e quadrata ragione umana... Come? Vogliamo davvero sminuire l’esistenza sino a farne un esercizio da contabili, una sedentaria attività da matematici? Soprattutto non si deve volerla spogliare del suo carattere molteplice: lo richiede il buon gusto, signori miei, soprattutto il gusto del rispetto per tutto quello che va al di là del vostro orizzonte! La concezione per cui esisterebbe una sola interpretazione giusta del mondo, quella che dà ragione a voi e vi permette di continuare le vostre ricerche e il vostro lavoro scientificamente, nel senso che voi attribuite a questa parola (intendete forse meccanicisticamente?), tale da ammettere numeri, calcoli, pesi, vista e tatto e niente altro, è goffa e ingenua, posto che non sia una malattia dello spirito, un idiotismo. Non sarebbe invece estremamente probabile che i primi a farsi afferrare siano proprio gli elementi più superficiali ed esteriori dell’esistenza – quelli più apparenti, la sua pelle, il suo farsi senso?».
(F. Nietzsche, La gaia scienza, V, 373).
Tracce del commento
Nell’ombra l’oggetto azione potrebbe dominare se mantenesse in sé traccia sufficiente della struttura fattiva. Non essendoci questa permanenza, è erroneo parlare di oggetto, anche se l’azione è senza dubbio espressione oggettiva trasformante. Il lampo attivo, che prepara l’oscurità, mi acceca e mi rende saggiamente veggente, agisco nella qualità, mentre attorno a me si dispongono le tracce della solitudine e la voce dell’uno che è e che non può non essere. Una miriade di interstizi si dispone davanti alla mia mano alzata, diretta a colpire senza remore e senza bilance valutative, mentre i cascami dei protocolli sono ormai un lontano ricordo. La Bildung e la statua di Atena.
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***** «Prima di terminare, gettiamo ancora, brevemente uno sguardo retrospettivo al corso della nostra ricerca. Per prima cosa abbiamo stabilito che il numero non è un aggregato di oggetti, né una proprietà di qualcuno di essi; e d’altra parte esso non è nemmeno il risultato di un processo psichico. L’attribuzione di un numero asserisce qualcosa di oggettivo intorno a un concetto... Si è mostrato poi che il numero, di cui si occupa l’aritmetica, non va riguardato come un attributo (che dipende per sua natura da qualche cosa di altro da sé) ma come un sostantivo. Il numero è apparso pertanto come un oggetto riconoscibile, anche se non fisico, né spaziale, e anche se la nostra fantasia non riesce a procurarci alcuna immagine di esso. A tal proposito abbiamo stabilito il principio fondamentale, che il significato di una parola non va spiegato considerando questa parola isolatamente, ma considerandola nel contesto di una proposizione. Solo in conseguenza di questo principio è possibile evitare la concezione fisica del numero senza cadere in quella psicologica. Vi è soltanto un tipo di proposizioni che devono avere un senso per qualsiasi oggetto; sono queste le proposizioni che esprimono un riconoscimento. Per il caso dei numeri, tali proposizioni portano il nome di uguaglianze. Anche l’attribuzione di un numero – come abbiamo visto – va concepita come un’uguaglianza. Fu quindi della massima importanza stabilire il senso di un’uguaglianza numerica ed esprimerlo senza far uso di termini numerici o della parola “numero”. La possibilità di far corrispondere biunivocamente gli oggetti che cadono sotto un concetto F a quelli che cadono sotto un concetto G venne considerata come contenuto di un giudizio di riconoscimento di numeri. La nostra definizione dovette dunque porre tale possibilità come avente lo stesso significato di un’uguaglianza numerica... Orbene, se noi interpretiamo come un’uguaglianza la possibilità di porre una corrispondenza biunivoca tra gli oggetti che cadono sotto F e quelli che cadono sotto G (dicendo a tale scopo “Il numero spettante al concetto F è uguale al numero che spetta al concetto G” e introducendo così l’espressione “il numero che spetta al concetto F”), allora si vede che otteniamo un senso per l’uguaglianza presa in esame soltanto se i suoi due membri presentano la forma ora menzionata. Dunque, stando alla nostra definizione, non potremmo giudicare la verità o falsità di una certa uguaglianza, ancorché uno solo dei suoi due membri presentasse la forma anzidetta. Tutto ciò ci ha condotti alla seguente definizione: Il numero, che spetta al concetto F, è l’estensione del concetto “ugualmente numeroso a F”; ove si sia convenuto di asserire che il concetto F risulta egualmente numeroso al concetto G, quando sussista l’anzidetta possibilità di far corrispondere in modo biunivoco gli oggetti che cadono sotto di essi».
(G. Frege, Logica e aritmetica, tr. it., Torino 1965, pp. 345-346).
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L’aggressione violenta del nemico è agire trasformativo solo nel caso che non sia in vista l’impadronimento di uno scopo, di un più o meno circoscritto oggetto di repentina conquista. Se getto in faccia alla volontà la mia perdita ho sùbito un rigetto da parte sua, un più o meno raffigurabile salto indietro. Di questo affronto non mi salvo facilmente, il controllo aumenta e le possibilità di una circumnavigazione labirintica si riducono. C’è nella volontà una ossessiva e incessante caparbietà, una permalosità e una suscettibilità inarrivabili, del tutto sconosciute al territorio della cosa. Il fendente che taglia netto è raro e difficile da capire, quando arriva i movimenti della cosa non sono conoscibili, e a posteriori, dopo il punto di non ritorno rimasto inviolato, non sono neanche rammemorabili. Eppure l’uno che è è presente in esso, come nel mito della Grande Madre aleggia attorno alle ombre che circondano il dio dell’eccesso.
Testi
****** «La forma più rigorosa di questo spiritualismo moderno è quella a cui è oggi pervenuto l’idealismo italiano, e che si dice “attualismo”, perché lo spirito non concepisce come una sostanza, nè il pensiero come attributo di una sostanza; ma lo spirito fa coincidere appunto col pensiero. La filosofia attualistica è così denominata dal metodo che propugna: che si potrebbe definire “metodo della immanenza assoluta”, profondamente diversa dalla immanenza, di cui si parla in altre filosofie, antiche e moderne, e anche contemporanee. Alle quali tutte manca il concetto della soggettività irriducibile della realtà, a cui si fa immanente il principio o misura della realtà stessa. Ma l’individuo naturale per la filosofia attualistica è esso stesso qualche cosa di trascendente: perché in concreto non è concepibile fuori di quel rapporto, in cui esso, oggetto di esperienza, è indissolubilmente congiunto col soggetto di questa, nell’atto del pensiero mediante il quale l’esperienza si realizza».
(G. Gentile, Introduzione alla filosofia, Firenze 1952, pp. 18-19).
Tracce del commento
La voce dell’uno nella desolazione dell’azione è la guida di un viaggio erratico che una volta iniziato non può essere più controllato. La nave senza timone strozza sul nascere qualsiasi tentativo di mettere regole. Il punto simboleggia la distruzione e la paralisi di ogni intenzione buona basata sul consenso e sulla prudenza. Mi avvio e sono io stesso la perdita. Il rumore delle esplosioni era assordante e ripetitivo. Quando crollava un muro mi spostavo al riparo di un altro muro prenotato al crollo. Guardando bene, strane figure si vedevano circolare nei corridoi diroccati dell’ospedale. Non era facile capire se feriti o soccorritori. A volte, nell’azione, la puntualità attiva si dilata, a volte si restringe, sono sempre io col coltello in mano, ma mille me stesso mi stanno attorno, non conosco interruzioni. I nodi borromei e i nastri di Möbius.
Sedicesima lezione: 24 giugno 1980
L’insieme dei fatti lo consideriamo quindi come una totalità con piena caratteristica sociale. Cioè, tutti i fatti hanno una significatività sociale, nessuno escluso. Cade il problema sollevato dagli psicologi sociali di una categoria di fatti che non sono sociali ma quasi sociali. È un problema affrontato da Lewin*. Non mi pare sostenibile, dal mio punto di vista, una differenziazione come questa. Essa si fonda sulla stessa motivazione che porta Lewin a operare una differenza tra realtà e irrealtà. Certo, non ci vuole molto ad ammettere che esistono fondamentali differenze tra una fantasticheria e un’azione concreta, ma sul piano sociale le due azioni hanno conseguenze, di ordine diverso se si vuole, ma sempre conseguenze perché sono ambedue in grado di interagire nello spazio sociale. Il fatto che questa interazione sia diversa non le qualifica in modo diverso, in quanto si tratta di un problema di intensità.
Nei riguardi del rapporto tra irrealtà e realtà, Lewin scrive**. Questo modo d’intendere la realtà non mi pare condivisibile. Esso dicotomizza un’unità che se ha ripartizioni dualistiche le ha per un altro verso ben più significativo. A Lewin questo genere di impostazione è utile per recuperare i concetti di fuga e di spostamento all’interno della sfera della personalità, concetti che, per un altro verso, ripropongono i limiti della psicologia tradizionale di tipo associazionistico. Lewin infatti immagina diverse regioni all’interno dello spazio psicologico (o spazio di vita) regioni che tutte insieme corrispondono alla personalità dell’individuo. Per me, come ho già accennato, l’immagine topologica descritta nelle figure precedenti (da fig. 1 a fig. 6), corrisponde alla situazione dell’individuo e non all’individuo e basta, concetto, quest’ultimo, che minaccia continuamente di cadere in una serie di contraddizioni idealistiche, individuo sociale, individuo fisico, individuo morale, individuo economico, ecc. Ammessa questa posizione di partenza, cioè che lo spazio topologico rappresenta la personalità, Lewin è obbligato a dare conto di una differenziazione tra realtà e irrealtà in quanto si tratta di due momenti vissuti in modo diverso dalla persona. Infatti, sarebbe assai insufficiente rappresentare l’individuo solo sul piano della realtà. Egli si muove e agisce anche su piani irreali. Pertanto, Lewin si chiede se il passare che fa un individuo dal campo della realtà a quello della fantasia nell’affrontare un problema, sia da considerarsi come una vera e propria locomozione dell’individuo come tutto. La risposta resta dubbia, in quanto è certo che in questo caso non è tutto l’individuo che si trasferisce nel campo dell’irrealtà, ma qualcosa resta nel campo reale, come ad esempio l’individuo in quanto essere fisico. Questa stratificazione in livelli di diversa intensità di realtà, è una caratteristica dell’analisi di Lewin dell’ambiente psicologico della persona. Secondo questo studioso, l’adulto fugge nell’irrealtà quando il livello della realtà diviene pieno di tensioni ed assume una totalità sgradevole. Lewin fa l’esempio del bambino in cui gli strati di realtà e di irrealtà sono separati ancora solo in lieve maniera. Ma questo esempio parte di già preconcettamente dall’ipotesi di questa separazione più o meno lieve che sia. Il bambino ha un modo di pensare che rivela tracce di “magia”, continua Lewin, per cui sarà l’educazione a fare superare al bambino la concezione magico-animistica del mondo, con un processo di natura essenzialmente intellettuale. All’origine della separazione tra realtà e irrealtà ci sta, nel bambino, l’esperienza di fatti che non si svolgono come egli vorrebbe. Per cui, continua Lewin***. Manca in tutto questo discorso una valida interpretazione del perché si constata una presa con la realtà più vivace e comunque più precoce nel bambino del proletariato. Non basta un’affermazione di tipo statistico, e lo stesso Lewin ebbe a rifiutare in linea di massima la validità di questo tipo di affermazioni. Occorre una collocazione più ampia e generale del problema che possa identificare una risposta specifica in relazione a specifiche situazioni sociali (nel caso in specie la situazione “proletaria”). Lewin descrive che cosa fa il bambino del proletariato, cioè come esso aderisce prima alla realtà, fuggendo presto dal “mondo dei sogni”, ma non ci spiega perché ciò avvenga e chi può considerarsi appartenente al “proletariato”, onde rendere intelligibile l’affermazione che altrimenti resta vaga e priva di significato concreto in campo sociale. Ancora una volta, l’astrattezza teorica gettata fuori dalla porta da Lewin rientra dalla finestra. Il concreto individuale gli si frantuma nell’astratto sostanziale dell’individuo privato dalla sua radice sociale.
La situazione dell’individuo possiede notevoli capacità di apertura: in essa la potenzialità delle forme sociali si contrappone al potere delle strutture istituzionali. È a questo livello che si avvertono i primi segni del conflitto di classe. Il fondamento della situazione è sempre il movimento, ciò significa che la situazione è un avvenimento in corso di realizzazione. Il decorso di questa realizzazione segna un punto critico che viene chiamato personalità****. Il flusso dei significati si acuisce in una serie di tensioni che creano un orientamento. Ogni campo viene visto attraverso gli occhi della personalità. Ogni situazione guarda se stessa attraverso gli occhi della personalità.
I diversi approcci al problema della personalità si possono riassumere in funzione delle tendenze che si sono cristallizzate in psicologia. La tendenza psicanalitica mette in risalto la componente istintuale della personalità per cui finisce per accettare una sostanziale immutabilità del nucleo centrale primario della persona, nucleo che resta immobile salvo grossi traumi o interventi clinici. Questa posizione nega del tutto un qualche ruolo al campo sociale in quanto la percezione che il soggetto possiede dell’esterno è un prodotto della sua stessa personalità e non può subire modificazioni se non in misura del tutto trascurabile. La tendenza interpersonale o della cosiddetta psicologia individuale trascura la componente istintuale e i processi inconsci e mette in rilievo le relazioni interpersonali allo scopo di descrivere la formazione della personalità, per cui quest’ultima diventa un qualcosa in continuo mutamento. Anche in questa posizione teorica è dato pochissimo significato al campo sociale in quanto la molla che spinge la personalità al cambiamento continuo è da ricercare nelle altre individualità e non nel loro insieme. La tendenza analitica insiste sul ruolo dell’inconscio personale e dell’inconscio collettivo nella formazione della personalità. Questa teoria sottolinea la grande importanza delle componenti collettive, delle pratiche irrazionali, della diffusione delle credenze*****, ecc., allo scopo di capire come si modifica la personalità.
La tendenza lewiniana riguardo il problema della personalità si fonda in modo particolare sull’idea di campo. Di questa tendenza è bene parlare con maggiore dettaglio.
Per Lewin, il problema della personalità è qualcosa che si può oggettivare nello spazio e, difatti, è proprio per questo che egli usa lo strumento topologico. Per lui ambiente e persona non sono due termini contrapposti e neppure parti della realtà indipendenti tra loro. Al contrario, essi sono i due elementi costitutivi di ciò che egli chiama “spazio di vita” di un individuo. A questo punto, per Lewin, si posero due possibili vie di sviluppo del suo pensiero: secondo la prima, la persona sarebbe qualcosa di assolutamente unitario, cioè ogni mutamento in una sua parte si rifletterebbe inevitabilmente in tutte le altre; secondo la seconda, la persona sarebbe un insieme di sfere separate. In effetti, l’unità della coscienza e l’unità della persona sono spesso usate come fondamento di teorie che portano alla loro identità, ma Lewin conclude dicendo che il problema dell’unità della coscienza non si identifica con quello dell’unità complessiva della regione delle forme e dei processi psichici in tensione, cosa che da un punto di vista globale viene considerata come “mente” dell’individuo. Pertanto, si ha che l’unità psichica di un individuo è diversa da quella di un altro. “La sua individualità – precisa Lewin – nel senso di ciò che distingue la sua natura da quella di altri individui, appare in qualche modo sempre come la stessa speciale e caratteristica individualità in ognuno dei suoi processi, delle sue parti e delle sue espressioni”. In un altro testo, parla del problema della “situazione”******. Comunque Lewin ritorna all’interno di una problematica associazionistica e individuale. Infatti, considerare la personalità come risultante di un certo modo di agire e, quindi, sottolineare l’aspetto conflittuale di certe situazioni e i problemi di movimento all’interno dello spazio “vitale”, significa mettere in una particolare posizione di preminenza proprio l’attività del soggetto e subordinare a quella il risultato oggettivo dei rapporti sociali e le relative conseguenze sul soggetto.
Testi
* «Per quanto riguarda l’appartenenza dell’individuo a un determinato gruppo, noi dobbiamo considerare le idee e le convinzioni dell’individuo stesso e il modo in cui queste esercitano un’influenza su di lui più che i criteri legalmente e sociologicamente definiti di appartenenza al gruppo. Nel rappresentare la situazione psicologica noi dobbiamo includere i fatti sociali, come i fatti fisici, solamente nella misura e nella maniera in cui essi esercitano influenza sulla persona presa in considerazione. In questo modo, noi parleremo di fatti quasi-sociali piuttosto che di fatti sociali. La relazione tra fatti puramente sociologici e quasi-socìah è complicata dalla cognizione che anche per la sociologia come tale le opinioni degli individui circa le relazioni sociali nelle quali essi vivono giocano un ruolo importante. Ciò si verifica anche con persone che consciamente non hanno alcuna consapevolezza delle loro relazioni sociali. Certamente il comportamento dei popoli, sarebbe differente se fossero pienamente coscienti della loro reale interdipendenza sociale. Così i fatti psicologici sociali (i fatti quasi-sociali della psicologia) hanno grande importanza per la sociologia stessa e rappresentazioni di fatti psicologici, specialmente di quelli psicologico-sociali, potrebbero essere applicate fruttuosamente in sociologia».
(K. Lewin, Principi di psicologia topologica, tr. it., Firenze 1961, pp. 28-29).
Tracce del commento
Gli sbalzi di adattamento interni al fare non dipendono tutti dalla modificazione tecnologica, la lumaca accumulativa spesso è sopravanzata dal cielo aperto, stellato, dove improvvisamente si scatenano forze incontrollabili ed esplosioni distruttive, anch’esse facenti parte della pantomima che si recita sul palcoscenico del fare coatto. Il fare, estremizzando le sue potenzialità produttive, coinvolge anche l’esecrazione delle forze distruttive, si autolimita e costruisce percorsi sepolti vivi, al di là dello stesso disorientamento che posso produrre scientemente per frammentare i riferimenti protocollari della volontà.
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** «Una fantasticheria, una speranza vaga, hanno in generale meno realtà di un’azione; un’azione a volte ha maggiore realtà di un discorso; una percezione più di un’immagine; un lontano “fine ideale” ha meno realtà di un “fine reale” che determina l’immediata azione di un individuo. La stessa azione può avere gradi di realtà molto differenti. I processi che concernono forti bisogni dell’individuo e nei quali egli deve sormontare forti barriere fisiche o sociali, hanno normalmente un alto grado di realtà. Fra i processi quasi-concettuali è possibile distinguere, ad esempio, considerazioni prudentemente progettate dalla maniera e dai mezzi che portano ad un certo fine, dal gioco libero della fantasia che è più irreale».
(K. Lewin, Principi di psicologia topologica, tr. it., Firenze 1961, p. 208).
Tracce del commento
La via per arrivare all’azione passa per correnti oscure e non valutate bene dalle scelte volontarie, sia pure quelle meramente di controllo. Ci sono sorgenti intime, estremamente violente, che il fare ha difficoltà a padroneggiare e che alla fine lascia da canto come fossero residui, quando sono parti ineliminabili dell’applicazione protocollare. Alla fine ciò intralcia l’intero metabolismo produttivo, ne fraziona drasticamente la consapevolezza complessiva. Una ricca miniera di conoscenze fattive è così interrotta qua e là da improvvisi ostacoli, occlusioni artificiali che inaridiscono le variegate vene preziose. Le ferite che il produrre causa non sono più accumulabili e finiscono per ossessionare anche chi le causa e di esse si pasce guadagnandoci.
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*** «Educare per il presente, non può significare educare a vivere in una situazione momentanea, “puntuale”. Il problema dell’estensione dello spazio di vita psicologico del bambino, che va al di là dei problemi intellettuali e didattici, è strettamente collegato con la separazione psicologica dei livelli della realtà e della irrealtà. Lo sviluppo di un livello di realtà che costituisca una chiara e solida base per il periodo della maturità, richiede che il libero spazio di vita del bambino non sia troppo ristretto. La separazione di realtà e irrealtà sembra di solito verificarsi prima nei bambini del proletariato; ma sappiamo che questo non è sempre un vantaggio, e che un ambiente troppo duro conduce ad un arresto dello sviluppo. Analogamente, una netta separazione fra realtà e irrealtà è prodotta dal costituirsi di una situazione di costrizione, dominata dal principio di autorità; ma l’eccessiva ed arbitraria separazione di questi livelli comporta il pericolo di soddisfazioni sostitutive nascoste e, più tardi, quello di una crisi dell’intero livello di realtà».
