Titolo: La reazione in Germania
Data: 2009
Note: Titolo originale: Jules Elysard [Michail Bakunin], “Die Reaktion in Deutschland. Ein Fragment von einem Franzosen”, in “Deutsche Jahrbücher”, Dresda ottobre 1842.
Traduzione di Domenico Tarantini Prima edizione italiana: Altamurgia ottobre 1972
Seconda edizione: Edizioni Anarchismo settembre 2009
Opuscoli provvisori n. 24
SKU: opuscoli-000024
Dimensioni: cm 10 x 10,5
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Nota introduttiva

Chi cercasse in queste pagine di un Bakunin giovanissimo il rivoluzionario della maturità rimarrebbe deluso. Nessuno di noi rimane per sempre lo stesso, sarebbe un molotite idiota capace di ripetere sempre la medesima tesi, scelta una volta per tutte.

Bakunin non sta ancora cercando la sua strada, l’ha di già trovata, la sua è una scelta di campo già fatta, ma è una strada ancora da percorrere e un campo ancora da esplorare. Impiegherà tutta la sua vita di lottatore a fare queste due cose, fino in fondo, senza tergiversare e senza mezzi termini.

Il mondo dorato della sua fanciullezza, il servizio nell’esercito dello zar, sono acqua passata, adesso è uno studente di filosofia con idee di sinistra, con una gran voglia di fare e non soltanto di ascoltar maestri – che nella Germania dell’epoca si sprecavano davvero.

In un certo senso questo scritto è il suo biglietto da visita, la sua dichiarazione di guerra. Ha tutti i limiti di una avventatezza che in altri uomini poteva successivamente essere rinnegata, ma che in lui, conseguente fino in fondo, sarà soltanto portata alle estreme conseguenze, nel pensiero e nell’azione. Ben presto la filosofia di Hegel resterà sullo sfondo come un remoto miraggio, senza nessun tentativo, esclusivamente teorico, di far camminare la dialettica – strumento del mestiere del filosofo dello spirito assoluto – sulla testa o sui piedi, resterà sullo sfondo e non sarà sostituita dalle tesi di nessun altro nume tutelare, né Schelling né Proudhon.

Una selvaggia produzione di idee sostituirà le ordinate teorie tedesche pronte all’uso reazionario in qualsiasi salsa condite, il pensiero anarchico in prospettiva viene da lui dapprima intuito a grandi linee, più col desiderio di distruzione che con una tesi filosofica e politica precisa, poi dettagliato nella lotta concreta dalle barricate del 1848 fino al rivellino di San Pietroburgo, fino alla Siberia, fino alla grande contesa con i marxisti all’interno della Prima Internazionale.

Il resto è storia nota.


Trieste, 14 dicembre 2008

Alfredo M. Bonanno

Introduzione. Un ardente appello alla libertà

Noi affermiamo che la libertà dev’essere intesa, nella sua accezione più completa e larga, come scopo del progresso storico dell’umanità.

Michail Bakunin

Gli anni Quaranta del secolo scorso furono segnati, in Francia e in Germania, dalla pubblicazione di memorie, libri e articoli che costituiscono l’inizio d’una nuova era della storia politica e sociale del mondo. Le idee, le dottrine e le filosofie di cui quegli anni videro la nascita non hanno cessato, dopo centotrent’anni, d’esercitare la loro influenza e di pesare sul pensiero e sull’azione degli uomini d’oggi.

In Francia, dal 1840 al 1843, appaiono quattro libri di Proudhon: Che cos’è la proprietà?, Seconda memoria sulla proprietà, Avvertimento ai proprietari, La creazione dell’ordine nell’umanità. Nel 1840, Étienne Cabet pubblica il Viaggio in Icaria e Louis Blanc L’organizzazione del lavoro. In Germania, Ludwig Feuerbach pubblica L’essenza del cristianesimo (1841) e La Filosofia dell’avvenire (1843); la letteratura s’interessa della questione sociale con Heinrich Heine, Karl Gutzkow, Heinrich Laube ed il poeta Georg Herweg, autore dei Canti d’un uomo vivo.

Nell’aprile 1842, nella “Rheinische Zeitung”, appare un brillante saggio di Max Stirner su Il falso principio della nostra educazione [Edizioni Anarchismo, Catania 1982]. La stessa “Rheinische Zeitung” pubblica nel maggio 1842 il primo articolo del giovane Marx, che diverrà presto capo redattore di quel giornale. Infine, nell’ottobre 1842, i “Deutsche Jahrbücher” (“Annali tedeschi”) di Arnold Ruge pubblicano, in tedesco, il primo saggio di un giovane russo, Michail Bakunin: “La reazione in Germania”. Così, in tre anni, s’affermano quattro pensatori: Proudhon, Stirner, Marx e Bakunin, i quali sono all’origine di ciò che noi chiamiamo con linguaggio moderno comunismo e anarchismo.

Questi quattro uomini sono giovani: nel 1842 Marx e Bakunin hanno 24 e 28 anni. Proudhon e Stirner sono nati prima di loro, e hanno 33 e 36 anni. I loro caratteri sono dissimili ed i loro destini saranno molto diversi. Stirner, dopo una vita riservata, morirà in miseria, Marx sarà soprattutto un uomo di studio e di biblioteca, Proudhon e Bakunin, quest’ultimo soprattutto, condurranno una vita militante e conosceranno la prigione. Ma Marx, Stirner e Bakunin hanno un punto in comune: sono profondamente impregnati di filosofia hegeliana, mentre Proudhon è sfuggito a questa influenza. Lasciando da parte il caso di Proudhon, si può dire che comunismo e anarchismo, se sono divisi da un solco che ritengo invalicabile, hanno un’origine comune: la filosofia di Hegel, o piuttosto un’interpretazione “gauchiste” di questa filosofia.

Hegel era morto nel 1831, ma l’hegelismo rimaneva la vetta che l’idealismo filosofico tedesco aveva raggiunto e non superato. È difficile capire oggi la passione con la quale i giovani studenti di Berlino e di Mosca s’entusiasmavano per la filosofia di Hegel. Questi giovani, avvezzi alla dialettica hegeliana, erano decisi ad andare più lontano del maestro e a “mettere in piedi il sistema hegeliano che poggiava sulla testa” (Marx). Si potrebbe, del resto senza malanimo, applicargli questa battuta del filosofo Jules Lagneau sui discepoli che tradiscono il maestro: “Gli hanno rubato l’utensile”.

“Si deve concepire e stabilire come principio la contraddizione, il cui principio dev’essere enunciato così: tutte le cose sono per se stesse contraddittorie. Questa proposizione esprime l’essenza e la verità delle cose. L’identità non è che la determinazione del semplice immediato, dell’Essere morto, mentre la contraddizione è l’origine d’ogni movimento e d’ogni vitalità; è solo nella misura in cui contiene una contraddizione, che una cosa è capace di movimento, di slancio, d’attività”. (Hegel, Scienza della logica).

Questa nozione di contraddizione porta a definire la dialettica hegeliana o piuttosto la triade dialettica hegeliana, per la quale, invece di impiegare i termini tradizionali di tesi, antitesi e sintesi, utilizzeremo la terminologia di Hegel. La contraddizione implica un primo termine, l’affermazione o principio positivo. L’affermazione è un elemento conservatore e la sua sola esistenza basta per dare origine ad un elemento antagonista, la negazione o principio negativo. La negazione è l’elemento attivo, si potrebbe dire rivoluzionario, della contraddizione. La negazione nasce dall’affermazione e l’esistenza dell’una comporta quella dell’altra. Sarebbe vano per entrambi i princìpi cercar d’annientare l’antagonista e così si giustifica la formula di Hegel: “Ciò che è negativo è positivo tanto quanto ciò che consideriamo positivo”. La riconciliazione della contraddizione avverrà con la fusione dei princìpi antagonisti in una nuova unità che sarà un superamento dei due termini della contraddizione. Il terzo termine della triade è la negazione della negazione che sopprime i due princìpi antagonisti, conservando tutto il loro contenuto ed elevandosi ad un’affermazione superiore: “Il processo dialettico, come qui lo intendiamo, il cogliere gli opposti nella loro unità ovvero il positivo nel negativo, è il processo stesso del pensiero speculativo. È qui il suo lato più importante, ma anche il più difficile”. (Scienza della logica).

Si ritiene che la logica hegeliana possa applicarsi a contraddizioni d’ogni natura. Nel saggio di Bakunin il partito rivoluzionario ed il partito democratico si fonderanno “in un mondo nuovo pratico e spontaneo, nella presenza reale della libertà”. Nel saggio di Stirner su Il falso principio della nostra educazione, la contraddizione umanesimo-realismo porterà all’“uomo egoista e libero”. Infine, nessuno ignora lo schema marxiano borghesia-proletariato, il cui conflitto si risolverà nella società senza classi.

Nelle mani di discepoli stupidi e pedanti, il processo dialettico hegeliano rischia di diventare puramente meccanico e artificiale. E noi sappiamo fin troppo con quale virtuosismo i discendenti degenerati di Marx e di Lenin hanno girato la manovella della dialettica.

La triade hegeliana non suscita in Francia grande entusiasmo. Proudhon si rivela avversario dell’“ideomania di Hegel”. Certo, Proudhon non ha una conoscenza approfondita di Hegel (e Marx saprà rinfacciarglielo). Prima delle sue conversazioni nel 1844 con Marx e Bakunin, aveva seguito al Collège de France i corsi di Henrich Ahrens, che opponeva la dialettica di Fichte al sistema di Hegel, e sappiamo che Proudhon era un grande lettore di Kant. È con ironia che nel 1843 scrive: “Il sistema di Hegel ha rimesso in voga il dogma della trinità”. Egli non crede alla riconciliazione dei due termini della contraddizione in una unità superiore, ed in questo perviene alle posizioni della sinistra hegeliana: “La sintesi non distrugge realmente, ma solo formalmente, la tesi e l’antitesi”. Per Proudhon i termini antinomici non possono risolversi. Non può esserci fusione, ma soltanto “un equilibrio continuamente instabile, che varia secondo lo sviluppo della società”. Così “la triade ha tre termini, mentre in realtà non ne esistono che due”. Molte obiezioni possono essere fatte alla dialettica di Proudhon, ma non è questo il luogo per discuterne.

Hegel va più lontano: applica la dialettica allo spirito per ricostruire il reale. Lo spirito, superando tutte le contraddizioni che incontra, diverrà alla fine dello sviluppo dialettico lo Spirito assoluto che, di fronte alla realtà, porrà fine all’ultima contraddizione. Lo spirito, la ragione, saranno la sola realtà, e di qui la formula celebre: “Ciò ch’è razionale è reale e ciò ch’è reale è razionale”. (Filosofia del diritto).

Si vede subito quale pericolo contenga la formula “ciò ch’è reale è razionale”. “Essa legittima i poteri esistenti e porta l’uomo a rimanere con le braccia incrociate”. (Aleksandr Herzen). Essa giustifica un atteggiamento conservatore e, giunto all’apice della gloria, Hegel potrà trovare nello Stato prussiano la realizzazione dello Spirito assoluto.

