Titolo: La guerra e il suo rovescio
Data: 1991
Note: Goffredo Firmin, Riccardo d’Este, Malcom D’Idd, Jacques Wajnsztejn, Bodo Schultze, “Temps critiques”, Alfredo M. Bonanno, La guerra e il suo rovescio, Nautilus, Torino 1991
Prima edizione in opuscolo: novembre 2013
Opuscoli provvisori n. 45
SKU: opuscoli-000045
Dimensioni: cm 10 x 10,5
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Nota introduttiva

Contro la guerra prima di ogni cosa. Contro la pace, anche, subito dopo, se con la pace deve intendersi la condizione ideale perché lo sfruttamento continui a calpestare i miseri e a ingrassare gli sfruttatori. Quindi per la guerra sociale, per lo scontro a vita e a morte con chi ci soffoca, con quegli inclusi che fanno del proprio essere padroni delle risorse materiali la condizione per tenere gli esclusi nella loro condizione precaria di schiavi, sottoposti al dominio e al controllo.

Ma ammettere l’inevitabilità della guerra sociale significa prepararsi ad essa, fare in modo che si concretizzino le condizioni del suo materializzarsi, uscendo dalle ipotesi, più o meno nebulose, passando all’agire che, spezzando l’omologazione coatta del fare quotidiano, ci fa sperimentare la qualità.

Le analisi di Riccardo sono non solo ben dette ma anche ben radicate nella realtà, per questo anche oggi mantengono tutta la loro pregnanza. Battersi contro la guerra significa contrattaccare il nemico sul piano della guerra sociale, terreno dove, in un modo o nell’altro, nelle lotte intermedie o negli scontri insurrezionali preparatori della rivoluzione, lo si costringe mostrarsi allo scoperto.

E ciò senza mezze misure, senza contare su di un successo immediato, senza cullarsi nella collaborazione delle cosiddette forze progressiste o nascondersi dietro l’usbergo della masse. Dobbiamo essere noi a considerarci, per primi, responsabili delle nostre azioni. Senza palliativi democratici a farci da guanciale.


Trieste, 30 ottobre 2011

Alfredo M. Bonanno

Per la signora della porta accanto

Ma lo ha (finalmente!) capito, Signora, lei che per le ataviche e non immotivate paure delle guerre, anzi della Guerra, incubo dei nostri poveri destini, si è comperata, accaparrata, imboscata tanto di quello zucchero e di quelle patate che adesso (adesso) è obbligata ad inventarsi fior di torte (dolcissime) per figli e nipoti e cugini e parenti, quantità di frittate omelette tortilla (sempre alle patate) giusto per svuotare un poco l’ingombra dispensa? Lo ha capito che in verità, la verità vera degli uomini d’onore, tutti hanno voluto e vogliono sempre e soltanto la pace? I bagliori di guerra, i fulmini artificiali, i corpi devastati, le facce (oh le facce!) dei guerrieri e dei prigionieri, dei morti immobili e di quelli semoventi, i carriarmati come scarafaggi e le armi di Batman, tutto questo, Signora, era solo per la televisione, insomma per noi.

O per sbarazzarsi del vecchiume, farla finita, e correre correre con il fiato in gola verso il Nuovo Mondo (giusto giusto in tempo per il cinquecentenario – si dirà così? – della umanissima scopertissima dell’Americchissima), per digerire assorbire il bene ed evacuare vomitare il male, per lasciare tracce di forza vestite nella storia, nella Storia di tutte le storie.

O rianimare eccitare gli esangui Diritti dell’Uomo (le donne e i bambini sono compresi: si compra tre e si paga uno), per far parlare un po’ tutti, generali e papi, uomini della strada e dèi, per giustificare spiegare quello che c’è e quello che manca, per sfamare di notizie fresche un popolo triste di ben sei miliardi (mica chiacchiere!) di cittadini universali. Per far aumentare le vendite sempre in crisi dei giornali sempre in crisi sempre in crisi, per far salire l’indice di ascolto tv, la audience (lei lo sa, Signora) che, disgraziata, è sul filo, sempre con il terrore del telecomando.

È stato un gioco, Signora, è un gioco e lei c’è cascata. In realtà tutti vogliono la pace, la pace, la pace, quella vera, quella giusta, quella unica, quella quieta e silenziosa che lei, Signora, conosce benissimo tutte le domeniche e qualche volta anche il venerdì (se càpita). Quella dolce pace che lei avverte quando – e quanto! – porta gli allegri fiorellini (meglio quelli di campo) al fu Antonio Domenico Pasquale Giuseppe Giovanni, tutto tranquillo e silenzioso, lì, in pace, infine in pace dopo un’intera vita (intera intera) spesa esemplarmente come figlio studente fidanzato marito padre lavoratore morto (ricorda quanto le sono costate quelle poche righe sul giornale e la foto da metterci sopra che sembrava proprio lui?).

Non si preoccupi, Signora, abbia fede, ci arriveremo tutti insieme, se non ci siamo già arrivati. Spenga la televisione e accenda lo zucchero e le patate.


Milano, marzo 1991

Riccardo d’Este [Goffredo Firmin]

Necessità e virtù

“Guardatevi dal sofisma dell’effimero”.

Denis Diderot, Sogno di d’Alembert

Può risultare “perdente”, in tutte le sue sfaccettature, la pubblicazione di un libro sulla guerra del Golfo Persico, ed anche sulle diatribe tra bellicismo e pacifismo, ora che la guerra è apparentemente terminata, che le sue immagini sono state assorbite, evacuate e quindi consumate, al pari delle opinioni in merito. A questo punto, pare che l’unico spazio rimasto sia quello, peraltro già ampiamente occupato, di competenza degli specialisti, siano essi storiografi, fini analisti della politica internazionale e delle mene diplomatiche o, molto più materialisticamente e forse volgarmente, strateghi militari o economisti esperti in “ricostruzioni”, i quali, sicuramente, sapranno trarre delle buone lezioni e degli ottimi profitti da questa guerra.

Il consumo di immagini, emozioni, informazioni e disinformazioni è ormai talmente accelerato, quasi parossistico, che una notizia che può fare scalpore, spingere la gente a prendere partito (quale che sia), ad esprimere opinioni (quali che siano), consensi, applausi o dissensi ed indignazioni, in un brevissimo lasso di tempo non è più “notizia”, scivola in quella “storia” che sempre più stanno confezionando come un capace contenitore di tutto, slegandola dunque dalla vita reale, concretamente determinata, dei singoli soggetti. La memoria stessa che, pur stretta alle corde da aggressioni simboliche e materiali ben coordinate, conserva tuttavia una sua incancellabile forza, propende a mantenersi più nel privato che nel pubblico, bombardata com’è da micidiali e successive suggestioni (non a caso nella terminologia politica come in quella del marketing, la parola “suggestione” si è progressivamente sostituita all’antico “suggerimento”; in realtà, si vuole suggerire però suggestionando). Così il ricordo rimane patrimonio diretto soltanto di chi è stato toccato in prima persona da un avvenimento, per grande che sia, come nel caso di una guerra. Lì la memoria si fa ferita difficile a cicatrizzarsi, né più né meno come la fine di un amore o la morte di una persona cara. Gli altri, gli spettatori, vengono posseduti da ondate di immagini e rappresentazioni che progressivamente si sostituiscono a quelle anteriori, ancorché prossime, in un accavallamento che sembra non avere mai fine ed il cui fine sembra per l’appunto quello della disconnessione, di una sorta di extratemporalità neutrale.

La divisione dei còmpiti risulta abbastanza ben delineata. Chi è “protagonista”, magari del tutto involontario, di un certo accadimento, e non importa se vittima o carnefice (spesso i ruoli si mescolano), conserverà la sua memoria privata, magari trasmissibile come affabulazione; agli altri rimarrà una memoria confusa, attaccata com’è dall’incedere sovrano del semprenuovo (spesso antichissimo), e dunque, per preservarla, verrà affidata agli specialisti, a coloro che ricuciono professionalmente i brandelli di realtà per ripresentarla poi o “scientificamente” o “narrativamente” (un avveduto produttore cinematografico farebbe bene a commissionare immediatamente la sceneggiatura di un film su Melissa, la soldatessa americana fatta prigioniera, e sui suoi impacciati carcerieri iracheni che, secondo quanto riferiscono le cronache, la vedevano come un incrocio tra Rambo e Jodie Foster).

Noi, quelli che abbiamo altro da dire e soprattutto da dire altro, sembriamo completamente tagliati fuori, attori passivi, com’è stato per i differenti manifestanti per la pace, o semplicemente spettatori, com’è per la gran parte dell’umanità. Ma se allora, nel corso della guerra, il corpo sociale poteva venir percorso dai brividi prodotti dalla presenza simulata (la presenza della televisione e davanti ad essa, la lettura dei giornali, le discussioni con i conoscenti, le prese di posizione pubbliche o private ecc.) e dunque in qualche modo era legittimo per chicchessia parlare della guerra, ragionare su di essa, avanzare degli embrioni di analisi, ora, “a bocce ferme”, questa legittimità viene totalmente delegata ai vari specialisti. Il resto rischia di rimanere un chiacchiericcio indistinto, un rumore di fondo domato in fretta e messo a tacere da ben altri rumori, più “attuali”.

Nel nostro caso, la necessità e la virtù si sono coniugate senza chiedere alcuna benedizione o consenso razionale. Abbiamo cominciato a ragionare ed a scrivere sulla guerra prima ancora che iniziasse la sua fase più cruenta e spettacolare; abbiamo continuato durante, interrogandoci costantemente sul senso ultimo di una simile operazione; concludiamo e pubblichiamo a guerra finita, per adesso e questa. Ci è risultato relativamente facile non rincorrere l’instant-book perché da tempo abbiamo accumulato alcune convinzioni di base: che l’attualità è solo quella dei soggetti e non quella del tempo preconfezionato, cellophanato e distribuito; che non siamo contro questa o quella guerra, ma contro tutte, che peraltro non riteniamo inevitabili bensì fisiologiche rispetto al sistema di dominio esistente, e ad ogni sistema di dominio; che, se è consentito usare un paradosso, giudichiamo la guerra peggiore della pace senza però che quest’ultima, frutto di “equilibri” di guerra quotidiani, fra gruppi sociali, etnici, culturali, economici ecc. nonché fra individui e ruoli, sia di per sé migliore; che l’emancipazione dal capitale, dallo Stato, dallo spettacolo e dalle nostre povere sopravvivenze sia una guerra permanente, non necessariamente violenta come non necessariamente nonviolenta, dunque sempre attuale, a differenza dello spettacolo che, per quanto insegua il “tempo reale”, è sempre in ritardo, per lo scarto che esiste tra un’azione e la sua rappresentazione, o sostitutivo dell’attualità soggettiva, a cui rimanda falsificatoriamente (nella società neomoderna “esiste” solo ciò che appare come esistente).

Certo, la guerra del Golfo è stata l’occasione di e per questo libro, così diseguale e così frammentario quali sono le nostre vite. Ma, per quanto alcuni testi possano sembrare “specifici” o addirittura “specialistici” (in realtà sono solo lo sforzo di correggere molte e diffuse opinioni false e falsificatrici in merito alla guerra ed alle sue cause), dobbiamo riconoscere, in verità, che, a ben vedere, abbiamo continuato a dire di noi stessi, delle nostre ambiziose voglie come delle nostre ineludibili insofferenze. Vissute nel presente ma, del pari, proiettate nel futuro. Se vogliamo, quindi abbiamo tentato soprattutto un’analisi, oltre che della guerra, del Nuovo Ordine Mondiale che sta incubando e che ci sta incombendo addosso. Per trovare gli strumenti per combatterlo nelle maniere che sono e saranno necessarie e sufficienti.

Questa è la nostra attualità.


Torino, marzo 1991

La guerra come operazione di polizia internazionale

È la prima volta che questa formula, “operazione di polizia internazionale”, viene ufficialmente usata per definire una guerra. In Italia, per le ragioni che vedremo, ha riscosso un grande successo presso le autorità massime: l’ha utilizzata il presidente del consiglio dei ministri, Andreotti, per giustificare il senso dell’intervento in guerra italiano, peraltro assai ridotto, a fianco degli “alleati” nella coalizione anti-Saddam, all’inizio delle ostilità belliche; l’ha ribadita il presidente della repubblica, Cossiga, nel suo discorso celebrativo del cessate-il-fuoco, conclusosi con un bizzarro ed un po’ jettatorio “Dio protegga l’Italia!”.

L’obiettivo di Andreotti, agli ordini del cui governo l’Italia entrava in guerra, era sin troppo evidente: eludere l’articolo 11 della Costituzione italiana che vieta al nostro paese di partecipare ad una guerra, se non in caso di aggressione direttamente subìta e di difesa del territorio nazionale ed evidentemente di ciò non si trattava. Cossiga, sull’onda dell’entusiasmo e della commozione per la “pax americana”, vi ha apposto il definitivo suggello. Il trucco, proprio perché sfacciato, quasi insolente, ha fatto indignare tutti gli oppositori della guerra, ha suscitato diatribe giuridico-politiche più o meno dotte, ha fatto citare, più o meno a sproposito, i dettami dell’ONU, la loro funzione, il diritto internazionale e così via.

Nessuno o quasi ha preso sul serio questa formulazione e, soprattutto, nessuno ne ha tratto le debite conseguenze sul piano teorico ed analitico, il che avrebbe comportato il tentativo di individuare gli scenari mondiali prossimi venturi.