(K. Lewin, Teoria dinamica della personalità, tr. it., Firenze 1965, p. 190).
Tracce del commento
L’errore non può essere curato con un errore più grande, la corsa alla vendetta, fondata e giustificata quanto si vuole, parte sempre, deve per forza partire sempre, da una lama da tagliagole. Chi non ha vissuto questa esperienza non sa come comportarsi di fronte ai fantasmi che l’orrore fa emergere dalla bruma e dalle tenebre, è portato a minimizzare la consistenza fisica di questi fantasmi inconcepibili nel caldo, confortevole cantuccio delle ideologie.
Testi
**** «Raramente un libro ebbe titolo più espressivo, comprensivo, esauriente di quello che Schopenhauer mise in testa al suo capolavoro, in cui sviluppò un unico pensiero e che è l’unica opera, in fondo, da lui composta perché tutto quello che egli poi scrisse in una lunga vita di settant’anni vuol esserne documentazione e conferma. Il mondo come volontà e rappresentazione, questo non è solo un pensiero ridotto alla sua forma più semplice; è anche l’uomo, l’uomo con tutta la sua umanità e personalità, con la sua vita e con i suoi dolori. Gli impulsi della volontà, specie quelli sensuali, debbono essere stati straordinariamente forti e pericolosi in quest’uomo, debbono averlo torturato come quelle immagini mitologiche con cui egli descrive il tributo che l’uomo è costretto a pagare alla volontà. Questi impulsi debbono aver formato un parallelo di così perfetto contrasto con la potenza del suo bisogno conoscitivo, col vigore e con la chiarezza della sua spiritualità da risultarne, come conseguenza che potremmo dire, ma in un senso altissimo, grottesca, un dualismo spaventosamente radicale, un tragico dissidio dell’esperienza, un desiderio profondo di redenzione, un rinnegamento spirituale della vita stessa accusata di essere in sé e per sé cattiva, erronea, colpevole. Il sesso è per Schopenhauer il “punto focale” della volontà, il polo opposto, nella sua ubiettivazione corporea; del cervello, che rappresenta la conoscenza. Il fatto che, come appare manifesto, queste due sfere avessero in lui una potenza ben superiore che non nella comune media degli uomini, starebbe a provare la forza e la pienezza della sua natura. Ciò che fa di lui un pessimista e negatore del mondo è il rapporto ostilmente dualistico, esclusivo e doloroso in cui si trovano fra loro le due sfere. Esso d’altronde non impedisce di chiamare il suo pessimismo un prodotto spirituale, facile ad esser falsamente inteso, della forza e della pienezza. In maniera bipolare, piena di contrasti e di conflitti, tormentosamente violenta, egli vive il mondo come istinto e spirito, passione e conoscenza, “volontà e rappresentazione”. Ma che cosa sarebbe avvenuto se egli avesse trovato la loro unità nel suo genio, in una creazione artistica propria; se avesse capito non esser affatto vero che il genio non sia altro che sensualità messa a tacere e volontà devitalizzata; che l’arte non rappresenta un’obiettività spirituale, ma è invece il connubio fecondo e avvivante delle due sfere, la loro compenetrazione, connubio più affascinante di quel che non possono essere il sesso e lo spirito separatamente considerati? che arte e creazione artistica altro non sono, e in lui altro non erano, che sensualità spiritualizzata e spirito reso genialmente fecondo dal sesso? Ben vide ed esperimentò tutto questo Goethe e in maniera ben diversa dal pessimista Schopenhauer, in maniera più felice, più sana, più serena, più “classica”, “non patologica” (intendendo qui la parola “patologico” in senso spirituale e non clinico), non, per dirlo con una parola, romantica. Per Goethe sesso e spirito, idea e amore, erano gli stimoli più forti, e così cantava: “La vita è infatti l’amore – e vita della vita lo spirito”. Per Schopenhauer invece quanto più le due sfere genialmente si affermano, tanto più trovano il loro superamento nell’ascetismo. Il sesso è per lui turbamento diabolico della pura conoscenza e la conoscenza quella negazione del sesso che dice: “Se il tuo occhio ti dà scandalo, strappalo via”. Conoscenza come “pace dell’anima”; arte come sedativo, come riscatto, come stato che ci redime, in cui la volontà ha cessato di farsi sentire; l’arte come “pura” contemplazione e l’artista preludio del santo che con l’annientare la volontà esce fuor della vita: queste idee sono ben di Schopenhauer. Una tale concezione dello spirito e dell’arte in quanto obiettivamente apollinea, ha certo, sia detto ancora una volta, contatti con quella di Goethe e mostra un carattere classico. Ma d’altro lato il suo estremismo e ascetismo sono tipicamente romantici, e al gusto di Goethe, come possiamo meglio di tutto vedere nel comportamento di questi verso Enrico von Kleist, dovevano senz’altro ripugnare. È probabile che con tali sentimenti di repugnanza egli abbia letto Il mondo come volontà e rappresentazione consentendo in alcuni risultati, ma in fondo con un atteggiamento negativo, con un senso “ipocondriaco” verso l’insieme; e così crollando il capo, l’avrà messo da parte; sappiamo effettivamente che dopo il primo moto di curioso interessamento mise il libro da parte e non finì di leggerlo».
(T. Mann, Nobiltà dello spirito, tr. it., Milano 1956, p. 671).
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L’inquietudine non è una banale insoddisfazione di fronte all’incompletezza conclamata del meccanismo produttivo, essa è paura e pietà per me stesso nello stesso tempo, visione anticipata della morte, della mia morte, visione confusa e inconcepibile, di cui non c’è traccia nel fare se non sotto la veste della morte degli altri. Modulare le risposte alla inquietudine all’interno del campo rientra nella coazione a ripetere, tipica del produrre e, alla fine, prepara a vivere nell’anticamera dell’obitorio. Imparo a percepire direttamente la mia stessa decomposizione, registro senza volerlo tutti i processi entropici di cui sono contenitore, e così attutisco l’inquietudine e impedisco che il suo completo scatenamento mi conduca altrove.
Testi
***** «Le credenze speculative e gli articoli di fede, che non richiedono null’altro, se non di essere creduti, non possono essere in nessun modo introdotti in una chiesa per opera della legge civile. Che cosa si ottiene, infatti, a sancire con una legge civile ciò che non può essere eseguito neppure da chi vorrebbe eseguirlo con tutte le sue forze? Inoltre il magistrato non deve proibire che le opinioni speculative, qualunque esse siano, vengano professate e insegnate in qualsiasi Chiesa. Se un cattolico romano crede che sia veramente il corpo di Cristo ciò che un altro chiamerebbe pane non arreca nessun torto al suo concittadino. Se un ebreo non crede che il Nuovo Testamento sia parola di Dio non per questo altera i diritti civili. Se un pagano non crede né nell’uno né nell’altro Testamento non per questo deve essere punito come cittadino disonesto. Si creda o non si creda in queste cose, il potere del magistrato e i beni dei cittadini possono restar salvi ugualmente».
(J. Locke, Epistola sulla tolleranza, in Scritti editi e inediti sulla tolleranza, tr. it., Torino 1961, pp. 136-137).
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L’interpretazione oltre a sviluppare la critica negativa sviluppa la capacità di un modulo differente di ripetizione, non più l’autoconservazione ma la plurima rimessa in discussione dei vari elementi protocollari che rendono così potente il meccanismo del fare coatto. La consonanza tra questi due ordini di ripetizione è puramente accidentale. Ogni passaggio interpretativo toglie un sostegno alla regolarità del fare e la revoca in dubbio, da un altro punto di vista questi passaggi alimentano ogni volta le analogie e i simboli del mito e concorrono, spesso in maniera inavvertibile, all’oltrepassamento.
Testi
****** «Se ci si propone di descrivere una situazione da un punto di vista dinamico (vale a dire con un approccio che dovrebbe alla fine consentire una predizione), la situazione va considerata come una totalità di eventi o azioni possibili. Ciascun cambiamento nella propria posizione sociale – la promozione da un grado al successivo, l’amicizia con un gruppo di bambini, l’improvvisa ricchezza della propria famiglia, ad esempio, significa che abbiamo accesso, o non l’abbiamo più, a certe cose, a certe persone, a certe attività. Si può parlare, a questo riguardo, di spazio di movimento libero e delle sue frontiere. Per movimenti dobbiamo intendere non soltanto le locomozioni dei corpi, ma soprattutto, le ‘locomozioni” sociali e mentali. Queste tre specie di locomozioni sono alquanto diverse, ma la psicologia e la sociologia le devono riconoscere tutte e tre quali accadimenti reali. Lo spazio di movimento libero di una persona o di un gruppo sociale può rappresentarsi come una regione topologica circondata da altre regioni inaccessibili».
(K. Lewin, I conflitti sociali. Saggi di dinamica di gruppo, tr. it., Milano 1972, pp. 41-42).
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Jules Michelet non amava che le sue lezioni venissero raccolte e divulgate. Nel piccolo universo di chi lo ascoltava sentiva un rapporto che altrimenti gli sarebbe sfuggito. Penso che nello scrivere il problema sotto certi aspetti, sia lo stesso. Non amo le esitazioni, anche se spesso vi sono costretto dagli accadimenti, o da qualcuno che riesce a scovarmi e mi mette in imbarazzo, mi basta quello che continuo a dire ai miei pochi ascoltatori e spesso mi immagino le obiezioni anche se non vengono avanzate da voi sebbene suggerite dai vostri occhi. Altre volte sono io stesso a trarre in inganno, non per malintenzionata cattiveria, ma per irrobustire la mia e la vostra perspicacia, perché per penetrare dentro quello che dico ce ne vuole tanta. La triviale e seccamente comoda occasione di dialogo mi è estranea, quando vengo sollecitato a farlo o mi rifiuto seccamente, come nel caso delle interviste, o invito l’altro a farsi prima i muscoli.
Diciassettesima lezione: 27 giugno 1980
Dedichiamoci adesso a comprendere meglio il concetto di interazione il quale è di già venuto fuori più volte nel corso di queste lezioni riguardanti lo spazio sociale. Gli elementi del concetto sono quelli della simultaneità*, della reciprocità**, della totalità dell’insieme***.
La situazione è il centro propulsore dell’interazione nello spazio sociale. Questo centro propulsore ha delimitazioni che sono costituite da interazioni, cioè da mutamenti in corso e da relazioni con altre situazioni. Questi movimenti sono quindi modificazioni dell’ipotesi di una astratta situazione fissa e identificabile. Noi abbiamo l’esperienza della situazione che si modifica “nel tempo”, cioè nel contesto convenzionale che rende leggibile l’intero processo sociale. Il tempo, infatti, è una delle condizioni del processo sociale. L’alta componente simbolica e modellistica del tempo, corrisponde esattamente all’artificiosità e alla prevalenza della struttura istituzionale. Man mano che dalla dimensione istituzionale si passa a quella sociale, nel senso della forma sociale, l’importanza del tempo diminuisce fin quasi a scomparire. Il tempo personale, infatti, è qualcosa di molto diverso (intimamente diverso) del tempo ufficiale, scandito dall’orologio. Per questo motivo c’è una diversa considerazione del tempo nell’ambito della situazione e nell’ambito del campo. La stessa cosa (situazione e campo) hanno quindi due modi di considerare il tempo. Sotto l’aspetto oggettivo il tempo, ovviamente, non esiste ed è la sua assenza reale che determina un flusso di significati diverso da quello che si realizza proprio a causa della sua presenza (sia pure come modello) nella prospettiva del campo.
L’interazione è quindi il funzionamento del campo (e della situazione) nella prospettiva di un processo di modificazioni (movimento). L’insieme delle interazioni, limitato dalle strutture istituzionali, costituisce la totalità delle forme**** sociali. Il territorio di questa delimitazione, caratterizzato anch’esso da un continuo modificarsi (movimento), è quello che si chiama livello dello scontro di classe.
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* «Per il pluralismo, tutto quello che dobbiamo ammettere come componente la sostanza stessa della realtà è unicamente ciò che troviamo realizzato di fatto nella più piccola frazione di vita finita. Ecco, insomma, a che cosa si riduce: nulla di reale è assolutamente semplice; ogni particella dell’esperienza, per quanto piccola essa sia, è un multum in parvo tramite le sue molteplici relazioni. Ogni relazione non è che uno degli aspetti, dei caratteri o delle funzioni di una cosa, oppure una delle azioni che le sono proprie, o ancora una delle azioni che essa subisce da parte di un’altra cosa. Infine, una particella di realtà, una volta impegnata in una di queste relazioni, non è impegnata per questo fatto e simultaneamente, in tutte le altre. Le relazioni non sono tutte “solidali” fra loro, come dicono i Francesi. Senza perdere la sua identità, una cosa può aggiungersene un’altra o lasciarla andare».
(W. James, Aspetti essenziali del pragmatismo, tr. it., Lecce 1967, p. 225).
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Se interpreto il fare per via analogica e metto fuori gioco la volontà irretendola nei giochi labirintici del mito, sono sulla via dell’oltrepassamento. In queste condizioni ogni impulso al coinvolgimento è correttamente inserito in una prospettiva altra, il dio della vita lavora accanto a me, anche se io non sempre ne colgo i segni disgregatori.
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** «Per quanto singoli pensatori si siano sforzati di introdurre, in quelle rare manifestazioni di moralità cui si suole dare il nome di ascesi e santità, un elemento miracoloso contro il quale sarebbe già sacrilegio e profanazione puntare il lume di una spiegazione razionale, altrettanto forte è però a sua volta la tentazione di commettere un tal sacrilegio. Un forte impulso della natura ha condotto in ogni tempo a protestare contro quei fenomeni; la scienza, in quanto è, come abbiamo detto, una imitazione della natura, si permette almeno di elevare protesta contro l’affermata inspiegabilità, anzi inavvicinabilità di essi. Sinora, invero, non le è riuscito: quei fenomeni restano ancor oggi inspiegati, con enorme piacere di quegli ammiratori del moralmente miracoloso di cui sopra. Infatti, parlando in termini generali, l’inesplicato deve restare affatto inesplicabile, e l’inesplicabile dei tutto innaturale, sovrannaturale, miracoloso: questo esige l’anima di tutti i religiosi e metafisici (anche degli artisti, quando siano anche pensatori); mentre l’uomo scientifico in tale esigenza vede il “principio del male”. La prima considerazione di carattere generale che si formula considerando la santità e l’ascesi è questa, che la loro natura è complicata: infatti quasi dappertutto, nel mondo fisico come in quello morale, si è riusciti con fortuna a ricondurre il preteso fatto miracoloso al fatto complicato, molteplicemente condizionato. Arrischiamoci dunque a isolare dapprima singoli impulsi nell’anima degli asceti e dei santi e a pensarli poi in reciproca connessione».
(F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, 136).
Tracce del commento
La condizione che oggi la realtà impone come obbligo è quella di chiudersi in casa totalizzando, con i tanti mezzi a disposizione, la propria solitudine. Raccontare, quindi ripetere, questo maestoso fatto nuovo, è rafforzarlo nella sua chiusura, occorre portarlo davanti alle proprie responsabilità, interpretarlo, farlo parlare nella lingua ostica al fare, che è l’agire, evocare quello che sta altrove e che nella rammemorazione può tornare a processare nuovamente nei limiti protocollari del fare, stornare, indirizzare verso camminamenti inconsueti, dove i cimiteri del passato lasciano insepolte le idee più pericolose e sconvolgenti.
Testi
*** «La grande forza dello stoicismo fu nell’arrecare una ragione di vivere che poteva soddisfare gli spiriti più diversi.
«Agli uomini assetati di grandi imprese forniva un principio, perché collegava l’atto individuale all’azione benefica del Logos. Ogni piano di riforma era così giustificato. Il politico stoico, quale il re Cleomene, si sforzava di rendere l’angolo dell’universo, ove si esercitava il suo potere, più conforme all’Ordine universale, più compenetrato di ragione.
«A quelli maggiormente inclini alla scienza pura, alla vita teoretica com’è intesa da Aristotele, lo stoicismo offriva un bell’oggetto di contemplazione: ritrovare, fin nello spezzettamento delle cose e nei particolari più minuti degli eventi, l’Ordine manifestato dal corso degli astri del cielo; scoprire ovunque il dito di Dio, prendere coscienza dell’armonia, dell’unità del Tutto, comprendere come ogni oggetto, ogni fatto di quaggiù, si congiunga in un insieme che, nonostante i dolori umani, deve apparire, in fondo, saggio e buono.
«Era possibile, infine, che per certe anime meno portate all’azione, meno preoccupate del sapere puro, più meditative, in una parola più religiose, questo assenso all’Ordine universale si volgesse in preghiera, in unione a Dio. Tale fu, pare, il caso di Cleante. Il suo panteismo non sembra fondato sulla contemplazione estetica della bellezza delle cose. Egli non parla affatto, come, più tardi, un Vettio Valente, un Tolomeo, dell’emozione suscitata dalla vista del cielo stellato. Quanto al sentimento religioso della natura, degli alberi, del mare, della montagna, esso è molto raro nell’uomo antico. Il misticismo di Cleante, se il termine non è eccessivo, sgorga da una fonte più intellettuale e più astratta. Il saggio obbedisce al Destino, vede l’Ordine. Egli sa che quest’Ordine è buono. E, risalendo di là fino al principio dell’Ordine, fino a questo Logos divino che penetra tutti gli esseri, si colma di questa presenza. Egli conosce che Dio è in lui, com’è nella pietra, nell’erba dei campi, nell’uccello che vola».
(A. J. Festugière, La révélation d’Hermès Trismégiste, vol. II, ns. tr., Paris 1949, p. 331).
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L’interpretazione non è mai una riesumazione o una risuscitazione, è sempre un processo in cui l’immaginazione trascina con sé il livello produttivo mettendolo di colpo fuori strada e collocandolo in una sorta di radura nella foresta dove il completamento cessa di essere scopo più o meno dichiarato. Questo lavoro è differente dal fare e nel contempo gli è molto vicino, non duplica anche quando ripete perché lo scopo adesso è venuto a mancare. La vita nell’avviamento all’oltre, all’assolutamente altro, non è più interrata, non è un cammino fra tombe anonime e sepolcri con tanto di etichetta, va verso la leggenda e il mito, ma non per sostituire scopo a scopo, completezza a completezza. Spinoza e il suo né ridere né piangere ma capire segna qui un limite negativo, appartiene del tutto al fare.
Testi
**** «Il grandioso sforzo di Spinoza è quello di guardare la realtà non con occhi umani, ma con quelli stessi della realtà se essa ne possedesse. Un realismo, la cui intrepidità non è mai stata oltrepassata; un perfetto ateismo, “merum Atheismum”, come bene avevano visto i contemporanei, se ci si rappresenta Dio secondo il concetto comune delle religioni, cosicché si corre rischio di equivocare profondamente nella comprensione dell’Etica se la parola “Dio” mentalmente non vi si cancella, e Johannes Clericus riferiva la voce che in una presunta redazione originale olandese di essa quella parola non figurava neppure e solo vi figurava la parola “Natura”; una qualche inclinazione materialistica e (nonostante l’abituale opinione) un radicale irrazionalismo e un’ampia venatura di scetticismo – questi sono i tratti caratteristici dell’eroico pensiero spinoziano.
«Non importa (e non è spiritualmente fruttuoso) esporre Spinoza storicamente. Importa esporlo secondo lo sentirebbe oggi colui nel quale il motivo spinoziano, motivo immortale, rivivesse di vita profonda e ardente. Importa a tal uopo cercar di trasportarci rapidamente in una visuale del mondo totalmente diversa da quella nostra abituale: in una visuale alla cui luce questo nostro mondo multiforme, variopinto, agitato, passionale, si scolora e si immobilizza in una rigidità cristallina, ma che pure è visuale di immensa elevazione, chi sa innalzarsi alla quale, da un’altezza ancora maggiore di quella a cui solleva il più puro pensiero religioso, può con senso di assoluta pace interiore abbassare lo sguardo su questo nostro mondo tumultuante senza più nessun turbamento».