In Germania, e particolarmente a Berlino, i giovani nutriti del pensiero di Hegel cominciarono, nel 1837, a trovare pesante il giogo della filosofia ufficiale, della filosofia dello Stato prussiano. Nella Filosofia del diritto, di Hegel, non c’era solo, in verità, la celebre formula citata prima. Si potevano leggere anche le frasi seguenti: “Lo Stato è la realizzazione dell’idea morale [...]. Lo Stato è la realizzazione della libertà concreta [...]. Il più alto dovere è di esser membro dello Stato [ ...]. Il progresso dell’umanità si realizza per mezzo dello Stato”. Una gioventù che mal sopportava la censura e l’autorità dello Stato non poteva accettare queste formule. Essa rendeva a Hegel l’omaggio che meritava, ma era decisa a superarlo: poiché ciò ch’è razionale è reale, si può abbandonare l’atteggiamento interpretativo e contemplativo e dire: ciò che noi giudichiamo razionale deve diventare reale. E Marx nel 1844 (Tesi su Feuerbach) potrà proclamare: “I filosofi hanno fin qui interpretato il mondo in diversi modi; si tratta ora di trasformarlo”.

Hegel, punto di partenza e non d’arrivo, iniziatore d’una dinamica rivoluzionaria e non d’una statica conservatrice: è ciò che dice Bakunin nel saggio che pubblichiamo: “Hegel [...] è la vetta più alta della nostra cultura moderna guardata solo dal punto di vista teorico. E proprio perché è la vetta [...] è all’origine di una necessaria auto-decomposizione della cultura moderna”. Hegel è un inizio e non una fine e “ce la sbrigheremo con lui avvolgendolo nel lenzuolo di porpora in cui dormono gli dèi morti”.

Così si formò a Berlino un nucleo di giovani animati da uno spirito democratico e da un liberalismo politico e sociale un po’ vago: studenti turbolenti, filosofi di caffeucci, si dirà con disprezzo; ma la loro influenza non fu trascurabile ed essi costituiscono ciò che si chiama la sinistra hegeliana. Essi stessi si chiamavano “giovani hegeliani”. E nel 1837 formarono a Berlino il Club dei Dottori (Doktorklub), non senza ironia perché molti – fra i quali il giovane Marx – erano studenti. Ma c’erano anche dei dottori veterani, dei professori come Karl Kopper, Adolph Rutenberg, Bruno Bauer, Arnold Ruge. Quest’ultimo fondò nel 1838 una rivista, gli “Hallische Jahrbücher”, che fu fino al 1841 l’organo di collegamento dei giovani hegeliani: dopo la sua proibizione Ruge fa uscire a Dresda, dal luglio 1841 agli inizi del 1843, gli “Deutsch Jahrbücher”, il cui carattere hegeliano di sinistra fu più marcato. Ma nel marzo 1842, dopo la revoca di Bruno Bauer, il Club dei Dottori adottò una posizione più radicale e prese allora il nome di “Circolo degli Uomini Liberi” (“die Freien”), che Stirner ed il giovane Engels frequentarono. Dopo il 1° gennaio 1842, i giovani hegeliani disponevano a Colonia d’una nuova tribuna, la “Rheinische Zeitung”, di cui Rutenberg fu il capo redattore ed alla quale collaborarono gli “Uomini Liberi”. È noto che Marx, nell’ottobre 1842, avrebbe sostituito, dopo tortuose manovre, il suo amico Rutenberg come capo redattore del giornale: egli si sbarazzò anche della prosa dei giovani hegeliani, ma il 21 febbraio 1843 il giornale fu definitivamente proibito.

Come un giovane aristocratico russo, ufficiale dimissionario, studente a Mosca e a Berlino, ha potuto, nel 1842, pubblicare negli “Deutsch Jahrbücher” un articolo che è la manifestazione più radicale della sinistra hegeliana? Ciò pone il problema dell’evoluzione intellettuale di Bakunin: problema appassionante, che è quello di tutta una gioventù russa, d’una generazione la cui infanzia fu contemporanea all’annientamento dei decabristi, e l’adolescenza contemporanea all’annientamento dell’insurrezione polacca del 1831.

Se si vuol seguire la faticosa formazione del pensiero di Bakunin, vivere l’avvincente avventura dei suoi entusiasmi filosofici, bisogna rifarsi all’opera fondamentale di Benoît-P. Hepner, Bakounine et le Panslavisme Revolutionnaire, Paris 1950. Accontentiamoci di segnare qui le tappe essenziali di questa evoluzione.

Quando era ufficiale a Pietroburgo, Bakunin ebbe un’infatuazione passeggera per la filosofia di Schelling. Eccolo poi studente a Mosca dal 1835 al 1840. Diviene l’amico inseparabile di Nicolaj Stankevic e di Vissarion Belinskij. Stankevic ha l’età di Bakunin e morirà prematuramente nel 1840: ha su Bakunin una grande influenza ed è lui che lo inizierà alla filosofia di Fichte, prima, di Hegel, poi. A sua volta, Bakunin sarà il “padre spirituale” di Belinskij, che pure aveva qualche anno più di lui. Belinskij sarà uno dei critici letterari più celebri della Russia e morirà a quarant’anni nel 1848. A questi tre amici s’aggiungeranno nel 1839 due uomini che hanno lasciato un segno della loro presenza nel movimento rivoluzionario russo: Herzen e Nicolaj Ogarev, militanti e già di ritorno dall’esilio.

Dopo un passeggero entusiasmo per Fichte, che non lascerà traccia, Stankevic avvia Bakunin alla filosofia di Hegel; e Bakunin s’appassiona alla dialettica hegeliana. Studia con ardore le opere di Ilegel ed è visibilmente stregato dalla nuova religione. Accetta la potenza assoluta dello spirito e la famosa formula “tutto ciò ch’è reale è razionale” lo porta diritto “al conformismo politico della sua prima gioventù” (Hepner). Belinskij andrà ancor più lontano su questa strada.

Herzen è stupefatto dell’influenza disastrosa della filosofia hegeliana sui suoi amici. Hepner cita un lungo brano del libro di Herzen Il mondo russo e la rivoluzione, in cui Herzen evoca le discussioni che l’opposero a Belinskij ed a Bakunin: “Ragionando in quel modo s’arriva a provare che il mostruoso dispotismo sotto il quale viviamo è del tutto razionale e deve esistere”. È probabile, ed Herzen lo conferma, che Bakunin fu scosso dall’argomentazione del suo amico. Tuttavia quando parte per Berlino nel luglio 1840, egli è certamente sempre hegeliano ed il suo hegelismo gli fa respingere il pensiero filosofico francese.

È a Berlino, dal luglio 1840 all’estate 1842, che si manifesterà in Bakunin la “vocazione alla rivolta” (Hepner), alla quale resterà fedele per tutta la sua vita. Le cause di questa evoluzione? Certo, le meditazioni personali, numerose letture, il contatto con la vita intellettuale di Berlino, ma anche le influenze di Carl Werder, hegeliano di destra del tutto ortodosso, il cui conservatorismo sfociava non nell’azione ma in uno scoraggiante immobilismo. E questo contribuirà a guarire Bakunin dall’ideomania hegeliana, se si crede a ciò che scrisse nella Confessione: “Cercavo nella metafisica la vita, ma essa non contiene che la morte e la noia; vi cercavo l’azione, ed essa non è che assoluta inattività”.

I corsi del vecchio Schelling, per il quale Bakunin conservava un tenero rispetto, erano una critica dell’hegelismo, le cui astrazioni s’allontanavano dal concreto. È nell’ottobre 1841 che Bakunin conobbe a Dresda Arnold Ruge. Quest’ultimo fu sedotto dall’entusiasmo di Bakunin; e da parte sua Bakunin scriveva di Ruge: “È un uomo interessante, straordinario, soprattutto come giornalista, piuttosto dotato d’una volontà singolarmente forte e d’un cervello lucido che di capacità speculativa”. (Hepner).

Così, fu decisa la collaborazione di Bakunin ai “Deutsch Jahrbücher”. E nell’ottobre 1842 apparve nei numeri 249-252 un lungo articolo intitolato: “La reazione in Germania. Frammenti di un francese”. L’articolo era firmato con uno pseudonimo: Jules Elysard. Precauzioni da parte di Bakunin? Poco verosimile, ritiene Henri Arvon nel suo Michel Bakounine ou la vie contre la science, Paris 1961, e aggiunge che con l’adozione di un nome francese “Bakunin intendeva sottolineare che un certo ritorno verso i francesi era avvenuto in lui e che come hegeliano di sinistra si sforzava ormai di completare la libertà filosofica, conquista del pensiero tedesco, con la libertà politica e sociale, cara al socialismo francese”. Comunque sia, la professione di fede di Bakunin e un articolo di Ruge avrebbero causato poco dopo la soppressione dei “Deutsch Jahrbücher”.

È stato tradotto in francese qualche passo dell’articolo di Bakunin, la fine soprattutto, e l’ultima frase è stata oggetto di ridicole interpretazioni, naturalmente senza riferirsi a tutto il testo. Nel libro di Hepner c’è un riassunto di quattro pagine, di cui Henri Arvon riproduce testualmente una parte. Questo opuscolo colma una lacuna. Questa traduzione è stata possibile solo grazie alla riproduzione del testo tedesco di Bakunin nell’opera edita dalla libreria Hegner di Colonia nel 1968 e intitolata “Philosophie der Tat” (“Filosofia dell’azione”). Il volume contiene La reazione in Germania e le traduzioni tedesche di Dio e lo Stato e del Catechismo rivoluzionario (1865-1866), riprodotte dall’edizione delle opere di Bakunin fatta da Max Nettlau (Berlino, 1924). L’introduzione, firmata Rainer Beer, ha un grande interesse, anche se non si condividono tutte le sue conclusioni.

Una pubblicazione simile è utile? II lettore francese del 1970 non rischia d’esser deviato da un Bakunin molto diverso da quello degli anni sessanta? Non si giudicherà questo saggio come un brillante esercizio scolastico ed una semplice applicazione della dialettica hegeliana? Ciononostante, questo saggio segna una svolta essenziale nel pensiero di Bakunin. Per Hepner: “è un apporto notevole alla letteratura della sinistra hegeliana, ed il suo vigore dialettico ed una certa perfezione letteraria ne fanno, accanto alla Confessione, il miglior prodotto uscito dalla penna di Bakunin”. Per Arvon: “questo saggio segna uno strepitoso ingresso nella falange dei giovani hegeliani”. E per Rainer Beer: “il saggio di Bakunin è, a parere unanime, l’esposizione più notevole delle concezioni dei giovani hegeliani”. Termino con le citazioni di elogio, stupendomi solo del poco interesse che questo testo sembra abbia avuto per eventuali traduttori.

È inutile riassumere il saggio di Bakunin. Il suo piano appare chiaramente nella lettura, che è facilitata dai cambiamenti di tono nello stile: ora dialettica sottile e logica incalzante, ora ironia e talvolta lirismo ed entusiasmo messianico. Bakunin studia la contraddizione in cui due termini sono il partito reazionario (l’elemento positivo) ed il partito democratico-rivoluzionario (nel pensiero di Bakunin, l’elemento negativo). Egli insiste sulla necessità di questo antagonismo e dimostra che ogni conciliazione dev’essere scartata come indesiderabile, e d’altronde impossibile. La rivoluzione ed il superamento della contraddizione saranno realizzati dalla distruzione dell’elemento positivo (cioè della totalità delle istituzioni e dei quadri del partito reazionario dominante). Allora il partito democratico accederà ad un piano superiore, trasformerà il mondo secondo le sue aspirazioni e realizzerà la libertà: “Questa trasformazione [...] è un nuovo cielo ed una nuova terra, un mondo giovane e magnifico”.