Non lo hanno fatto, almeno alla luce del sole, i molti bellicosi e bellicisti che pure non hanno esitato a spingersi oltre le soglie del delirio e del ridicolo [1]. Questi ideologi del partito della guerra li possiamo suddividere, grosso modo, in tre grandi correnti: gli “utilitaristi occidentali”, coloro cioè preoccupati soprattutto per la stabilità delle economie e società occidentali, fra cui quella italiana, nel caso di una significativa ridefinizione del controllo sul mercato del petrolio e sugli assetti geopolitici nel Medio Oriente, con particolare attenzione all’alleato di sempre, Israele, che poteva veder incrinata la sua strapotenza militare nella zona; gli “americanofili”, quelli cioè che ritengono che la riproduzione dello status quo nei singoli paesi e nelle varie aree mondiali dipenda essenzialmente dal controllo e dalla supremazia militare USA, sia per fronteggiare eventuali disordini interni, sia per governare i conflitti internazionali (e costoro, in fondo, sono quelli che più si sono avvicinati, sia pure implicitamente, al concetto di “polizia internazionale”, ovviamente per esaltarne la funzione); i “fondamentalisti ideologici”, vale a dire coloro che sembrano aver preso sul serio le ideologie dominanti e professate e che, dunque, hanno creduto necessario ribadire, anche con la guerra, taluni valori-cardine dell’assetto capitalistico mondiale, in specie dopo il crollo degli pseudoantagonisti dell’Est, e quindi “democrazia”, “legalità”, “giustizia” ecc., naturalmente fissati una volta per tutte dal sistema sociale esistente e dalle credenze ufficiali.

Va da sé che queste correnti si sono spesso scambiate argomenti, miscelandoli diversamente a seconda delle inclinazioni, e che l’insieme è andato a formare il blocco “pro guerra”, occupando massicciamente i media e costituendo quindi l’“opinione” prevalente. Di fronte alla formula di “operazione di polizia internazionale” hanno ammiccato sornionamente, strizzando l’occhio a chi era così furbo da utilizzare un giro di frase che consentisse all’Italia di entrare “legalmente” e “costituzionalmente” in quella guerra che era il loro unico obiettivo. Alla quale, naturalmente, deve seguire una “pace giusta”, cioè determinata dai vincitori, fra i quali contano di esserci. Il cretinismo ed il servilismo di simili politici e “pensatori” hanno di fatto impedito loro di intuire il passaggio epocale a cui si sta andando incontro ed a cui, ovviamente, avrebbero plaudito, se l’avessero compreso, poiché la loro natura attiene più al poliziotto che al guerriero.

Del tutto differente, ma non per ciò più sagace, è stato l’atteggiamento del variegatissimo “fronte antiguerra” che, a dire il vero, ha mantenuto un profilo piuttosto basso, quasi che il pur savio “No alla guerra!” potesse spiegare tutto e tutto unificare. Questo fronte, definito o autodefinentesi “pacifista”, ha ottenuto la sua maggior vittoria nelle reazioni scomposte che ha suscitato nel fronte avverso, quello bellicista, ma, tranne poche eccezioni, è rimasto interno al quadro concettuale ed interpretativo dato, salvo utilizzarlo in senso pacifista. Non si è notato un apprezzabile rovesciamento di prospettiva.

Questo fronte polifacetico è andato, in Italia, da settori cattolici rincuorati dalle parole del papa, che si è sempre astenuto dal benedire la guerra, ad una serie di realtà cristiano-umanitarie, dai nonviolenti di varia indole agli antimilitaristi generici (le zone culturali da cui provengono in buona parte gli obiettori di coscienza), da un vasto arco di neoutilitaristi (la guerra è uno “spreco” umano, ecologico, economico ecc. e per ciò va evitata) agli ambientalisti più diversi, dai terzomondisti residuali agli antimperialisti tradizionali, dagli ex comunisti riciclatisi come “sinistri democratici” ai tuttora comunisti, ma democratici, e così via, sino a quella fascia di persone, soprattutto giovani che, forse più sensatamente, hanno detto di non aver voglia di guerra “perché no”, magari per un non dissimulato e giusto timore delle sue conseguenze anche ed essenzialmente sul terreno delle loro vite quotidiane.

Quest’area ha criticato, attaccato o sbeffeggiato la formula “operazione di polizia internazionale”, individuando in essa una circonlocuzione “pudica” per parlare e trattare di guerra, come il tentativo di nascondersi dietro ad un dito, come un’arrogante bugia, come un escamotage per aggirare il dettato della Costituzione repubblicana, come una furbesca ma vile forma di sottomissione al volere degli Stati Uniti eccetera.

A seconda dell’ideologia di ciascuno, le cause principali della guerra sono state attribuite al tentativo di accaparrarsi il controllo del petrolio, all’irrisolto conflitto fra Nord e Sud del mondo (non solo in senso geografico, ma soprattutto economico, politico, culturale; per alcuni fra l’opulenza e la miseria), nella ricorrente necessità capitalista della guerra, in quanto spreco assoluto, onde tamponare le crisi di sovrapproduzione ed esorcizzarne la minaccia, nel bisogno di smaltire in fretta gli arsenali immagazzinati per poter rilanciare la produzione bellica, nella volontà dell’Occidente di ribadirsi come egemone e di lasciare ai margini qualsiasi altra civiltà e cultura, e così via. Spesso ciascuna di queste spiegazioni contiene una parte di verità, ma la loro “colpa” comune consiste nel non aver colto la profonda verità insita nella formula “operazione di polizia internazionale” seppur celata nell’evidente menzogna. Ma è proprio questa arrogante evidenza della menzogna a denunciarne la sottostante verità. Poiché la verità vera non può venire dichiarata semplicemente, le si fanno indossare i panni della menzogna di modo che, paradossalmente, pur rimanendo tale enunci la verità che afferma apparentemente come menzogna. Un triplice salto mortale.

Il governo italiano, nella fattispecie, sapeva perfettamente che si trattava di una guerra e tra le più distruttive, almeno per il “nemico”, come sapeva di doverci andare in nome di quell’alleanza e dipendenza che lega l’Italia ad altri paesi, in primo luogo agli Stati Uniti, ed anche nella motivata speranza di ottenerne dei congrui vantaggi. Guerra, dunque, e di portata mondiale, sia per il numero di paesi coinvolti, sia per la complessità dell’area geografica toccata, sia, soprattutto, per la posta in palio. Ritengo che nessuno, neppure il più fatuo e vanitoso tra gli “esperti” esibiti dai media, credesse realmente ad un blitz rapidissimo e quasi indolore, ad “operazioni chirurgiche”, alla riproduzione su vasta scala delle vittoriose e veloci incursioni delle teste di cuoio, o di altri loro omologhi polizieschi, contro terroristi, delinquenti eccetera. Quello faceva parte dell’armamentario più tradizionale e volgare della propaganda. Ma questo nulla toglie al fatto che si sia trattato realmente di una “operazione di polizia internazionale”.

Infatti, non esiste operazione di polizia che possegga a priori la certezza di concludersi rapidamente, con i minimi danni e con il massimo successo. O con la sicurezza di non lasciare vittime sul campo, sia (poche) fra i “tutori dell’ordine” che (molte) fra i “delinquenti”, nonché fra coloro che vi si trovano coinvolti, seppur involontariamente. La storia delle operazioni di polizia è contrassegnata da episodi di questo genere. Soprattutto nei tempi più recenti, da quando, imperando lo spettacolo a cui tutti dobbiamo assistere, il “successo” sta più nella ambigua grandiosità delle immagini che vengono veicolate e, per conseguenza, nell’allusiva ed ellittica riaffermazione dell’ineludibilità dello Stato e della sua forza che non nel prevenire o nel reprimere questo o quel delitto. In Italia, come in altri paesi d’Europa, i morti nelle operazioni di polizia non si contano, prima fra i “criminali” veri o presunti, poi fra gli spettatori e i transeunti, infine, in misura ridottissima, tra le forze di polizia. Negli Stati Uniti esiste addirittura una sorta di programmazione: in parecchi casi si sono distrutti interi edifici abitati [2] pur di “stanare” ed eliminare delinquenti o terroristi. Al di là delle parole di cordoglio d’obbligo, le autorità non hanno troppo affanno nel giustificarsi, sempre attraverso due formule standard di sicura efficacia: “Non si poteva fare altrimenti, sennò il danno sarebbe stato maggiore per l’intera società”; “In operazioni di questo tipo vi sono sempre dei margini di errore, ma l’importante è comunque che gli obiettivi vengano raggiunti”. D’altronde, la sicura impunità di cui godono e la velocità frenetica, ossessiva, con cui si consumano socialmente immagini ed emozioni, poi sempre nuove ne vengono proposte sul mercato (chi ricorda un mese dopo questo o quell’“incidente”, tale o talaltro “infortunio”?), fanno sì che gli organizzatori delle operazioni di polizia si preoccupino assai poco di eventuali effetti boomerang.

Non è, dunque, dalla quantità di morti o di distruzioni che si può stabilire se si è trattato o meno di un’operazione di polizia. Non per nulla il “Washington Post” ha potuto rilevare, ovviamente con soddisfazione, che nelle cento ore di guerra terrestre anti irachena gli americani morti (quattro) erano di numero inferiore agli americani morti per delitti comuni (sette) nello stesso arco di tempo nella sola città di Washington. (Va da sé che i morti iracheni fanno parte di un altro conteggio, di un diverso bilancio.)

Per determinare il carattere di un’operazione di polizia, i criteri di valutazione devono perciò essere differenti. Non si possono basare sui mezzi impiegati, né sui danni arrecati – che in questa guerra sono stati eccezionali: gli stessi americani, vantandosene, affermano che mai nella storia un solo paese è stato bombardato come l’Iraq in questo periodo; che la quantità di esplosivo che ha colpito quel territorio in neppure due mesi è di molto superiore a quella usata contro la Germania nei cinque anni della II Guerra Mondiale; che il potenziale distruttivo lanciato quotidianamente su Baghdad è stato il più delle volte maggiore a quello adoperato su Hiroshima – e neppure sul numero delle vittime nemiche, militari o civili. Si devono considerare invece gli obiettivi, le finalità.

Per polizia possiamo intendere l’organo del potere esecutivo che ha il compito di assicurare il rispetto delle leggi, agevolandone l’attuazione e prevenendone ed impedendone la violazione”, secondo l’uso consolidato di questo termine, sia in senso linguistico che giuridico. Va da sé che già una definizione così apparentemente neutra e inquietante, poiché nulla ci dice sulla natura del potere esecutivo né su quella delle leggi e, pertanto, sulle operazioni di polizia; ma c’è da preoccuparsi molto di più quando si ha di fronte una polizia internazionale ed è inevitabile domandarsi di quale potere esecutivo sia l’organo, quali leggi intenda far rispettare internazionalmente. Ma che per questa guerra si possa parlare di operazione di polizia internazionale, e non solo per astuzia circonlocutoria, pare evidente sia per le sue modalità sia per le finalità dichiarate, non certo dall’ONU che è una miserevole facciata per decisioni che vengono prese altrove e che può al massimo disporre di una “forza multinazionale di pace” e non di una polizia mondiale, bensì dagli Stati Uniti e via via dai loro alleati. D’altra parte, che si andasse verso una situazione di polizia mondiale, naturalmente integrata dalle singole polizie locali, lo si poteva cogliere già da tempo.

Non è certo un fatto nuovo che gli Stati egemonici esercitino funzioni di polizia, non solo come espressione della” sovranità” – e dunque del monopolio della forza – all’interno dei “loro” territori, ma anche, estensivamente, nelle aree sottoposte al loro controllo, come una sorta di sovranità indiretta. Nuova, invece, è la tendenza all’integrazione internazionale, dopo il disfacimento del “socialismo reale” all’Est con la conseguente caduta del bipolarismo fra le due superpotenze militari, i loro alleati, le loro sfere di influenza che, ovviamente, si irradiavano anche su paesi non strettamente nell’orbita di questo o quel blocco. Nessuna persona savia può rimpiangere il bipolarismo o addirittura la “guerra fredda”, ma questa tendenza all’integrazione internazionale va esaminata per le sue potenziali conseguenze di cui la coalizione anti Iraq è solo un anticipo.

Quello dei se è un esercizio per lo più futile, ma nel caso in questione è sin troppo facile ipotizzare che, se non fosse maturato questo processo di integrazione mondiale, sarebbe stata quasi impossibile una simile guerra contro l’Iraq, soprattutto sotto l’apparente egida delle Nazioni Unite. Basti pensare, per esempio, al diritto di veto che possiedono i cinque paesi membri del Consiglio di sicurezza dell’ONU, fra cui URSS e Cina, e come questo diritto sia stato sempre disinvoltamente esercitato quando venivano presentate mozioni contrarie agli interessi dei paesi egemoni o di quelli a loro alleati o sotto il loro controllo – l’unico infortunio clamoroso fu quello sovietico, ai tempi della Corea, dovuto alla sicumera ed alla rozzezza dell’URSS stessa [3]. Con ciò non si vuole affatto sostenere che non si sarebbe andati incontro a breve termine ad una guerra, più probabilmente ad una serie di guerre, nel Medio Oriente, ma di tutt’altre caratteristiche, com’è stato per la guerra dei sei giorni vinta da Israele o per quella di otto anni tra Iraq e Iran. Guerre anche cruente, a cui tuttavia non poteva applicarsi il concetto di operazione di polizia.