(G. Rensi, Spinoza, Roma 1929, pp. 7-8).
Tracce del commento
Recuperando gli sforzi che il fare elabora anche per catturare il mito, riporto in modo organico le interpretazioni nel loro alveo originario, spegnendone la carica eversiva. Tutto è massificabile, perfino le straordinarie pulsioni del dio delle donne. Il sogno della cosa si capovolge così nella scatola sigillata dell’oggettualità e mostra le sue molte facce praticamente indistinguibili. Una sconfitta amara a cui il sogno di completezza è abituato.
Diciottesima lezione: 28 giugno 1980
L’idea di interazione non ha avuto una facile gestazione all’interno della storia del pensiero. Di regola, si preferisce discutere subito delle interpretazioni sociologiche di questo concetto, tutte le volte in modo più o meno diretto ricorrendo al concetto meccanico di equilibrio. Di già Kant aveva preso posizione nei riguardi dell’interazione definendola un “principio puro dell’intelletto” nella Critica della ragione pura*. È da sottolineare il notevole tentativo di Kant di riportare il concetto di scambio reciproco (interazione) – donde il non accidentale riferimento al significato di commercium – al concetto di comunità, concetto che esprime con chiarezza il significato di totalità e, per il modo di vedere le cose qui espresso, il significato di modo d’essere della forma sociale nel suo complesso. Che poi in questa concezione di Kant resti il concetto di equilibrio, non ipotetico ma reale, questo è un altro problema.
Anche in Schelling appare chiaramente il concetto che ciascuna cosa non può reggersi come un porsi nel mondo, come semplice autoaffermazione che non può essere intaccata da limiti o da negazioni. Scrive Schelling**. Il problema sollevato da Schelling è di grande importanza in quanto richiama l’attenzione sulla possibile duplicazione dell’immagine della situazione astratta con la situazione concreta, duplicazione che si verifica tutte le volte che si cerca di inserire procedimenti interpretativi fondati sulla causalità all’interno dello schema di campo con cui diventa ragionevole capire il funzionamento della totalità.
Johann Friedrich Herbart*** discute sui pericoli di una fittizia contraddizione tra situazioni prese singolarmente e richiama l’attenzione sulla necessità di un concetto dell’interazione. Qui Herbart sottolinea – sempre all’interno dello schema dell’equilibrio – l’esistenza di un elemento di aggiunta alla semplice somma delle relazioni (o dati di fatto), elemento di aggiunta che modifica l’insieme delle condizioni possibili (flussi relazionali) con la sua semplice presenza, portando i flussi non verso uno stato (illusorio) di equilibrio, ma verso una permanente modificazione (movimento) della realtà. Questa considerazione avrà particolare valore anche nel corso delle presenti lezioni, proprio perché permetterà di vedere sotto angolazioni più produttive il concetto stesso di totalità.
Il riferimento all’equilibrio è fatto esplicitamente dai sociologi come Vilfredo Pareto**** o come Talcott Parsons. Si tratta della ripresa di un’analogia meccanica che deve essere spiegata. Pareto a questo proposito è molto esplicito. Qui è chiara l’analogia con la meccanica e i suoi stati di equilibrio dinamico. Ma Pareto precisa lui stesso questa dipendenza*****.
Anche Parsons****** ricorre al modello dell’equilibrio per dare fondamento conservatore alla sua teoria fondata sull’interazione.
Sia in Pareto che in Parsons – e tra questi due studiosi ci sono notevoli punti in comune – si trova quindi la preoccupazione di ricollegarsi a modelli di equilibrio dinamici che possano garantire la ristabilizzazione del sistema su livelli di autosufficienza, evitando l’acuirsi di quei momenti di crisi che sono appunto i momenti di massima esaltazione delle contraddizioni. Va da sé che una concezione come questa si richiama all’ideale di una scienza considerata perfetta come la dinamica (per altro non tenendo molto in considerazione gli sviluppi più recenti della stessa scienza) allo scopo di evitare di fondare l’analisi sul concetto di scontro sociale.
È indispensabile dare a questo punto alcune indicazioni sull’evoluzione della scienza tra la fine del secolo scorso e i primi del corrente secolo, in modo particolare per quanto riguarda il problema del determinismo, fondamento logico della teoria dell’equilibrio.
Lo studio del metodo costituisce l’elemento principale di ogni tentativo di comprendere la realtà, studio del metodo non come esercitazione di logica astratta, ma come strumento pratico dell’intelligenza; cioè della capacità di comprendere i processi della realtà. Finché non saremo in possesso di un metodo d’indagine che tenga conto delle reali possibilità d’azione, saremo costretti a batterci con mezzi inefficienti. Tra i motivi che suggeriscono una riformulazione del determinismo si trova la difficoltà di non scuotere le basi fideistiche del principio in quanto si può ammettere che l’aumento dei parametri di misurazione si svolga all’infinito e che quindi la prevedibilità dell’evento risulti sempre maggiore, fino a ridurre ad uno scarto tanto minimo il quantitativo d’incertezza da farlo diventare insignificante.
Ma questa pretesa si fonda sul fatto che sia possibile misurare con precisione i valori simultanei dei parametri, mentre non si possono misurare i valori delle grandezze da cui i parametri dipendono, e quindi i valori dei parametri stessi, in momenti successivi nel tempo. Ciò rimette in discussione la causalità anche dopo la riforma probabilistica.
In pratica nella fisica tradizionale le leggi enunciano tutte legami tra grandezze in istanti differenti, e fissano quindi relazioni causali che si legano insieme nella direzione del tempo. Possono esistere però delle leggi non longitudinali al tempo ma trasversali, cioè leggi che ipotizzano una correlazione diretta tra valori simultanei di grandezze fisiche. Scrive su questo argomento Hans Reichenbach*******.
Abbiamo quindi, ricorrendo a una curva molto semplice come quella normale di Gauss, che la determinazione esatta di una situazione all’interno dello spazio sociale non è possibile partendo dalla misurazione dei parametri relativi alle grandezze effettive delle forme sociali e delle strutture istituzionali. Nella fig. 7 vediamo una curva normale con un andamento regolare, considerando una particella che si muove lungo la retta che si trova alla base della curva, la forma che questa curva assume indica che non conosciamo la posizione della particella in modo esatto ma siamo praticamente sicuri che essa si trova all’interno dell’intervallo in cui la curva è diversa dall’appiattimento alla retta, cioè da zero e questa nostra sicurezza si basa su di una determinata distribuzione di probabilità.
L’andamento della curva può essere più o meno acuto, come nella fig. 8 e ciò in funzione dell’impulso complessivo che la particella riceve nel campo e in funzione della posizione stessa della particella.
Ci troviamo davanti a una correlazione inversa delle distribuzioni di probabilità dell’impulso e della posizione. Al posto di questi due parametri si possono sostituire altri elementi sia di tipo cinematico che dinamico, come ad esempio il tempo e l’energia, e si può ipotizzare la sostituzione di parametri come le forme sociali e le strutture istituzionali.
Ci sembra evidente che l’analisi di Heisenberg denuncia una limitazione delle nostre capacità di trasformare la realtà in quanto limitazioni della nostra capacità di comprenderla. Si tratta di un grosso colpo alle velleità metafisiche.
Heisenberg, insieme a Bohr, può essere considerato il membro più influente della corrente ortodossa di critica al determinismo. A lui, d’altro canto, si deve la formulazione della meccanica matriciale che costituisce il nucleo teorico fondamentale della fisica quantistica, oltre naturalmente, alla definizione delle relazioni di indeterminazione e quindi della natura complementare delle variabili coniugate. Gaston Bachelard, per un altro verso, è il primo filosofo della scienza a comprendere realmente la portata rivoluzionaria della nuova fisica convincendosi che una epistemologia legata essenzialmente a un affinamento logico e metodologico non poteva rendere conto della rivoluzione teorica in atto nelle nuove teorie fisiche. È comprensibile, allora, come la polemica bachelardiana diretta contro ogni forma di irrigidimento della funzione razionale, non si indirizzi semplicemente contro l’ontologizzazione metafisica delle categorie scientifiche utilizzate in ambito classico, ma anche contro i tentativi di legare la validità della scienza alla permanenza della sua struttura logica di fondo atta a semplificare la dinamica scientifica, ma incapace di rendere conto degli effettivi mutamenti della rivoluzione teorica in atto. Bachelard inaugura una epistemologia differenziata, contraria agli schematismi e alle semplificazioni generalizzanti (spesso fatta a uso e giustificazione della scienza dei manuali) e orientata, invece, a cogliere l’impatto delle razionalità – nella loro molteplicità – entro situazioni epistemologiche reali, come lo stesso ambiente culturale in cui si sviluppa la fisica quantistica.
Per ovviare a ciò i fisici e i filosofi hanno fatto ricorso ad alcuni tentativi di recupero sia per evitare le conseguenze rivoluzionarie dell’applicazione dell’analisi di Heisenberg, sia perché sinceramente impauriti di una possibile irruzione del soggetto all’interno del campo riservato all’oggettività. È importante una ricerca su questi tentativi di difesa e sulle conseguenze snaturanti che si sono avute.
Partendo dalla fig. 7 e duplicandola col suo negativo, cioè con una sua continuazione speculare al di sotto dell’ascissa otteniamo un campo di spazio sociale che ha la forma di una ellisse (fig. 9).
Questa figura racchiude l’insieme delle forme sociali e delle strutture istituzionali ma, in quanto spazio sociale totale, è qualcosa in più della somma di tutte le forme sociali e di tutte le strutture istituzionali possibili. Come la totalità è qualcosa di più della semplice somma di quattro unità, come la totalità organizzata del lavoro svolto in un’ora da quattro operai è qualcosa in più della semplice somma del lavoro svolto singolarmente da quattro operai sempre in un’ora. Questo qualcosa in più è qualitativamente identico al qualcosa in più che il tutto possiede nei confronti della parte, quale che sia la dimensione di questa parte nei confronti del tutto. Per questo motivo riteniamo che simbolicamente, ai fini della costruzione del nostro modello, sia legittimo usare l’ellisse – in quanto parte dello spazio – per indicare la totalità dello spazio sociale. (fig. 10 e fig. 11)
Abbiamo già parlato delle forme sociali ed abbiamo visto alcune delle loro caratteristiche. Sappiamo che le forme sociali crescono attorno all’individuo in situazione, che sono forme in divenire, cioè forme che si modificano nel tempo che sono in interazione con le strutture istituzionali.
Poiché dobbiamo qui decidere della loro rappresentazione grafica, nel nostro modello, vogliamo approfondire la caratteristica di una omogeneità spaziale che le forme sociali posseggono, omogeneità che possiamo rendere con lo strumento visivo del continuo geometrico, cioè con una superficie di punti.
Ma questa superficie non è uniforme. I punti hanno una intensità decrescente man mano che dal basso si sale verso l’alto. Gli strati più bassi dello spazio sociale presentano difatti una migliore caratterizzazione delle forme sociali, queste sono più visibili, meglio sentite, esercitano interazioni più efficaci con le situazioni individuali. Nelle zone più alte dello spazio sociale le forme sociali hanno una visibilità più
ridotta, interagiscono più efficacemente con le strutture istituzionali e si fanno permeare a un livello più intimo da loro, mentre interagiscono meno con le situazioni individuali.
Per avere una visione contemporanea delle forme sociali e delle strutture sociali nello spazio sociale sovrapponiamo mentalmente la fig. 11 alla fig. 10 ed esaminiamo la fig. 12 che riporta il tessuto relazionale di cui è costituita la fig. 11.
La rappresentazione grafica dello spazio sociale risulta però incompleta se ci si limita a fare ricorso soltanto all’ellisse come nelle tre figure precedenti. In pratica lo spazio sociale ha bisogno di un modello a tre dimensioni per rendere visibilmente chiaro il modo in cui le forme sociali si diffondono totalmente nelle tre direzioni e il modo in cui le strutture istituzionali penetrano all’interno dello spazio sociale anch’esse sviluppandosi nelle tre direzioni. Occorre quindi fare ricorso a un ellissoide (fig. 13) che possiede tre piani di simmetria perpendicolari tra di loro, mentre la superficie stacca sulle loro rette comuni tre segmenti di lunghezza differente detti asse maggiore, medio e minore. Diciamo tra parentesi che l’ellissoide è la forma che assumono i ciottoli in riva a mare sottoposti all’azione levigatrice delle onde, cosa naturale in quanto l’ellissoide presenta – come abbiamo visto con l’ellisse – la doppia forma di una curva normale sottoposta a rotazione su uno dei due assi di simmetria, e la curva normale è l’indicazione grafica dell’andamento che assumono i corpi quando vengono accumulati alla rinfusa uno sull’altro.
La distribuzione delle forme sociali all’interno dello spazio sociale è totale con quell’andamento a sfumare che abbiamo visto nella fig. 10. Quindi operando sull’ellissoide in modo da ottenere una sezione circolare come nella fig. 14, abbiamo che la superficie della sezione presenta le forme sociali con uguale intensità e contemporaneamente una sezione verticale delle strutture istituzionali, cioè una forma di spaccato del livello di penetrazione raggiunto da queste strutture nel punto dello spazio sociale intersecato dalla sezione circolare stessa. Lo stesso dicasi per la superficie che passa per l’asse minore. La superficie che passa per l’asse maggiore invece presenta – come nella fig. 12 – la visione della forme sociali a sfumare e delle strutture istituzionali ramificate con la loro caratteristica formazione modulare.
Dalla fig. 10 possiamo avere un’idea abbastanza chiara del tessuto delle forme sociali nello spazio sociale. Questo tessuto, con il suo caratteristico andamento a sfumare ci consente in pratica l’individuazione di una situazione statica delle classi sociali, considerando le classi inferiori più marcatamente indicate proprio per la loro maggiore lontananza dalle strutture istituzionali che piovono dall’alto e quindi in condizione di subire meno la permeazione che le strutture istituzionali esercitano sulle forme sociali.
Apparirà chiaro che non è soltanto la situazione statica delle classi che ci interessa nello studio delle forme sociali, ma anche il movimento di queste classi e l’interazione delle forme sociali nel loro insieme, considerando che la classe non è una forma sociale ma il risultato di un’interazione complessa tra forme sociali e permeazione che le strutture istituzionali esercitano sia su queste forme che sulla loro interazione. È proprio questo movimento che ci interessa conoscere.
Per il momento sappiamo che sì tratta di un movimento che coinvolge le classi, sconvolgendone l’assetto statico, e li coinvolge in due modi: in un processo continuo di ricambio e di trasformazione interna, e in un processo accidentale, improvviso e incontrollabile, che modifica profondamente il loro assetto, sconvolgendo anche l’interazione con le strutture istituzionali e con le forme sociali. Il movimento in questo secondo aspetto è il processo rivoluzionario che interessa di più la nostra ricerca. In fondo è ad esso che vanno le nostre speranze per un futuro migliore.
Il modo in cui le forme sociali si contrappongono alle strutture istituzionali è un modo contraddittorio. Tra queste due aggregazioni che si scontrano nello spazio sociale esiste una inconciliabile contraddizione. Il concetto di lotta di classe si riassume proprio nel confine tra strutture istituzionali e forme sociali.
Le situazioni individuali si rapportano anche all’interno delle strutture istituzionali e interagendo tra di loro danno vita alle forme sociali anche all’interno delle strutture che le sovrastano. Ma queste forme sociali sono permeate dalle strutture istituzionali in un modo tanto più violento quanto più sono a esse vicine. La costituzione delle strutture istituzionali, proprio per la forma di queste ultime avviene con il caratteristico tracciato a griglia che consente la formazione di interazioni tra forme sociali anche nello spazio ormai conquistato dalle strutture. Le linee di delimitazione delle strutture sono in relazione tra di loro e in interazione con le forme sociali. La presenza contemporanea di relazioni tra strutture e rapporti tra situazioni, determina una contraddizione profonda nell’interazione tra strutture istituzionali e forme sociali.
Testi
* «Occorre che oltre la semplice esistenza vi sia qualcosa, mediante cui A determini la posizione di B nel tempo, e inversamente anche B determini a sua volta quella di A, poiché solo sotto questa condizione le suddette sostanze possono venir rappresentate empiricamente come esistenti simultaneamente. Orbene, il determinare per un qualcosa la sua posizione nel tempo spetta soltanto a ciò che è causa del qualcosa o delle sue determinazioni. Perciò ogni sostanza (dato che può essere una conseguenza solo a riguardo delle sue determinazioni), deve contenere in sé la causalità di certe determinazioni contenute in un’altra sostanza, ossia, le sostanze debbono stare in comunanza dinamica (immediatamente o mediatamente), se si vuole conoscere in una qualche esperienza possibile la simultaneità... Necessario, peraltro, riguardo agli oggetti dell’esperienza, è tutto ciò senza di cui risulterebbe impossibile l’esperienza stessa di questi oggetti. Per tutte le sostanze nell’apparenza, in quanto sono simultanee, è perciò necessario stare in completa comunanza di azione reciproca tra loro. La parola comunanza, nella lingua tedesca, ha due sensi, e può significare tanto communio quanto commercium. Ci serviamo qui di tale parola nel secondo significato, intendendo una comunanza dinamica, senza la quale nemmeno la cornunanza locale (communio spatii) potrebbe mai venir conosciuta empiricamente».
(I. Kant, Critica della ragione pura, tr. it., Torino 1957, pp. 284-285).
Tracce del commento
Ogni fallimento interpretativo non necessariamente sbocca in un ritorno all’ordine, in un ripristino del controllo liberamente scelto a causa del prevalere della volontà, dove il termine libertà è fortemente ironico. Spesso questo fallimento è esso stesso il segno di un’avvisaglia di perdita prematura, un esercizio nell’azione senza l’azione, tracce sulla sabbia quando l’acqua si ritira. Si tratta di pallidi riflessi di azione, di minestre riscaldate o precotte, ma anche esse contribuiscono a rispecchiare una sorta di insofferenza se non la presenza di un vero e proprio progetto orientato all’oltrepassamento.
Testi
** «Il puro composto o la relazione per sé sarebbe un semplice ens imaginationis senza alcuna realtà e non potrebbe esser conosciuto senza l’elemento positivo che in esso si rispecchia. Legato con l’elemento positivo dell’idea che traluce, esso genera però una doppia immagine; noi vediamo l’atto del porre insieme a ciò che in sé non esiste, insieme al puro composto, e quindi una mescolanza di realtà e non-realtà, una vera e propria immagine illusoria che ha così poca realtà come lo spectrum solare».
(F. W. J. Schelling, Aphorismen zur Effileitung in die Naturphilosophie, citato in E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, tr. it., vol. III, Torino 1961, p. 338).
Tracce del commento
La volatilità di certe sensazioni non impedisce la loro brutale reificazione, la produzione è forza troppo potente per essere messa tra parentesi come un qualsiasi gesto volontario.
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*** «Se sono molti M invece di uno solo, ognuno di essi singolarmente può sempre formare con N una contraddizione; noi non ci preoccuperemo, come prima immaginavamo, di seguire in modo particolare ciascuno di quei termini e di dividerlo. Possiamo ora prendere gli M altrimenti ad uno ad uno, e ciò significa riunirli. Siccome possiamo farlo e inoltre non ci rimane nient’altro, se non vogliamo rifiutarli e rifiutare quindi anche il dato... siamo costretti a fare ciò che possiamo. Siamo costretti ad ammettere che nella unione degli M nasce N; vale a dire, ogni M non isolatamente, ma insieme con gli altri M, è uguale a N. E qui, con questa distinzione, siamo giunti alla fine: non già risolvendo un qualche problema, ma stabilendo il metodo generale con cui la soluzione andrebbe cercata, nella misura che ciò può esser inferito dal semplice fatto che nel dato è in genere presente una contraddizione».
(J. F. Herbart, Allgemeine Metaphysik, citato in E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, tr. it., vol. III, Torino 1961, p. 491).