Alcune considerazioni s’impongono. Innanzitutto, si possono trovare un po’ vaghe le formule “partito reazionario e partito democratico” e ci si può chiedere se tutto il dibattito non si svolga tra due astrazioni. Ci si avvede durante la lettura che il partito reazionario è formato dei quadri dirigenti dei regimi politici al potere e della cricca degli intellettuali e dei professori che li sostengono. La conclusione dell’articolo dimostra che Bakunin identifica il partito democratico con “il popolo, la classe dei poveri”, che, prendendo coscienza della propria forza, “assume dappertutto un atteggiamento minaccioso”. Ed è noto ciò che Bakunin intende col termine “popolo”, che ha sempre preferito al termine astratto di “proletariato”. Si tratta degli operai, dei contadini, ma anche dei “miserabili”, dei declassati, dei fuorilegge, come anche del proletariato cencioso disprezzato da Marx, e dei briganti che componevano un tempo le bande di rivoltosi di Sten’ka Razin e di Pugacëv.

Ci si può, così, stupire del tono profetico delle ultime pagine dell’articolo di Bakunin: lo spirito ha compiuto il suo lavoro, la tempesta scoppierà, un nuovo mondo nascerà sulle rovine delle vecchie istituzioni. Sarebbe ridicolo rimproverare a Bakunin di nutrirsi d’illusioni e di vedere nel 1842 la rivoluzione imminente. Questo errore fu quasi generale e le crisi del capitalismo nascente come le intollerabili sofferenze di un proletariato supersfruttato fecero pensare che il regime economico era prossimo a crollare: si scambiavano le crisi di crescita per la fase finale della decrepitezza. Questo errore fu commesso, durante la grande crisi economica del 1847, da Marx e da Engels, ed Engels doveva riconoscerlo nel 1895 nella sua prefazione alla Lotta di classe in Francia di Marx. Anche Stirner, nel 1844, predirà la morte della vecchia società e la fine della Germania “che scende nella tomba dopo dieci secoli di sofferenze”. Ma non furono solo i rappresentanti del “partito democratico” a profetizzare la distruzione dell’ordine sociale. Chateaubriand scriverà nel 1837 nelle Mémoires d’outre-tombe: “Ho detto cento volte e lo ripeterò ancora: la vecchia società muore”, e nel 1841: “Il vecchio ordine europeo dà l’ultimo respiro. [...] Sì, la società perirà”.

Ma ecco un problema più importante. Nel suo saggio Bakunin rimane fedele alla dialettica hegeliana? Oppure le sostituisce un’altra dialettica “rivoluzionaria”? Certo, Bakunin sembra risolvere la contraddizione che oppone reazionari e democratici in una sintesi posta su un piano superiore: la realizzazione della libertà. Egli insiste sulla necessità storica della contraddizione, sull’obbligo per i reazionari d’essere conseguenti e s’oppone ai conciliatori. Ma la sintesi hegeliana supponeva la soppressione dei termini antagonisti (tesi e antitesi), la conservazione dei loro elementi e, infine, l’elevazione ad un piano superiore. Ora, tutta la conclusione dell’articolo è nettissima: per Bakunin solo l’elemento negativo ha un valore in sé, esso distrugge l’elemento positivo ed è con questa distruzione, essendo il solo sopravvissuto, che l’elemento negativo potrà essere creatore e realizzare il mondo nuovo, il mondo della libertà.

Il razionale che, solo, porta in sé l’elemento negativo creerà il reale. Lo schema di Bakunin è dunque il seguente: antagonismo senza conciliazione, che comporterebbe “l’appiattimento” della società, distruzione totale d’un termine della contraddizione, creazione di un ordine nuovo da parte del secondo termine sopravvivente. Bakunin rompe qui con Hegel: tutt’al più si potrebbe dire che egli non mantiene di Hegel che questa semiformula: “Ciò ch’è razionale è reale”.

La necessità di un partito reazionario conseguente e combattivo, che mantiene l’antagonismo ad un livello elevato, il rifiuto di ogni conciliazione, tendono a conservare alla lotta di classe tutta la sua purezza. È proprio qui l’idea base della “separazione”, che Proudhon svilupperà ne De la capacité politique des classes ouvrières: “Essendo flagrante la divisione della società moderna in due classi, una conseguenza deve derivarne: la pratica della separazione. [...] La separazione che raccomando è la condizione stessa della vita. Distinguersi, definirsi, è essere; allo stesso modo che confondersi è immergersi e perdersi. Fare scissione, una scissione legittima, è il solo modo che abbiamo per affermare il nostro diritto”.

È necessario ricordare che il sindacalismo rivoluzionario, erede su questo punto di Bakunin e di Proudhon, vedeva nella pratica dell’azione diretta sotto tutte le sue forme il mezzo per mantenere l’antagonismo delle classi e per rendere sempre più audace la combattività della classe operaia? Rinvio a Georges Sorel che, studiando la pratica delle lotte operaie, ha scritto nelle Réflexions sur la violence pagine eccellenti sulla necessità della “separazione” e contro i “pacificatori”.

Le ultime righe dell’articolo di Bakunin non fanno che riassumere in qualche formula sorprendente lo schema da lui tracciato e qui sotto indicato: “Abbiamo dunque fiducia nello spirito eterno che non distrugge e non annienta se non perché esso è la fonte insondabile ed eternamente creatrice di ogni vita. La voluttà di distruggere è nello stesso tempo una voluttà creatrice”.

Queste parole non si prestano a confusione: il rivoluzionario animato dalla fede, trascinato dall’entusiasmo, vuol conoscere la voluttà suprema di generare, con un grande atto d’amore, un mondo nuovo. Ma gli è necessario innanzitutto rompere il quadro del mondo attuale e distruggere le sue istituzioni malefiche: la distruzione scatenerà lo stesso brivido di voluttà, precursore della voluttà di creare.

Lirismo, si dirà; ma questo lirismo si manifesta in una situazione di crisi acuta: “Nuvole oscure s’accumulano, annunciatrici dell’uragano. L’atmosfera è soffocante e gravida di tempeste”. (In un articolo del giornale “La Riforma”, del 6 agosto 1847, Engels si servirà delle stesse parole e scriverà: “Quest’aria così gravida che pesa su di noi annuncia l’avvicinarsi della tempesta”).

Bakunin doveva rimanere per tutta la vita fedele alla concezione della trasformazione sociale. Aveva capito che non si fa il nuovo con il vecchio e che non si possono mantenere le istituzioni della classe al potere cambiando solo nome e personale. Uno Stato anche proletario rimane uno Stato, ed una dittatura, anche quella del proletariato, rimane una dittatura. L’ultimo scritto di Bakunin è Stato e Anarchia, di cui gli Archives Bakounine, volume III, [edizione italiana, Opere complete, vol. IV, Catania 1977] hanno finalmente pubblicato il testo russo e la traduzione in francese, e vi leggiamo queste righe stranamente simili alla conclusione dell’articolo del 1842: “La passione negativa della distruzione è lungi dall’esser sufficiente per portare la causa rivoluzionaria al livello voluto; ma senza di essa questa causa è inconcepibile, veramente impossibile, perché non c’è rivoluzione senza distruzione profonda e appassionata, distruzione salvatrice e feconda perché precisamente di essa, e soltanto con essa, si concepiscono e si creano mondi nuovi”. Questo passo del 1873 mostra la continuità del pensiero di Bakunin.

Ogni lettore di buona fede, anche non anarchico o libertario, non può dare della formula che serve come conclusione all’articolo di Bakunin un’interpretazione diversa da quella che è stata esposta. Ricarda Huch, poetessa e storica del romanticismo tedesco, sotto il titolo Michael Bakunin und die Anarchie (Frankfurt a Main 1923), ha scritto un penetrante studio della vita e del pensiero di Bakunin. Lei commenta così la fine del saggio: “Per la prima volta appare qui l’ubriacatura rivoluzionaria così caratteristica in Bakunin, la nostalgia della morte, miscuglio snervante d’intensa voluttà e di distruzione. Nessun uomo di genio può concepire senza di questo, perché, per apportare qualcosa di nuovo, deve sbarazzare la sua strada dai rimanenti ostacoli del passato”.

Molto spesso, biografi e commentatori di Bakunin hanno citato solo l’ultima frase dell’articolo; difensori confessi o turpi della società borghese hanno creduto, oppure fingono di credere, che per Bakunin distruggere era costruire. Bakunin diventava dunque un demolitore, un maniaco del crimine e dell’incendio, mentre la sua opera è impregnata di spirito costruttore ed egli ha sempre condannato un individualismo sterile ed esaltato la solidarietà dei lavoratori. Non voglio dare di questa malevola incomprensione che qualche esempio, tralasciando la ridicola traduzione che si trova nella prefazione di Dragomanov a Correspondance de Michel Bakounine. Lettres a Herzen et a Ogareff (1860-1874), Paris 1896: “L’atmosfera della distruzione”, invece di “La voluttà della distruzione”.

Leggiamo ne Le socialisme allemand et le nihilisme russe, Paris 1892, libro particolarmente tendenzioso e mal informato di J. Bourdeau, questi apprezzamenti su Bakunin: “Cervello tocco, agitatore furioso, passione selvaggia” e sulla famosa ultima frase: “L’idea diventa l’utopia mostruosa, la visione intensa e grandiosa dello sconvolgimento universale, della creazione che sprofonda, dell’incendio che divora la civiltà tarlata, la riduce in cenere, e su questa cenere feconda vede nascere l’età d’oro. Viva il caos e lo sterminio! Viva la morte! Posto all’avvenire!”.

Ed ecco il ritratto di Bakunin fatto da A. Leroy-Beaulieu nel suo libro L’empire des Tsars et les Russes, Paris 1881-1882, vol. I): “Bakunin [...] fanatico di negazione, maniaco chiuso a tutto ciò che era estraneo alla sua follia [...] apostolo della distruzione, profeta dell’anarchia e dell’amorfismo [...]”.

Per Henri Arvon, più sfumato: “Bakunin non supererà mai la posizione alla quale perviene nel 1842. [...] La passione della distruzione che s’accompagna al movimento del suo spirito non cesserà di dominare quella della creazione”.

Si è spesso rimproverato a Bakunin – e con quali parole! – il suo desiderio di pandistruzione: dispiace di trovare questa parola nella prefazione di Rainer Beer a Philosophie der Tat, ma egli l’applica ad un periodo posteriore al 1842. Scrive infatti: “Bakunin non fa che sfiorare il tema della distruzione. Egli è alla vigilia della trasmutazione dei valori, per impiegare l’espressione di Nietzsche. In seguito andrà più lontano, fino alla pandistruzione sistematica: cioè tutto dev’essere distrutto, il mondo del passato e quello presente”.

D’altronde, i buoni borghesi che alla sola parola “distruzione” manifestano una indignazione lirica, credono davvero che la distruzione delle istituzioni di una società, la distruzione di un regime politico ed economico devono essere per forza compiuti con i massacri, gli incendi e altre abominazioni? Questi buoni borghesi hanno dimenticato al riguardo i grandi avi, a tal punto da non ricordare più la notte del 4 agosto 1789, in cui l’Assemblea Costituente abolì in Francia senza spargimento di sangue la società feudale e creò un ordine nuovo?