D’altra parte, eccezion fatta per la guerra di Corea, i due maggiori conflitti contemporanei, dopo la fine della II Guerra Mondiale, vale a dire quello del Viet Nam e quello dell’Afghanistan, furono giustificati in modo profondamente diverso – e che si trattasse di giustificazioni è evidente. In un caso gli americani, nell’altro i sovietici sostenevano di intervenire perché “chiamati in soccorso” da pretesi governi legittimi ed amici, contro una guerra di guerriglia che li attaccava all’interno del paese. Come si può capire, ben poco a che vedere con un’operazione di polizia internazionale. Non a caso l’opinione pubblica mondiale si divise notevolmente sulle ragioni di fondo di quelle guerre, di quegli interventi: a favore o contro la lotta di liberazione in un caso, riguardo alla legittimità del governo “comunista” nell’altro. E, sempre non per caso, in entrambe le vicende le superpotenze se ne tornarono a casa con la coda fra le gambe, sconfitte soprattutto dall’opposizione interna ed internazionale, benché la situazione afghana si sia dimostrata poi assai atipica e dunque sia sinora rimasto “miracolosamente” in carica il governo-Quisling appoggiato dai sovietici.

A parte l’invasione USA di Grenada, episodio anch’esso alquanto atipico, la prima grossa “operazione di polizia internazionale” si ha con l’intervento militare americano a Panama nel dicembre del 1989, con la cattura del “traditore” generale Noriega, capo del governo, e la sua deportazione addirittura in un carcere statunitense (e non se ne sente più parlare, ufficialmene non se ne sa più nulla). Quello di Panama fu un test assai significativo, una sorta di prova in miniatura per l’esordio sul pianeta del Nuovo Ordine Mondiale, del suo Governo, con tanto di polizia alle sue dipendenze.

Non a noi [4] ma ai più quell’episodio passò quasi inosservato, pressoché “naturale”, essenzialmente per tre motivi: 1) Perché da lungo tempo viene accettato o subìto quasi da tutti, salvo poche eccezioni e soprattutto i movimenti di opposizione in quell’area, che il Centroamerica sia stato e sia il “cortile di casa” degli USA, come gli americani stessi amano definire quella regione; 2) Per l’evidente impresentabilità di Noriega, implicato in traffici internazionali di droga, già uomo di mano della CIA e dunque in certo qual modo “interno” alla politica statunitense ed ai suoi affari; 3) Per l’apparente rapidità ed asetticità dell’intervento americano che in quel piccolo paese trovò effettivamente debolissime resistenze.

Ben pochi notarono allora che quella “rapida ed indolore” operazione avesse causato fra i sei e i settemila morti, in specie fra la popolazione civile [5]. Pochissimi sembrano ricordarsi tuttora che da più di un anno è sempre presente a Panama un forte contingente militare statunitense (“forze di polizia”). Quasi nessuno ha voluto sottolineare il fatto che quel blitz è stato tollerato dalle altre potenze, se non addirittura concordato con esse. Ora possiamo affermare, dati alla mano, che quella è stata la prima operazione di polizia internazionale, seppure in piccolo. Ce ne dovevamo aspettare già da allora delle altre, ed ecco adesso questa contro l’Iraq, con l’esplicito assenso delle potenze mondiali, e con un comune elemento inquietante, a parte le differenze di scala: tanto Noriega che Saddam sono stati puniti non per i crimini realmente commessi, ciascuno a suo tempo incoraggiato dall’Ordine Mondiale, ed in primo luogo dagli USA, ma perché alzava le pretese, voleva mettersi in proprio, diventava quindi inaffidabile (lo stesso succede ai picciotti della Mafia che, dopo aver eseguito ordini su ordini, pretendono di alzare la cresta per conto loro, senza rispettare l’assetto gerarchico “naturale”; e, sia ben chiaro, con ciò affermo risolutamente che l’organizzazione degli Stati ha imparato molto dalla Mafia, così come questa si è modellata su quelli, poiché sono frutti dello stesso grembo).

Le specifiche e particolari matrici prettamente economiche, pur sussistendo, sembrano aver sempre minor peso rispetto a quello di un Nuovo Ordine Mondiale, di un Governo sovranazionale che, attraverso l’accordo esplicito o implicito tra i singoli Stati, permetta la riproduzione indefinita del sistema economico, politico, giuridico, istituzionale esistente; insomma, governare la miseria e la sopravvivenza sull’intero pianeta, tra i luccichii delle opulenze del consumo ed i bagliori delle armi.

È pur vero, per esempio, che gli interessi economico-commerciali (ma anche strategico-militari) degli USA rispetto al Canale di Panama sono stati e sono tuttora molto forti. È altresì vero che il generale Torrijos, predecessore e maestro di Noriega, poi morto misteriosamente, aveva siglato nel 1977 un accordo con l’amministrazione americana che prevedeva e prevede la restituzione a Panama della sovranità sul Canale entro il 1999 , data che si avvicina, e che le “bizzarrie” e gli improvvidi sussulti nazionalistici di Noriega abbiano potuto creare preoccupazione nell’attuale governo USA, visto che agli Stati Uniti il controllo del Canale è necessario anche dopo il Duemila. Ma è evidente che gli americani avevano molti altri mezzi, a parte l’invasione, o per accordarsi con Noriega stesso, già loro servitore seppur infedele, o per ridurlo in qualche modo alla ragione o, più semplicemente, per sbarazzarsene (e Bush, già direttore della CIA, di certo non avrebbe avuto problemi morali o di capacità o di mezzi). Di fatto, hanno preferito l’invasione, il massacro, la spettacolare cattura di Noriega ed il suo trasferimento nelle carceri di Miami. Solo un economicismo miope o un antimperialismo sloganistico possono spiegare quell’intervento USA soltanto con l’interesse americano al controllo del Canale. Troppo sfugge a queste analisi riduttive. Né più credibili possono risultare le interpretazioni di tipo psicologico, che pure qualche commentatore ha proposto, e cioè che Bush soffrirebbe di “delirio di potenza” o di profondo risentimento personale nei confronti del suo servitore fellone. La complessificazione della società non lascia spazio a simili semplificazioni. Ben più convincente appare l’ipotesi di un’aspirazione al Governo mondiale, con esemplari azioni di polizia internazionale, attuate in prima persona dagli USA proprio perché, nella divisione planetaria dei ruoli, a loro è rimasto l’indiscusso predominio poliziesco-militare, non più contesogli dall’URSS, mentre la prevalenza economica, nella società della riproduzione costante e reiterata, è ormai appannaggio di altri paesi come la Germania o il Giappone.

Un ragionamento analogo vale per il sanguinoso contenzioso con Saddam Hussein e l’Iraq, causa della guerra appena svoltasi. È indiscutibile che Saddam, impadronendosi del Kuwait, si impadroniva soprattutto delle risorse petrolifere che lì si trovano. Così avrebbe avuto – a parte il “risarcimento” per le spese sostenute in otto anni di guerra all’Iran – un maggior potere di contrattazione sul prezzo del greggio e, dunque, di ricatto sia nei confronti dell’OPEC, sia delle economie occidentali. Ma bisogna precisare subito, a scanso di equivoci e per sfuggire alla maldestra propaganda sviluppatasi durante la guerra, che la produzione complessiva dei due paesi (Iraq e Kuwait) è nettamente al di sotto del 15% della produzione mondiale di petrolio (i dati sono approssimativi, benché gli “esperti” li diano per sicuri, proprio perché vi sono state e vi sono delle transazioni “in nero”, per esempio per ottenere in cambio forniture belliche), che comunque le risorse dei due paesi – nel senso dei giacimenti e dell’estraibilità del greggio – non giungono ad un terzo delle risorse mondiali complessive [6] e ciò a lunga scadenza; che infine gli USA sono del tutto autosufficienti in quanto a produzione e riserve petrolifere e che, se hanno scelto di acquistare parte del greggio dai paesi del Golfo, è stato precisamente per scelte di economia (in senso stretto) e di politica (in senso lato). Il peso petrolifero di Saddam, dunque, sarebbe stato alquanto relativo comunque, sicché risulta enfatico ed inesatto definire questa guerra solo o principalmente come una “guerra del petrolio”. D’altra parte, anche in questo caso vale il ragionamento sviluppato prima per Panama. Gli USA, i paesi occidentali ecc. non avrebbero avuto nessuna difficoltà nell’accordarsi con Saddam Hussein, tanto più che vi si erano accordati a lungo per il traffico di armi ed i finanziamenti quando i timori di “destabilizzazione” per l’Occidente venivano soprattutto dall’“incontrollabile” Iran khomeinista e, dunque, il “laico” Saddam sembrava, da un lato, una difesa “occidentalizzata” contro il dilagare dell’integralismo islamico e, dall’altro, il “garante” rispetto alle mire espansionistiche siriane, data l’inimicizia esistente fra i governi dei due paesi. Si è dispiegato così un vertiginoso balletto di alleanze, di soldi, di armi, di petrolio, di ideologie nel quale sono stati coinvolti tutti, nessuno escluso. Per fare un esempio significativo, l’URSS non ha esitato mai nel fornire armi, aiuti e “consiglieri militari” tanto all’Iraq quanto alla Siria!

Esaminata sotto la luce riduttiva dell’economia, la guerra avvenuta pare del tutto demenziale, incomprensibile, quasi impossibile. Eppure c’è stata. Né, al di là delle chiacchiere sul diritto e la legalità internazionali, si può sostenere seriamente che agli USA importasse davvero la sorte dei regnanti del Kuwait, alleati fedeli sì, ma impresentabili con le loro satrapiche ricchezze, con il loro uso assai disinvolto della “democrazia”, ininfluenti da tutti i punti di vista (come si è detto, il petrolio kuwaitiano non è tale da modificare gli equilibri mondiali e, in specie, quelli dei paesi sviluppati, né le ricchezze accumulate dal clan dell’emiro potevano interessare altri se non i banchieri rampanti o i commercianti all’ingrosso o al dettaglio o i rapinatori di strada come Saddam). Né vale molto l’argomentazione avanzata da taluni “autorevoli commentatori” e cioè che la potenza militare irachena – del tutto sovrastimata e gonfiata ad arte, come i fatti hanno dimostrato – avrebbe messo in particolare pericolo la sicurezza dello Stato di Israele, da sempre figliolo prediletto degli USA (e delle potenti lobbies americane e internazionali) che gli hanno dato via libera per ogni sorta di scorreria, di manbassa, di annessionismo o di massacro e che, non a caso, in questa occasione si è lasciato prudere le mani, sfogandosi “solo” con i Palestinesi dei Territori occupati e delegando alla polizia internazionale i còmpiti che normalmente si era assunto in prima persona e con notevole efficacia. In realtà, la forza militare irachena poteva preoccupare Israele abbastanza poco, data la maggior potenza bellica (e nucleare) israeliana e in considerazione della sua fitta rete di appoggi internazionali. Tutto ciò avrebbe dissuaso in anticipo l’Iraq dallo sferrare un attacco diretto ad Israele, né se ne sarebbero viste le peculiari ragioni [7]: infatti gli iracheni hanno lanciato i vecchi Scud solo quando si sono visti con le spalle al muro e nella mal riposta speranza di dividere la “coalizione” almeno nei suoi elementi arabi. In ogni caso, Israele, nella sua politica di egemonia militare e strategica nel Medio Oriente, può preoccuparsi anche per la forza egiziana o per quella siriana, in costante incremento, eppure sia Mubarak che Assad hanno partecipato alla “coalizione”, dunque alleati con gli USA e quindi di fatto con Israele.

Nondimeno la guerra c’è stata e si è, provvisoriamente, conclusa con l’assai prevedibile massacro, soprattutto degli iracheni. Quindi il suo senso, il suo scopo, va ricercato altrove, in altre necessità, in altri progetti, e così si ritorna obbligatoriamente al concetto ed alla pratica dell’operazione di polizia internazionale, che peraltro viene confermata dalla mantenuta presenza (per mesi? per anni?) delle truppe americane a sud di Bassora, in Iraq, e dall’esplicita affermazione: “Non ci ritireremo sinché non avremo completato il ‘lavoro’ che ci siamo ripromessi”.

D’altra parte l’amministrazione statunitense, e Bush in prima persona, non hanno mai fatto mistero del loro fine reale ed anzi lo hanno ribadito ripetutamente. Per essere più precisi: dell’intrecciarsi di vari fini, tutti riconducibili ad unico progetto planetario. Dunque, anzitutto che in questo conflitto era in gioco l’ipotesi e la materialità del Nuovo Ordine Mondiale, con una ridefinizione complessiva degli assetti territoriali e delle sfere di influenza che, oggi, non possono più venir spartite ma devono ricondursi ad un unico Governo del mondo; in secondo luogo, che gli USA si sono candidati esplicitamente e prepotentemente a questa funzione di governo, perché ormai sono i soli in grado di poterla svolgere, mentre i partner devono fungere da supporto, principalmente nelle loro singole zone, e, quando ricchi, da finanziatori, viste le altissime spese che una simile organizzazione e presenza mondiale comportano; infine, che lo status quo internazionale va mantenuto ad ogni costo e che, quindi, ciascuna modificazione locale o regionale potrà venir accettata solo se patteggiata previamente e consentita dal governo mondiale (è qui evidente l’ammonimento nei confronti di tutte le velleità indipendentistiche, nazionalistiche o integraliste religiose; l’ipotesi di un sovvertimento sociale radicale non viene naturalmente neppure presa in considerazione: è già còmpito dei singoli Stati impedire che esso avvenga ed un intervento sovranazionale sarebbe pensabile solo nel caso che le forze locali risultassero insufficienti o incapaci).