Tracce del commento
Le funzioni continue e non derivabili, cioè curve che non hanno tangenti, sorprendono per la loro incommensurabilità ma sono sempre concetti riconducibili alle proporzioni e ai protocolli. Tutte le funzioni dovrebbero essere derivabili, difatti è la ragione stessa a suggerire possibili e inesplicabili interstizi come accade nei frattali. Capovolgendo il problema anche i frattali sono leggibili nell’ambito del fare, persistenza e cambiamento insieme, mai oltrepassamento.
Testi
**** «Lo stato reale, statico o dinamico, del sistema è determinato dalle sue condizioni. Supponiamo che artificialmente si operi qualche modificazione nella sua forma... tosto seguirà una reazione nel senso di ricondurre la forma mutevole nel suo stato primitivo, tenuto conto della mutazione reale... [L’equilibrio sociale] muta ad ogni istante, e non possiamo né vogliamo guardarlo per tal modo in ogni suo minuto particolare. Ad esempio, per tenere conto dell’elemento della fertilità di un campo, non vogliamo considerare ogni minuto, ogni ora, ogni giorno, e neppure ogni mese, come cresce il grano nel campo, seminato, ma badiamo soltanto al prodotto annuo che dà».
(V. Pareto, Trattato di sociologia generale, vol. II, tr. it., Milano 1964, pp. 544-545).
Tracce del commento
La modulazione delle frequenze produttive non è salto fuori della realtà ma solo invenzione di frontiere alternative, penetrazione e scavo nell’intimo della percezione, dilatazione della realtà fattiva al di là dei protocolli conosciuti e allacciamento di ulteriori corrispondenze sempre nell’ambito del microscopico scrutinio del visibile. Le peregrinazioni prospettiche sono considerabili come raffinatezze del fare, semplici diramazioni dell’albero delle possibilità. Le peripezie in un bicchiere d’acqua possono essere tante, rimangono solo flessibilità e contingenza di un punto di vista.
Testi
***** «Lo stato x [stato di equilibrio] è simile a quello dell’equilibrio dinamico di un sistema materiale. Gli stati x1, x2 …, sono analoghi a successive posizioni di equilibrio di tale sistema. Si può anche osservare che lo stato x è analogo allo stato di equilibrio di un organismo vivente... C’è un’altra analogia che non possiamo tralasciare se vogliamo addentrarci nella materia. Lo stato x è analogo a quello che si dice equilibrio statico nella teoria cinetica dei gas».
((V. Pareto, Trattato di sociologia generale, vol. II, tr. it., Milano 1964, pp. 548-549).
Tracce del commento
L’immediatezza sviluppa un immenso reticolo di possibili fattualità, non tutte realizzate e forse nemmeno realizzabili. In questo reticolo non è facile individuare quei processi fattivi dai quali si potrà poi partire per una successiva radicalizzazione interpretativa. Un metro abbastanza soddisfacente è quello che misura la cosiddetta distanza utopica, cioè quanto il processo coatto identificato disti dalla propria negazione critica, quanto cioè il locus della ragione sia pesantemente abbarbicato alle sue corrispondenze. Improvvisamente sentieri che apparivano definitivamente occlusi si aprono e lasciano intravedere sullo sfondo un’ombra o un segno quasi impercettibile di necessario coinvolgimento. L’ambivalenza non è mai nettamente individuabile, non ci sono garanzie né in senso produttivo né critico.
Testi
****** «... è necessario distinguere chiaramente i processi all’interno del sistema dai processi di mutamento del sistema. È assai frequente che le due cose vengano confuse sotto il termine di “dinamica”. Ai fini del nostro schema concettuale la distinzione deriva dal concetto di equilibrio e dalla maniera in cui esso è stato usato in quest’opera. Oltre al significato generale del concetto di equilibrio, il significato più direttamente applicabile in questa sede è quello che si riferisce a ciò che abbiamo chiamato un sistema inteso al “mantenimento dei confini”. Si è chiaramente e ripetutamente affermato che è essenziale per la concezione del processo di interazione presentata in quest’opera, nonché del teorema dell’integrazione istituzionale della motivazione che ne deriva direttamente, il fatto che la stabilizzazione dei processi di orientamento reciproco nei ruoli complementari costituisca una “tendenza” fondamentale dell’interazione».
(T. Parsons, Il sistema sociale, tr. it., Milano 1965, pp. 489-490).
Tracce del commento
Se non accetto il fare, anche nei suoi atteggiamenti coatti sono poveramente privo di mezzi, il mio antiproduttivismo non si basa su nulla, leggo la mia vita come se fosse in traduzione, una esistenza di seconda mano. Se mi proiettassi in queste condizioni miserrime verso l’azione, combatterei come un cieco e morirei insieme ai miei ideali in una frittura indigesta nell’immenso e desolato territorio dell’azione, fabbrica in miniatura del nulla e di nulla. Unico compagno, l’odio ancestrale contro il nemico, passaporto buono soltanto per il salto oltre il punto di non ritorno.
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******* «È proprio una legge trasversale di questo tipo che Heisenberg ha posto con la sua relazione di incertezza. Questa legge trasversale assume la forma di una limitazione di misurabilità. Essa stabilisce che i valori contemporanei dei parametri indipendenti non possono venir misurati con un’esattezza tanto grande quanto vogliamo. Possiamo solo misurare una metà di tutti i parametri con il grado voluto di precisione, mentre l’altra metà deve restare parzialmente indeterminata. Troviamo qui un accoppiamento dei valori contemporaneamente misurabili tale che una maggiore esattezza nella determinazione di una metà di essi comporta una minore esattezza nella determinazione dell’altra metà, e viceversa».
(H. Reichenbach, I fondamenti filosofici della meccanica quantistica, tr. it., Torino 1954, p. 22).
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La coscienza diversa, anche se puntuale, si nutre e si allarga nell’azione certificandone momenti non temporali ma dotati di sfumature qualitative impensabili. Le radici conoscitive, cioè fattive e coatte, di queste sfumature non possono essere espresse dalla diversità, che è priva di parola, ma dalla rammemorazione, anche se mai in maniera appagante per le necessità di completamento del fare.
Diciannovesima lezione: 2 luglio 1980
I più recenti sviluppi della fisica, in particolar modo quelli sulla teoria della relatività, ci hanno portato nuovamente di fronte all’importanza del fatto di applicare alla psicologia la matematica. Fino a non molto tempo fa si pensava che l’uso delle teorie fisico-matematiche in psicologia fosse inadatto. In realtà i numeri, e la relativa quantificazione della logica, sono impiegati adesso non solo in psicologia ma anche in economia e storia (in questi due ultimi casi da moltissimi decenni). Dopo il lavoro di Lewin, si è arrivati alla conclusione che i numeri sono strumenti matematici che si possono applicare in psicologia come categorie logiche. Non si tratta di sconfinamenti, allo stesso modo in cui il metodo storico applicato in economia non significa una storicizzazione di questa ultima scienza, e viceversa.
Lo stesso vale per lo spazio metrico**, cioè per i concetti di distanza e direzione. Anche in questi casi si ha a che fare con concetti logico-matematici. E la matematica odierna*** non cessa di insistere che questi concetti non implicano che siamo fisici gli elementi dei sistemi intorno alle cui relazioni si sono fatte asserzioni, e nega che essi siano comunque determinati per ciò che riguarda il loro contenuto.
Questo è vero anche per il concetto di “grandezza dotata di direzione”, cioè, di vettore, che si applica nel rappresentare fatti di contenuto molto differente.
In pratica, come appare chiaro dalla stessa preoccupazione di Lewin nel difendersi dall’accusa di “fisicalismo”****, tutto l’apparato analitico da lui costruito potrebbe eliminarsi senza danneggiare le ricerche sperimentali e le conclusioni teoriche. Le caratteristiche fondamentali del suo pensiero sono ben altre e ben altrimenti fruttifere. Il principio del comportamento come funzione del campo esistente al momento in cui il comportamento si compie, il principio che l’analisi deve partire dalla situazione considerata nel suo insieme, sono principi validi indipendentemente dal fatto che una persona concreta in una situazione concreta possa essere rappresentata matematicamente.
Lewin non intende fermarsi allo studio della persona, quanto allo studio della persona nell’ambiente.
Testi
* «Il concetto di vettore non deve essere confuso col concetto di forza e, specialmente, con quello di forza fisica. Usare concetti spaziali in psicologia sognifica trattare matematicamente la psicologia, ma ciò non implica il fisicalismo... Il problema fondamentale è quello dell’equilibrio. Il metodo migliore per ritornare allo stato di equilibrio consiste nel compiere un’appropriata locomozione nell’ambiente psicologico. Locomozione appropriata è quella che porta la persona nella regione di un oggetto soddisfacente come scopo. Per esempio, se una persona è in uno stato di tensione perché disoccupata, trovando un lavoro scaccerà la tensione. In tali casi, i processi percettivi e motori servono a diminuire la tensione. Può essere necessario, naturalmente, ristrutturare l’ambiente al fine di arrivare allo scopo desiderato, e questa ristrutturazione può implicare complicati e laboriosi processi cognitivi. Un uomo che aspiri a essere presidente, può trascorrere parecchi anni lavorando nell’ambiente prima di avere successo, oppure può non avere mai successo, nel qual caso rimarrà in un permanente stato di squilibrio».
(K. Lewin, Principi di psicologia topologica, tr. it., Firenze 1961, p. 61 e p. 225).
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Il fare ha tante molteplicità che non si armonizzano nelle loro relazioni. Continuamente propongo soluzioni di affinità che si sdoppiano all’infinito, solo la qualità potrebbe proporre perfezione e completezza, ma esclusivamente per pochi attimi. Il sacrificio che realizzo vivendo e faticosamente realizzando il fare, annulla con la sua contagiosa malattia, il sogno fugace del coinvolgimento, mi riporta con i piedi per terra, fa tornare inafferrabile la qualità che avevo sognato di afferrare. Ed è quel niente che mi resta tra le mani, che rammemoro e che mi porta, come novella ricchezza, a scoprire lampi del massicciamente remoto, dell’incatturabile che però riflette in se stesso la sua semplice esistenza che è. Questi fulminei istanti mi pongono nella qualità e mi completano, mi sbalordiscono rendendomi poco adatto a trarre conclusioni attendibili per gli altri, ma è questa l’azione, l’arresto del differire e l’afferramento dell’indifferibile nel momento che la realtà si è trasformata. L’uno è estraneo al fare, estraneo pure contenendo il fare e tutto quello che è. L’uno è, altrimenti non potrebbe essere, essendo indifferenza alla mutazione. Ma non della indifferenza di cui posso parlare io, ma di un’altra, che è potenza in grado di esprimere possibilità. Questa potenza però non intacca l’indifferenza, altrimenti sarebbe impossibile pensare l’istantaneità dell’uno che è. Per me, che vedo la relazione con l’uno dal punto di vista del fare, questa potenza è diversa da quello che produce. La possibilità che mi proviene dal destino non è possibile, ma è necessaria. Sono io che a volte posso essere incapace di capirla, troppo debole è la mia vita per capire il destino che le si apre davanti e per affrontarne le conseguenze, così, a volte, chiude gli occhi e fa finta di non capire, il che equivale semplicemente a non capire.
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** «Il compito del filosofo, lo scopo della sua vita di filosofo: una scienza universale del mondo, un sapere universale, definitivo, un universo delle verità in sé attorno al mondo, al mondo in sé. Che dire di questo scopo e della possibilità di raggiungerlo? È possibile cominciare con una verità – con una verità definitiva? Una verità definitiva, una verità attraverso cui io possa enunciare qualcosa su un essente in sé, nella certezza indubitabile di enunciare qualcosa di definitivo? Se io dispongo già di verità “immediatamente evidenti”, è possibile che da esse ne possano derivare mediatamente altre. Ma io dispongo veramente di queste verità? È possibile che un essente in sé sia per me tanto indubitabilmente certo in un’immediata esperienza, che io possa, mediante concetti descrittivi immediatamente adeguati all’esperienza e al suo contenuto, enunciare immediate verità in sé? Ma che dire di tutte le esperienze del mondano, di tutto ciò che io ho in una certezza immediata, che è nella spazio-temporalità? Tutto ciò è certo, ma questa certezza può modalizzarsi, può diventare dubbia, può trasformarsi, lungo il processo dell’esperienza, in apparenza: nessun enunciato sperimentale immediato mi dà un essente in sé; mi dà soltanto un che di supposto con certezza, che lungo la mia vita di esperienza deve verificarsi. Ma la mera conferma, costitutiva della concordanza dell’esperienza reale, non esclude la possibilità dell’apparenza.
«Esperendo, vivendo in generale come io (pensando, valutando, agendo), io sono necessariamente un io, che ha un suo tu, un suo noi e un suo voi: l’io dei pronomi personali. Altrettanto necessariamente, io e noi, nella comunità egologica, siamo correlati di tutto ciò che noi chiamiamo essente mondano, ciò che noi, nella denominazione, nel nominare e nel conferire, nel fondare conoscitivo, già sempre presupponiamo, ciò che è qui per noi, che è reale, che vale per noi ed è esperibile in comune, nella comunità della vita di coscienza, qualcosa che non può essere isolato individualmente, che è intimamente accomunato. E tuttavia il mondo è anche il nostro mondo comune, ed è necessariamente in una validità d’essere; tuttavia, sui dettagli, io posso entrare in contraddizione con gli altri, entrare in una fase di dubbio e di negazione dell’essere, proprio come rispetto a me stesso. Come ho quindi un essente in sé definitivo? L’esperienza, l’esperienza della comunità e le vicendevoli rettifiche, come del resto la propria esperienza personale e le proprie autorettifiche, non eliminano la relatività dell’esperienza, che è relativa anche in quanto esperienza della comunità; perciò tutti gli enunciati descrittivi sono necessariamente relativi, e tutti i passaggi conclusivi pensabili, sia quelli deduttivi sia quelli induttivi, sono relativi. Come può il pensiero produrre altro che verità relative? L’uomo della vita quotidiana non è privo di ragione, è un essere pensante, ha, rispetto all’animale, il cathaon, e perciò ha una lingua, può compiere descrizioni, passaggi conclusivi, e interroga la verità, verifica, argomenta e decide razionalmente – ma l’idea di “verità in sé” ha un senso per lui? Non si tratta forse, come del resto per il correlativo essente in sé, di un’invenzione filosofica? Eppure non è una finzione, un’invenzione irrilevante e superflua, bensì una scoperta che innalza, o è chiamata a innalzare l’uomo a un livello più alto, in una nuova storicità della vita umana, una storicità la cui entelechia è appunto questa nuova idea e la prassi filosofica o scientifica che le è subordinata, la metodica di un pensiero scientifico di nuovo genere».
(E. Husserl, Ricerche logiche, tr. it., Milano 1968, pp. 284-285)
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Il soffio misero del fare, la vita che svolge la sua durata, povera e debole, la mia vita, ricca di accadimenti che singolarmente presi sono semplici giochi di fanciulli, è il punto da cui devo partire per abbandonare la lunga riflessione, il porto della logica mi ha stancato e sta rendendo sempre più deboli i miei ormeggi. L’inconsumabile uno mi guarda indifferente di fronte ai miei tentativi di rafforzare le vele e le sartie, di caricare questa futile navicella. Lui sa che il viaggio sarà breve e poco fruttuoso, che da lontano nel cielo lampeggiano i segni del corruccio e dell’inganno. Anche io lo so, ma voglio lo stesso andare avanti, partire, levare le ancore. Il fare che mi propongo adesso rompe con le necessità del produrre, il dire che ne consegue diventa indefinito nei limiti in cui la definizione coatta riesce a spezzare la tirannia della parola. Anche la parola è e non è ancora stata detta del tutto. Non tutti i libri sono stati detti e la mia carne non è ancora stanca. Scavare nella parola, ecco un avvicinarsi all’assenza, non direttamente ma per effetto della non misurabile ridondanza.
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*** «L’esperienza è la sorgente unica della verità: essa sola può insegnarci qualche cosa di nuovo: essa sola può darci la certezza. Ecco due punti che nessuno può contestare: ma allora, se l’esperienza è tutto, quale posto resterà per la fisica matematica? Che ha da farne la fisica sperimentale di un tale sussidio, in apparenza inutile e forse anche pericoloso? Tuttavia, la fisica matematica esiste; essa ha reso dei servizi innegabili; è questo un fatto che è necessario spiegare. Gli è che non basta osservare, bisogna servirsi delle osservazioni, e per questo bisogna generalizzare. Ciò si è fatto in ogni tempo; solo che, poiché il ricordo degli errori passati ha reso l’uomo sempre più circospetto, si è osservato via via di più e generalizzato via via di meno. Ciascun secolo ha riso del precedente, accusandolo di avere generalizzato troppo presto e ingenuamente. Cartesio compativa gli ionici; egli, a sua volta, ci ha fatto sorridere; senza dubbio i nostri figli un giorno rideranno di noi. Ma allora non possiamo senz’altro andare fin in fondo? Non è questo il modo di sfuggire alle canzonature da noi previste? Non possiamo contentarci della pura e semplice esperienza? No, questo è impossibile; equivarrebbe a disconoscere completamente il vero carattere della scienza».
(H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, tr. it. Firenze 1949, pp. 110-111).
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Smettere di dire è un avvicinarsi al silenzio, ma occorre anche smettere di fare. Questi due aspetti compromettono le potenzialità straordinarie che ne potrebbero venire fuori. Non posso smettere di fare, il dire è la stessa modificazine che si modula, ma che può essere interrotta. Così il problema del silenzio resta un mito. Molti ricaverebbero grandi benefici dal tacere, non dall’impossibile silenzio, temo che aumenterebbero la loro capacità di fare con risultati ancora peggiori. Vorrei esercitarmi al silenzio. Le condizioni del carcere, per lunghi periodi, lo consentirebbero, ma trasferisco questo sforzo, che richiederebbe immobilità, nel camminare tacendo. Un modo per combattere la chimica e il suo sostegno paralitico. Mille specchi riflettono dentro di me la mia stessa condizione di stanchezza che si rifiuta di lasciarsi andare. La paura di non trovare alla fine del sentiero quello che sarebbe logico attendersi, regge il gioco.
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**** «La logica delle scienze storiche deve cercare il concetto logico di storia. Si potrebbe pensare che questa proposizione sia ovvia, ma non sembra esserlo per tutti. Per stabilire esattamente cosa significa bisogna chiedere anzitutto in che cosa consiste il compito della logica nei confronti delle scienze empiriche in generale.
«I concetti delle scienze sono concetti di compiti. Se si presuppone che l’attività scientifica deve soltanto riprodurre una realtà empirica, allora per la logica come dottrina della scienza non esiste alcun problema. Tuttavia questo presupposto è insostenibile già per il fatto che ogni realtà contiene una immensa molteplicità che è semplicemente impossibile riprodurre e di fatto la scienza non si presenta mai come una mera riproduzione, ma piuttosto come una elaborazione attraverso il nostro pensiero del materiale dato, come una trasformazione dell’Anschauung in Begriff. Perciò si possono distinguere (separare tra loro) il contenuto derivante dall’Anschauung (intuizione) e le forme date a questo contenuto attraverso il pensiero, o il materiale e il metodo della scienza. La logica, dunque, deve comprendere solo le forme del pensiero scientifico e poiché i concetti delle scienze sono concetti di compiti, essa deve considerare queste forme di pensiero come mezzi per il raggiungimento del fine cui tende la scienza.
«Ora, per la metodologia è particolarmente importante sapere se ogni attività scientifica sotto l’aspetto logico, cioè formale, persegue un fine comune, e se perciò ogni scienza usa anche le medesime forme di pensiero come mezzi per il suo raggiungimento, oppure se ci sono numerosi scopi del pensiero scientifico fondamentalente diversi tra loro dal punto di vista logico, e se di conseguenza esistano anche tipi di Denkmittel (strumenti di pensiero) logicamente del tutto diversi tra loro e dunque anche numerosi metodi scientifici».
(H. Rickert, “Über die Aufgaben einer Logik der Geschichte”, in “Archiv für systematische Philosophie”, ns. tr., VIII, 1902, pp. 139-140).
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Nel fare c’è qualcosa di parziale, nella qualità allontanata non c’è la totalità, nell’uno non c’è più niente di tutto questo, almeno per me che vedo solo la parzialità, cioè l’illusione. Vivo in un mondo che mi inganna infettandomi con i suoi procedimenti, come una malattia. Tutto ciò è degradante ma è là, non posso spostarlo solo perché mi infastidisce.