Ancora una parola su questo punto: è buona abitudine opporre al distruttore Bakunin il ragionevole Proudhon, che, sembra, non era un “sovvertitore”. Per farla finita con certe leggende, ecco ciò che scriveva Proudhon nel 1839: “Noi invochiamo la forza [...]. Proprietari, difendetevi! Ci saranno battaglie e massacri”. (De la célébration du dimanche). E nel 1851, nell’Idée générale de la révolution au XIXe siècle: “Una liquidazione generale è la premessa obbligatoria di ogni rivoluzione. Dopo sessant’anni di disordine economico, è indispensabile una seconda notte del 4 agosto”. Proudhon raggiunge qui Bakunin, ciò che permette al sociologo Georges Gurvitch di scrivere: “Proudhon rimane rivoluzionario fino al suo ultimo respiro. O l’umanità perirà, o la rivoluzione sociale vincerà nel prossimo futuro e farà veri miracoli; nessun compromesso è più possibile”.

Infine, coloro che l’associazione distruzione-creazione indigna dovrebbero pensare che questa formula non è, dopo tutto, che un luogo comune troppo spesso ripetuto della poesia lirica tedesca e anche di tutta la poesia occidentale: la primavera nasce dall’inverno, il giorno sorge dalla notte (come da una vittoria, dirà Hugo), la vita sorge dalla morte. Bakunin aveva, durante la sua adolescenza, letto con entusiasmo Schiller, Goethe soprattutto, i romantici tedeschi, e forse si trova nel pensiero di Bakunin una lontana eco del grido di Goethe nella celebre poesia Nostalgia felice: muori e diventa!

Nessuno ha bisogno d’essere anarchico per pretendere che il creare presuppone una preliminare distruzione. L’idea è banale in tutti quelli che propugnano una trasformazione della società, qualunque sia. Un solo esempio: lo scrittore tedesco Ernst Jünger, che certi considerano, del resto a torto, come un precursore del Terzo Reich, non era certamente un anarchico. Nel suo libro Der Arbeiter (Il lavoratore), apparso nel 1932, si fa apostolo della distruzione del vecchio mondo, dal quale uscirà un mondo ringiovanito, e condanna riformisti e conciliatori: “L’avvenire non può sbocciare se non grazie alla completa distruzione del vecchio edificio”. La formula di Bakunin non è, in fondo, per ogni rivoluzionario che l’espressione d’un semplice buon senso.

E per finire, ecco i giudizi di due marxisti autorevoli sul saggio di Bakunin. David Riazanov (volume secondo delle Opere complete di Marx-Engels, Istituto Marx-Engels, Mosca) ritiene che Bakunin sia stato fortemente influenzato da due opuscoli di Engels, diretti contro la filosofia di Schelling, apparsi anomimi poco prima dell’articolo di Bakunin: “Bakunin ha operato la sua svolta decisiva sotto l’influenza della campagna contro Schelling. [...] Solo l’ignoranza di questi rapporti storici ha consentito di sostenere il grado di originalità ed il carattere rivoluzionario dell’articolo di Bakunin. [...] L’articolo di Bakunin era un’eco di pensieri che gli erano estranei”. Bakunin sottoprodotto di Engels! Non è serio.

Ed ecco Franz Mehring, storico della socialdemocrazia: “Un soffio caratteristico, un curioso miscuglio d’elegia e di fanatismo, un aristocratismo senza gusto”. (Storia della socialdemocrazia tedesca, tr. it., Roma 1900).

Aristocratismo senza gusto! Mentre il saggio di Bakunin, dalla prima all’ultima parola, è un appello appassionato alla libertà. [1]


Settembre 1969

Jean Barrué

La reazione in Germania

Mai le contraddizioni sono state acute come oggi.

L’eterna contraddizione tra libertà e non-libertà è arrivata al suo apogeo.

Libertà, Uguaglianza, Fratellanza significano la distruzione totale dell’attuale ordine politico e sociale.

La voluttà di distruggere è nello stesso tempo una voluttà creatrice.

Il rinnovamento democratico: un nuovo cielo e una nuova terra, un mondo giovane e magnifico, nel quale tutte le attuali dissonanze si perderanno in una unità armoniosa.

Negano in noi ogni sentimento buono o umano e non vedono in noi che degli anticristi incalliti che è permesso di combattere con ogni mezzo.


Libertà, realizzazione della libertà: chi può negare che queste parole siano oggi in cima all’ordine del giorno della storia? Amici e nemici lo riconoscono volenti o nolenti e nessuno oserà dichiararsi apertamente e arditamente nemico della libertà. Ma il parlare di qualcosa e il riconoscerla non le danno un’esistenza reale, e lo sa bene il Vangelo; [Bakunin allude senza dubbio a questo passo del Vangelo secondo Matteo: “Non è dicendomi ‘Signore, Signore’ che si entra nel regno dei cieli, ma è facendo la volontà del Padre mio che è nei cieli”] in effetti, c’è disgraziatamente ancora un gran numero di persone che, a dire il vero, nel più profondo del cuore non credono alla libertà. Vale la pena, nell’interesse di questa causa, occuparsi di loro.

Sono tipi molto diversi: incontriamo innanzitutto persone d’alto livello, cariche d’anni e d’esperienza, le quali, nella loro giovinezza, erano anche dilettanti della libertà politica; un uomo ricco e distinto trova in effetti un certo piacere raffinato a parlare di libertà e di uguaglianza, e ciò lo rende inoltre doppiamente interessante in società. Ma poiché ora non possono più godere della vita come al tempo della loro giovinezza, cercano di nascondere il loro sfacelo fisico e intellettuale sotto il velo dell’“esperienza”, una parola di cui si è così spesso abusato. Parlare con questa gente è perdere il proprio tempo; non hanno mai considerato seriamente la libertà, mai la libertà fu per loro la religione che non conduce alle più grandi gioie ed alla felicità suprema se non attraverso la strada delle più terribili contraddizioni, al prezzo delle più amare sofferenze e d’una rinuncia totale e senza riserva. Non c’è davvero alcun interesse a discutere con loro, perché sono vecchi e quindi, lo vogliano o no, moriranno presto. Ma ci sono disgraziatamente anche molti giovani che condividono le stesse convinzioni della gente del primo gruppo, o piuttosto l’assenza di qualsiasi convinzione. Appartengono per la maggior parte all’aristocrazia, che per sua stessa natura è affetta da molto tempo, in Germania, da morte politica, come anche alla classe borghese, mercantile e burocratica. Con loro non c’è nulla da intraprendere, e ancor meno che con i giovani giudiziosi e sperimentati della prima categoria, che hanno già un piede nella tomba. Questi ultimi avevano almeno un’apparenza di vita, mentre gli altri sono per nascita esseri inesistenti, uomini morti. Sono tutti impegolati nei loro sordidi interessi di vanità o di danaro, e, presi unicamente dai loro successi quotidiani, ignorano tutto della vita e.di ciò che avviene intorno a loro al punto che se non avessero sentito a scuola parlare un po’ della storia e dell’evoluzione delle idee, crederebbero verosimilmente che il mondo non è stato sempre; altro che ciò ch’è ora. Sono delle nature morte, ombre, che non possono essere né utili né nocive; noi non abbiamo nulla da temere da costoro, perché solo chi è vivo può agire, e poiché è passato di moda il trafficare con delle ombre, non vogliamo più perdere il nostro tempo con loro.

Ma c’è ancora una terza categoria d’avversari del principio della rivoluzione, è il partito reazionario sorto poco dopo la restaurazione in tutta l’Europa, il quale si chiama in politica conservatorismo, nella scienza del diritto scuola storica e nelle scienze speculative filosofia positiva. Noi abbiamo intenzione di discutere con questo partito, e sarebbe assurdo da parte nostra ignorare la sua esistenza e dar l’impressione che lo consideriamo insignificante; riconosciamo invece sinceramente che adesso è dappertutto il partito dirigente e, molto di più, siamo pronti a riconoscere che la sua forza attuale non è casuale, ma ha le sue radici profonde nell’evoluzione dello spirito moderno. In genere, non riconosco al caso nessuna influenza reale sulla storia; la storia è uno sviluppo libero, ma anche necessario, del pensiero libero, in modo, che se attribuissi al caso la preponderanza attuale del partito reazionario, farei il peggior servizio alla professione di fede democratica che si basa unicamente sulla libertà assoluta del pensiero. Sarebbe molto più pericoloso, per noi, che addormentarci in una tranquillità nefasta e fallace, poiché, disgraziatamente, siamo ancora molto lontani dal capire la nostra situazione. Pericolo tanto più grande, poiché nell’ignoranza, che è troppo frequente, della vera origine della nostra forza e della natura del nostro nemico, schiacciati dal triste spettacolo della volgarità, possiamo perdere tutto il nostro coraggio oppure – ciò che forse è peggio – poiché la disperazione non può durare in un essere pieno di vita, trovarci in preda ad una temerità ingiustificata, infantile e sterile.

Niente può essere più utile al partito democratico che conoscere la sua debolezza momentanea e la forza relativa dei suoi avversari. Questa conoscenza lo fa uscire prima dal vago dell’immaginazione ed entrare nella realtà in cui deve vivere, soffrire e finalmente vincere. Essa rende il suo entusiasmo ponderato e modesto. Quando, attraverso il doloroso contatto con la realtà, avrà preso coscienza della sua missione sacra e sacerdotale; quando sarà in preda alle innumerevoli difficoltà che si levano dappertutto nel suo cammino e che non hanno la loro fonte, come spesso il partito democratico sembra credere, nell’oscurantismo dei suoi avversari, ma piuttosto nella ricchezza e nella complessità della natura umana che resiste alle teorie astratte; quando queste difficoltà gli avranno fatto conoscere e, per conseguenza, capire le imperfezioni di ogni esistenza presente e gli avranno mostrato che il suo nemico non è soltanto fuori di lui, ma anche e soprattutto in sé stesso e che, per conseguenza, deve cominciare a vincere il nemico immanente; quando avrà acquisito la convinzione che la democrazia non consiste solo in una opposizione ai governanti, non è una particolare riforma costituzionale, politica o economica, ma annuncia una trasformazione totale della struttura attuale del mondo ed una vita essenzialmente nuova, finora sconosciuta nella storia; quando tutto ciò l’avrà convinto che la democrazia è una religione, quando questa concezione avrà fatto diventare esso stesso religioso, cioè non solo pervaso del suo principio nel pensiero e nel ragionamento, ma anche fedele a questo principio nella vita reale, fin nelle sue più piccole manifestazioni; è allora, e solo allora, che il partito democratico riporterà un’effettiva vittoria sul mondo.