Appare chiaro il progetto: che si formi realmente un governo mondiale, frutto anche di alleanze e di accordi per mutui vantaggi ma comunque sotto l’egida degli Stati Uniti, che questo governo detti delle leggi, si occupi della loro applicazione, solleciti o estorca un consenso generalizzato e, nel caso di opposizioni, rivolte o contenziosi particolari, intervenga per l’appunto con operazioni di polizia [8]. Né più né meno di ciò che è avvenuto ed avviene in ogni singolo Stato: stabilite le leggi (meglio se “democraticamente”, vale a dire decise dai detentori dei poteri con l’esplicito e formale accordo dei cittadini), costituite le “forze dell’ordine”, ogni trasgressore, sia esso individuo o gruppo politico o sociale, viene punito in nome della legge ed alla bisogna (uccisione, cattura, detenzione) provvedono le forze di polizia e quelle ad esse collegate, dai magistrati ai secondini. (Non è per mero delirio megalomaniaco, né per tronfia e smodata esibizione da vincitori che alcuni hanno proposto un processo internazionale per i vinti iracheni, Saddam in testa. È invece per l’affermazione definitiva di leggi e regole internazionali. Va da sé che il concetto stesso di “crimine di guerra” è estremamente labile, poiché la guerra di per sé è un crimine anti-umano, e dunque esso viene sancito solo con la forza dai vincitori. Quanto a me, non dubito affatto che gli iracheni abbiano torturato ed ammazzato, come peraltro si erano addestrati con i curdi e gli oppositori interni, ma purtroppo questa è pratica costante anche nei più remoti commissariati di polizia! Né mi risulta che sia stato mai istituito un processo stile Norimberga per chi, nella II Guerra Mondiale, decise ed attuò il bombardamento-massacro di Dresda o lo sganciamento delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Il crimine di guerra, oltre a stare nel ventre stesso della guerra, risponde agli stessi criteri con cui, in pace, vengono definiti i crimini: secondo la logica di chi detiene il potere ed intende mantenerlo).

La novità storica, per così dire, consiste nel fatto che quello schema semplicissimo, collaudato ed efficace nel mantenere l’ordine nei singoli paesi o in alcune regioni, ora lo si vuole applicare su scala planetaria.

Il dominio del capitale, autonomizzandosi sempre più dalla produzione e proponendosi come riproduzione infinita di sé e dei suoi” oggetti”, uomini compresi, tende a caratterizzarsi come Ordine Mondiale. L’“utopia del capitale”, il sogno cioè di eternizzarsi e di sostituire la natura stessa, raggiunge così il suo punto più elevato: è un ordine in sé e per sé – la sua forma predominante è la democrazia formale – che sussume e regola l’esistenza degli uomini, la natura, l’economia stessa.

Nonostante l’enfatica riproposizione, un po’ ovunque, di teorie “neoliberali” o “neoliberiste”, in realtà sta avvenendo esattamente l’opposto. Non è il “libero mercato” (dei beni durevoli e non durevoli – di consumo – e della stessa forza lavoro), non è la legge del valore, bronzea o aurea, a determinare gli assetti sociali, economici e politico-istituzionali, ma, al contrario, è l’Ordine, nella forma Stato, nazionale o sovranazionale, ad imporre il mercato, a stabilire il valore, a determinare le regole dello scambio fondandosi sempre più sull’immaterialità dei beni e sullo spettacolo dei bisogni. Questa autonomizzazione del capitale dai suoi stessi fondamenti altro non è se non il risultato di un processo di “sviluppo” che ha toccato il suo apogeo e che ora si fissa nei meccanismi della riproduzione. Garantiti dalle armi e dalle polizie [9].

Si potrebbe obiettare che questo sviluppo non ha coinvolto l’intero pianeta e che, anzi, vi sono zone spossessate in cui la miseria è addirittura crescente e che potrebbero o dovrebbero venir “colonizzate” e “civilizzate” dal capitale e dal suo modo di produzione, con il corollario di una “democrazia” più o meno controllata. Nulla di più inesatto, dal punto di vista delle esigenze globali del capitale. Infatti, il sistema capitalistico mondiale vive proprio su queste differenziazioni, vive, cioè, amministrando i dislivelli che la sua progressione di sviluppo ha accentuato o addirittura determinato. Fatte sue le acute analisi di Rosa Luxemburg – che vedeva inevitabile un crollo, o un’implosione, quando l’intero territorio mondiale fosse stato capitalistizzato e dunque senza più settori sociali o geografici in cui “incassare” il plusvalore estorto – non tende ad una omogeneizzazione dei mercati, che comporterebbe un’irresistibile tendenza alla saturazione e, appunto, all’implosione, né allo sviluppo indefinito ed allargato della produzione – che condurrebbe a letali crisi di sovrapproduzione non risolvibili né nella maniera classica, vale a dire con la guerra come argine alla sovraproduzione, né con quella più moderna dell’aumento delle merci di consumo pressoché immediato (infatti lo sviluppo della produzione porterebbe proprio ad un surplus produttivo di queste merci che risulterebbero sovrabbondanti rispetto ai margini dell’assorbimento) – né, infine, alla “capitalistizzazione” del mondo, nel senso di creare in ogni zona geografica un polo capitalista simile e dunque concorrente, ciò che in passato determinò le guerre interimperialiste. All’opposto, tende all’assolutizzazione dei dislivelli creatisi, per consentire la loro regolamentazione attraverso l’Ordine ed il Governo mondiali, alla diminuzione progressiva della produzione in senso proprio, all’allargamento indefinito della riproduzione.

La crescita esponenziale della microelettronica, della telematica, della cibernetica ecc. indica bene tale tendenza: queste nuove tecnologie vengono applicate alla produzione di beni materiali solo in misura ridotta (naturalmente rispetto alla loro quantità complessiva); la gran parte viene destinata ai beni immateriali, siano essi l’amministrazione, lo spettacolo, i servizi o la guerra stessa – tragico crocevia tra beni materiali e beni immateriali! L’industria informatica, che sta vivendo un periodo di riflusso proprio a causa di una sovraproduzione, in fronte alla massa di investimenti compiuti, riceverà sicuramente nuovo impulso dalla guerra del Golfo, dove tutto è stato “tecnologico”, uomini compresi (e compresi quei poveracci di prigionieri iracheni, di cui ci hanno mostrato le immagini mentre baciavano la mano del marine o si gettavano come cani affamati su un pezzo di pane lanciatogli; può sembrare cinico, ma essi sono esistiti sulla scena mondiale solo perché potessero venire diffuse queste immagini, solo come materia prima e vivente dello spettacolo e, dunque, sono anch’essi “tecnologici”).

Questo quadro, che è già presente e che si determinerà vieppiù con il tempo, è assai preoccupante epperò realistico. Non solo indica il raggiungimento di un livello superiore del dominio reale del capitale, ma ci dimostra come certe analisi, definite “anarchiche” o “acrata” o semplicemente “antiautoritarie”, siano state gettate dalla finestra troppo frettolosamente. Si vede, infatti, che l’autorità oppressiva dello Stato, o del Sovrastato, anziché attenuarsi, “democratizzarsi”, tende a rafforzarsi su scala planetaria; si vede che lo Stato, e l’Ordine Mondiale, non è semplicemente un comitato d’affari di capitalisti associati ma tende ad esprimere la volontà, l’interesse, il senso del capitale nella sua complessa interezza: ci sono, naturalmente, bande fra loro rivali, che possono arrivare anche a scontrarsi, ma tutte perseguono il medesimo fine ed attraverso lo stesso mezzo, cioè il controllo statale; si vede, infine, che la democrazia, se per certi versi è realmente l’“involucro” della società più utilizzabile dai rivoluzionari – come sosteneva Lenin –, di fatto è sicuramente la forma di gestione più propria al capitale, né peraltro esclude la barbarie o la compresenza di regimi dispotici, purché inseriti nell’Ordine Mondiale e ad esso allineati.

Con tutto il disprezzo che si deve nutrire per un Saddam Hussein, massacratore del suo stesso popolo, non si può evitare di vederlo come una vittima annunciata e designata di questa ambiziosa ipotesi di Nuovo Ordine Mondiale. Come un allocco, è caduto nella trappola che gli era stata tesa da tempo. Il Nuovo Ordine doveva manifestarsi, inaugurarsi in qualche modo e l’operazione di polizia doveva essere esemplare – letteralmente: funzionare da esempio e monito per tutti. Se i governanti sionisti di Israele, pur con tutte le protezioni di cui godono, hanno sempre cercato di non “eccedere” nelle loro ambizioni, se gli integralisti islamici dell’Iran, pur con il sostegno di grandi masse popolari drogate, hanno saputo “limitarsi”, cioè accettare i limiti imposti loro come sfera d’influenza, Saddam Hussein ha infranto delle regole non scritte ma esplicite. In certo senso, ha morso la mano del padrone, come, assai più in piccolo, a suo tempo aveva fatto Noriega. Non ha capito, insomma, che un conflitto simile doveva succedere, per esemplificare concretamente il senso e le modalità di questo Nuovo Ordine Mondiale, la funzione di polizia planetaria degli USA, attaccati economicamente ai fianchi dalle “anomalie” tedesca e giapponese, e per sottolineare l’integrazione tra tutti i paesi ed in primo luogo con quelli dell’Est [10]. Poteva non capitare a lui e probabilmente pensava di avere sufficienti margini di riconoscenza da riscuotere e, dunque, di poterla far franca (basti pensare al suo colloquio con l’ambasciatrice americana a Baghdad pochi giorni prima dell’invasione del Kuwait – ed ampiamente riportato da tutti i media internazionali – che sembrava quasi autorizzarlo all’annessione dell’emirato, a dargli la green light). Ma una serie di fattori, al di là della sua azione militare e del suo tipo di governo, che possiamo definire come quasi occasionali o congiunturali, lo hanno reso l’esempio da dare, per eccellenza. Gli è andata male, addirittura assai peggio del previsto, ma di sicuro non c’è alcun sovversivo che se ne duole.

Ma se è eticamente ed umanamente doveroso ribellarsi alla guerra, a tutte le guerre, ed a questa appena conclusasi, è ancor più necessario pensare seriamente a quello che viene definito il dopoguerra, cioè a come opporsi a questo Nuovo Ordine Mondiale, a queste polizie nazionali ed internazionali, a questo dominio “democraticamente” totalitario sulle nostre vite [11].

Se questa macchina sovranazionale non viene inceppata in più punti, se non vengono rimessi in discussione, e praticamente, i fondamenti stessi del potere, avremo una lunga stagione buia, in cui ogni lotta di liberazione e di emancipazione dal capitale e dallo Stato sarà offuscata, e su cui risplenderà soltanto il sole artificiale dello spettacolo, dolciastro, rassicurante o terrifico a seconda delle esigenze dei registi.


Torino, marzo 1991

Etiam minima

Sappiate che chi governa a caso si
ritrova alla fine a capo; la diritta è
pensare, esaminare, considerare ogni
cosa etiam minima; e vivendo ancora così
si conducono con fatica bene le cose;
pensate come vanno a chi si lascia
portare dal corso dell’acqua.

(Francesco Guicciardini, Ricordi politici e civili)
Gli uomini prima sentono senza
avvertire, dappoi avvertiscono con animo
perturbato e commosso, finalmente
riflettono con mente pura.

Gian Battista Vico, Scienza Nuova
Desert storm (und drang)

Il linguaggio a volte predice i fatti, li annuncia, apre uno spiraglio in cui l’interpretazione corretta può incunearsi; spesso i fatti, nella loro brutale oggettività, condizionano o addirittura determinano il linguaggio, nella volontà di inverarlo. Càpitano però dei lapsus o dei “qui pro quo” o delle vere e proprie autodenunce. I fatti denunciano il linguaggio che, a sua volta, si vendica: denunciando prima le intenzioni, poi i fatti. Quasi sempre questo duplice processo svela delle verità nascoste, magari inconfessabili. O, viceversa, che si vogliono confessare, ma soltanto attraverso un linguaggio criptico, da interpretarsi o comunque in codice.

L’operazione di guerra, o di polizia internazionale, voluta dalla coalizione multinazionale anti-Iraq è stata definita dagli americani, suoi principali conduttori, prima come Desert Shield, cioè “Scudo del/nel deserto”, onde enfatizzare la difesa dell’Arabia Saudita presumibilmente minacciata da Saddam, ma poco dopo Desert Storm, nome che è rimasto definitivo e che significa “Tempesta nel/del deserto”.

Il termine Storm rievoca connotazioni epiche, eroiche, neoromantiche, e non si usa a caso quest’ultimo attributo. Storm, infatti, è l’equivalente anglosassone del germanico Sturm, ed appunto “tempesta ed impeto”, cioè Sturm und Drang, fu come si chiamò – dal titolo di un dramma di Maximilian Klinger del 1776 – quel movimento politico, letterario, filosofico che storicamente va sotto il nome di Romanticismo.