Ventesima lezione: 10 luglio 1980
Da cosa nasce il concetto di spazio di vita. Se ci proponiamo di desumere il comportamento* umano, in termini più generali, arriviamo alla vita in un ambiente sociale. In questo modo il comportamento diventa una funzione dello spazio di vita c=f (s). A sua volta questo spazio è separato dal mondo fisico dalla frontiera esterna, da una frontiera comunque permeabile. Infatti, gli accadimenti dell’ambiente psicologico possono provocare modificazioni nel mondo fisico. Vi è un rapporto tra questi due regni. Altra cosa da notare in merito allo spazio di vita** è che la persona, pur essendo circondata dal suo ambiente psicologico, non ne fa parte e non può essere considerata come contenuto di quest’ultimo.
Veniamo adesso a esaminare più profondamente la struttura*** della persona****, cioè quello che secondo Lewin esiste all’interno del circolo come modello della realtà psicologica. Il lavoro fatto da questo psicologo parte da una divisione dell’aria della persona in due parti con l’indicazione di due cerchi concentrici e con la divisione dell’aria del circolo in zone. Così Lewin differenzia la regione dello spazio di vita, allo stesso modo l’ambiente non resta omogeneo o indifferenziato, esso viene diviso in regioni.
La struttura omogenea dell’ambiente***** sarebbe possibile solo nell’eventualità assurda che tutti i fatti fossero della stessa importanza per la persona e che esercitassero una influenza uguale su di essa.
Ma questa differenziazione dell’ambiente è assai diversa da quella della persona, cioè dello spazio vitale. Le regioni ambientali sono simili. Ognuna delle regioni costituisce un fatto psicologico. Sull’uso del termine “fatto” bisogna tenere presente la particolare accezione di Lewin, ai fini dell’impostazione della psicologia sociale secondo il nostro autore.
Lewin afferma che l’ambiente può cambiare la persona e viceversa. Ma questa affermazione presuppone una definizione di “fatto” che più o meno considera riconducibile alla sostanza “fatto” qualsiasi cosa venga prescritta o anche dedotta.
Quando i fatti di una regione sono connessi con quelli di un’altra, cioè sono accessibili ai fatti di un’altra, allora si ha una equivalenza****** spaziale, che si riproduce graficamente, secondo indicazioni sufficientemente omogenee.
Graficamente l’indicazione di una persona accessibile è fatta con un cerchio scarsamente tratteggiato e quella di una persona inaccessibile o scarsamente accessibile con un cerchio più pesante. Le regioni possono avere rappresentazione complessa, con indicazioni di maggiore o minore fluidità o rigidezza di comportamento.
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* «Il comportamentismo sostiene che l’oggetto della psicologia è il comportamento dell’essere umano. Il comportamentismo proclama che la coscienza è un concetto indefinibile e inutilizzabile. Si chiede allora il comportamentista: perché non facciamo di ciò che possiamo osservare il campo reale della psicologia? Limitiamoci alle cose che possiamo osservare, e formuliamo leggi che riguardino soltanto quelle cose. Ma cosa possiamo osservare? Possiamo osservare il comportamento, ciò che l’uomo fa o dice».
(J. B. Watson, Behaviourism, ns. tr., New York 1925, p. 2).
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La straordinaria fragilità della vita nasconde una forza che non posso conoscere, continua al di là di quello che vedo e di cui parlo, non si ferma mai, riprende e rinasce, eternamente ritorna. Ho paura di capire questa realtà fino in fondo all’abisso, così mi limito a navigare in superficie. L’abisso dell’assenza scompiglia i miei piani ordinati, adesso che sono vecchio perfino visibili a occhi nudo. Eppure il mio passo si ferma spesso a osservare qualcosa di più lontano, indietro e nel profondo di ciò che si rifiuta alla conoscenza, è questo nucleo antico della memoria che mi si ripresenta intatto anche se non so parlarne in modo da metterlo sotto una luce sufficiente a renderlo visibile. La morte vorrebbe strapparmi a questo antico patrimonio, e certamente ci riuscirà, ma per il momento è straordinaria la forza che sento dentro di me, la potenza dell’uno che colgo senza accorgermene, involontariamente, il grande e insostituibile afflato della cosa. Non vorrei fare marcia indietro, voltare le spalle a questa esperienza di pienezza, la diversità dell’esperienza è tale che mi fa fremere di paura e di passione, ma il ritorno è ineluttabile. Permanere è una forma di andare avanti, non esiste la possibilità di una quale che sia condizione immobile.
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** «Noi abbiamo caratterizzato lo spazio di libero movimento con la totalità delle regioni alle quail l’individuo in questione ha accesso nella sua presente situazione. Nell’ambito di questa regione di movimento libero, l’individuo può effettuare locomozioni da un punto all’altro senza lasciare la regione, cioè senza dover infrangre la sua frontiera. Sulle basi della coordinazione della locomozione psicologica e della linea matematica si può designare perciò lo spazio di movimento libero di un individuo come una regione connessa».
(K. Lewin, Principi di psicologia topologica, tr. it., Firenze 1961, p. 107).
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Nella vita non c’è solo il semplice fatto di essere qui, di essere venuti al mondo. Di questo evento traumatico sono in molti a essere tutt’altro che felici e una banale constatazione non li soddisfa. Eccoli quindi porsi mille domande che tutte si riassumono in una: perché? Qual è il senso della vita? L’unica risposta plausibile è che la vita non ha senso, è il senso che ha la vita. Le cose stanno esattamente al contrario. Vivendo ci si provvede di un senso immediato che è quello che è, con tutti i suoi limiti e le sue perplessità, che siamo soliti chiamare dolori o gioie, questo non ha poi molta importanza, si tratta di questioni terminologiche. C’è, in ogni caso, visibilmente, una energia che sprizza dagli occhi di chi ama, di chi desidera, di chi vuole, ciecamente – per carità, disponibilissimo ad ammetterlo – ma non è qui il punto, e questa energia ha in sé, latente come una potenza incognita perfino a se medesima, la forza immaginativa che è sempre sulla soglia per cogliere la sostanza della vita stessa, senza sforzo selettivo, senza distinzione, senza aggiunta quantitativamente significativa. In qualche sguardo, qui e là, si nota questa luce di follia che sembra mantenere intatta una cognizione indicibile, di cui non c’è modo di avere dati di fatto, contro cui il fare continuamente si infrange con la metodica assurdità di un mare stupidamente tempestoso. È questa luce che mi suggerisce il modo in cui posso inventarmi il mondo in ogni istante, meravigliandomi del suo semplice essere là, con tutti i suoi spaventosi crimini e le sue inconsumate potenzialità. Sempre dall’interno del fare, come attraverso uno spesso vetro impermeabile, vedo tutto questo e mi accorgo che non ho paura o sonno o stanchezza, sono pronto ad accogliere altri pensieri, altri problemi, altre avventure. Sono sul ciglio della prossima avventura, anche chiuso in questa cella [1980], e non sono disposto a scambiare la mia condizione precaria e risibile di recluso, condizione incerta affidata in mani tutt’altro che rassicuranti, almeno fino a questo momento, con nessuna altra condizione che mi porrebbe baratti inaccettabili per la mia coscienza. Non so fino a che punto mi conosco, forse – anzi potrei dire che ne sono certo – non è possibile che mi conosca, non per le difficoltà superficiali che tutti si immaginano, ma per la sofferenza che ciò comporta. Penetrare nelle proprie carni, tagliare, sventrare sentimenti e paure, per fare questo occorre il demone di un predestinato, la lucidità di un maniaco, l’intolleranza di un fanatico. E poi le certezze degli altri, la loro albagia. Imbecilli che sanno sempre che fare riempiono la faccia della terra con le loro facce immutabili, e non hanno nemmeno il coraggio di chiederti a che punto sei con la tua solitudine.
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*** «La morte e il dolore sono situazioni-limite che non richiedono un mio intervento attivo. In esse, quando le considero, mi si rivela un aspetto dell’esserci. La lotta e la colpa, invece, sono situazioni-limite solo se io intervengo attivamente a produrle; da questo mio intervento dipende la loro efficacia. Sono comunque situazioni-limite perché, di fatto, il mio essere dipende dall’efficacia della loro azione. In nessun modo mi posso sottrarre ad esse, ma, per il solo fatto che ci sono, concorro a produrle. Ogni tentativo messo in atto per eluderle finisce per ricostruirle in altra forma o per determinare il proprio annullamento. La morte e il dolore li colgo a livello esistenziale, nella situazione-limite che mi si presenta, mentre la lotta e la colpa sono io stesso a determinarle, a crearle inevitabilmente. Stando in esse, come si sta in una situazione-limite, ne prendo coscienza a livello esistenziale e, in un modo o nell’altro, me le approprio. Esame delle forme di lotta. Ogni essere vivente, anche senza saperlo e senza volerlo, ingaggia una lotta per esserci, una lotta passiva per raggiungere una sussistenza apparentemente quieta, attiva per accrescere la forza della propria azione e per incrementare il proprio essere. Le condizioni materiali dell’esserci, che sono sempre limitate in relazione al possibile sviluppo della vita, richiedono necessariamente una lotta per il loro mantenimento. L’uomo se ne rende conto inconsapevolmente, anche quando questa lotta non si manifesta in tutta la sua evidenza e non lo coinvolge specificatamente come individuo, perché si trasferisce a gruppi, a settori di società, a Stati; ma come per l’uomo in generale, così per l’individuo, ci sono sconosciuti rapporti di forza che riducono il campo d’azione del singolo, e gli incontrollati pregiudizi degli altri che incidono sull’esito della propria azione. La lotta consapevole che si ingaggia contro l’avversario che ci sta di fronte ha per scopo l’estensione dello spazio vitale. Sul piano economico, quando è in gioco la sussistenza dell’esserci materiale,quando si tratta di decidere del suo esserci o del suo annientamento,si lotta sempre con la stessa crudeltà, sia che si assuma un atteggiamento amichevole o violentemente aggressivo, sia che si ricorra ad una capacità superiore, all’astuzia o all’insidia. Quando l’impiego della violenza non si conclude con l’annientamento dell’altro, si giunge ad una solidificazione del rapporto sociale, in cui il vincitore guadagna potere, e il vinto, per aver scelto di continuare a vivere, accetta la schiavitù. In questo reciproco rapporto di potere, che resta così fissato, sia pure con una certa relatività, ogni individuo nasce in una posizione da cui, poi, parte. Completamente diversa è invece la lotta che si sviluppa nell’esserci partendo dalle idee spirituali e dall’esistenza. Questa lotta, infatti, non ha il carattere di un fatto materialmente condizionato, ma, nell’esserci, si traduce in origine della manifestazione dell’autentico se-stesso. Nelle opere dello spirito è possibile una lotta, il cui senso non si riferisce all’esserci o al suo annientamento, ma alla conquista di un rango e di una risonanza. Lo spazio di questa tenzone non è limitato, ma è infinito come può esserlo lo spazio dello spirito, in cui ogni creazione e ogni realizzazione ha il suo posto nell’indistruttibilità del proprio contenuto. Questa lotta non è la semplice messa in questione del proprio rango e del proprio criterio di misura, perché è una lotta che, nello stesso tempo e più profondamente, favorisce e promuove risvegliando e sollecitando; in sé è fonte di creazioni, perché ciascuno dà al proprio avversario ciò che ha acquisito. Solo nelle sue conseguenze derivate, nell’effetto che produce sui contemporanei, nelle ricompense materiali, questa tenzone sembra soppiantare, pregiudicare, distruggere e, in generale, assumere le forme che sono proprie della lotta dell’esserci. In questo modo modifica il proprio senso. Quando diventa un mezzo per il conseguimento di fini materiali, diventa sostanzialmente falsa perché confonde ed equivoca se stessa. La violenza, anche se è estranea alla tenzone che si svolge nell’ambito dello spirito, alla fine termina nella lotta che, come vivente processo d’amore, la esprime nella sua esistenza. Nell’amore, gli uomini mettono in gioco completamente se stessi per risalire alle loro origini e per divenire autentici nella più inesorabile trasparenza. Nella manifestazione dell’esistenza, questa lotta è una condizione per la realizzazione della stessa e per ripercorrere a ritroso, ma senza violenza, il cammino che conduce al suo fondamento. La lotta, che si inasprisce quando sono in gioco le basi materiali della mia vita, è fonte di creazione nella tenzone spirituale, ed è origine della manifestazione dell’esistenza nell’amore che tutto problematizza. Ovviamente, la lotta non ha luogo solo nel rapporto che esiste tra gli esseri, ma anche nel singolo individuo. L’esistenza si realizza nel processo che conduce al proprio se-stesso, che è poi una lotta con se stesso, in cui io annullo le mie possibilità, faccio violenza ai miei impulsi, modello le mie disposizioni naturali, metto in questione le mie conquiste, e mi rendo conto d’essere, solo quando riconosco il mio essere come un possesso. Da questo esame emergono due tipi essenzialmente diversi di lotta. La lotta che si esprime con la violenza può costringere, limitare, opprimere, oppure può creare dello spazio; in essa posso soccombere e perdere il mio esserci. La lotta che si esprime nell’amore senza violenza mette tutto in questione, e in ciò è mossa non dalla volontà di vincere, ma solo dalla volontà di manifestare; in questa lotta posso nascondermi, evitarmi e naufragare come esistenza. Nonostante questa differenza essenziale, ciascuno di questi tipi di lotta si trasforma improvvisamente nell’altro, o perché la lotta amorosa si traduce in lotta violenta, o perché si supera la violenza della lotta nell’improvviso contatto delle esistenze. La lotta violenta per l’esserci. Il mio esserci toglie spazio così come gli altri lo tolgono a me. Ogni posizione che conquisto sottrae all’altro la possibilità di rivendicare per sé una parte del limitato spazio disponibile. Ogni mio successo rimpicciolisce l’altro. La mia vita dipende dalla lotta vittoriosa dei miei antenati, il mio soccombere si manifesterà, alla fine, nel fatto che nessuno mi riconoscerà come suo predecessore nel corso dei secoli. Ma ciò non toglie che sia vero anche il contrario, e cioè che ogni esserci riposa sull’aiuto reciproco. Da parte mia devo infatti il mio esserci alle cure dei miei genitori; nel corso della mia vita ho bisogno d’aiuto, dell’aiuto che io stesso, a mia volta, offro nei rapporti che si instaurano nella società umana. Ma al di là degli aiuti, della pace, e dell’armonia più completa, c’è la lotta e lo sfruttamento da parte del vincitore occasionale. Lo dimostrano due fatti. La vita spirituale, che è reale nella sua storicità, riposa su un ordine sociale che favorisce la libertà e i vantaggi di pochi. I più lavorano in un senso che non ha come suo scopo la realtà spirituale di quei pochi. Un settore sociale che domina con la sua forza, o perché vive di rendita, o perché, pur essendo relativamente povero, possiede gli indispensabili mezzi di sussistenza che gli consentono di non esser costretto al lavoro meccanico, esercita una funzione culturale e creativa attraverso un lavoro autodisciplinato e indipendente. Gli individui che compongono questo stato sociale diventano supporto e veicolo di ciò che, in seguito, nell’unicità della mia creazione, ha valore per tutti e che, separato dal fondo da cui si sviluppò, può divenire possesso di tutti. Lo sfruttamento crudele e talvolta violento è la condizione di cui il singolo individuo non ha bisogno di esserne consapevole, perché sono altri a determinargliela, e precisamente quegli stessi che consentono di consumare le cose che essi fanno direttamente affluire a chi, per giunta, non è in alcun modo soddisfatto della propria prestazione mate- fiale. Le scienze economiche e sociologiche hanno chiaramente evidenziato questa situazione. Chi cerca di eliminare lo sfruttamento nel mondo non può fare a meno di rinunciare alla realtà della vita spirituale che, in ogni singolo individuo, cresce nella continuità di un processo di formazione. L’altro fatto degno di menzione è che ogni aiuto reciproco crea, da un punto di vista empirico, delle unità in lotta tra loro; nell’ambito dei rapporti reciproci l’aiuto è sempre qualcosa di isolato. Nella vita economica la lotta riguarda, innanzitutto, l’esserci nella sua totalità e si svolge a vantaggio di gruppi di volta in volta limitati, esattamente come avviene nella lotta bellica. Essa crea o sottrae spazio a coloro che succederanno. Solo la lentezza del processo graduale e il silenzio del naufragio finale nasconde la lotta, le sue vittorie e i suoi annientamenti agli occhi di chi sa cogliere solo gli aspetti più immediati e patetici. Alla fine sembra che l’unica realtà sia il pacifico fiorire e la moltiplicazione dei viventi. Si dovrebbe esser ciechi per non vedere che si presentano sempre delle situazioni simili a quella in cui verrebbero a trovarsi due naufraghi di un’imbarcazione che non può contenerne più di uno, per cui o periscono entrambi, o uno trionfa nella lotta, o l’altro rinuncia liberamente a vivere. Di fronte a questi fatti è possibile trattenersi in una concezione finita per la quale non si manifesta alcuna situazione-limite. Togliendo lo sguardo dalla totalità mi sembra che la lotta sia inevitabile, e, per evitarla, cerco di credere, sia pure confusamente, in una vita in cui oltre ad esser garantite le condizioni dell’esserci, tutto si svolge in perfetta tranquillità e secondo giustizia. Non penso ai limiti, ma vivo soddisfatto finché il nascondimento delle reali situazioni di fondo lo consentono. Nell’apparente stabilità delle condizioni del mio esserci, ignoro che la lotta è condizione e limite di ogni esserci».
(K. Jaspers, Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 709-714).
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Imbarcarsi in progetti irrealizzabili nel fare, è tipico della immaturità. Quando si è vecchi è segno di pazzia. Ma se non riesco a essere pazzo, che senso ha tutta la mia vita? Ecco perché coltivo una forma lucida di pazzia che molti pensano sia saggezza. Talvolta aspiro a evitare scelte e progetti decisamente folli, ma poi mi pento di questa sorta di passo indietro. In fondo, la vita è un grossolano incubo da cui ho cercato a più riprese di uscire svegliandomi, qualche volta con un piccolo risultato. Le mie sconfitte, per fare un esempio. Il mio ateismo, un altro esempio. La persistente condanna del potere, quindi di Dio che lo rende possibile. Attribuire alla parola la capacità di dire la vita, perfino l’apparenza immediata, che così si è abituati a definire, è un errore simile a quello di attribuire un qualche contenuto alla bontà, alla giustizia, alla libertà, ecc., così come le conosciamo nel mondo. Queste non hanno contenuto, sono contenitori dove collochiamo comportamenti che, per definizioni concordate precedentemente, consideriamo buoni, giusti e liberi. Tutto ciò rasenta il ridico, ma è perfettamente coerente con la logica.
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**** «Difficile ideale, la storia vera! E nessuna storia mai sarà questa storia ideale, come nessun fatto mai, – ed è fortuna! – tradurrà in atto, puro atto, nessun ideale. Ma che perciò? In tutti gli umani conflitti è sempre un ideale di giustizia o di verità quello per cui si combatte. E la vittoria non arride a chi idealeggia meno, anzi a chi leva lo sguardo a ideale più alto e più comprensivo, e più vero. Nessuno mai ha fatto una storia della filosofia perfettamente filologica, perfettamente deterministica, o logica, o finalistica. Perché anche la storia meramente filologica o logica è un puro ideale, un concetto. Ma, poiché tra i concetti dobbiamo muoverci, non sarà male mirar a quello che ci sembra più vero. Più vero il nostro almeno per questo, che storia della filosofia alla sua stregua saranno tutte le storie, per ciò che esse contengono, se non per ciò che esse respingono, così la filologica, come la logica; così la deterministica, come la finalistica; così la oggettivistica, come la soggettivistica. Tutte parti preziose di quella storia ideale, che, come ogni vera attività, non è l’attività effimera di una persona empirica, ma l’eterna attività dello spirito».
(G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 136-137).