Noi riconosciamo dunque sinceramente che l’attuale potenza del partito reazionario non è casuale, ma è una necessità storica. Essa non ha la sua origine nell’imperfezione del principio democratico: questo principio è, in effetti, l’uguaglianza tra gli uomini che si realizza nella libertà, ma è anche l’entità più profonda dello spirito, più generale, più universale, in una parola entità unica che si manifesta nella storia. La forza del partito reazionario è l’effetto dell’imperfezione del partito democratico, che non è ancora pervenuto alla coscienza affermativa del suo principio e per conseguenza non esiste se non come negazione della realtà presente. Ma non essendo che negazione, rimane dapprima necessariamente estraneo alla pienezza della vita, di cui non può ancora cogliere lo sviluppo a partire da un principio da esso concepito sotto una forma quasi unicamente negativa. Per questo, finora, esso non è che un partito e non ancora la realtà vivente che è l’avvenire, non il presente. Poiché i democratici formano solo un partito (e, a giudicare dalle manifestazioni esteriori della sua esistenza, un debole partito), poiché il fatto di non essere che un partito presuppone un altro potente partito, che gli si oppone, ciò solo dovrebbe illuminare i democratici sulle proprie imperfezioni, che sono essenzialmente in loro.

Per la sua natura ed i suoi princìpi, il partito democratico aspira al generale e all’universale, ma per la sua esistenza come partito esso è soltanto qualcosa particolare – il negativo – che si oppone a qualche altra cosa particolare – il positivo. Tutta l’importanza e tutta la forza irresistibile del negativo consistono nell’annientamento del positivo, ma, contemporaneamente al positivo, il negativo corre verso la sua rovina, a causa della sua natura particolare, imperfetta e inadatta alla sua essenza. Il partito democratico non esiste come tale nella pienezza della sua affermazione, ma solo come la negazione del positivo: perciò deve, nella sua forma imperfetta, scomparire insieme al positivo, per rinascere spontaneamente sotto una forma rigenerata e nella pienezza vivente del suo essere. Così, il partito democratico cambia in se stesso e la trasformazione non è soltanto quantitativa, non è solo un semplice ampliamento della sua attuale esistenza imperfetta: Dio ce ne preservi. Perché un tale ampliamento condurrebbe ad un appiattimento universale e lo scopo finale della storia sarebbe un niente assoluto. La trasformazione, al contrario, è qualitativa, è una rivelazione che vive e apporta la vita, è un nuovo cielo e una nuova terra, un mondo giovane e magnifico, nel quale tutte le attuali dissonanze si fonderanno in una unità armoniosa.

È impossibile correggere le imperfezioni del partito democratico dando un fine al carattere esclusivo della sua esistenza come partito in apparente conciliazione con il positivo: sarebbero sforzi vani, perché il positivo e il negativo sono una volta per tutte incompatibili. Il negativo, per tanto che lo si isoli dalla sua opposizione al positivo e lo si consideri in sé, sembra essere senza sostanza e senza vita. Questa apparente inconsistenza è anche il rimprovero basilare che i positivisti fanno ai democratici; il rimprovero non si basa che su un malinteso, perché il negativo non può esser preso isolatamente – non sarebbe allora assolutamente nulla – ma soltanto nella sua opposizione al positivo; tutto il suo essere, il suo contenuto, la sua vitalità tendono alla distruzione del positivo.

“La propaganda rivoluzionaria – dice il Pentarca [Secondo una nota di Rainer Beer (Bakunin, Philosophie der Tat, op. cit.), questo soprannome indicherebbe il teorico del diritto, Friedrich Julius Sthal (1802-1861). Stahl è uno dei creatori della concezione cristiano-conservatrice che attribuisce un’origine divina allo Stato e al diritto.] – è per sua intima natura la negazione delle istituzioni esistenti dello Stato, perché il suo carattere più autentico non può assegnarle altro programma che la distruzione di tutto ciò che esiste”. Ma allora è possibile che il negativo, tutta la vita del quale non ha altra missione se non quella di distruggere, possa apparentemente accordarsi con ciò che la sua intima natura l’obbliga a distruggere? Può pensarlo solo la gente senza fiamma e senza energia, la quale non ha alcuna idea seria del positivo e del negativo.

Si possono distinguere attualmente nel partito reazionario due gruppi principali: nell’uno figurano i reazionari puri e conseguenti, nell’altro gli inconseguenti e conciliatori. I primi concepiscono l’opposizione in tutta la sua purezza; sanno bene che non si possono conciliare il positivo e il negativo più di quanto non si possano l’acqua e il fuoco; non vedendo nel negativo la parte affermativa della sua natura, essi non possono credervi, e ne deducono molto correttamente che il positivo non può vivere se non con la distruzione totale del negativo. Nello stesso tempo non si rendono conto che il positivo non è il positivo difeso da loro se non nella misura in cui il negativo gli si oppone ancora; non capiscono che, per conseguenza, se riportasse una vittoria totale sul negativo, il positivo si troverebbe ormai fuori dell’opposizione, non sarebbe più il positivo, ma piuttosto la realizzazione del negativo: bisogna perdonargli questa incomprensione, perché l’accecamento è il carattere essenziale di ogni positivo, mentre il discernimento è il carattere proprio solo del negativo. Nella nostra triste epoca senza coscienza, molti sono quelli che per viltà cercano di nascondere a se stessi le strette conseguenze dei loro propri princìpi e sperano così di sfuggire al rischio di essere disturbati nell’edificio artificiale e fragile delle loro pretese convinzioni. Così, bisogna ringraziare questi signori, i puri reazionari. Sono sinceri, onesti, e vogliono essere uomini interi. Non si può parlare molto con loro, perché non vogliono mai prestarsi ad una conversazione ragionevole e, ora che il negativo ha diffuso dappertutto i suoi fermenti di decomposizione, gli è molto difficile, se non impossibile, rimanere nel puro positivo, a tal punto che gli è necessario separarsi dalla lor propria ragione, aver paura di se stessi e temere il minimo tentativo di dimostrare le loro convinzioni, ciò che determinerebbe a colpo sicuro la loro confutazione. Hanno perfettamente coscienza di questo: perciò sostituiscono la parola con l’ingiuria... E tuttavia sono uomini onesti e interi o, più esattamente, vogliono essere uomini onesti e interi. Odiano come noi le mezze misure, perché sanno che solo un uomo intero può essere buono e che le mezze misure sono la fonte avvelenata di tutto il male.

Questi fanatici reazionari ci accusano d’eresia e, se fosse possibile, farebbero sorgere dall’arsenale della storia la forza occulta dell’inquisizione per utilizzarla contro di noi; negano in noi ogni sentimento buono o umano e non vedono in noi che degli anticristi incalliti che è permesso di combattere con ogni mezzo. Li ripagheremo della stessa moneta? No, sarebbe indegno di noi e della grande causa che difendiamo. Il grande principio al servizio del quale ci siamo votati, ci dà, con molti altri vantaggi, il bel privilegio d’essere giusti e imparziali senza con ciò far torto alla nostra causa.

Tutto ciò che non si basa se non su un punto di vista esclusivo non può utilizzare come arma la verità, perché la verità è in contraddizione con ogni punto di vista esclusivo. Tutto ciò che è esclusivo è obbligatoriamente parziale e fanatico nelle sue dichiarazioni, perché non può affermarsi che con la soppressione brutale di tutti gli altri punti di vista esclusivi che gli si oppongono e sono altrettanto giustificati. Un punto di vista esclusivo, per il solo fatto d’esistere, implica che ne esistano altri che deve, per la sua particolare natura, eliminare per vivere. Questa contraddizione è la maledizione che pesa su di lui, una maledizione che porta in sé e cambia in odio l’espressione di tutti i buoni sentimenti innati in ogni uomo considerato in quanto tale.

Siamo a questo proposito infinitamente più felici; certo, come partito, ci opponiamo ai positivisti, li combattiamo, e queste lotte svegliano in noi tutte le cattive passioni; il fatto d’appartenere noi stessi ad un partito ci rende anche molto spesso parziali e ingiusti. Ma non siamo soltanto il partito negativo opposto al positivo; la nostra fonte di vita è il principio universale della libertà assoluta, un principio che racchiude tutto ciò che di buono si trova nel positivo e che è al di sopra di noi considerati come partito. In quanto partito, facciamo soltanto politica, ma non troviamo la nostra giustificazione che nel nostro principio, altrimenti la nostra causa non sarebbe migliore di quella del positivo, e dobbiamo, per la nostra conservazione, rimaner fedeli al nostro principio come all’unico fondamento della nostra forza e della nostra vita, cioè elevarci continuamente dall’esistenza ristretta e solo politica fino alla religione del nostro principio universale e aperto sulla vita. Dobbiamo agire non solo politicamente, ma anche religiosamente nella nostra politica; il che vuol dire aver la religione della libertà, la cui sola autentica espressione è la giustizia e l’amore. Sì, è solo a noi – che veniamo trattati come nemici della religione cristiana – che è riservato il compito di cui abbiamo fatto il dovere supremo: praticare effettivamente l’amore anche nelle lotte più accanite, l’amore che è il più alto comandamento del Cristo ed il principio unico del vero cristianesimo. Cerchiamo di essere giusti anche verso i nostri nemici, e riconosciamo volentieri che si sforzano di voler realmente il bene e, di più, che la loro natura li aveva destinati al bene e ad una vita animata e che soltanto un inconcepibile colpo del caso li ha deviati dalla loro vera vocazione. Non parliamo di quelli che hanno abbracciato un partito solo per lasciar campo libero alle loro cattive passioni: tartufi ce ne sono disgraziatamente troppi in ogni partito. Non parliamo che dei difensori sinceri del positivismo conseguente, i quali si sforzano d’arrivare al bene senza avere la volontà di realizzarlo; è quello il loro grande infortunio, e la loro coscienza ne è straziata. Essi non vedono nel principio della libertà che una fredda e piatta astrazione, alla quale la piattezza e l’aridità di molti difensori di questo principio hanno effettivamente collaborato, un’astrazione che si vuota di ogni vita, di ogni bellezza e di ogni santità.

Non capiscono che non si deve affatto confondere questo principio con la sua attuale forma mediocre e totalmente negativa, e che esso non può vincere e realizzarsi se non essendo la vivente affermazione di se stesso sopprimendo sia il negativo che il positivo. La loro opinione, condivisa disgraziatamente ancora da molti aderenti al partito negativo, è che il negativo cerca di propagarsi come tale, e pensano, esattamente come noi, che la diffusione del negativo farebbe sprofondare nella viltà tutta la vita intellettuale. Nello stesso tempo i loro sentimenti spontanei li fanno aspirare a pieno diritto alla pienezza d’una vita appassionata e, poiché non trovano nel negativo se non l’appiattimento di questa vita, ritornano al passato, al passato come esisteva prima che sorgesse l’opposizione tra il negativo e il positivo. Essi hanno ragione nella misura in cui il passato era tutto animato da una vita propria e gli appariva, come tale, molto più vivo e ricco del presente dilaniato dalle sue contraddizioni. Ma commettono un grande errore quando pensano di poter risuscitare il passato così vivo; dimenticano che la pienezza del passato non può apparirgli che sotto forma di una immagine confusa e rotta nello specchio delle contraddizioni annose che hanno fatalmente generato, e che il passato, appartenendo al positivo, non è più che un cadavere senz’anima abbandonato alle leggi meccaniche e chimiche della riflessione. Adepti di un cieco positivismo, non capiscono ciò, mentre esseri vivi, in ragione della loro natura, risentono perfettamente la mancanza di vita; e poiché non sanno che per il solo fatto d’essere positivisti, portano in sé il negativo, rigettano sul negativo ogni responsabilità di questa mancanza di vita; il loro slancio verso la vita e la verità, incapace di soddisfarsi, s’è mutato in odio e fa pesare la responsabilità dello scacco sul negativo. Questo è, necessariamente, in ogni positivista conseguente, lo svolgersi interno dei sentimenti: è perciò, secondo me, che devono veramente piangere, avendo i loro sforzi un’origine quasi sempre onesta.