Ma quale tempesta è stata quella prima annunciata, anzi esaltata, e poi praticata in questo caso? Non certo quella metaforica dei sentimenti né quella reale ad opera della natura. Una tempesta di bombe micidiali, di tonnellate e tonnellate di esplosivo, di napalm, di bombe “aerosol” (che non sturano i nasi costipati ma distruggono gli esseri viventi), di colpi di ogni tipo di arma da fuoco, di tecnologie “sofisticate”. Una tempesta di morte e di morti.

Va da sé che difficilmente qualcuno avrebbe potuto esibire la sfrontatezza, che peraltro non è mancata a nessuno dei contendenti, di definire l’operazione come “Massacro nel deserto” o, realisticamente, “Sterminio del deserto, del Golfo, delle città”. I riferimenti epici sono stati d’obbligo. Sia per intimorire il nemico, sia per ringalluzzire le proprie truppe, sia per eccitare la fantasia degli spettatori. Ma nel nome/codice imposto a questa operazione bellica vi sono due elementi che forse è utile sottolineare per comprendere meglio le suggestioni mediatiche offerte.

Il primo è l’evocazione di un fenomeno naturale, come la tempesta, che, anche quando viene dilatato in senso metaforico (per esempio, la tempesta dei sensi, delle passioni ecc.), intende sempre evidenziare la naturalità del fenomeno stesso o, per lo meno, una sua sussunzione per analogia ai criteri della naturalità. Una tempesta può essere terrifica e terribile, in specie per chi la subisce, ma anche per uno spettatore distante, e nondimeno mantiene una sua grandezza, la maestosità del “sublime” e l’ineluttabile forza della natura. Chi scatena la tempesta è in qualche modo la divinità (Zeus, Jahvé, Dio o, positivisticamente, la Natura). Nell’immaginario collettivo accumulato e storicizzatosi, per lo più la tempesta colpisce i reprobi, si tratti dell’umanità tutta, come nel Diluvio Universale, o di una sua porzione particolare, come per l’annichilimento di Sodoma e Gomorra (tempesta di fuoco). Soprattutto nella tradizione giudeocristiana, la Tempesta assume connotazioni di Vendetta, ovviamente giusta, da parte della divinità offesa che si scatena, attraverso la natura che è in suo totale potere, contro chi si è permesso di offenderla.

Dunque è emblematico che la Potenza, cioè gli Stati Uniti, abbia scelto questo termine per designare una violentissima offensiva di guerra che, non a caso, proveniva soprattutto dal cielo (il dominio dei cieli, oltre che fondamentale nelle guerre moderne, ha una forte valenza simbolica). Ma vi è anche una rimarchevole autoconfessione nell’uso di una simile formula. La Superpotenza ambisce al ruolo della divinità, ancorché materialistica e terrena, con tutti i poteri che ad essa le religioni hanno sempre attribuito, primo fra tutti quello di giudicare e punire. Non solo, ma la Potenza, in quanto terrena, è di per sé storica, è la divinità calata nella storia, e dunque esprime al massimo grado la realtà esistente, cioè la società esistente, dunque la società del capitale, dello spettacolo, dei poteri separati ed integrati. Questa esistenza viene proposta come di per sé naturale, la natura contemporanea, da cui consegue, o deve conseguirne, che anche le sue espressioni estreme, come le guerre, rientrano nell’ambito della naturalità, al pari del lavoro, della proprietà ecc. Non per nulla, riguardo a questa guerra, molti hanno parlato di “inevitabilità”. Esattamente come succede per i fenomeni naturali.

Il secondo elemento riguarda il termine “deserto”. Cioè è nel deserto che si è scatenata, si scatena o si scatenerà la tempesta. Il deserto è, per definizione, “grande estensione di terreno arido, disabitato, incolto”. Quindi i rischi per la vita umana, animale e vegetale, sono minimi anche in caso di tempesta-guerra. Possono venir colpiti solo coloro che insensatamente e soprattutto ingiustamente vi si sono avventurati. Il deserto, inoltre, suscita fantasie esotiche ed “avventurose”, forti soprattutto nella cultura anglosassone. Traversate rischiose, oasi, cammelli, beduini, tè nel deserto, Lawrence d’Arabia e via fantasticando. Questo specifico e concreto deserto, in verità, si è dimostrato sovraffollato come il centro di una metropoli nelle ore di punta e, soprattutto, schizzava e schizza “oro nero” da tutti i suoi pori; ma che importanza ha? In questo modo l’immagine offerta (il deserto) tende a dissimulare nella pubblica immaginazione teleguidata la realtà indiscutibile: che la tempesta neobiblica, di fuoco e di ferro, si è scatenata soprattutto sulle città irachene, tutt’altro che “deserte”. Il deserto, fisicamente reale, offre inoltre un ulteriore vantaggio, in quanto immagine per il consumo occidentale. È un altrove, qualcosa che non ci riguarda se non rappresentato al cinema o sullo scenario della fantasia; perciò è in qualche modo rassicurante che sia lì (magari manco esiste se non in TV o negli studios cinematografici!) e non qui che scoppi la tempesta o, per gli italiani, che vi si scatenino i Tornado.

Dunque, il messaggio lanciato, e neppure troppo a livello subliminale o sofisticatamente, è stato pressappoco questo: “La guerra è un fenomeno naturale, come la tempesta; noi, moderna divinità e seconda natura, abbiamo la potenza di determinarlo volontariamente e, va da sé, come forma di giusta punizione; in ogni caso ciò avviene nel deserto, dove tutte le avventure sono immaginabili e, soprattutto, dove non c’è vita o ve n’è pochissima”. Che i fatti smentiscano completamente la veridicità del messaggio, è sotto gli occhi di tutti, ma ciò nulla toglie alla sua forza di penetrazione ideologica e mediatica. Anzi, la falsità del messaggio diventa una seconda verità, vale a dire una verità a sé stante, che si autodimostra. Il lapsus o la menzogna sono tali soltanto per chi li coglie; altrimenti è il linguaggio a coprire i fatti e non questi a denunciare quello.

Per rimanere nel tema della decifrazione, di certo non è per caso che i missili difensivi, cioè antimissile, utilizzati in questa guerra, ma ovviamente progettati e costruiti con anni d’anticipo, vengano enfaticamente chiamati Patriots – secondo il loro nome di battesimo e il messaggio ideologico che esprimono. Sono i moderni patrioti tecnologici. Difendono la patria. Ma, al tempo stesso, ne dilatano ed elasticizzano immensamente i confini, proprio mentre si assiste all’oggettiva caduta della nazione, concetto ed ambizione che, come briciole rafferme, vengono lasciati in pasto agli ultimi della storia, inghiottiti dallo Stato, dagli Stati, dalla coalizione interstatale.

I Patriots, infatti, merci belliche quali sono, fabbricate per ora negli USA (ma è più che prevedibile il loro successo generalizzato), sono patrioti per tutte le bandiere. Potevano difendere gli USA, e non ce n’è mai stata ragione; hanno difeso (un po’ maluccio, ma tant’é: anche i patrioti hanno le loro debolezze) l’Arabia Saudita e Israele; un giorno potrebbero difendere la Siria, come avrebbero potuto difendere lo stesso Iraq, qualora fosse rimasto uno Stato “alleato”.

Altro che le vecchie canzoni rivoluzionarie che recitavano: “Nostra patria è il mondo intero, nostra legge la libertà... ”! È il Nuovo Ordine Mondiale che sta ridefinendo la patria: tutta la parte del pianeta sotto il controllo del suo Governo. E la libertà è quella garantita dai Patriots.

L’anima della comunità

Secondo Hobbes, nel Leviatano, lo Stato è una sorta di “anima della comunità”, che in certo modo risponde solo di se stessa ed a se stessa e dunque lo Stato, inglobando in sé ogni autorità, è libero da qualsiasi vincolo.

L’assolutismo hobbesiano è stato successivamente corretto, se così si può dire, da altri filosofi della politica e soprattutto dalle modificazioni intervenute nelle forme di organizzazione statuale. Tuttavia questa pretesa di essere “anima della comunità”, quindi indipendente dal corpo sociale e superiore ad esso, mi ritorna in mente davanti al modo di autorappresentarsi della “democrazia” come valore in sé, avulso dai suoi possibili contenuti reali e come modello statuale non perfetto, ma ineludibile.

Durante la guerra del Golfo Persico, da più parti si è sostenuto che sono stati messi in gioco, difesi e riaffermati i valori fondamentali della democrazia. Da questa impostazione sono derivate alcune conseguenze ideologico-linguistiche ed altre ideologico-politiche.

Fra le prime spicca per ossessività il modo in cui tutti, accanto al nome di Saddam Hussein, abbiano sentito il dovere di unirvi l’attributo di “dittatore”, di “despota” e similari. Ciò è verissimo, odioso ed indiscutibile: Saddam ha sempre avuto tendenze e propensioni dittatoriali e dispotiche, sin da quando (1968) il partito Baas ha preso il potere in Iraq, che si sono accresciute a dismisura tra il 1975 e il 1980 quando ha praticato la liquidazione dei curdi e dei comunisti iracheni e che è sfociata (1980) nella guerra di aggressione all’Iran. Eppure per tutto questo non breve periodo è stato coccolato, foraggiato ed armato alternativamente, e spesso simultaneamente, dall’Occidente e dall’URSS. Lo si è scoperto dittatore – cosa che non aveva mai smesso di essere – quando è divenuto nemico e quando, dunque, l’“anima della comunità” (la democrazia) doveva affermarsi e valorizzarsi per differenziazione: contro la dittatura non c’è altro che la democrazia, argine verso gli abusi ed unico progetto umano. Né, nella sfrenatezza ideologico-propagandistica, è importato troppo rilevare che né il Kuwait invaso né l’Arabia Saudita minacciata potevano o possono dirsi Stati democratici, secondo l’accezione corrente. Il carattere monarchico di quegli Stati permette tuttavia qualche margine di equivoco. Cosa impossibile però, per esempio, per l’alleato Assad di Siria, anch’egli capo di un partito unico al governo, o per il cinese Deng – ed il massacro della Tian An Men è scolpito nella memoria di tutti – a cui sono stati richiesti consensi per operare sotto l’apparente egida delle Nazioni Unite. In questi casi si parla di “premier”, di “capi di Stato”, di “leader”. L’imbroglio linguistico lascia trasparire la truffa ideologica. Ne consegue con evidenza che la Democrazia – e la maiuscola è d’obbligo trattandosi di un regime – è assai elastica e disinvolta nel trattare amici e nemici, avendo riverniciato, riammodernato e “democraticizzato” le famose tesi di Carl Schmitt sulla dualità/opposizione fra amico e nemico, rendendole congrue all’immagine di unanimismo che si vuole diffondere, pur conservando la natura di dualità necessaria all’esistenza degli Stati.

Fra le seconde, vale la pena di rimarcare lo sforzo di moltissimi commentatori, anche “di sinistra” (quelli cioè che cercano di darsi una miserevole credibilità proponendosi come filopalestinesi), per evidenziare e riaffermare che l’unica democrazia in Medio Oriente è rappresentata da Israele, dove si svolgono “libere elezioni” (benché su questa libertà ci sarebbe assai da discutere), cosa che non può dirsi per la maggioranza dei paesi limitrofi. Questo li conduce ad esprimere una solidarietà quasi incondizionata allo Stato di Israele, nonostante l’arroganza ideologico-autocratica del sionismo e le costanti violenze sugli “altri”, che ben pochi osano negare apertamente, limitandosi semmai a “dissociarsi” dal suo governo. Come dire: quello Stato è l’unica realtà democratica, cioè positiva, nella zona e dunque va difesa ed appoggiata, anche se la politica del suo governo è per molti versi discutibile o riprovevole. La democrazia, pertanto, si autonomizza da qualsiasi contenuto, si autoinvera formalisticamente, rimane estranea alle pratiche sociali, e superiore ad esse, sussume al “metodo” qualsiasi fine. (È facile ironizzare sul fatto che gli stessi Hitler e Mussolini parteciparono con buon successo ad elezioni democratiche, pur essendo “in potenza” quei dittatori che poi furono “in atto”, e negli atti!).

In realtà, il problema non risiede nel formalismo democratico, ma piuttosto nell’ideologia che vi è accresciuta, nella concezione predominante ed autoritativa di democrazia, nell’uso che se ne fa.

In quanto a me, non nego che nella guerra del Golfo, fra gli altri, siano stati in gioco gli interessi ed i valori della Democrazia, ma è, per l’appunto, questa democrazia che mi atterrisce.

Se, dal punto di vista etimologico, il concetto di democrazia, cioè di governo del popolo, può conservare qualche fascino (ancorché assai dubbio poiché non ci si trova più nelle condizioni della polis greca ed il popolo risulta oggi qualcosa di indefinito ed indistinto, mentre l’unica democrazia effettiva è quella delle merci), è del tutto evidente che qui, ora, si sta trattando di un fenomeno che poco ha da spartire con la sua origine storica ed etimologica, di un modello di organizzazione politico-sociale che molto ha che vedere con il governo, quasi nulla con il popolo, se non come massa di spettatori manipolati e manipolabili.

Per democrazia ormai si intende un regime in cui periodicamente vengono indette “libere” elezioni, a cui partecipa una certa quantità di cittadini aventi diritto al voto, e che nei paesi “evoluti” è sempre più bassa, sicché il meccanismo delegatario non consiste soltanto nel voto stesso (che è comunque una delega ad altri) ma soprattutto in quella subdelega che viene data ai votanti, per quanto pochi essi siano. A queste elezioni concorrono partiti apparentemente diversi tra di loro, in rappresentanza di distinte ideologie o di gruppi sociali con interessi differenti, ma con la medesima aspirazione, quella del controllo e dell’amministrazione dello Stato esistente.