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Conoscere non è capire. Andare avanti è conoscere, farsi attirare, avvinghiarsi all’ignoto, alla dimensione improvvisa e imprecisata dell’avventura. Capire è negare tutto ciò, chiudersi in sé, considerarlo inutile. La cosa è l’esperienza traumatica che radicalizza il mondo nell’assenza. In molti uomini coraggiosi, di cuore, avventati, e proprio per tutto questo affascinanti, uomini eccessivi, che non tengono molto a quello che hanno e che lo mettono in gioco volentieri, semplicemente perché amanti del sentirsi coinvolti, in molti di questi uomini dorme un conservatore frustrato. Ho passato la vita in mezzo agli scrupoli, in altre parole a lottare con fantasmi inessenziali. Lo sforzo più grande è stato quello di trarre fuori da questi fantasmi una realtà appena decente da cui partire. È come se mi fossi zavorrato per fare una gara di corsa ad ostacoli. Ora che sono solo non mi vergogno di quello che ho fatto, e questo mi fa buona compagnia. Il fare è miseria e forza, morte e giovinezza, cuore, disperazione. Affronta tutte le antitesi e le concordanze, circonda e allontana, dissuade e avvinghia. Può essere poeticamente sollecitato e amaramente sopportato per lunghi anni. Anche il fare del carcere, dove mi trovo [1980], ha la vita in sé, ridotta e immiserita, comunque sempre vita. Ma l’uno onniavvolgente è altrove, comprende tutto il fare ma solo non posso partire dall’uno per trovare il fare, avrei le movenze di un pazzo, e sarei pazzo davvero, ma, più modestamente, posso partire dal fare per trovare l’uno. Se mi muovo verso l’apertura all’uno, alla cosa, alla totalità, anche il luogo del fare, che manifesta chiaramente l’assenza dell’uno, è abitato dalla qualità, indirettamente, ma i raggi penetrano la nebbia che mi avvolge e un soffio di libertà mi attraversa sollecitandomi ad abbandonare tutto quello che mi è di peso. È nel fare che riporto la grande forza pulsante della qualità, in minima parte, di certo, ma è solo ciò che posso fare, il resto è intrattenibile. Il fare, visto attraverso la rammemorazione, è la mia vera vita, non gli accadimenti che l’hanno riempita e svuotata, ma il rapimento fuori di sé, nel tentativo desolato in cui solo quello che è vero e libero e bello ha senso, per cui quel poco di verità, di libertà, di bellezza, di uguaglianza, ecc., che sono riuscito a realizzare, prende altra consistenza e si manfiesta con più grande forza, si apre davanti ai miei occhi e agli occhi di tutti coloro che vogliono vedere. La mia vita, dapprima catalogata e statica, adesso si tende con tutta la sua forza, si apre alle possibilità del destino. Aprendosi non consente più l’accettazione dei limiti e delle misure, quindi è più vulnerabile perché più vicina al caos, ma più disponibile al coinvolgimento. Mi avvio in questo modo verso l’inconsumabile apertura dell’azione.
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***** «Che cosa ne deriva per la pretesa di universalità dell’ermeneutica? Varrebbe anche per il linguaggio teorico di una metaermeneutica quello che deve esser messo in conto per ogni altra teoria, e cioè che un linguaggio ambientale dato e non ricostruito è il metalinguaggio ultimo? E l’applicazione delle interpretazioni generali ricavabili da una tale teoria a un materiale dato del linguaggio ambientale, non avrebbe ugualmente bisogno della comprensione ermeneutica pura e semplice che non può essere sostituita da nessun procedimento di misura generalizzato? Entrambi i problemi non dovrebbero più necessariamente essere risolti nel senso della pretesa di universalità dell’ermeneutica se il soggetto conoscente, che certo deve sempre servirsi della sua competenza linguistica preliminarmente acquisita, potesse accertarsi esplicitamente di questa competenza mediante una ricostruzione teoretica. Noi abbiamo messo tra parentesi questo problema di una teoria generale delle lingue naturali. Ma anche prima di ogni elaborazione di tale teoria, noi possiamo già appellarci alla competenza che l’analista (e il critico dell’ideologia) deve effettivamente adoperare per dischiudere il senso di manifestazioni della vita specificamente inintelligibili. Già la conoscenza implicita delle condizioni della comunicazione sistematicamente deformata, che viene presupposta effettivamente nell’uso della competenza comunicativa nell’ermeneutica del profondo, è sufficiente per mettere in questione l’autocomprensione ontologica dell’ermeneutica che Gadamer sviluppa ricollegandosi a Heidegger. Gadamer trasforma ontologicamente in un primato ineludibile della tradizione linguistica il fatto – portato ermeneuticamente a coscienza – che la comprensione del senso dipende dal contesto; fatto che ci costringe sempre a muovere da una precomprensione fondata nella tradizione e a elaborare continuamente una nuova precomprensione in ogni apprendimento. Gadamer si domanda: “Il fenomeno del comprendere è definito in modo adeguato quando si dice: comprendere significa evitare i fraintendimenti? In verità, ogni fraintendimento non presuppone qualcosa come un`intesa che fa da supporto?”. Sulla risposta affermativa siamo d’accordo, ma non siamo d’accordo sul modo in cui va definito questo consenso preliminare. Gadamer, se ben intendo, è dell’opinione che il chiarimento ermeneutico di manifestazioni della vita inintelligibili o fraintese va sempre ricondotto a un consenso stabilito preliminarmente, e in modo da dare affidamento, dalla convergenza della tradizione. Ma questa tradizione per noi è oggettiva nel senso che non la possiamo mettere a confronto con una esigenza di verità in linea di principio. Il fatto che la comprensione implica strutturalmente il pregiudizio non soltanto proibisce, ma fa apparire come privo di senso il rimettere in questione quel consenso già di fatto stabilito e fondante ogni nostro fraintendimento o incomprensione. Da un punto di vista ermeneutico siamo tenuti a riferirci a intese preliminari concrete che, in ultima analisi, risalgono alla socialità, all’essere stati addestrati in rapporti comuni di tradizione. Nessuna di queste intese preliminari è sottratta alla critica in linea di principio, ma nessuna può esser posta in questione in modo astratto. Questo sarebbe possibile soltanto se potessimo esaminare dal di fuori un consenso prodotto da una reciproca intesa e sottoporlo a rinnovate esigenze di legittimazione alle spalle, di quelli che vi sono coinvolti. Ma possiamo avanzare esigenze di tal genere nei loro confronti soltanto in quanto ci mettiamo con essi in un rapporto dialogico. In tal modo torniamo a assoggettarci alla necessità ermeneutica di accettare preliminarmente, come intesa che funga da supporto, un consenso chiarificatore a cui può condurre la ripresa del dialogo. Il tentativo di incriminare astrattamente come falsa coscienza questa intesa di certo contingente è assurdo, perché non possiamo trascendere il dialogo che noi siamo. Di qui Gadamer conclude al primato ontologico della tradizione linguistica rispetto alla possibile critica: perciò possiamo esercitare la critica soltanto rispetto alle tradizioni sempre singole, in quanto anche noi apparteniamo al nesso inglobante di una tradizione costituito da una lingua. Queste riflessioni in un primo momento sembrano plausibili, ma sono infirmate dal punto di vista dell’ermeneutica del profondo che fa vedere come un consenso costituito apparentemente in modo “razionale” può anche essere il risultato di una pseudocomunicazione. Albrecht Wellmer ha ricordato che nella tradizione illuministica è stata generalizzata quell’opposizione alla tradizione. L’illuminismo esige che la ragione venga fatta valere come principio di comunicazione non violenta rispetto alla realtà esperita di una comunicazione deformata dalla violenza: “l’illuminismo sapeva quello che l’ermeneutica dimentica e cioè che il dialogo” che, secondo Gadamer, “noi siamo” è anche un rapporto di violenza e proprio per questo non è affatto un dialogo. “La pretesa di universalità dell’ermeneutica può essere sostenuta soltanto se si muove dal riconoscimento che il nesso della tradizione come luogo della possibile verità e dell’effettivo intendersi è anche il luogo della effettiva non verità e della permanente violenza”. Sarebbe lecito identificare quell’intesa che fa da supporto, anteriore secondo Gadamer a ogni intesa mancata, con l’essersi via via effettivamente intesi, soltanto se potessimo essere sicuri che ogni consenso costituitosi nel medium della tradizione linguistica si è realizzato in modo non coatto e non deformato. Ma l’esperienza dell’ermeneutica del profondo insegna invece che nella dogmatica del nesso della tradizione si impone non soltanto l’oggettività del linguaggio in generale, ma anche la repressività di un rapporto di violenza che deforma l’intersoggettivítà dell’intendersi come tale e distorce sistematicamente la comunicazione nel linguaggío ambientale. Perciò ogni consenso in cui si conclude la comprensione di senso è esposto in linea di principio al sospetto di essere stato ottenuto forzosamente in modo pseudocomunicativo: gli antichi lo chiamavano accecamento, quando nell’apparenza di un effettivo essersi intesi si perpetuavano intatti il fraintendimento e 1’autofraintendimento. Capire che la comprensione di senso implica strutturalmente il pregiudizio non può nascondere l’identificazione tra il consenso effettivamente prodotto e quello vero, identificazione che porta piuttosto all’ontologizzazione del linguaggio e all’ipostatizzazione del nesso della tradizione. Un’ermeneutica criticamente illuminata su se stessa che distingua tra consapevolezza e accecamento, accoglie in sé la consapevolezza metaermeneutica delle condizioni della possibilità di una comunicazione sistematicamente deformata. Una tale ermeneutica collega il comprendere al principio del discorso razionale per cui la verità sarebbe garantita soltanto da quel consenso che fosse raggiunto nelle condizioni idealizzate di comunicazione illimitata e libera da dominio e che potesse venir affermato in modo durevole. K. O. Apel ha giustamente sottolineato che la comprensione ermeneutica serve insieme all’accertamento critico della verità soltanto nella misura in cui si sottopone al principio regolativo di produrre un’intesa universale nel quadro di una comunità illimitata di interpretazione. Soltanto questo principio assicura cioè che l’impegno ermeneutico non può desistere fino a quando non siano stati chiariti a fondo l’inganno insito nel consenso frutto di violenza e lo svisamento sistematico insito nel fraintendimento apparentemente casuale. Se la comprensione di senso non deve rimanere a fortiori indifferente rispetto all’accordo idealizzato perseguito in una comunicazione illimitata e libera da dominio, dobbiamo anticipare la struttura di una vita in comune che si svolga in una comunicazione priva di costrizione. La verità è caratterizzata come costrizione a un ricoscimento universale privo di costrizione; ma questo riconoscimento è legato a una situazione ideale di discorso, e, cioè, a una forma di vita in cui è possibile l’intesa universale e senza costrizione. In questa misura tocca necessariamente alla comprensione critica di senso anticipare formalmente la vita giusta. Senza precorrere i termini di una teoria generale delle lingue naturali, le riflessioni fin qui avanzate sono tuttavia sufficienti per criticare due concezioni che non derivano dall’ermeneutica, ma, come credo, da una falsa autocomprensione ontologica dell’ermeneutica. Gadamer dalla consapevolezza ermeneutica della presenza strutturale del pregiudizio nel comprendere ha ricavato una riabilitazione del pregiudizio. Gadamer non vede alcuna opposizione tra autorità e ragione. L’autorità della tradizione non si impone ciecamente, ma mediante il riconoscimento, raggiunto con la riflessione, da parte di coloro che, trovandosi in una tradizione, la comprendono e la portano ad ulteriore sviluppo applicandola. Replicando alla mia critica Gadamer chiarisce ancora una volta la sua posizione: “ammetto che l’autorità in forme innumerevoli di ordinamenti di dominio esercita la violenza... ma quest’immagine dell’obbedienza prestata all’autorità non è mai in grado di mostrare perché questi sono degli ordinamenti e non il disordine del rude esercizio della violenza. Mi sembra decisivo il fatto che io considero determinante, perché ci siano effettivi rapporti di autorità, il riconoscimento... Basta studiare avvenimentí come la perdita o lo scadimento dell’autorità per vedere che cos’è l’autorità e di che cosa vive. Non della violenza dogmatica, ma del riconoscimento dogmatico. Ma il riconoscimento dogmatico in che cosa consiste se non nel riconoscere all’autorità una sua superiorità quanto a conoscenze?”. Ma identificare il riconoscimento dogmatico di una tradizione, e cioè l’accettazione della sua pretesa di verità, con la conoscenza stessa sarebbe lecito soltanto se nella tradizione fosse garantito che l’intendersi rispetto alla tradizione non è soggetto a costrizione e a limiti. L’argomento addotto da Gadamer presuppone che il riconoscimento legittimante e l’intesa fondante l’autorità si coordino senza violenza. Ma l’esperienza della comunicazione sistematicamente deformata contraddice questa presupposizione. La violenza acquista permanenza soltanto mediante l’apparenza oggettiva dell’assenza di violenza di un’intesa pseudocomunicativa. Con Max Weber chiamiamo autorità una violenza legittimata in tal modo. Perciò c’è bisogno di una riserva in linea di principio riguardo all’íntesa universale e libera da dominio per distinguere il riconoscimento dogmatico dal vero consenso in linea di principio. La ragione, nel senso di principio del discorso razionale, è la roccia sulla quale le autorità di fatto finora si sono piuttosto infrante che non fondate. Ma se l’opposizione, rivendicata dall’illuminismo, tra autorità e ragione giustamente sussiste e non può essere superata in modo ermeneutico, diventa anche problematico il tentativo di imporre limitazioni di principio alla pretesa illuministica dell’interprete. Dalla consapevolezza ermeneutica della presenza strutturale del pregiudizio nel comprendere Gadamer ha anche ricavato un riassorbimento del momento illuministico nell’orizzonte delle convinzioni vigenti. La superiorità dell’interprete trova il suo limite nelle convinzioni riconosciute e compenetratesi con la tradizione dell’ambiente socioculturale a cui appartiene; abbiamo però motivo di ammettere che il consenso di fondo delle tradizioni e dei giochi linguistici compenetratisi nella nostra vita può essere una coscienza integrata in modo costrittivo, un risultato di pseudocomunicazione non soltanto nel caso singolo patologico di sistemi familiari disturbati, ma anche nei sistemi sociali nel loro complesso. La libertà di movimento di una comprensione ermeneutica ampliata a critica non può perciò essere legata all’area delle convinzioni vigenti in una tradizione. Poiché un’ermeneutica del profondo, tenuta a rispettare il principio regolativo del discorso razionale, deve cercare e può cogliere anche negli accordi fondamentali e nelle legíttimazioni riconosciute le tracce storico-naturali di comunicazione disturbata, una privatizzazione della sua pretesa illuministica e la limitazione della critica dell’ideologia al ruolo di una trattazione istituzionalizzata nel rapporto medico-paziente sarebbero incompatibili con il suo impianto metodologico. L’Aufklrung che produce una comprensione radicale è sempre politica. Certo, anche la critica rimane legata al nesso di tradizione che essa riflette. Di fronte a una certezza di sé monologica, che semplicemente si impanca a critica, l’obiezione ermeneutica di Gadamer rimane valida. Per l’interpretazione dell’ermeneutica del profondo non c’è nessun altra conferma al di fuori dell’autoriflessione che riesce e giunge a compimento nel dialogo, ad opera di tutti quelli che vi partecipano. Dall’ipotetico status di interpretazioni generali risultano in effetti limitazioni cogenti a priori nella scelta del modo in cui volta a volta l’immanente pretesa illuministica di comprensione critica deve essere soddisfatta. Forse nelle presenti circostanze è un imperativo più urgente richiamare l’attenzione sui limiti della falsa pretesa di universalità della critica, che non su quelli della pretesa di universalità dell’ermeneutica. Ma nella misura in cui si tratta di chiarire un conflitto de iure, anche la pretesa di universalità dell’ermeneutica ha bisogno di critica».
(J. Habermas, in Aa.Vv., Hermeneutik und Ideologiekritik, ns. tr., Frankfurt a.M. 1971, pp. 150-159).
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Il movimento è nel mondo e appartiene alla mia fisicità, è il mio corpo che si apre e che gode di questo abbandono, ed è sempre il mio corpo che si espone alle sofferenze e alle asperità della desolazione, ma è anche un anelare che non appartiene al mondo che mi circonda, ma all’uno che questo mondo contiene in sé. Non è più questione di armonia o di discordia, ma l’assolutamente altro, dove appaiono misere metafore le varie radure filosofiche di cui si è favoleggiato. L’uno è quello che destina il fare del mondo, che si manifesta come possibilità che deve ancora rivelarsi, che può sussistere e può anche non sussistere. Se l’uno è ciò che è, quindi che non può non essere che quello che è, la possibilità che ne proviene contiene in sé questa caratteristica necessitante, ma nel destino si plasma in movimento da concretizzare, da distinguere. Dalla necessità che è alla possibilità che può essere, la quale quando è non è ancora del tutto ma deve inverarsi in una apertura che può farle recuperare l’antica qualità perduta nell’orientamento. È qui difatti che io creo la separazione, ed è qui la possibilità tratta dal destino che mi diventa quantità, solo quantità che posso modificare a mio piacimento. La rigidità dell’uno si è così concessa all’immediatezza che la legge come prospettiva, che la vede come possibilità. Certo ogni oggetto ha una concretezza oggettuale che contrasta e fa resistenza con il mio attribuirgli quello che il destino mi propone. Nel fare mio l’oggetto, vorrei possibilizzarlo, ed è questa la segreta aspirazione del fare. Ma in sé quella possibilità reca non solo il modesto orizzonte del fare, ma anche la difficile scelta dell’agire, non è del tutto sana e salva, ha pericoli che la mandano allo sbaraglio, verso la qualità.
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****** «Il senso dell’assurdo non equivale alla nozione dell’assurdo: la fonda e basta; e non è contenuto in quella, se non il breve istante in cui esso pronuncia il proprio giudizio sull’universo. Gli resta poi di procedere oltre. È vivo, cioè deve morire o ripercuotersi oltre, come risulta dagli argomenti che abbiamo raccolti. Ma anche qui ciò che mi interessa non sono le opere e gli spiriti, la cui critica richiederebbe di essere fatta in altra forma e in altro luogo, ma la scoperta di ciò che vi è di comune nelle loro conclusioni. Mai spiriti sono stati tanto diversi; ma tuttavia i paesaggi spirituali in cui si muovono, noi li riconosciamo identici. Allo stesso modo, attraverso scienze tanto dissimili, il grido con cui termina il loro itinerario ha un identico suono. Si sente chiaramente che vi è il clima comune fra gli spiriti che abbiamo testé ricordati; e il dire che è micidiale, significa giuocare sulle parole. Il vivere sotto un tal cielo soffocante, richiede che se ne esca, o che vi si rimanga. Si tratta di sapere come se ne esca nel primo caso e perché si resti nel secondo. Io così definisco il problema del suicidio e l’interesse che si può avere per le conclusioni della filosofia esistenzialista».
(A. Camus, Il mito di Sisifo, tr. it., in Opere, vol. Il, Milano 1969, pp. 39-42).
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Il fare non può sfuggire al proprio destino di essere divorato dallo stesso processo che lo mette in movimento. La continuazione produttiva non propone nulla che possa consentire una rottura, ogni contrasto è inglobato nella modificazione stessa e non risolve mai il processo ponendo un fondamento realmente diverso. La possibilità che viene dal destino, se non è stata vissuta come diversità, non è mai una vera possibilità, ma la variante prevedibile della modificazione stessa che aspetta passivamente. Innumerevoli coloro che muoiono senza avere mai saputo di essere stati vivi. La miseria illude che all’interno del misurato non ci siano limiti, ma non è così, non sono i confini soltanto a subire l’affronto, ma tutta la realtà è vilipesa e svilita. Ciò che vive altrove, qui è assenza. L’apertura stessa è un segno, una soglia, un passaggio, non è un luogo in cui qualcosa si trasforma da sola, è il viatico per una trasformazione che avverrà altrove, ma ciò che verrà trasportato è prima di tutto me stesso e il mio coinvolgimento. Il diverso è l’uno che è quello che è, che assente dal mondo da me creato, mi aspetta altrove, nella sua assoluta indifferenza. L’uno non può essere detto se non come simulacro che vive nella parola all’interno della misura mondana, cioè modificata in continuazione. Questo dire l’uno non ha conseguenze completative su quello che è perché semplicemente è, ma nel dire è proposta di avanzamento verso l’assenza, l’immediatezza è invertita da una testimonianza che è essenzialmente conferma della sua incompletezza, quindi indirettamente la parola attorno all’uno diventa parola attorno all’assenza dell’altro, all’assenza di ciò che arriva come possibilità attraverso il destino, ma non è ancora arrivato.