I positivisti conciliatori hanno una posizione diversa. Si distinguono dai positivisti conseguenti in due modi: più corrotti di questi ultimi per la falsa idea che hanno della nostra epoca, non solo non rigettano puramente e semplicemente il negativo come un male assoluto, ma gli accordano anche una giustificazione relativa e momentanea; e d’altra parte non hanno la stessa purezza piena d’energia, la purezza alla quale aspirano almeno i positivisti conseguenti e intransigenti, e che abbiamo segnalato come l’indice di una natura intera, ricca e onesta. Possiamo definire il punto di vista dei conciliatori come quello della disonestà nel campo della teoria; dico bene: della teoria, perché preferisco evitare accuse contro atti o persone, e perché non credo che, nell’evoluzione degli spiriti, possa intervenire una cattiva volontà personale per arrestarla; tuttavia, bisogna riconoscere che la disonestà teorica, in ragione della sua stessa natura, si trasforma necessariamente quasi sempre nella disonestà pratica.

I positivisti conciliatori hanno più intelligenza e penetrazione dei conseguenti; sono gli intelligenti ed i teorici per eccellenza e, in quanto tali, i principali rappresentanti dell’epoca attuale. Possiamo applicar loro ciò che agli inizi della rivoluzione di luglio un giornale francese diceva del “Giusto Centro”: “La sinistra dice: due per due fa quattro; la destra: due per due fa sei... e il giusto centro: due per due fa cinque”. Ma se la prenderebbero come un’offesa. Così, cerchiamo di studiare la loro natura confusa e difficile molto seriamente e col più profondo rispetto per la loro saggezza. È molto più difficile aver ragione dei conciliatori che dei conseguenti. Questi ultimi manifestano nei loro atti la forza delle loro convinzioni, sanno ciò che vogliono e ne parlano chiaramente, e odiano come noi ogni indecisione. ogni oscurità, perché le nature energiche nell’azione non possono respirare liberamente che in un’aria pura e luminosa. Ma con i conciliatori è un altro affare. Sono gente maligna, intelligenti e accorti. Non permettono mai alla passione per la verità di distruggere l’edificio artificiale delle loro teorie; sono troppo sperimentati, troppo intelligenti per ascoltare benevolmente la voce imperativa della semplice coscienza pratica. Forti del loro punto di vista, gettano su di essa sguardi pieni di distinzione, e quando diciamo che solo ciò che è semplice è vero e reale, perché esso solo può svolgere un ruolo creatore, pretendono, al contrario, che solo il complesso è vero; in effetti, hanno tribolato molto a rappezzarlo, ed è il solo segno che permette di distinguerli, loro, la gente intelligente, dalla plebe imbecille e incolta (è molto difficile capire questa gente perché, precisamente, sanno tutto).

Altre ragioni del loro atteggiamento: essendo abili politici, giudicano un’imperdonabile debolezza venir colti all’improvviso da qualche avvenimento; infine, aiutati dalla loro riflessione, si sono intrufolati in tutti gli angoli del mondo della natura e dello spirito e, dopo questo lungo e penoso viaggio intellettuale, hanno acquisito la convinzione che non vale la pena avere col mondo reale contatti pieni di calore. Con gente simile è difficile metter qualcosa in chiaro, perché, come le costituzioni tedesche, si prendono con la mano destra ciò che danno con la sinistra; non rispondono mai con un sì o con un no; dicono: “In una certa misura avete ragione, ma tuttavia...” e, quando sono a corto di argomenti: “Sì, è una questione delicata...”.

Tuttavia, desideriamo cercar d’entrare in rapporti con il partito dei conciliatori che, malgrado l’inconsistenza della sua dottrina e l’incapacità di svolgere un ruolo direttivo, è ora un partito potente e anche il più potente, se non si tien conto, beninteso, che del numero e non delle idee. La sua esistenza è un segno del tempo, ed uno dei più importanti, quindi non è consentito ignorare il partito o passarlo sotto silenzio.

Tutta la saggezza dei conciliatori consiste nel pretendere che due tendenze opposte, per il fatto stesso della loro opposizione, sono esclusive e quindi false, e se i due termini della contraddizione, presi in astratto, sono falsi, occorre che la verità sia tra loro due, bisogna conciliare i contrari per arrivare alla verità.

A prima vista questo ragionamento pare irrefutabile; abbiamo ammesso noi stessi il carattere esclusivo del negativo, nella misura in cui si oppone al positivo e in questa opposizione riporta tutto a sé. Non ne risulta necessariamente che si realizza e si completa essenzialmente nel positivo? D’accordo, se questa conciliazione è possibile: ma è veramente possibile? L’unica ragion d’essere del negativo non è la distruzione del positivo? Quando i conciliatori basano il loro punto di vista sulla natura della contraddizione, cioè sul fatto che due esclusività opposte si ritengono, come tali, avversarie, gli è necessario permettere e accettare che questa natura prenda tutta la sua estensione; gli occorre anche, in rapporto alle conseguenze che ciò comporta per loro, rimaner fedeli al loro proprio punto di vista, dato che l’aspetto della contraddizione che gli è favorevole è inseparabile da quella che gli è sfavorevole. Ora, ciò che per loro è sfavorevole è che l’esistenza d’un termine della contraddizione implica l’esistenza dell’altro: e ciò non è qualcosa di positivo, bensì di negativo e di distruttore. Occorre attrarre l’attenzione di questi signori sulla logica di Hegel, in cui egli fa un notevole studio della categoria della contraddizione.

La contraddizione ed il suo sviluppo immanente formano uno dei modi principali di ogni sistema hegeliano, e poiché questa categoria è la categoria principale, la caratteristica essenziale della nostra epoca, Hegel è senza alcun dubbio il maggior filosofo del nostro tempo, la vetta più alta della nostra cultura moderna vista solo sotto l’aspetto teorico. E precisamente, poiché egli è la vetta, poiché ha compreso questa categoria e l’ha analizzata, ha dato origine alla necessaria autodecomposizione della cultura moderna. Certo, al principio, era ancora prigioniero della teoria, ma, essendo la vetta, si è liberato, è al di sopra, ed ha messo le basi di un nuovo mondo pratico; un mondo che non si realizzerà in nessun caso con l’applicazione formale e l’estensione di teorie bell’e fatte, ma soltanto con un’azione spontanea dello spirito pratico autonomo.

La contraddizione è l’essenza più intima, non solo di ogni teoria determinata o particolare, ma anche della teoria in generale; e così il momento in cui è inclusa la teoria, è anche nello stesso tempo quello in cui il suo ruolo è compiuto. Con questo compimento la teoria si risolve in un mondo nuovo, pratico e spontaneo, nella presenza reale della libertà. Ma non è questo il luogo dove sviluppare più a lungo questo argomento, e vogliamo ancora una volta tornare alla discussione della natura logica della contraddizione.

La contraddizione stessa, in quanto contiene i suoi due termini che si escludono l’un l’altro, è totale, assoluta, vera; non si può rimproverarle la natura esclusiva alla quale è necessariamente legato un carattere superficiale e stretto, perché essa non è soltanto il negativo, ma è anche il positivo e, inglobandolo tutto, è la pienezza intera, assoluta, che non lascia nulla fuori di sé. Ciò autorizza i conciliatori ad esigere che non si prenda astrattamente in considerazione uno solo dei due termini esclusivi, ma che, rispettando il legame necessario e indissolubile che li unisce, li si studi nella loro totalità: “Solo la contraddizione è vera, dicono, e ognuno dei termini opposti, preso in sé, è esclusivo e dunque falso; ne risulta che dobbiamo cogliere la contraddizione nella sua totalità per possedere la verità”.

Ma è proprio qui che comincia la difficoltà: la contraddizione è bensì la verità, ma non esiste come tale, non è lì come totalità, è soltanto una totalità in sé e nascosta, e la sua esistenza nasce precisamente dall’opposizione e dalla divisione dei due termini: il positivo e il negativo. La contraddizione, in quanto verità totale, è l’unione indissolubile della sua semplicità e della sua propria divisione in un principio unico. È qui la sua natura in sé, la sua natura nascosta che, per conseguenza, lo spirito non può temere, e proprio perché questa unione è nascosta, la contraddizione non esiste unicamente che sotto forma della divisione dei suoi termini, e non è più che l’unione del positivo e del negativo: ora, questi termini si escludono l’un l’altro così categoricamente che questa mutua esclusione costituisce tutta la loro natura. Ma allora come cogliere la contraddizione nella sua totalità?

Ci restano, sembra, due scelte: o bisogna fare arbitrariamente astrazione dalla divisione e rifugiarsi nella totalità della contraddizione, – totalità semplice, che precede la divisione, – ma questo è impossibile, perché ciò che sfugge alla comprensione non può mai esser colto dallo spirito e perché la contraddizione in quanto tale non ha esistenza immediata, e senza di questa non esiste; oppure occorre cercare di conciliare i termini opposti con cura materna, ed è per questo che fa sforzi la scuola conciliatrice: vedremo se vi riesce davvero.

Il positivo pare innanzitutto l’elemento calmo e immobile; è positivo unicamente perché non ha alcuna causa di perturbazione, nulla che possa essere una negazione, perché infine all’interno del positivo non c’è alcun movimento, in quanto ogni movimento è una negazione. Ma il positivo è caratterizzato precisamente dal fatto che in esso l’assenza del movimento è stabilita in quanto tale, cioè, preso in sé, esso ha per immagine l’assenza totale di movimento. Ora, l’immagine che evoca in noi l’immobilità è indissolubilmente legata a quella del movimento, o piuttosto esse non sono che una sola e stessa immagine, e così il positivo, riposo assoluto, non è positivo che in opposizione al negativo, agitazione assoluta. La situazione del positivo in rapporto al negativo si presenta così sotto due aspetti: da un lato porta in sé il riposo, e la calma apatica che lo caratterizza non ha alcun tratto del negativo in sé; dall’altro, per conservare il riposo, scarta energicamente da sé il negativo, come se avesse in sé qualcosa di opposto al negativo. Ma l’attività che svolge per escludere il negativo è un movimento, e così il positivo, preso in se stesso e precisamente a causa della sua positività, non è più il positivo ma il negativo; eliminando da sé il negativo, si elimina da sé, e corre alla sua stessa rovina.

Il positivo e il negativo non sono, per conseguenza, eguali in diritto, come pensano i conciliatori; la contraddizione non è un equilibrio, ma una preponderanza del negativo. Il negativo è dunque il fattore dominante della contraddizione, determina anche l’esistenza del positivo e racchiude in sé la totalità della contraddizione: così, è il solo che abbia una base assoluta in diritto. Come, forse mi si obietterà, non avete riconosciuto che il negativo considerato astrattamente è esclusivo altrettanto bene che il positivo, e che l’allargamento della sua attuale esistenza imperfetta condurrebbe ad un appiattimento universale? Sì, ma parlavo solo dell’attuale esistenza del negativo, del negativo nella misura in cui, escluso dal positivo, si ripiega penosamente su se stesso ed assume i caratteri del positivo.