Una critica della democrazia formale è così facile che me ne astengo, tanto più che è stata sviluppata assai bene dai (pochi) teorici rivoluzionari esistiti o esistenti. Così come mi astengo dall’analizzare diffusamente, per la sua manifesta evidenza ed immediata comprensione da parte di chiunque non sia troppo intossicato, il fatto che laddove non esista un’effettiva eguaglianza di condizioni (economiche, di potere reale sulla propria vita, culturali, sessuali ecc.) la democrazia risulta essere una mera forma, gestibile ed utilizzabile da chi possiede più strumenti e mezzi, una rappresentazione capovolta dei rapporti sociali, interindividuali e collettivi. Non è un caso, pertanto, che il personale politico sia essenzialmente sempre lo stesso, con alcuni ricambi interni, e che il peso dei vari gruppi di potere economico, ideologico, gestionale ecc. sia davvero pesante; e sempre maggiore nella società spettacolare e mediatica contemporanea, dove la comunicazione reale diviene sempre più “clandestina” o “privata”, attaccata da ogni lato dall’informazione/disinformazione pubblicamente gestita.

Quello che invece mi preme sottolineare qui è come la Democrazia si proponga come terreno di non ritorno, insuperabile, l’espressione della “parte razionale dell’uomo”, l’anima della comunità esistente, come la dittatura del presente. Con un’arroganza totalitaria che neppure lo Zar di tutte le Russie o l’Imperatore austro-ungarico avrebbero osato esibire. Il crollo dei regimi stalinisti, e sedicenti “comunisti”, nell’Est dell’Europa e la loro conseguente “democratizzazione” (cioè omologazione ed integrazione) rafforza la pretesa assolutista della Democrazia che può tollerare al suo interno le differenze più evidenti purché venga rigorosamente esclusa la possibilità di ciascuno di determinare da sé solo la sua propria esistenza.

Ovviamente, la Democrazia si propone come forma; il suo contenuto, cioè il suo contenuto sociale, risiede altrove: nei rapporti capitalistici, nell’autorità dello Stato, nella riproduzione costante ed accelerata dello spettacolo. La democrazia è democratica per tautologica definizione, è la forma migliore (seppur imperfetta, come si affrettano a sottolineare i “pensatori” più scrupolosi) di organizzazione societaria ed umana. È di per sé etica. Perciò va imposta con qualsiasi mezzo, com’è stato per il modello di civilizzazione occidentale. Né i mezzi le mancano.

Fuori dalle “regole del gioco democratico” c’è solo, all’esterno, la barbarie ed il fanatismo e, all’interno, la sovversione, il terrorismo, la demenza, la delinquenza, la follia.

La Democrazia, pertanto, è la forma dello spettacolo al suo più alto grado di concentrazione e, nel contempo, di diffusione capillare. È la democrazia delle merci, più ancora che quella del lavoro. È il diritto di cittadinanza nel mondo della società del capitale che, integrandosi a livello planetario e pianificando le differenziazioni, esprime una volontà di eternizzarsi assolutamente sconosciuta dalle forme di produzione e riproduzione precedenti.

Oggi, ad ipotizzare organizzazioni societarie diverse da quella cosiddetta democratica e fondanti un’effettiva comunità umana, si passa, se va bene, per utopisti o sognatori e, se va male, per provocatori o terroristi.

La merce ideologica denominata democrazia deve venir esportata ovunque e dovunque sotto le regole flessibili dello spettacolo, oltre che sotto quelle rigide del capitale. Il totalitarismo ideologico raggiunge così il suo apogeo. Di fronte alla crisi di tutti i valori, due si presentano come fondamentali ed ineludibili: lo Stato e la Democrazia. Il capitale ne è la base materiale; lo spettacolo li rappresenta tutti.

La guerra è un mezzo. Non poi così estremo come si è voluto far credere. È pur vero che la guerra del Golfo ha raggiunto livelli di intensità sinora ignoti – rispetto al breve lasso di tempo – ma è altresì vero che le guerre striscianti, magari locali, hanno permeato di sé la realtà “pacifica” seguita alla fine della seconda Guerra Mondiale e che la corsa agli armamenti ha avuto significative impennate e, soprattutto, un allargamento geografico impensabile soltanto cinquant’anni fa. Vi è dunque anche una democrazia delle merci-armi, ma ciò evidentemente richiede che il cuore della Democrazia, cioè il Governo Mondiale, accresca il suo potere di controllo e di regolamentazione, rivendicando il suo diritto ad essere un’entità separata, autosufficiente, legittimata da se stessa, assoluta, l’anima della comunità.

Tuttavia non è la fine della storia. Semmai è il punto più alto dei conflitti che sono serpeggiati lungo la storia. Ora l’esigenza di vita autentica si preannuncia come alleata solo di se stessa. Oggi l’acrazia comincia a definirsi attraverso il suo negativo.

In hoc signo vinces

In una delle fasi più accese, drammatiche ed incerte del conflitto bellico nel Golfo, il papa della chiesa cattolica definì, con chiari accenti di riprovazione, la guerra come “un’avventura senza ritorno”. Questa formulazione venne assunta quasi come uno stendardo da larga parte del movimento pacifista italiano, bollato così come “papista” dai suoi avversari laici ed interventisti e creando non pochi imbarazzi a quella parte dello schieramento bellicista che era ed è di matrice cattolica e che, appunto, nell’ampio serbatoio cattolico pesca i suoi consensi elettorali.

Partendo dal punto di vista ideologico umanitario-cristiano, il papa voleva evidentemente stigmatizzare il ricorso alla guerra, a qualsiasi guerra. Qui ed ora sarebbe fuori luogo ricordare con vis polemica – pari solo alla memoria storica – come e quanto il cristianesimo abbia usato e benedetto la violenza, contribuendo, direttamente o indirettamente, a tutte le guerre, cercando di darvi addirittura una giustificazione morale, come nella Summa Theologica dove si dice: “...la motivazione dei belligeranti deve essere giusta, vale a dire intesa o a promuovere il bene o ad evitare il male”. È chiaro che questa è una giustificazione di ogni guerra, poiché le forze che si combattono sempre asseriscono di voler promuovere il bene o di evitare il male.

Tuttavia appare chiaro come il pontefice dei cattolici volesse, dall’alto della sua finestra in piazza San Pietro e della sua “autorevolezza” religiosa, mettere in guardia i governanti ed i politici dai rischi della guerra, in specie nell’epoca contemporanea dove l’altissimo livello tecnologico raggiunto scatena un potenziale mortifero non paragonabile con quelli di altre epoche, anche prossime. Il suo sbilanciamento “pacifista” dunque può essere anche apprezzabile “umanamente”, vale a dire secondo una concezione astratta dell’umanità (non per nulla Marx sottolineava beffardamente che i filosofi, i moralisti e i politici parlano e scrivono sempre di “umanità” o dell’“Uomo” e mai degli uomini concreti e storicamente determinati). Nondimeno la genericità e soprattutto l’inesattezza della formula adoperata – avventura senza ritorno – vanno puntualmente criticate specie per le loro conseguenze e, del pari, mostrano la pochezza di chi, pacifista, l’ha sventolata come vessillo e di chi, bellicista, l’ha contrastata proponendo concetti altrettanto astratti quali il “diritto internazionale” o l’autonomia dello Stato (che, in effetti, si autonomizza non solo dalle chiese e dalle morali, ma dai suoi stessi “dipendenti”, pretendendo un’esistenza ed un’eticità assolute. E, concretamente, i governanti si sentono e sono autorizzati ad ogni intrapresa o scelta. Esattamente all’opposto di ciò che sognava Jean-Jacques Rousseau, forse ingenuo ma sicuramente non estremista”, che così descriveva nel suo Contratto sociale il ruolo dei governanti: “Essi non sono i padroni del popolo, ma i suoi ufficiali e il popolo può stabilirli e destituirli quando gli piace. Non è questione per essi di contrattare, ma di obbedire; e incaricandosi delle funzioni che lo Stato impone loro, non fanno che compiere il loro dovere di cittadini, senza avere in alcun modo il diritto di disputare delle condizioni”. Prospettiva terribile per il più infimo dei governanti attuali).

“Avventura senza ritorno”, si è detto. Ma ricorriamo all’ausilio di un dizionario e leggiamo cosa ci dice sotto la voce “avventura”. Esattamente: “vicenda che per il suo carattere di eccezionalità e di singolarità e per l’imprevisto, il rischio o l’incertezza che la sua conclusione comporta, riveste un particolare interesse sia per chi ne è protagonista, come esperienza vissuta, sia per chi ne viene a conoscenza attraverso il racconto e la rappresentazione, come esperienza indiretta”. Se assumiamo questa definizione, possiamo affermare senza tema di smentite che, se mai la guerra è stata un’avventura, di per certo le guerre moderne non lo sono più, e da tempo, e tanto meno lo è stata la guerra anti-Iraq da poco conclusasi. Pur mantenendo un certo carattere di eccezionalità, questa guerra ha limitato al massimo ogni imprevisto ed ogni rischio. E stata una guerra suggerita, annunciata, programmata e manipolata mediaticamente. Il “particolare interesse” per i protagonisti, come per chi ne è venuto a conoscenza, c’è senza dubbio stato, ma anch’esso completamente preventivato e quindi costruito e controllato.

L’avventura possiede un suo fascino; questa “avventura” ha voluto soltanto inchiodare gli attori, i comprimari e gli spettatori in ruoli ben prefissati, monotoni e, soprattutto, già dati in precedenza. Significative sono le lamentele provenienti da più parti: “Ma non si è visto niente!”. In realtà, si è visto tutto quello che c’era da vedere: il visibilmente invisibile. Gli stessi piloti che sganciavano le micidiali bombe “intelligenti”, vedevano solo virtualmente. Gli stessi obiettivi che colpivano erano virtuali, ancorché alla resa dei conti assai concreti.

Perciò attribuire un carattere di avventura, sia pure di segno negativo, alle guerre moderne e neomoderne, per contrapporvi una diversa sicurezza o “certezza” (quella della pace, della fede, del quotidiano ecc.), è un’astuzia intellettuale che si autodenuncia, perché è sotto gli occhi di tutti che in queste guerre non c’è nessuna avventura, nessuna incertezza, se non quelle artificialmente simulate e mostrate tanto spettacolarmente quanto abusivamente (Saddam userà i gas, le armi chimiche, possiede il quarto esercito del mondo, la guerra durerà chissà quanto... ). Nella realtà, tutto viene giocato in anticipo nelle stanze segrete dei vari poteri e, poi, pubblicamente esibito.

Al contrario, l’avventura sta nel decifrare e nello svelare quei misteri, nello smantellamento di quelle stanze, nella distruzione di quei poteri, mentre il resto si ripresenta come programmazione e logica binaria. Né rispetto ad un’“avventura”, che è in realtà assenza di avventura, possono venir proposte quelle sicurezze o certezze che fanno parte dello stesso stock di materiale avariato.

A ciò va aggiunta una considerazione banale. Il gioco sull’avventura (ma non l’avventura del gioco) è un elemento ricorrente nello snodarsi dell’etica del contenimento, se non della repressione, delle passioni umane. Con una duplice valenza: di invito e di castigo, affinché il giusto mezzo appaia come una forma di continenza. La guerra, nell’immaginario individuale e collettivo, può sembrare un’avventura fatta di epicità e di eroismi. Ma si sa che se ne devono pagare i prezzi. Come si sa che si devono pagare altri prezzi se si vogliono evitare i danni che la guerra comporta. Da un lato, quindi, l’adesione soggettiva ad una guerra può sembrare al singolo individuo come un’avventura, come una fuga dalla quotidianità letale, anche a costo della vita. Ed è su questo malformato bisogno, oltre che sull’obbligo imposto (non credo, infatti, che i soldati iracheni pensassero di correre un’avventura, sebbene piuttosto di dover correre e basta), che si fonda in parte l’estorsione del consenso dei soldati. Ma dall’altro lato, i danni inevitabili ed evidenti delle guerre spingono ad accettare ciò che già esiste, con il rifiuto, dunque, di tentare avventure reali, cioè destrutturanti l’esistente.

Ma anche l’asserzione che questa pseudoavventura fosse “senza ritorno” era falsificatoria, come i fatti si sono premurati di dimostrare. Certo, la morte è senza ritorno, e di morti ve ne sono stati moltissimi, molti di più di quelli accreditati dalle versioni ufficiali, peraltro pressoché inesistenti e che hanno brillato per la loro reticenza da entrambi i fronti, per una sorta di tacito accordo. E morti ce ne sono molti nella guerra civile irachena ed è facile affermare che ce ne saranno molti, troppi ancora, nel breve e medio periodo in tutta la zona medio orientale. Ed è anche evidente che nulla può mai tornare alle situazioni precedenti, neppure nelle vite individuali, soprattutto quando sono intervenuti fatti traumatici, com’è nel caso di una guerra. Ma, in questo caso, il “ritorno” in realtà c’è già stato, se si vuole intendere con questo concetto la reversibilità di una situazione che non necessariamente riporta allo statu quo ante, ma che riconduce alla “normalità” relativa, rispetto all’“eccezionalità” prodotta dalla guerra. Bisogna aggiungere, anzi, che questo “ritorno” era stato progettato, programmato e previsto sin dalla “partenza”, almeno dagli strateghi del Nuovo Ordine Mondiale e l’errore fatale di Saddam, ubriacatosi con le immagini di sé e della sua “potenza” che egli stesso produceva e che venivano rinviate come in un labirinto di specchi, e troppo convinto del suo buon diritto a richiedere una tangente ai suoi protettori e fornitori, è stato proprio questo: non aver compreso che il “ritorno” era stato già preventivato e deciso, di modo che le sue minacce anche estreme erano già state calcolate, e si sono sgonfiate come un miserabile bluff. Il “ritorno” significa in concreto il riassetto del Medio Oriente in modo più “giusto”, cioè più compatibile con le esigenze internazionali non più soggette al bipolarismo e quindi con un’adeguata ridefinizione dei ruoli e degli ambiti: potenze, governi, popoli. Saddam stesso potrà salvarsi, ridimensionato, o crollare, ma questo è in fondo irrilevante. Quello che appare certo è che tutte le modificazioni in quella regione dovranno venire controllate: questo il ritorno dall’avventura.