Ventunesima lezione: 15 luglio 1980
Il principio relazionale* sostiene che un evento è sempre la risultante di una interazione** tra due o più fatti. Un fatto*** solo non può produrre un evento, ma è necessario che intervengano per lo meno due fatti, per esempio la persona e l’ambiente, prima che possa verificarsi una qualsiasi locomozione. Il secondo principio, detto principio di concretezza****, sostiene che solo fatti concreti possono produrre effetti. Un fatto è concreto se esiste veramente nello spazio di vita. Dati potenziali e possibili, cioè fatti che possono verificarsi in un dato momento futuro ma che non esistono nel momento presente, non possono essere la causa di eventi presenti.
Strettamente connesso al principio di concretezza è il principio di contemporaneità*****, secondo il quale solo i fatti presenti possono provocare il comportamento attuale. Fatti che sono esistiti un tempo, ma non sussistono più non possono influenzare il presente. I fatti dell’infanzia o della fanciullezza non hanno più peso sul comportamento dell’adulto, a meno che siano riusciti a rimanere in qualche modo vivi attraverso gli anni trascorsi. È logico che questo discorso ha riflessi molto significativi nel campo delle derivanze di psicologia sociale, comunque su questo argomento si pone il passaggio tra struttura della personalità e studio della dinamica psicologica.
Nel compiere una locomozione psicologica l’esperienza di attraversare una frontiera****** è spesso evidente. Naturalmente la cosa si complica se si tengono in considerazione anche le posizioni reciproche delle regioni oggetto del problema. Infatti si può avere una regione semplicemente inclusa in un’altra, come si possono avere regioni sovrapposte. In questi ultimi casi le situazioni sovrapponendosi diventano talmente complesse da determinare la possibilità psicologica di un individuo che si trova contemporaneamente in due regioni.
Questi movimenti avvengono in base all’energia psichica che determina uno stato di tensione nelle regioni interno-personali in rapporto tra di loro. Questa tensione tende sempre a equilibrarsi. Il processo che ne consegue si chiama processo di equilibrazione.
La tensione ha anche la proprietà di esercitare una tensione sulla frontiera del sistema. Qui si tratta di vedere la consistenza della frontiera, infatti dipenderà dalla sua solidità se la tensione riuscirà a passare da un sistema all’altro e se resterà bloccata. Sotto questo aspetto la zona di frontiera diventa una barriera o una zona di resistenza. Un aumento della tensione è determinato dal manifestarsi di un bisogno.
Quest’ultimo concetto è molto spurio ed ha sviluppato, in Lewin, una lunga serie di critiche. Da prendere in considerazione, sotto l’aspetto psicologico, sono quindi solo i bisogni momentanei, cioè quelli che producono effetti perché disturbano l’equilibrio della persona che avverte la presenza del bisogno.
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* «Nell’interpretazione preliminare della struttura dell’essere dell’utilizzabile (il “mezzo”) venne in luce il fenomeno del rimando, ma in modo così sommario da farci sottolineare la necessità di risalire successivamente all’origine ontologica del fenomeno, dapprima semplicemente abbozzato. Fu inoltre constatato che rimando e totalità di rimandi sono, in un certo senso, costitutivi della mondità. Finora abbiamo visto delinearsi il mondo solo in determinati modi e secondo determinate forme del prendersi cura ambientale dell’utilizzabile, e precisamente con l’utilizzabilità dell’utilizzabile. Quanto più, quindi, progrediremo nella comprensione dell’essere dell’ente intramondano e tanto più largo e sicuro si farà il campo fenomenico della chiarificazione del fenomeno del mondo. Prendiamo di nuovo l’avvio dall’essere dell’utilizzabile, e stavolta con l’intento di comprendere più a fondo il fenomeno del rimando. A tal fine condurremo l’analisi ontologica di un mezzo in cui si possono rintracciare “rimandi” in vari sensi. Questo “mezzo” è il segno. Con questo termine si intendono molte cose: non solo le diverse specie di segni, ma anche l’esser segno di..., che può esser formalizzato in un genere universale di relazione, sicché la struttura stessa del segno può offrire il filo conduttore ontologico per una “caratteristica” dell’ente in generale. I segni sono in primo luogo mezzi, il cui specifico carattere di mezzo consiste nell’indicare. Sono segni di questo genere: i segni stradali, le pietre di confine, i segni di tempesta per la navigazione, i segnali, le bandiere, i segni di lutto, e così via. L’indicare può essere inteso come una “specie” del rimandare. Il rimandare, estremamente formalizzato, è un porre in relazione. La relazione non funge però da genere per “specie” diverse di rimandi, che si differenzierebbero in segno, simbolo, espressione, significato. La relazione è una determinazione formale che, per via di “formalizzazione”, è direttamente riscontrabile in ogni genere di connessione di qualsiasi contenuto e modo d’essere. Ogni rimando è una relazione, ma non ogni relazione è un rimando. Ogni “indicazione” è un rimando, ma non ogni rimando è un’indicazione. Dal che deriva: ogni “indicazione” è una relazione, ma non ogni relazione è un’indicazione. Viene così in luce il carattere universale e formale della relazione. In una ricerca intorno ai fenomeni del rimando, del segno e del significato, non si fa un passo avanti caratterizzandoli come relazioni. Alla fine apparirà chiaro che la “relazione” stessa, a causa del suo carattere formalmente universale, ha la sua origine ontologica nel rimando. La presente indagine non si propone che l’interpretazione del segno rispetto al fenomeno del rimando: ma, anche in questi limiti, essa non può fare oggetto di ricerca adeguata la molteplicità dei segni possibili. Fra i segni vi sono i sintomi, i presagi, le tracce, le insegne, i segni di riconoscimento, la cui maniera di indicare è sempre diversa; a prescindere, naturalmente, da ciò che, di volta in volta, serve da segno. Da questi “segni” sono da tener distinti: la traccia, le vestigie, il monumento, il documento, la testimonianza, il simbolo, l’espressione, l’apparizione, il significato. Questi fenomeni si lasciano facilmente formalizzare a causa del loro carattere relazionale formale. Noi siamo oggi particolarmente inclini, sulla scorta dello schema della “relazione”, a sottoporre ogni ente a un’“interpretazione” che è sempre “adeguata” perché, in realtà, vuota, come avviene anche per lo schema abusato di forma e contenuto. A titolo di esempio scegliamo un segno che, più avanti, fungerà parimenti da esempio per un altro scopo. Le automobili sono oggi fornite di una freccia rossa mobile, la cui posizione indica in certi casi (ad esempio, a un incrocio) quale direzione prenderà la vettura. La posizione della freccia è regolata dal guidatore. Questo segno è un mezzo che non viene utilizzato solo dal prendersi cura di chi guida. Anche gli altri automobilisti – e soprattutto essi – fanno uso di questo mezzo, regolando su di esso la propria marcia. Questo segno è intramondanamente utilizzabile nell’ambito dei mezzi di circolazione e delle regole del traffico. In quanto mezzo, questo mezzo di indicazione è costituito dal rimando. Esso ha il carattere del “per”, ha la sua determinata utilità; è un mezzo per indicare. Questo indicare, proprio del segno, può essere inteso come un “rimandare”. Ma bisogna allora tener presente che questo “rimandare” nel senso di indicare, non è la struttura ontologica del segno in quanto mezzo. Il “rimandare” in quanto indicare si fonda invece nella struttura di essere del mezzo, nella utilità a... Questa non basta però a fare di un ente un segno».
(M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it., Torino 1978, pp. 151-153).
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La parola non mette in discussione ciò che arriva né lo modifica prima del suo arrivo, quando ancora è semplice possibilità, ma concorre, grazie alla rammemorazione, a realizzarla, questa possibilità, nel mondo, caricandola di ciò che nel mondo non c’è, l’esperienza della qualità. L’immediatezza sorge così a una vita più ricca, sono al fine io a costruire, qui e subito, il mio destino, non a essere solo l’obiettivo passivo del suo proporsi come contenitore di quello che sono. La parola consente tutto questo, ne è la forza apparente e la debolezza reale, anche perché come strumento essa non è che qualcosa di rudimentale. Non si può escludere che la possibilità che il destino mi suggerisce finisca per naufragare in un banale realizzo immediato. I simboli costitutivi dell’uno, che vado elencando con pazienza, non possono imporsi con un’articolazione particolarmente evidente. Spesso si smarriscono nella selva assordante del mondo dove ogni significato si avvolge nel suo opposto e da questo è distorto al semplice ruolo di involucro. La libertà che cerco è perduta nel deserto della solitudine, non è che un frammento quella che mi viene servita nel piatto freddo del pensiero positivo. Essa si esprime quando io stesso mi metto a rischio, non quando casualmente una tegola mi cade sul capo uccidendomi. Nella mia presenza attiva è latente l’uno di cui vado in cerca e che noto di riflesso solo come assenza. Se mi legassi al giogo della volontà non vedrei che la mia volontà stessa che vuole vedere l’assenza, ma questo vedere sarebbe cecità, schermo riflettente solo i propri muscoli. Il suono lontano e malioso dell’uno mi arriva, ma non lo capisco, se lo voglio capire lo capisco ancora meno. L’abbandono non presuppone la volontà di abbandono, questo è uno degli errori fondamentali di Heidegger, ma una via traversa, un aggiramento, una diversione e perfino una ridondanza. Non c’è una logica che mi leghi all’abbandono con un rapporto biunivoco. Se non ammettessi l’eventualità di aggirare la volontà e il suo controllo, dovrei accettare la necessità modificativa, mi dovrei sottoporre al ciclo ineluttabile della produzione, restare per sempre immediato e circoscritto. La qualità non posso stringerla nei limiti della quantità, quest’ultima per differenziarsi deve allontanare la prima, avendo bisogno di allargare la sua richiesta di altra quantità, all’infinito, fino all’impossibile completamento. Da parte sua la qualità non perde nulla nell’allontanamento orientativo, essa non ammette perfezionamenti, non si pone di fronte alla quantità come qualcosa di semplicemente differente.
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** «Per quanto distorti possano essere, i grandi ideali della civiltà – giustizia, eguaglianza, libertà – sono altrettante proteste della natura contro la repressione cui è soggetta, le uniche testimonianze formulate che noi possediamo. Nei loro confronti la filosofia dovrebbe assumere un duplice atteggiamento. 1) Dovrebbe negare la loro pretesa ad essere considerati come una verità ultima ed assoluta. Ogni volta che un sistema metafisico presenta queste testimonianze come princìpi assoluti o eterni, esso rivela la propria relatività storica. La filosofia respinge il culto del finito, non solo dei rozzi idoli economici e politici – come la nazione, il capo, il successo, il denaro – ma anche di valori etici o estetici come la personalità, la felicità, la bellezza e persino la libertà, nella misura in cui essi pretendono di apparire come assoluti. 2) Bisogna però ammettere che le fondamentali idee culturali hanno un valore di verità, e la filosofia dovrebbe commisurarle allo sfondo sociale da cui sono nate. La filosofia deve opporsi alla frattura tra idee e realtà; essa confronta l’esistente, nel suo contesto storico, con i suoi princìpi concettuali, al fine di sottoporre a critica il rapporto tra l’uno e gli altri e così trascenderli. Essa deriva il suo carattere positivo precisamente dall’interazione di questi due procedimenti negativi. La negazione gioca in filosofia una parte di primo piano. Essa è a due tagli: da una parte negazione delle pretese dell’ideologia dominante all’assoluto, negazione dall’altra delle pretese impudenti della realtà. Ma non si confonda la filosofia di cui la negazione è un elemento, con lo scetticismo: quest’ultimo usa la negazione in modo formalistico e astratto, mentre la filosofia prende sul serio i valori esistenti, ma vuole che essi diventino parte di un tutto teoretico che ne rivelerà la relatività. Dato che nella situazione odierna non è possibile integrare soggetto e oggetto, parola e cosa, il principio della negazione ci spinge a tentar di salvare verità relative dal naufragio dei falsi assoluti. Le scuole filosofiche scettiche e positivistiche non vedono nessun significato nei concetti generali che pure meriterebbero di essere salvati. Dimentiche della propria relatività, cadono in contraddizioni insanabili. Invece l’idealismo e il razionalismo oggettivi insistono soprattutto sul significato eterno dei concetti e delle norme generali, dimenticandone la relatività storica. Ognuna di queste scuole è egualmente convinta che la sua tesi sia l’unica giusta, ed egualmente ostile al metodo della negazione inseparabile da qualunque teoria filosofica che non fermi arbitrariamente il pensiero a qualche punto del suo corso».
(M. Horkheimer, L’eclisse della ragione, tr. it., Torino 1969, pp. 156-157).
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Per la qualità la quantità non esiste, il mondo è una mia creazione che va alla ricerca di ciò che ha dovuto abbandonare per essere costituito in quanto tale, cioè in quanto differenza. La ricerca dell’altro non sopprime la separazione, lascia che il solco sia segnato per sempre, cerca solamente di scoprire il passaggio, l’apertura, l’oltrepassamento. Nell’esperienza della qualità, nel territorio della cosa, nella sua desolazione non c’è quantità. Il crollo, la sconfitta dell’esperienza diversa, si apre a qualcosa di comprensibile a posteriori, riprende il discorso troncato per mancanza di parole. La stessa domanda fondamentale, tutto qui?, è posta nella cosa, ma è comprensibile solo nel mondo. L’impossibile qualità è così sperimentata e interrotta, la continuazione dell’esperienza libera e assoluta poteva essere solo un completamento quantitativo, ecco perché quella domanda segna il punto fondamnetale e critico dell’esperienza. La sconfitta si collega con il viaggio nell’impossibile. La parola avrà l’ultima possibilità, l’ultima lettura della perfezione realisticamente concretizzata nel destino. La perdita, l’esperienza del crollo, è l’esperienza umana per eccellenza, quella che sembra non stringere nulla fra le mani, ma è anche l’unico passo concreto nella desolazione dell’uno. Non posso liberarmi della quantità allo stesso modo in cui perdo per eccesso di desiderio la qualità, i due processi non sono percorribili liberamente nei due sensi. Io sono prigioniero della quantità, e le mura del carcere dove scrivo queste righe [1980], sono l’esempio più eclatante. L’amico è un riferimento nel fare, un sostegno e un luogo della misura. L’amicizia e l’amore non possono però non segnare la linea della qualità. Barcamenarsi trasforma l’amicizia e l’amore in un fare come un altro. Così altre coperture si sostituiscono, non si ama ma si pensa di raggiungere scopi e soddisfare desideri. Il meccanismo del dono, fondato sull’abbandono, non consente più di andare alla ricerca della qualità, ma ci si adagia nella concretezza immediata. Lo stesso meccanismo del fare rende impossibile l’individuazione qualitativamente fondata dell’amico. Questo è qualcosa da distruggere, ma sempre nell’ambito del fare.
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*** «L’esistenza non può ricevere luce dalla conoscenza o dalla ragione ma può darne. Ma prescindere dalla considerazione oggettivistica e soggettivistica, significa sottrarre l’intelligenza dell’esistere, cioè la realizzazione propria dell’esistenza, da ogni riferimento alla conoscenza e al pensiero; significa realizzare l’esistenza autentica non già nel rapporto di essa con la conoscenza o col pensiero ma nel puro ed assoluto rapporto con se medesima. Questa implicazione non è stata realizzata in tutta la sua portata dalle dottrine esistenzialistiche che hanno finora accentuato la polemica anti-soggettivistica assai meno di quella anti-oggettivistica. L’intera dottrina di Jaspers è fondata sulla polarità di ragione e di esistenza, sebbene intenda per ragione non quella dell’idealismo, ma una ragione trascendente e chiarificante il fondo oscuro dell’esistenza. In realtà neppure in tal senso la ragione può essere un polo dell’esistenza; intendere l’esistenza significa realizzarla autenticamente e tale realizzazione significa rapporto dell’esistenza con se medesima. L’intelligenza dell’esistere, che il filosofare esige e ricerca, che è anzi il filosofare, non si pone come un polo dell’esistenza, ma come l’atto comprensivo e finale dell’esistenza, la sua totalità autentica. Se l’esistenza è rapporto con l’essere, io che esisto debbo pormi il problema dell’essere, debbo cercare l’essere. Io esisto in quanto tendo all’essere, io sono in quanto mi rapporto all’essere. Esistendo, io esco dal nulla per muovere verso l’essere; ma se raggiungessi l’essere e fossi l’essere, cesserei di esistere perché l’esistere è la ricerca o il problema dell’essere. Tali sono i capisaldi di qualsiasi esistenzialismo. Da questa semplice esposizione risulta che non sono possibili impostazioni esistenzialistiche diverse da queste o irriducibili a queste. E non è neppure possibile una conciliazione tra di esse che non sia dilettantesca: e banale. La prima impostazione è quella di Heidegger, la seconda è quella di Jaspers, la terza è la mia. La superiorità dell’impostazione ch’io presento consiste nel fatto che solo in essa il problema dell’essere trova il suo fondamento come problema. Nelle altre due la posizione del problema è l’annullamento del problema. L’esistenza si costituirebbe come rapporto con l’essere solo per realizzare l’impossibilità del rapporto. Difatti, nel primo caso, essa metterebbe capo all’impossibilità di distaccarsi dal nulla, nel secondo caso metterebbe capo all’impossibilità di riattaccarsi all’essere: in entrambi i casi, si realizzerebbe come distruzione di se medesima. Ricollocata sulla.sua vera base di possibilità del rapporto con l’essere, l’esistenza trova in se stessa il suo significato positivo ed autosufficiente. Essa non si nega realizzandosi, ma si afferma proprio in quello che è, cioè nella sua essenza o natura di rapporto. Ed il rapporto in cui essa consiste viene, dall’atto della sua realizzazione, ricondotto esso stesso alla sua natura, alla sua problematicità fondamentale. La problematicità del rapporto con l’essere viene a consistere in se stessa e a insistere su se stessa, realizzandosi come problematicità pura, come pura possibilità di un rapporto possibile. L’atteggiamento esistenzialistico, fondandosi sulla impostazione ch’io propongo, trova davanti a sé aperte le vie che le altre due impostazioni bloccano e distruggono. Esse infine rendono impossibile qualsiasi normatività e qualsiasi valutazione».
(N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, Torino 1957, pp. 43-47).
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Solo la saggezza del mondo, la concretezza stessa del fare, può condurre la consapevolezza dell’assenza ai suoi livelli estremi. È prima di tutto scontro che comprende in sé il mondo prima di apparire follia, tutte le giustificazioni vengono sottoposte alla critica negativa, e poi anche lo stesso metodo che questa critica supporta è sottoposto a critica, fino a restare soli di fronte all’indicibile. La follia della qualità sperimentata, sia pure per un attimo, pone il mondo nel suo statuto di nemico. Niente di questo ammasso di regole può essere considerato fuori del mandato nuovo che mi è stato conferito dalla coscienza diversa. Alcuni aspetti manterranno legami affettivi, amicizia, amore, eppure se invertiti da quella corrente impetuosa che attraverso me si erge contro la storia, non reggeranno all’impatto, mostrando la propria meschinità che prima, magari senza inganni, per la mia semplice ottusità, riuscivano a nascondere. Il mondo mi è nemico e io gli dichiaro guerra, ed è su queste rovine che altri, pochi altri, si leveranno anche loro e comprenderanno il perché di queste nuove rotture, di queste tante lacerazioni, o la loro miseria continuerà a fare velo fino in fondo e allora faranno in modo di non comprendere. Nel deserto della cosa appare la qualità nella sua sobria veste essenziale. Questa non è luminosa di parole, non ha confini da dissacrare, è il mistero della vita, visto che la quantità allontanata ne costituisce solo la parte visibile, la dura parte modificabile. Il deserto accoglie questo essenziale riferimento, di cui avevo cognizione perfino nel mondo, ma per accedere ad esso ho dovuto sgominare i terrori che presiedevano al passaggio.