Come tale, esso è allora negato dal positivo, ed i positivisti conseguenti, negando l’esistenza del negativo ed il suo calmo comportamento, compiono nello stesso tempo una funzione logica e sacra, senza d’altra parte sapere ciò che fanno. Credono di negare il negativo, e invece negano il negativo unicamente nella misura in cui si identifica con il positivo; svegliano il negativo dal sonno del buon borghese al quale non è destinato e lo riportano alla sua grande vocazione: senza soste e senza riguardo distruggere tutto ciò che ha un’esistenza positiva.

Riconosceremo che il positivo e il negativo hanno uguali diritti se quest’ultimo si ripiega su se stesso tranquillamente ed egoisticamente, ed è in tal modo infedele alla sua missione. Ma il negativo non dev’essere egoista, deve darsi con amore al positivo per assorbirlo e, in questo atto di distruzione religioso, pieno di fede e di vita per rivelare la sua natura intima inesauribile e portatrice dell’avvenire.

Il positivo è negato dal negativo, e inversamente il negativo dal positivo; che cosa dunque è comune a tutt’e due e li domina? Il fatto di negare, di distruggere, di assorbire appassionatamente il positivo, anche quando questo cerca scaltramente di nascondersi sotto i tratti del negativo. Il negativo non trova la sua giustificazione se non essendo la negazione radicale, e in quanto tale è assolutamente giustificato; infatti è tramite il negativo in quanto tale che agisce lo spirito pratico presente anche se invisibile nella contraddizione, lo spirito che, con la tempesta della distruzione, esorta ardentemente alla penitenza le anime peccatrici dei conciliatori e annuncia la sua prossima venuta, la sua Rivelazione prossima in una chiesa della libertà veramente democratica e aperta all’umanità universale.

L’autodecomposizione del positivo è la sola conciliazione possibile tra il positivo ed il negativo, perché quest’ultimo è se stesso, in modo immanente e totale, il movimento e l’energia della contraddizione. Così ogni altro modo di conciliazione è arbitrario, e tutti quelli che tendono verso un’altra conciliazione dimostrano soltanto che non sono pervasi dello spirito del tempo, e sono stupidi o senza carattere: non si è, in effetti, veramente intelligente e morale se non abbandonandosi interamente allo spirito e da esso facendosi pervadere. La contraddizione è totale e vera: anche i conciliatori lo riconoscono. Essendo totale, è animata da una vita intensa, e questa vita che abbraccia tutto trae precisamente la sua energia, come abbiamo visto, dalla perpetua immolazione del positivo che brucia nelle fiamme pure del negativo.

Che fanno allora i conciliatori? Ci concedono tutto ciò, riconoscono come noi il carattere totale della contraddizione quasi spogliandola – o piuttosto vogliono spogliarla – del suo movimento, della sua vitalità e della sua anima tutta intera: questa vitalità, in effetti, è una forza pratica, incompatibile con le loro piccole anime impotenti, ma perciò anche molto al di sotto di tutto ciò che possono tentare per soffocarla.

Abbiamo detto e dimostrato che il positivo, preso in se stesso, è privato di tutti i diritti: non si giustifica che nella misura in cui oppone il suo rifiuto alla tranquillità del negativo e ad ogni rapporto con esso, nella misura in cui elimina da sé il negativo categoricamente e senza riserve e mantiene così la sua attività; infine, nella misura in cui si trasforma in un negativo che agisce. L’attività che porta in sé la negazione, alla quale i positivisti s’elevano grazie alla potenza invincibile della contraddizione ed alla sua presenza invisibile in tutte le nature viventi, l’attività che costituisce la sola giustificazione dei positivisti ed il solo segno della loro utilità, è precisamente quella che i conciliatori vogliono proibire. Per una singolare e incomprensibile disgrazia, o piuttosto in ragione di questa disgrazia perfettamente comprensibile nata dalla loro mancanza di carattere e dalla loro impotenza nella vita pratica, essi non conoscono negli elementi positivi se non ciò che c’è in loro di morto, di marcio e di votato alla distruzione e ricusano in sé ciò che crea tutta la loro vitalità: la lotta vivente con il negativo, la presenza vivente della contraddizione.

Ed ecco ciò che i conciliatori dicono ai positivisti: “Signori, avete ragione di conservare gli avanzi putrefatti e disseccati della tradizione. Poiché la vita è bella e piacevole in queste rovine, in questo mondo assurdo del rococò, di cui l’aria, per i nostri spiriti anemici, è tanto sana quanto l’aria di un porcile per corpi anemici. Per ciò che ci riguarda, ci saremmo stabiliti con la massima gioia nel vostro mondo, in un mondo in cui il Vero ed il Sacro non si misurano al livello della ragione e delle decisioni ragionevoli della volontà umana, ma a quello della lunga durata e dell’immobilità, un mondo in cui, per conseguenza, si scambia certamente la Cina con i suoi mandarini e le sue bastonate per la verità assoluta. Ma che cosa bisogna fare ora, signori? Viviamo tempi tristi, i nostri nemici comuni, i “negativisti”, hanno guadagnato molto terreno; il nostro odio verso di loro è tanto forte, se non più forte, del vostro, perché si permettono nel loro eccesso di disprezzarci. Ma essi sono diventati potenti, e dobbiamo, volenti o nolenti, prenderli in considerazione, sotto pena di essere interamente distrutti da loro. Non siate dunque fanatici, signori, concedetegli un piccolo posto nella vostra società. Che cosa v’importa se, nel vostro museo storico, prendono il posto di molti ruderi, del resto molto venerabili, ma completamente in rovina? Credeteci, molto felici dell’onore che in tal modo gli testimoniate, si comporteranno nella vostra rispettabile società con molta calma e discrezione. Dopotutto, non sono che giovani resi amari dal bisogno e dalla mancanza di una situazione priva di preoccupazioni: è la sola ragione dei loro gridi e di tutto il frastuono che fanno, sperando di darsi con ciò una certa importanza e di ottenere un posto gradevole nella società”.

Dopo di ciò, si rivolgono ai “negativisti» e gli dicono: “Signori, le vostre aspirazioni sono nobili. Comprendiamo il vostro entusiasmo giovanile per i princìpi puri ed abbiamo per voi la più grande simpatia; ma, credeteci, i princìpi puri sono inapplicabili nella loro purezza alla vita: per vivere è necessario avere una certa dose d’eclettismo, il mondo non si lascia comandare secondo i vostri desideri, e bisogna cedergli su certi punti per esercitare su di esso un’azione efficace: altrimenti la vostra azione nel mondo sarà completamente perduta”.

I conciliatori somigliano agli ebrei polacchi, i quali, dicono, durante l’ultima guerra di Polonia volevano rendere servizio ai due partiti, ai Polacchi ed ai Russi, e furono impiccati sia dagli uni che dagli altri; allo stesso modo questi infelici si tormentano con la loro impossibile impresa di conciliazione esteriore e, per ringraziamento, sono disprezzati dai due partiti. È solo increscioso che l’epoca attuale manchi molto di forza e di energia per far propria la legge di Solone. [Verso il 594 a. C. Solone aveva promulgato ad Atene una legge che colpiva con la perdita parziale o totale dei diritti politici i cittadini colpevoli di astensione politica in caso di tumulti o di pericolo nazionale. Verso il 484 a. C., dopo Maratona, e prima dell’invasione di Serse, questa legge era caduta in disuso e per combattere gli avversari del riarmo di Atene Temistocle usò l’ostracismo].

“Non sono che frasi – mi si dirà – i conciliatori son gente per la maggior parte onorevole, la quale ha una formazione scientifica; c’è fra di loro un gran numero di persone universalmente considerate e altolocate, e voi le avete rappresentate come gente senza discernimento e senza carattere”. Che posso fare, se è vero? Non voglio fare alcun attacco personale; i sentimenti intimi di un individuo sono per me una cosa santa e inviolabile, qualcosa d’incommensurabile, che non mi permetterei mai di giudicare; possono avere per l’individuo anche un valore immenso, ma, in realtà, per il mondo esistono nella misura in cui si manifestano, ed il mondo li vede tal quale si manifestano. In effetti, ogni uomo non è se non ciò che è nel mondo reale, e mi è impossibile definire bianco ciò ch’è nero.

“Sì – mi si risponderà – le aspirazioni dei conciliatori vi sembrano nere o più esattamente grigie; in realtà essi vogliono soltanto il progresso, tendono verso di esso e lo favoriscono più di voi mettendosi a lavorare con prudenza e non con la presunzione dei democratici che cercano di far saltare il mondo intero”. Ma noi abbiamo visto ciò che è il preteso progresso secondo i conciliatori, abbiamo visto che in fondo non vogliono nient’altro che soffocare il solo principio vivo della nostra epoca del resto così miserabile, il principio creatore e ricco d’avvenire del movimento che disintegra ogni cosa. Vedono bene come noi che il nostro tempo è quello della contraddizione; ci riconoscono che è una situazione difficile e piena di discordie, ma invece di lasciarla evolversi, sotto l’effetto della contraddizione spinta al massimo, verso una realtà nuova, affermativa e organica, vogliono mantenerla eternamente questa situazione così miserabile e debole nella sua presente esistenza, con una infinità di riforme graduali.

È questo un progresso? Dicono ai positivisti: “Conservate il vecchiume, ma permettete nello stesso tempo ai ‘negativisti’ di disgregarlo a poco a poco”. Ed ai “negativisti”: “Distruggete ciò ch’è vecchio, ma non con un colpo solo né totalmente, affinché abbiate sempre qualcosa da fare; cioè, restate ognuno nella vostra esclusività, mentre noi, gli eletti, terremo per noi la gioia della totalità”.

Miserabile totalità, che può soddisfare soltanto degli spiriti miserabili. Essi privano la contraddizione della sua anima pratica e sempre in movimento e gioiscono di poter trattarla dopo secondo la loro fantasia. La grande contraddizione attuale non è per loro una forza pratica del tempo presente, alla quale ogni essere vivente deve abbandonarsi per conservare la sua vitalità, ma un semplice giocattolo teorico. Non sono pervasi dello spirito pratico del tempo e sono, per questa ragione, individui senza morale; sì, senza morale, essi che si gloriano talmente della loro morale. Perché non si saprebbe avere una morale al di fuori della chiesa dell’umanità libera, al di fuori della quale non c’è alcuna salvezza. Occorre ripeter loro ciò che l’autore dell’Apocalisse dice ai conciliatori del suo tempo: “Conosco la tua condotta: tu non sei né caldo né freddo, non sei né l’uno né l’altro. Così, poiché sei tiepido, né caldo né freddo, ti vomiterò dalla mia bocca. Tu t’immagini: eccomi ricco, mi sono arricchito e non manco di nulla; ma non lo vedi dunque: sei tu che sei sventurato, penoso, povero, cieco e nudo”.

“Ma – mi si dirà – non ricadete, con la vostra separazione assoluta dagli estremi, nel punto di vista astratto da lungo tempo superato da Schelling ed Hegel? E lo stesso Hegel, che voi tanto stimate, non ha molto giustamente rilevato che nella luce pura si vede altrettanto poco che nell’oscurità pura, e che soltanto l’unione concreta di entrambe rende la vita in genere possibile? Ed il gran merito di Hegel non è d’aver dimostrato che ogni vivente non vive che se possiede la sua negazione non al di fuori di sé ma in sé come una condizione vitale immanente, e che se fosse solo positivo e avesse la sua negazione al di fuori di sé sarebbe privo di movimento e di vita?”.