Eccoci al primo punto degno di riflessione: il tono volutamente apocalittico usato dal pontefice, e mantenuto anche in seguito, non solo è stato smentito dai fatti, ma ha contribuito ad oscurare lo scenario reale e quindi ad occultare le cause storiche e materiali della guerra. La guerra, che è un male evidente, è stata interpretata e proposta come un Male astorico, decontestualizzato, le cui cause rimangono per lo meno nebulose e astratte; mentre la pace, che è evidentemente un bene, è divenuto il Bene assoluto, con l’ovvio corollario del rispetto dell’ordine costituito affinché questo bene si conservi. Il richiamo a valori umani generici, indefiniti ma universali (non per nulla “cattolico” etimologicamente vuol dire universale) ha teso a devalorizzare ed a designificare i conflitti reali (tra classi sociali, tra dominanti e dominati, tra economie ed interessi di differenti paesi, etnici ecc.) e ad esaltare la centralità dello spirito religioso, unico messaggio degno, perché trascendente, di sussumere e conciliare ogni contrasto, ciò che restituisce alla Chiesa non solo un potere spirituale sui suoi fedeli, ma anche quello temporale, in quanto unica capace di una politica non contingente, interclassista, internazionale, interrazziale ecc. Ma, in senso laico, l’idea del Nuovo Ordine Mondiale non è poi diversa, anche se i suoi fautori si vedono spesso “costretti” a ricorrere a strumenti bellici, naturalmente per rafforzare ed incrementare la pace. Vi si ritrova la stessa aspirazione ad eternizzare il presente che sicuramente “progredirà”, ma all’interno di un ordine fisso ed immutabile, naturale, politico, sociale o divino che sia. Il papa stesso, nel discorso pasquale Urbi et orbi, ha sottolineato la necessità di un ordine internazionale, però nella giustizia e nel rispetto delle esigenze dei vari popoli (ha citato curdi, palestinesi ecc.).

Il secondo punto di riflessione è per l’appunto questo: la giustizia. Nel momento dell’interruzione del conflitto, il papa ha espresso il suo “sollievo” per il cessate-il-fuoco (di certo un po’ diverso da quello che deve aver provato la gente quotidianamente bombardata, da qualunque parte fosse), ma si è anche reso conto che la difesa della pace come bene assoluto, in sé, non poteva celare l’esistenza dei conflitti e dei contenziosi irrisolti. Ecco dunque la formula della “pace giusta”, con il corollario tautologico “che non può esservi pace se non vi è giustizia”. Com’è per tutte le asserzioni in cui il predicato non fa che ribadire e rafforzare quanto espresso dal soggetto, anche questa possiede un suo fascino e, francamente, non credo che si possa formalmente dissentire. Non si è mai saputo di qualcuno che a priori abbia sostenuto di muoversi per ragioni ingiuste o addirittura di desiderare il trionfo dell’ingiustizia. Ma il concetto di giustizia è relativo, opinabile, legato a specifici interessi. La sola giustizia che si vede concretamente amministrata è quella imposta da chi detiene il potere e che possiede, nel momento dato, la forza materiale (militare, economica, ideologica ecc.) per attuarla. Le leggi locali, il diritto internazionale, la spartizione di territori, la delimitazione di confini, la regolamentazione dei rapporti lavorativi e sociali, ecc. attengono alla giustizia solo ed esclusivamente se intesa in questo preciso senso. D’altronde la stessa giustizia divina è per sua natura imperscrutabile ed inconoscibili sono i suoi fini, per definizione. Sicché neppure il papa può pensare ad una giustizia superiore come parametro e criterio della giustizia terrena, a meno di non voler riproporre un modello di “città di dio” universale, a cui manco il più attivo degli integralisti oserebbe dar credito, se compos sui.

Né chiarisce alcuna questione coniugare, come si fa in simili circostanze, la pace alla giustizia, insaporendole entrambe con la libertà. Tutto rimane astratto, indefinito, che conferma ciò che invece è concreto e definito. Infatti, l’appello alla giustizia è un invito ai governanti ad usare maggiori criteri di misura nell’esercizio del governo stesso. La libertà è quel limite di tolleranza e di decenza che nessun governo deve superare, pena correre il rischio di venir messo in discussione, cosa che, se è pericolosa in sé, può diventare letale quando si tratta di un governo che si pretende mondiale. La religione ancora una volta corre in soccorso al regno. In questo caso, consigliando e sconsigliando, per poter legittimare moralmente l’esistenza dello Stato e degli Stati. E il Nuovo Ordine Mondiale.

Di tutto ciò non sarebbe valsa la pensa di occuparsi se grande parte del pacifismo, tranne alcune eccezioni, non si fosse schierata, almeno in Italia, sotto questi vessilli papali ed al riparo di queste formule generiche, oggettivamente ostili a qualsiasi forma di trasformazione, specie se radicale. La vera sconfitta del pacifismo italiano è stata proprio questa: di non essere stato mai realmente anticapitalista ed antistatale, fatte sempre le debite eccezioni. Sicché le critiche di “unilateralità” avanzate dai bellicisti, assolutamente false e ridicole nello specifico (nessuno era o poteva trovarsi schierato a favore di Saddam), paradossalmente contenevano uno spunto di verità: l’unilateralismo consisteva nell’essere per la pace in sé e per sé, per una pace “giusta” senza alcuna determinazione, per un antimilitarismo (quando c’era, visto che molti, pur essendo “contro la guerra”, sentivano il bisogno di solidarizzare con i “ragazzi” che stavano nel Golfo) generico e di nessuna efficacia se scollegato da una critica sociale complessiva, di cui la critica agli eserciti ed alla guerra è parte. Il dissenso, quindi, è rimasto all’interno dello spettacolo delle opinioni, almeno nella sua maggior parte, senza pertanto costituire né un pericolo immediato per l’amministrazione statale né, soprattutto, una forza per inceppare il meccanismo bellico e fornire una base effettiva ad uno sviluppo teorico e pratico successivo, oltre e dopo la guerra del Golfo.

In attesa della pace giusta o di quella eterna.

Sull’opposizione preventiva

La guerra era annunciata. La si annusava nell’aria, la si vedeva nelle immagini iterativamente trasmesse, la si leggeva sulle pagine dei giornali, la si ascoltava per le strade. Tuttavia, quando si è manifestata clamorosamente, con il clamore delle armi, le forze del dissenso, i fronti antiguerra, i movimenti pacifisti ed antimilitaristi sono apparsi tanto sovreccitati quanto confusi. Da questa confusione spesso non sono rimasti estranei neppure gli elementi che si pretendono più radicali, antistatali ed anticapitalisti. Soprattutto riguardo alle opzioni possibili, agli atti concreti da sviluppare contro la guerra, al di là delle manifestazioni di piazza talora anche moltitudinarie ma giocoforza per lo più limitate e simboliche.

La guerra fa paura, non c’è dubbio, la guerra violenta qualsiasi vincolo umano, è evidente. Su questa base minima l’accordo può essere massimo. Ma si tratta per l’appunto di una base minima, che lascia irrisolte troppe questioni. È allora importante esaminare le proposte pratiche che sono state avanzate, che ambivano ad assumere una valenza paradigmatica e generalizzabile, anche se il concreto svolgimento dei fatti bellici le ha quasi immediatamente vanificate o superate. Risulta nondimeno interessante rifletterci, perché un cessate-il-fuoco, e neppure definitivo, non liquida il problema della guerra in quanto tale e tanto meno quello delle forze militari degli Stati.

La proposta più diffusa dal fronte pacifista è stata quella di invitare all’obiezione di coscienza. Essa è venuta soprattutto da movimenti di ispirazione cristiana o nonviolenta (di matrice gandhiana o ecologista, per esempio) nonché da vasti settori della “sinistra democratica”.

Questa posizione, al di là della sua condivisibilità o meno, è dichiaratamente debole di fronte ad una guerra in corso, e per tutta una serie di ragioni.

Anzitutto, l’obiezione di coscienza, riconosciuta da tutti i paesi democratici come servizio civile sostitutivo di quello militare, è il portato di scelte squisitamente individuali, personali, che possono variare da quelle di tipo religioso a quelle umanitarie, da quelle “utilitaristiche” a quelle genericamente nonviolente ed antimilitariste. Assai di rado nasce da opzioni politiche in qualche misura radicali, dato che l’obiettore si rifiuta di impugnare le armi ma non di adempiere agli ordini dello Stato, la cui autorità non viene messa in discussione. Proprio perché individuale, coscienziale, questa soluzione non è di per sé generalizzabile né si caratterizza come palese ribellione contro lo Stato e, nella fattispecie, contro uno Stato che è entrato in guerra.

Di fatto, l’obiezione di coscienza non incide per nulla sullo stato di guerra. A parte che, per venire accettata, dev’essere antecedente all’arruolamento (e dunque, per poter incidere in qualche modo, dovrebbero concorrere dei fattori così eccezionali da risultare del tutto improbabili: una guerra di anni ed anni; l’invio al fronte dei soldati di leva; una generalizzazione significativa dell’obiezione), si è che all’obiettore viene consentito di non usare armi, di non svolgere l’usuale servizio militare, ma non certo di non sottomettere il suo tempo allo Stato. Così, in una situazione bellica, agli obiettori non verrebbe imposto di combattere, ma potrebbero benissimo venir impiegati in “servizi civili”, peraltro utili e magari al fronte – come salmerie, come cucinieri, nei centri ospedalieri, addirittura come disinnescatori di mine o becchini. Va sé che ciò non solo non impedisce una guerra, ma neppure ne ritarda lo sviluppo o ne limita le conseguenze.

Infine, ed è l’ultima argomentazione in merito, se un’obiezione di coscienza generalizzata – e nelle improbabili condizioni citate sopra – potrebbe creare qualche problema a quegli Stati in cui la coscrizione è ancora obbligatoria, sarebbe stata del tutto irrilevante nella guerra del Golfo, per il semplice fatto che le due potenze che vi si sono maggiormente impegnate, cioè gli USA in primis e la Gran Bretagna in subordine, si sono, al pari del Canada, dotate già da tempo di un esercito professionale, cioè non di leva, e che altre, come Francia ed Italia, hanno spedito soltanto volontari e professionisti ed infatti assai sinistra è parsa la riapparizione della “mitica” Legione straniera francese. Diversa è la situazione negli Stati arabi, ma così variegata che meriterebbe uno studio a parte.

Si può concludere, dunque, che di fronte ad una guerra, ed in particolare ad una guerra come quella del Golfo, un incremento del numero fisiologico degli obiettori di coscienza può essere al massimo un “messaggio” lanciato allo Stato, con un valore simbolico e testimoniale, che non pesa affatto sulla guerra stessa.

Alquanto diverso è il discorso riguardo all’obiezione totale di coscienza, cioè al rifiuto non solo di impugnare un’arma, ma anche di svolgere qualsiasi servizio sostitutivo. È, insomma, il rifiuto dell’autorità dello Stato, quasi sempre con radici politiche (talvolta religiose, come per i Testimoni di Geova). Naturalmente, per un simile rifiuto vengono previste delle sanzioni penali ed il carcere militare. Anche l’obiezione totale dev’essere anteriore all’arruolamento e, almeno in Italia, le pene contemplate sono relativamente “leggere”, più o meno omologabili a quelle imposte per la renitenza alla leva. Non per nulla questo (dell’obiezione totale) era il suggerimento avanzato da taluni, qualora l’Italia avesse deciso di inviare nel Golfo anche soldati di leva e non solo professionisti e volontari, dato che l’Italia non è mai entrata formalmente in guerra (in verità, nessun paese ha dichiarato ufficialmente guerra ad un altro o ad altri, in questo frangente) e dunque vigente rimaneva il codice militare del tempo di pace.