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**** «A questi limiti si arresta la filosofia popolare che, invece di trascendere, cerca la soluzione in un fantastico pseudosapere che si riferisce ad una estranea ed ermetica lontananza. Il trascendere nell’orientazione filosofica nel mondo cerca di differenziare i limiti occasionali dai limiti di principio. Se questi ultimi fossero considerati come occasionali, tali quindi da poter essere un giorno superati dall’indagine, allora il mondo sarebbe l’essere totale e il sapere scientifico sarebbe in possesso di ogni certezza. Ma se si comprendono i limiti di principio, allora non si discute su ciò che non è ancora conosciuto, ma che un giorno potrà essere conosciuto, non si deplora di non poter giungere a qualcosa, ma si realizza quel trascendere concreto che, senza perdere il mondo, dischiude la possibilità di oltrepassarlo. Il singolo, inteso come questo singolo, trascende da sé in quanto empirica individualità, trascende verso di sé in quanto autentico se stesso nell’intrasferibile concretezza storica del suo essere nell’esserci. I pensieri comunicabili di una chiarificazione filosofica dell’esistenza si radicano di volta in volta in questo singolo, e si riferiscono alla sua possibilità. Nella sfera dell’universale, a cui si dirige ogni pensiero in quanto tale, la chiarificazione riflettente trascende i contenuti psicologici e logici con cui opera, verso il trascendere originario che si realizza solo come essere di me stesso nella mia storicità. Il trascendere universale della mediazione filosofica non coincide col trascendere esistenziale verso se stesso che, per quanto sia accertato e sollecitato dal pensiero filosofico, non per questo è già in esso realizzato. Il pensiero e l’espressione non possono avere il loro significato autentico nel contenuto immediato del pensiero e della parola, perché il loro significato si riferisce indirettamente all’“io stesso” che, nella “comunicazione”, esiste come “coscienza storica” in virtù della “libertà”; detto io giunge a se stesso in “situazioni-limite”, si accerta di sé in “azioni incondizionate” e si realizza come “coscienza assoluta”. Non possiede alcun esserci né come “soggettività”, né come “oggettività”, ma si manifesta nell’esserci attraverso la tensione nella polarità di entrambe. Tutte queste parole che di nuovo non sono concetti, ma segni, non colgono alcun essere che, oggettivato, rimanga ancora ciò che è. Come coscienza in generale non posso trovare ciò che si deve cogliere in questi pensieri perché, anche se è possibile esprimerli con la coscienza in generale, in questo ambito rimangono sempre incomprensibili. In essi, infatti, non è mai possibile cogliere un esserci che si faccia presente. Solo se io sono me stesso, essi trovano verifica e risonanza, rifiuto e appropriazione. Là dove si cerca una giustificazione nel mondo mediante concetti universali, alla chiarificazione dell’esistenza non resta che tacere. Essa si sottrae a chi cerca di argomentare con essa. Il suo discorso, infatti, è da esistenza possibile ad esistenza possibile (che ridesta e a cui lancia appelli), ma non è rivolto alla coscienza in generale (perché non dispone di fondamenti e giustificazioni). Se nella chiarificazione dell’esistenza si parla dal punto di vista psicologico, allora l’anima non deve essere considerata come un oggetto empirico, ma come ciò che non diventa mai oggetto della psicologia, perché è l’io che, io stesso di volta in volta sono. Non è l’intelligibile, ma il non-intelligibile che nell’intendere si manifesta. Se dall’individualità empiricostorica, che è oggettivabile, si trascende verso la profondità storica dell’autentico “io sono” che non è mai oggettivabile, l’esistenza che anima questo “io sono” non è ancora l’essere. Essa non è l’origine ultima di tutto, e quindi anche di tutto l’altro, ne lo è attraverso se stessa, ma piuttosto si comprende nella sua libertà partendo dal suo essere-data come esserci-nel-tempo. Io stesso non sono né solo esserci, né l’essere assoluto. In questo, trascendere originario verso me stesso, non so che cosa sono, ma mi accorgo di quell’“io sono”. Pensare nella chiarificazione riflettente e filosofica dell’esistenza in rapporto a tale trascendenza non mi procura alcun punto d’appoggio oggettivo, ma mi consente una chiarezza maggiore nei confronti dell’effettivo trascendere. La realtà esistenziale e l’attività del pensiero, che nell’orientazione filosofica nel mondo coincidono anche se qui lo stesso pensiero è ad un tempo trascendere originario, nella chiarificazione dell’esistenza rimangono separati anche se procedono molto vicini e nella chiarificazione dell’esistenza si parla dal punto di vista logico, allora si capovolge ciò che nell’orientazione nel mondo sembra possedere un’evidente validità. Le categorie mutano il loro senso. Il particolare conta più dell’universale; ciò che per il sapere storico è relativo diventa forma dell’assoluto; il più intimo radicarsi nella situazione storica si converte nell’autentico diventar-se-stesso, mentre la mera elevazione all’universale si traduce nel puro e semplice annullamento; io sono al di sopra delle idee, e, anche se come individuo empirico mi sottometto a esse e le assumo come regole nell’esserci, come esistenza le spezzo».
(K. Jaspers, Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 159-162).
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Ogni essenzializzazione fa paura. Sono troppo impregnato di orpelli e comodità, di punti di appoggio su cui contare. La libertà è bruciante, guai a chi non è preparato a riceverla nella sua pienezza. Ciò che essa celebra, la fine di tutti i limiti, l’altro che non ammette concessioni, ha ritmi che non sono comprensibili nemmeno forzando la capacità di capire dell’assenza, della parola. Intuire non può essere discusso se non nel restare, nell’arresto del dire che è anche arresto del fare. Attesa è anche abbandono. L’unidimensionalità dell’uno non è attingibile se non rinunciando a possedere. L’afferrare è penalizzato e respinto, l’invio all’apertura è privo di contenuti consolidati che non potrebbero accedere alla cosa. La qualità è inospitale. L’indifferenza è dell’uno, ma l’esperienza diversa è mia, della mia coscienza, che differenzia sia pure non graduando e non possedendo, insuperabile e impossibile dismisura di libertà. La stessa presenza mia è un effondersi qualitativo che colgo nel tempo istantaneo che sottraggo alla concordanza, non è né obbedienza alla forza né esercizio di dominio. L’evento non c’è più, solo la qualità senza tempo e senza specifiche, la desolazione del deserto.
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***** «Che cosa è, però, storia? La storia (come “istoria” o storiografia: historia rerum gestarum, e non come res gestae) sorge quando nasce l’interesse e si ha tutt’insieme curiosità e capacità di comprensione per seguire lo sviluppo di un evento (o l’azione di un individuo) nel tempo, con ciò quando si ha non meno la molteplicità che l’unità nel tempo di un fatto di cui si vuole intendere in modo critico come e per quali modi e ragioni si sia realizzato. Con ciò il concetto del fatto storico si distingue da quello dell’accadimento, che è o si dice naturale; e insieme la storia si distingue dalla cronaca. La storia sorge non soltanto quando sorge il fatto nazione, con gli interessi – e innanzi tutto la continuità nel tempo – che vi si connettono, bensì anche quando un popolo entra in rapporto di scambi con altri popoli e culture, così che si spezza la primitiva immediatezza della tradizione, mentre si avanzano dubbi verso i valori e le fedi tramandate, con la conseguenza di fornire un incentivo per la riflessione filosofica, e in ogni caso per un ripensamento critico della religione patria, sia pure sotto la specie di una difesa della religio di contro alla superstitio. Perché noi studiamo le istorie? (Foscolo: “O italiani, io vi esorto alle istorie”). A distanza di più che venti secoli, lo spirito di un greco trasmigrato quasi attraverso il tempo e lo spazio, e nutrito da ultimo dell’esperienza romantica, scrive delle nozze e tribunali e fare che diero alle umane belve esser pietose, e di Ettore che avrà onore di pianto ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato – e finché il sole risplenderà sulle sciagure umane. Chi saprebbe porre un limite ai motivi di ordine psicologico che ci muovono a indagare la storia degli Egiziani o degli Assiri? Chi saprebbe dire quali sono i motivi o le risonanze di ordine psicologico che muovono lo storico a ricercare la storia delle donne dei Cesari? Il motivo della “contemporaneità” della storia, nel senso dell’interesse dello storico che muovendo dalla società presente e viva lo spinge a ricercare la storia dell’umanità defunta, è anche troppo ovvio. La dottrina di ordine filosofico che si camuffava più spesso sotto quella proposizione, e secondo la quale lo Spirito, ubi vult, fa risorgere le rovine dell’antica Troia, in quanto “non vi è” un passato, e neanche vi sarebbe una storia in quanto distesa nel tempo, e neanche vi sarebbe una società di umani, bensì la storia rappresenterebbe il momento del “giudizio” (sulla situazione presente del mondo, che include in sé la situazione dell’Italia presente, come include la storia e persino gli scavi archeologici dell’antica Ninive), è cosa risibile. Tuttavia la pigrizia nonché l’insipienza filosofica dei più vuole che si continui a usare la citazione della “contemporaneità” della storia di Croce abbracciando e confondendo tutt’insieme quel primo motivo di vero, che vorremmo dire ovvio, con la dottrina dell’idealismo che vi si fa scappare per entro, e che è cosa risibile. Ma tant’è, ciò che vale, è in questo come in altri casi, la felicità di un titolo, anzi la risonanza di una semplice parola, e non si chiede di più (si ricordi il titolo dell’altro scritto crociano: Perché non possiamo non dirci cristiani!). Con riguardo alla vita, per cui la giustificazione pragmatica della storia si è ritrovata da sempre in ciò che la storia sarebbe magistra vitae, è da intendere che quel tanto per cui la conoscenza della storia può “servire” per la nostra azione nel presente, è il momento delle generalizzazioni di ordine sociologico, che ricaviamo dalla nostra esperienza della storia, e che per converso ci servono quali regole e criteri di massima nel nostro giudizio storico. Nonostante quei motivi e quegli interessi diversi, lo storico in quanto è storico non vuole se non sapere in quale modo siano andate esattamente le cose. E, per quanto non possa non seguire dei criteri o dei canoni, che sono di natura genericamente sociologica, egli, in quanto è storico, cala e perciò anche rinnova quei criteri nel giudizio ciascuna volta individuale del fatto in esame. Il significato che ritroviamo dei fatti è, evidentemente, il significato che lo storico sa vedervi, e che sa vedervi lui. Anche qui vale la proposizione che, chi sa e intende di più, sa anche di più vedere. Occorre lasciare a chi tuttora blatera di “oggettività” più o meno scientifica la illusione di portarsi in tasca, quale un sasso polito, una oggettività scevra o scarsa del giudizio dell’uomo».
(F. Lombardi, Il senso della storia ed altri saggi, Firenze 1965, pp. 25-26).
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Cogliere l’intensità è una delle esperienze dei colori. La maturità di un rosso, la silenziosa meditazione di un azzurro, le forti vibrazioni dell’argento, posso avvertirle tutte in una sola meditazione, in una silenziosa raccolta di molte sensazioni che singolarmente si spendono nel fare. L’apertura consente a volte di andare dentro questa meditazione, di scendere fino in fondo, di chiedere una speranza di unità. So bene che a prevalere è sempre la nostalgia della distinzione, ma l’eterno futuro mi riconduce nelle mani il destino come possibilità. Lo sforzo più grande è quello di collegare quella meditazione a questo flusso di possibilità.
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****** «Ciò che vi è di più paradossale nella tesi del Le Roy è l’affermazione che lo scienziato crea il fatto; ne è al tempo stesso il punto essenziale e uno di quelli che sono stati più discussi. Forse, egli dice (e credo bene che questa sia una concessione), non è lo scienziato che crea il fatto bruto, ma almeno è lui che crea il fatto scientifico. Questa distinzione tra fatto bruto e fatto scientifico non mi sembra di per se stessa illegittima. Ma deploro sopra tutto che la frontiera non sia stata tracciata né in maniera esatta né in maniera precisa; e inoltre che l’autore sembri sottintendere che il fatto bruto, non essendo scientifico, è al di fuori della scienza. Infine non posso ammettere che lo scienziato crei liberamente il fatto scientifico, poiché è il fatto bruto che glielo impone. Gli esempi dati dal Le Roy mi hanno molto sorpreso. Il primo è preso dalla nozione dell’atomo. L’atomo scelto come esempio di fatto! Confesso che questa scelta mi ha sconcertato talmente, che preferisco non dir nulla. Io ho evidentemente mal compreso il pensiero dell’autore, e non potrei discuterlo con frutto. Il secondo caso preso a esempio è quello di una eclisse, in cui il fenomeno bruto è un giuoco d’ombra e di luce, e l’astronomo non può intervenire senza apportare due elementi estranei, cioè un orologio e la legge di Newton. Infine il Le Roy cita la rotazione della terra. Gli si è risposto: ma non è un fatto, ed egli ha replicato: era un fatto per Galileo che l’affermava, come per l’inquisitore che lo negava. Non è comunque un fatto allo stesso titolo di quelli di cui stiamo parlando, e dar loro lo stesso nome equivale a far confusione. Ecco dunque quattro gradi: 1° Fa buio, dice l’ignorante; 2° L’eclisse ha avuto luogo alle nove, dice l’astronomo; 3° L’eclisse ha avuto luogo nell’ora che si può dedurre dalle tavole costruite secondo le leggi di Newton, dice ancora l’astronomo; 4° Ciò equivale a dire che la terra gira attorno al sole, dice infine Galilei. Dove è dunque la frontiera tra il fatto bruto e il fatto scientifico? A leggere il Le Rov, si crederebbe che è tra il primo e il secondo scalino; ma chi non vede che vi è maggiore distanza dal secondo al terzo, e più ancora tra il terzo e il quarto? Mi si permetta di citare due esempi, che forse ci illumineranno un po’. Osservo la deviazione di un galvanometro con l’aiuto di uno specchio mobile, che proietta un’immagine luminosa, o spot, su una scala graduata. Il fatto bruto è che io vedo l’immagine spostarsi sulla scala; il fatto scientifico è che passa una corrente nel circuito. Ovvero ancora: quando faccio una esperienza, devo far subire al risultato certe correzioni, perché so che ho dovuto commettere degli errori. Questi errori sono di due specie: gli uni sono accidentali, e li correggerò prendendo la media; gli altri sono sistematici, e non potrò correggerli che con uno studio approfondito delle loro cause. Il primo risultato ottenuto è allora il fatto bruto, mentre il fatto scientifico è il risultato finale, compiute le correzioni. Riflettendo su quest’ultimo esempio, siamo indotti a suddividere il secondo gradino, e invece di dire: 2° L’eclisse ha avuto luogo alle nove, diremo 2° a) L’eclisse ha avuto luogo quando il mio orologio segnava le nove; 2° b) Se il pendolo ritarda di dieci minuti, l’eclisse ha avuto luogo alle nove e dieci. E non è tutto: il primo gradino dev’essere anch’esso suddiviso, e tra queste due suddivisioni la distanza non sarà meno grande; tra l’impressione di oscurità provata dal testimonio di una eclisse, e l’affermazione: fa buio, che egli ricava da questa impressione, è necessario distinguere. In un certo senso, la prima soltanto è il vero fatto bruto, mentre la seconda è già una specie di fatto scientifico. Ecco dunque che adesso la scala ha sei gradini, e, benché non vi sia ragione di fermarsi a questo numero, ci fermeremo qui. Ciò che sopra tutto mi colpisce è questo: nel primo dei sei gradini, il fatto, ancora completamente bruto, è per dir così individuale: è completamente distinto da tutti gli altri fatti possibili. Dal secondo gradino in poi non è più così. L’enunciato del fatto potrebbe convenire a una infinità di altri fatti. Appena interviene il linguaggio, non dispongo più che di un numero finito di parole per esprimere le sfumature infinite che potrebbero essere assunte dalle mie impressioni. Quando dico: fa buio, esprimo bene le impressioni che provo assistendo a una eclisse; ma nella stessa oscurità si potrebbe immaginare un gran numero di sfumature, e se invece di quella che si è realizzata effettivamente, si fosse verificata una sfumatura un poco differente, avrei tuttavia enunciato questo altro fatto, dicendo ancora: fa buio. Seconda osservazione: anche nel secondo gradino, l’enunciato di un fatto non può essere che vero o falso. Non sarebbe lo stesso per una proposizione qualunque; se questa proposizione è l’enunciato di una convenzione, non si può dire che tale enunciato sia vero, nel senso proprio del termine, perché non potrebbe esser vero mio malgrado e perché esso è vero solo perché voglio che lo sia. Quando dico, per esempio: l’unità di lunghezza è il metro, enuncio un decreto, non già una dichiarazione che mi si imponga. È lo stesso, come credo d’altronde di aver mostrato, quando si tratta, per esempio, del postulato di Euclide. Quando mi si domanda: fa buio? so sempre se devo rispondere sì o no. Benché una infinità di fatti possibili siano suscettibili di questo stesso enunciato: “fa buio”, io saprò sempre se il fatto realizzato rientra o no tra quelli che corrispondono a questo enunciato. I fatti sono classificati in categorie, e se mi si domanda se il fatto che constato rientri o no in tale categoria, non avrò alcuna esitazione. Senza dubbio, questa classificazione pecca abbastanza di arbitrarietà, per lasciare alla libertà e al capriccio dell’uomo una larga parte. In breve, questa classificazione è una convenzione. Data questa convenzione, se mi si domanda: questo fatto è vero? saprei sempre che cosa rispondere, e la mia risposta mi sarà imposta dalla testimonianza dei sensi. Se dunque durante un’eclisse si domanda: fa buio? tutti risponderanno: sì. Senza dubbio, risponderanno negativamente se parlassero una lingua in cui chiaro significasse scuro, e viceversa. Ma che importanza può aver questo? Del pari, in matematica, posto che io abbia le definizioni e i postulati, che sono convenzioni, un teorema non può essere che vero o falso. Ma per rispondere alla questione: questo teorema è vero? non avrò bisogno di ricorrere alla testimonianza dei sensi, bensì al ragionamento. L’enunciato di un fatto è sempre verificabile, e per la verifica noi ricorriamo sia alla testimonianza dei sensi che al ricordo di questa testimonianza. È questo propriamente ciò che caratterizza un fatto. Se voi mi ponete la questione: tale fatto è vero? comincerò col domandarvi, in altri termini, quale lingua parliate; chiarito questo punto, interrogherò i miei sensi e risponderò sì o no. Ma la risposta sarà data dai miei sensi, non da voi quando mi dite: vi ho parlato in inglese o in francese. Vi è qualcosa da cambiare a tutto questo, quando passiamo ai gradini seguenti? Allorché osservo un galvanometro, come dicevo poco fa, se domando a un osservatore ignorante: passa la corrente? questo va a guardare il filo per cercare di vedervi passare qualcosa; ma se pongo la questione in maniera che egli comprenda quel che dico, egli saprà che ciò vuol dire: l’immagine luminosa si muove? ed egli guarderà sulla scala. Qual differenza vi è dunque tra l’enunciato di un fatto bruto e l’enunciato di un fatto scientifico? Vi è la stessa differenza che passa tra l’enunciato di uno stesso fatto bruto nella lingua francese e nella lingua tedesca. L’enunciato scientifico è la traduzione dell’enunciato bruto in un linguaggio che si distingue sopra tutto dal tedesco volgare o dal francese volgare, perché è parlato da un numero molto meno grande di persone».
(H. Poincaré, Il valore della scienza, tr. it., Firenze 1947, pp. 200-201).
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L’uno si rivolge al mio mondo in modo chiaro e diritto. È semplicemente il silenzio il suo linguaggio. A volte può parlarsi di una voce del silenzio, ma si tratta di un modo fantasioso di penetrare nel silenzio e nella solitudine della desolazione. Senza spostarsi dal suo semplice è, l’uno penetra dentro di me e nel mondo della mia modificazione, cercando un’affinità tra il suo unitario silenzio e la mia turbinosa magniloquenza. La mia risposta è certo legata alla parola, ma è anche risposta di radicamento nel fare, nella forza degli strumenti di cui posso dotarmi per andare oltre. La mia energia, coartata da mille circostanze, deve essere liberata, da me stesso.
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