Lo so molto bene, signori. Vi concedo che, per esempio, un organismo vivo non vive se non portando in sé il germe della sua morte. Ma se volete citare Hegel, bisogna farlo integralmente. Vedrete allora che il negativo non è la condizione vitale dell’organismo determinato se non durante il tempo in cui appare in esso come fattore mantenuto nella sua totalità. Vedrete che arriva un istante in cui l’azione graduale del negativo è bruscamente interrotta, trasformandosi esso in principio indipendente, che questo istante significa la morte dell’organismo e che la filosofia di Hegel caratterizza questo momento come il passaggio della natura ad un mondo qualitativamente nuovo, al mondo libero dello spirito.

Gli stessi fatti si riproducono nella storia: per esempio, il principio della libertà teorica si svegliò nel mondo cattolico del passato fin dai primi anni della sua esistenza. Questo principio fu la fonte di tutte le eresie, così numerose, che si manifestarono nel cattolicesimo. Senza questo principio, il cattolicesimo sarebbe rimasto fossilizzato; esso fu dunque contemporaneamente il principio della sua vitalità, ma solo in quanto mantenuto nella sua totalità come un semplice fattore. E così il protestantesimo è apparso a poco a poco; la sua origine risale alla stessa origine del cattolicesimo, ma un giorno il suo sviluppo cessò bruscamente d’essere graduale ed il principio della libertà teorica s’elevò fino a diventare un principio autonomo e indipendente. È solo allora che la contraddizione apparve nella sua purezza, e voi sapete bene, signori, voi che vi dite protestanti, ciò che Lutero rispose ai conciliatori del suo tempo, quando andarono a proporgli i loro servizi.

Come vedete, l’idea che mi faccio della natura della contraddizione si presta ad una conferma non soltanto logica, ma anche storica. So bene che nessuna dimostrazione ha effetto su di voi, perché, privi di vita, avete come occupazione preferita il dominio della storia, e non è senza ragione che siete stati trattati come incalliti manipolatori.

“Non siamo ancora battuti – mi risponderanno forse i conciliatori – tutto ciò che dite della contraddizione è vero, ma c’è una cosa che non possiamo concedervi, che la situazione sia ora così cattiva come pretendete. Ci sono molte contraddizioni, ma non sono pericolose come dite. Vedete, dappertutto regna la calma, dappertutto s’è spenta l’agitazione, nessuno pensa alla guerra e la maggior parte delle nazioni e degli uomini oggi viventi impiegano ogni loro energia per mantenere la pace: perché sanno bene che senza pace non si possono favorire gli interessi materiali che sembrano esser diventati il principale affare della politica e del mondo civile. Quali eccellenti occasioni si sono presentate per fare la guerra e distruggere il regime esistente, dalla rivoluzione di Luglio ad oggi. Durante questi dodici anni sono avvenute tali complicazioni che non si sarebbe mai ritenuto possibile la loro soluzione pacifica, ci sono stati momenti in cui un conflitto generale sembrava inevitabile e le più terribili tempeste ci minacciavano: e tuttavia le difficoltà sono a poco a poco scomparse, tutto è rimasto tranquillo e la pace sembra stabilita per sempre sulla terra”.

La pace, dite: se questa può chiamarsi pace. Sostengo invece che mai le contraddizioni sono state acute come oggi; affermo che l’eterna contraddizione che dura da sempre, ma che, nel corso della storia, non ha fatto che crescere e svilupparsi, tra libertà e non-libertà, ha raggiunto nella nostra epoca uno sviluppo analogo ai periodi di decomposizione del mondo pagano ed è pervenuta al suo apogeo. Non avete letto sul frontone del tempio della libertà elevato dalla Rivoluzione queste parole misteriose e terribili: Libertà, Uguaglianza, Fratellanza? Non sapete e non sentite che queste parole significano la distruzione totale dell’attuale ordine politico e sociale? Non avete mai inteso parlare delle tempeste della rivoluzione? Non sapete che Napoleone, il preteso vincitore dei princìpi democratici, ha, come degno figlio della Rivoluzione, sparso per tutta l’Europa, con la sua mano vittoriosa, i princìpi egualitari? Forse ignorate tutto di Kant, Fichte, Schelling ed Hegel, e non sapete veramente nulla d’una filosofia che, nel mondo intellettuale, ha stabilito il principio dell’autonomia dello spirito, identico al principio egualitario della rivoluzione? Non capite che questo principio è in contraddizione assoluta con tutte le religioni positive attuali, con tutte le chiese esistenti?

“Sì – mi risponderete – ma queste contraddizioni appartengono del tutto alla storia antica; in Francia anche la rivoluzione è stata vinta dal saggio governo di Luigi Filippo, ed è lo stesso Schelling che molto recentemente ha trionfato nella filosofia moderna, essendone uno dei maggiori fondatori. Ora, la contraddizione è risolta dappertutto e in tutti i campi della vita”.

E voi credete davvero alla soluzione, alla vittoria sullo spirito rivoluzionario? Siete dunque ciechi e sordi? Non avete né occhi né orecchie per cogliere ciò che intorno a voi progredisce? No, signori, lo spirito rivoluzionario non è vinto; la sua prima apparizione ha scosso il mondo intero fin nelle sue fondamenta, ma dopo si è soltanto ripiegato su se stesso, si è solo chiuso in sé per annunciarsi, presto, di nuovo come il principio affermativo e creatore ed ora scava nella terra come una talpa, secondo l’espressione di Hegel. Che non lavori inutilmente, è ciò che mostrano tutte le rovine sparse per terra nell’edificio religioso, politico e sociale. E parlate di soluzione della contraddizione e di riconciliazione. Guardatevi intorno e ditemi ciò ch’è rimasto vivo del vecchio mondo cattolico e protestante. Parlate di vittoria sul principio negativo. Non avete letto nulla di Strauss, di Feuerbach e di Bruno Bauer, e non sapete che le loro opere sono in ogni mano? Non vedete che tutta la letteratura tedesca, tutti i libri, i giornali, gli opuscoli sono pervasi dello spirito negativo e che anche le opere dei positivisti, inconsciamente e involontariamente, ne sono impregnate? Ed è questo che chiamate pace e riconciliazione.

Sappiamo bene che l’umanità, a causa della sua nobile missione, non può trovare soddisfazione e tregua nel principio pratico universale, in un principio che abbraccia in sé con forza le mille diverse manifestazioni della vita spirituale.Ma dov’è questo principio, signori? Tuttavia, vi capita talvolta, nella vostra esistenza di solito così triste, di vivere degli attimi pieni di vita e d’umanità, attimi in cui gettate lontano da voi gli impulsi meschini che animano la vostra vita quotidiana ed in cui aspirate alla verità, a tutto ciò ch’è grande e santo; rispondetemi dunque sinceramente, con la mano sul cuore: avete trovato da qualche parte qualcosa di vivo? Avete mai scoperto fra le rovine che vi circondano il mondo tanto agognato in cui potrete rinascere ad una nuova vita in un totale abbandono ed in una perfetta comunione con tutta l’umanità? Sarebbe per caso il mondo del protestantesimo? Ma è in preda ai più spaventosi disordini, ed in quante diverse sette è lacerato? “Senza un grande entusiasmo generale, dice Schelling, non ci sono che sette, ma non opinione comune”. E l’attuale mondo protestante è lontanissimo dall’esser pervaso da un tale entusiasmo, perché esso è il mondo più prosaico che si possa immaginare. Sarebbe forse il cattolicesimo? Ma dov’è il suo antico splendore? Esso, che fu il padrone del mondo, non è diventato lo strumento obbediente d’una politica immorale, estranea ai suoi princìpi? O forse trovate la vostra consolazione nello Stato com’è oggi? Ebbene, sarebbe una bella consolazione. Lo Stato è ora dilaniato dalle più estreme contraddizioni interne, perché lo Stato senza religione e senza solidi princìpi comuni non può vivere. Se volete convincervene, guardate solo la Francia e l’Inghilterra: preferisco non parlare della Germania.

Rientrate finalmente in voi, signori, e ditemi sinceramente se siete contenti di voi e se vi è possibile esserlo. Non sembrate forse tutti, senza eccezione, i tristi e miserabili fantasmi della nostra triste e miserabile epoca? Non siete pieni di contraddizioni? Siete uomini interi? Credete davvero in qualche cosa? Sapete ciò che volete e soprattutto siete capaci di volere qualcosa? Il pensiero moderno, questa epidemia della nostra epoca, ha lasciato viva una sola parte di voi stessi, non vi ha penetrati fin nell’intimo, paralizzati e spezzati? In verità, signori, dovete confessare che la nostra è una miserabile epoca e che noi ne siamo i figli ancor più miserabili.

Ma d’altra parte si manifestano intorno a noi dei fenomeni precursori: sono il segno che lo spirito, vecchia talpa, ha compiuto il suo lavoro sotterraneo e presto riapparirà per render giustizia. Vengono costituite dappertutto, e soprattutto in Francia e in Inghilterra, associazioni nello stesso tempo socialiste e religiose, le quali, totalmente al di fuori del mondo politico attuale, attingono la loro presente vitalità a fonti nuove e sconosciute, si sviluppano e si propagano in segreto. Il popolo, la classe della povera gente che forma senza alcun dubbio l’immensa maggioranza dell’umanità, la classe di cui in teoria sono già stati riconosciuti i diritti, ma la cui nascita e la cui situazione hanno finora condannato alla miseria e all’ignoranza e perciò ad una schiavitù di fatto, la classe che costituisce il popolo propriamente detto, assume dappertutto un atteggiamento minaccioso, comincia a contare i suoi nemici, le cui forze sono inferiori alle sue, ed a chiedere l’effettiva applicazione dei suoi diritti, che tutti le hanno già riconosciuto.

Tutti i popoli e gli individui sono presi da un vago presentimento ed ogni persona normalmente costituita aspetta ansiosamente il prossimo futuro, nel quale saranno pronunciate le parole liberatrici. Anche in Russia, in questo immenso impero dalle steppe coperte di neve che noi conosciamo così poco ed al quale s’apre forse un grande avvenire, anche in Russia vengono ammassandosi nuvole oscure che precedono la tempesta. Oh! l’atmosfera è soffocante e gravida di bufera. È per questo che gridiamo ai nostri fratelli ciechi: pentitevi, pentitevi! il regno di Dio è prossimo.

Diciamo ai positivisti: aprite gli occhi dello spirito, lasciate che i morti sotterrino ciò ch’è morto, e siate finalmente convinti che non è nella polvere delle rovine che bisogna cercare lo Spirito, lo Spirito eternamente giovane, che eternamente rinasce. Ed esortiamo i conciliatori ad aprire i loro cuori alla verità ed a liberarsi della loro miserabile e cieca saggezza, della loro boria dottrinale e della paura servile che dissecca le loro anime e paralizza i loro movimenti.

Abbiamo dunque fiducia nello spirito eterno che non distrugge e non annienta se non perché esso è la fonte inesauribile ed eternamente creatrice di ogni vita. La voluttà di distruggere è nello stesso tempo una voluttà creatrice.

[1] Questa introduzione è stata scritta da Jean Barrué per la prima traduzione in francese, da lui curata, del saggio di Bakunin. La réaction en Allemagne, Spartacus, Paris 1970.

 
 

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