Sull’obiezione totale, sicuramente la più significativa e radicale, rimangono sospesi due punti interrogativi. Il primo: come si regolerebbe lo Stato in caso di massificazione (anche in tempo di pace) del fenomeno e se non avesse già istituito un efficiente esercito professionale? Tutti conosciamo la disinvoltura statale nell’approntare nel giro di poche ore leggi, leggine o decreti che rovesciano del tutto la regolamentazione precedente e, nel caso di una massificazione, sono pensabili degli inasprimenti delle sanzioni. Ne consegue logicamente che l’obiezione totale ha da proporsi come forma di lotta specifica antistatale – in ciò assai distante dal pacifismo e dalla nonviolenza pura e semplice –, quindi preventiva rispetto ad uno stato di guerra ed in stretta connessione con i movimenti più radicali, sia per quanto riguarda la diffusione delle tesi sia per quel che concerne la resistenza antirepressiva. Il secondo è: come reagirebbe lo Stato all’obiezione totale se fosse coinvolto in una guerra dichiarata, completa, per la quale non fossero sufficienti i professionisti ed i volontari? L’Italia, per esempio, per entrare in guerra, in una guerra formalizzata, dovrebbe addirittura modificare degli articoli della sua Costituzione ed in un caso simile, che francamente appare assai remoto, ed ovviamente instaurandosi il codice militare di guerra, che tuttora in Italia contempla la pena di morte, non verrebbe fornita alcuna garanzia (per esempio, l’incarcerazione per tutto il periodo bellico) agli obiettori totali, specie se in rapida moltiplicazione, che molto probabilmente verrebbero trattati alla stregua dei disertori in tempo di guerra. Anche da questa ipotesi discende la conseguenza che soltanto un movimento radicale può avere la forza per resistere e per imporsi e che dunque l’obiezione totale può avere un suo peso e valore essenzialmente se esercitata in maniera previa, già in tempo di pace, se propagandata, diffusa, massificata, generalizzata.

Ma, come si è accennato, l’obiezione – sia con l’accettazione di un servizio sostitutivo, sia totale – è possibile soltanto prima dell’arruolamento del cittadino-soldato. Dopo c’è la diserzione. Che se è limitata, e dunque punita non eccessivamente, in tempo di pace, può assumere delle connotazioni tutt’affatto diverse nel corso di una guerra. Non a caso, l’invito alla (e la pratica della) diserzione ha sempre costituito il nocciolo forte dell’attitudine rivoluzionaria contro la guerra e per la sua trasformazione in guerra sociale. Infatti il disertore, specie se in prima linea e con un forte rigetto del massacro guerresco, tende a rivoltare le armi contro chi lo comanda, non foss’altro che per autodifesa (i disertori al fronte sono sempre stati fucilati senza esitazioni) ed evidentemente questi gruppi armati, socialmente radicati, possono costituire, ed hanno storicamente costituito, l’embrione di una rivolta sociale all’interno dello stesso Stato belligerante.

Molto bene ha fatto Paolo Virno (in La Talpa de “Il Manifesto”, 24.1.1991) a ripercorrere lucidamente il senso storico e significante della diserzione, ponendo in chiaro la distanza oggettiva e di condotta che separa l’obiezione di coscienza privata dalla diserzione, che è comunque un fatto pubblico, una rottura dell’ordine statuale. Non riassumo qui le sue argomentazioni, che in buona parte condivido, e che in sostanza riaffermano il diritto alla resistenza allo Stato, e contro di esso, da parte del cittadino. Voglio però aggiungere due considerazioni non marginali.

La diserzione stricto sensu ed anche nella sua forma estrema (vale a dire, non soltanto scapparsene a casa, se possibile, e quindi rifiutarsi alla guerra, ma addirittura rivolgere le armi contro gli ufficiali in maniera spontaneamente organizzata) riguarda esclusivamente il soldato che, al massimo, può ricevere appoggio e solidarietà dalla popolazione, sotto forma di nascondigli, abiti civili, vitto, ecc. Ma oggi è la “natura” stessa del soldato ad essere cambiata, come sono cambiate le guerre, e non per caso quest’ultima è stata definita operazione di polizia internazionale. Il soldato è divenuto sempre più un professionista, spesso con buone capacità e conoscenze tecniche, come tende a diventare il suo omologo nazionale, il poliziotto. In guerra e fra gli eserciti “evoluti” è difficile incontrare l’infelice che è stato strappato alle sue attività quotidiane e sbattuto a combattere, che, quando vede e capisce i sensi, i meccanismi, gli effetti della guerra, può provare un moto di intima ripulsa che lo può condurre sino alla ribellione aperta. Gli eserciti, come tutto nella società contemporanea, tendono ad essere appannaggio degli specialisti. È possibile, certo, che dei professionisti si ribellino, prendano le distanze da chi li comanda, che si organizzino contro costoro, ma bisogna riconoscere che è un fatto improbabile se non in condizioni eccezionali (e per un militare la guerra non riveste quel carattere di eccezionalità che possiede per l’uomo comune).

Un “buon” soldato moderno segue corsi di ammaestramento e, poi, di aggiornamento continuo, a cui ovviamente non sono estranei l’indottrinamento ideologico ed il condizionamento psicologico. Viene retribuito nettamente al di sopra della media ed è portato a stabilire con i suoi commilitoni quello “spirito di corpo” che da sempre i generali hanno auspicato e preteso (al pari degli allenatori di basket o di foot-ball, peraltro!). Risulta molto difficile, quindi, che il militare professionalizzato dismetta il suo proprio ruolo, ponendo così in discussione non solo se stesso, ma chi lo comanda, chi l’ha arruolato, lo Stato stesso e, in sintesi, il sistema nel suo insieme. Ciò può avvenire solo in presenza di eventi particolarissimi o di fronte ad uno stravolgimento sociale, morale, culturale del quadro complessivo tale da far vacillare ruoli e convinzioni precedenti.

Questo astrattamente vale per tutti gli specialisti e per tutti i ruoli sociali, eppure questa “diserzione” non solo è possibile ma è anche un passaggio obbligato per la trasformazione radicale dell’assetto societario, dopo la frammentazione delle classi, la stratificazione dei ceti e dei ruoli, ma, in concreto, lo specialista bellico sembra il meno indicato, soprattutto in una situazione di guerra reale, ad iniziare questo “tradimento” del suo còmpito in senso sovversivo.

È pur vero, come le analisi sociologiche ci hanno mostrato, che buona parte dei “mercenari” proviene dai ceti più bassi o dai soggetti più “a rischio”, che nell’esercito trovano accoglienza, specializzazione e, soprattutto, un’elevata retribuzione. Nell’esercito USA il numero dei neri, rispetto ai bianchi, è proporzionalmente assai più elevato riguardo alla società civile; buona parte delle soldatesse sono ragazze-madri o comunque destinate alla disoccupazione; la percentuale di cattolici (dunque di matrice italiana, irlandese, ispanica, ecc.) è smisuratamente superiore al rapporto nazionale, proprio perché in queste comunità redditi, istruzione, possibilità lavorative, impieghi stabili sono più bassi; per contro, ovviamente, il numero di Wasp (cioè bianchi, protestanti e di origine anglosassone) è inferiore nell’esercito rispetto alla media nazionale e soprattutto essi sono inseriti nei livelli intermedi o nei gradi più alti e specializzati. Ma da questo esame della composizione sociale degli eserciti professionali sarebbe gravemente erroneo ed illusorio ipotizzare una possibile sorta di “lotta di classe” all’interno del corpo militare. Ciò non soltanto per lo “spirito di corpo” di cui si è detto, né per il cemento ideologico-patriottardo, che pure esiste (la patria, anche se progressivamente devalorizzata di senso, continua ad esercitare una funzione simbolica, di autoidentificazione), ma soprattutto per la valutazione dei vantaggi e della limitatezza dei rischi che compie colui che sceglie la carriera militare.

Infatti, chi si arruola in un esercito professionale sa di dover condurre, almeno per determinati periodi, un’esistenza abbastanza dura, fatto che tuttavia viene compensato da salari assai superiori a quelli che gli competerebbero nella vite civile, sempre che trovi lavoro, dall’apprendimento di tecniche e tecnologie che, in un momento successivo, gli torneranno professionalmente utili anche fuori dall’esercito, consentendogli così una posizione sociale più elevata, dalle garanzie e rassicurazioni che gli offre l’organizzazione statale da cui dipende. Ma soprattutto è convinto che le possibilità di guerra sono limitate e che, anche quando si danno, la forza del “suo” esercito è tale da ridurre al minimo il suo concreto pericolo di morte. (In questo senso, la guerra del Golfo è stata una grandiosa autopubblicità degli eserciti professionalizzati e specializzati; il numero di morti fra gli “alleati” è stato bassissimo, di molto inferiore alla media dei morti per “normali” incidenti di lavoro ed irrisorio rispetto al numero di morti violente nella vita quotidiana – nei week-end, per aggressioni stradali ecc.).

Per tutto ciò la rivolta di questi proletari o proletarizzati in via di ascesa sociale è assai problematica, se non impossibile, anche e soprattutto in tempo di guerra. Cioè di operazioni di polizia internazionale.

Anche i poliziotti, i carabinieri ed altri “tutori dell’ordine” provengono in maggioranza, per quanto riguarda i livelli più bassi, da ceti disagiati o da zone dove la disoccupazione è più forte. Ma questi “figli del popolo” (secondo la celebre definizione di Pier Paolo Pasolini che, nel ’68, tentò una demenziale loro esaltazione, contrapponendoli agli studenti rivoltosi ma “benestanti”!) proprio perché, rivestiti da un’uniforme ed investiti di una funzione di relativo potere, si sentono in qualche modo sulla via del “riscatto” individuale e sociale, sono di norma i peggiori, i più crudeli, i più opportunisti. È ben difficile ipotizzare delle loro ribellioni a chi li comanda, anche quando sono chiamati a delle azioni di pesante violenza, com’è negli scontri di piazza, ma anche nel cerimoniale corrente di arresti e interrogatori “movimentati”.

Quindi l’invito alla diserzione ai militari, ormai assimilabili ai poliziotti seppur su scala mondiale, sembra un esercizio retorico, una forma di estremismo verbale, poiché cozza contro l’iperspecializzazione e la professionalizzazione che si sono dati e sempre più si stanno dando gli eserciti contemporanei, almeno nei paesi “sviluppati”.

Ma vi è un’altra considerazione importante, che discende immediatamente da queste. Nella complessificazione e differenziazione sociale esistente, solo una piccolissima porzione di società va in guerra, mentre è l’intera società a venirne investita: come paura, come clima, come spettacolo, come effetti economici ed ecologici, come invito alla partecipazione indiretta eccetera. Paradossalmente, mentre un sempre minor numero di soggetti attivi (militari e militarizzati) viene coinvolto, del pari tutti ne risultano implicati e costretti a “schierarsi”, non foss’altro che per la forza suggestiva e mediatica dello spettacolo.

Allora l’invito alla diserzione deve giocoforza venir rivolto a tutti. Ma disertare da che? Dal rimanere inchiodati davanti ad uno schermo televisivo, dal comperare i giornali, dato che la guerra viene sostanzialmente mostrata, trasmessa? Né francamente sembra che “disertare” dal pagamento delle tasse, che servono allo Stato e dunque finanziano l’esercito, sia una proposta valida per bloccare una guerra, anche se da qualche parte è stata avanzata. Né le manifestazioni di piazza contro la guerra, che pure possono determinare, attraverso le loro pressioni, dei mutamenti nelle scelte dei partiti e dei governi, le si può considerare come delle forme di diserzione, poiché in realtà sono delle forme di partecipazione, seppure contro. Se non assumono il carattere di vere e proprie sommosse – cosa estremamente improbabile, specie se la guerra è fisicamente lontana, anche se indirettamente vissuta – influiscono poco sulle scelte statali di fondo, come si è visto in occasione della guerra del Golfo. Dal che sono nate le frustrazioni attuali dei movimenti pacifisti. Mi pare, quindi, che anche la diserzione debba essere preventiva, nel senso di un rifiuto costante delle regole statali, della sottomissione ad esse, della delega alle istituzioni.

Per concludere questa sorta di rassegna analitica, è giusto aggiungere qualche breve nota sull’invito al sabotaggio, proposto da settori limitatissimi del movimento contro la guerra, ed alla formula “guerra alla guerra”.

Il sabotaggio da sempre è stato, e talvolta con efficacia, uno strumento di difesa da qualcosa o di attacco contro qualcosa. Nel primo caso, l’esempio più chiaro è quello del sabotaggio in fabbrica esercitato dagli operai per difendersi dall’aumento dei carichi di lavoro, dall’accelerazione dei ritmi produttivi ecc. Nel secondo, gli esempi più emblematici possono essere gli attacchi contro i rifornimenti energetici di centrali nucleari o la diffusione di “virus” nell’informatica: sono sabotaggi contro qualcosa. Ma si ritorna daccapo. Nel momento di una guerra in corso, dove i controlli assumono caratteristiche prettamente militari, il sabotaggio sembra scarsamente praticabile e soprattutto con irrisorie possibilità di incidere sulla guerra stessa. Soprattutto perché gli armamenti già ci sono e dunque soltanto in una guerra di grande impegno e di lunga durata il sabotaggio può avere il suo peso, se esercitato da chi è direttamente coinvolto nella produzione bellica, nel controllo informatico, nella veicolazione informativa e spettacolare. Va da sé che si tratta di uno scenario talmente improbabile da risultare irrealistico. Né si può assimilare al concetto di sabotaggio il dissenso violento alla guerra. Mi riferisco a quelle azioni che si sono avute in Europa e che hanno avuto carattere prettamente simbolico: molotov contro insediamenti militari, commerciali, aerei, turistici o culturali di qualche paese implicato nella guerra. Il carattere simbolico è stato evidente, né, di fatto e letteralmente, queste azioni hanno bloccato alcunché della macchina statale e bellica. E ritengo peraltro che questo fosse il loro fine: esprimere un violento dissenso. (Per inciso, va rilevato con soddisfazione che nonostante la campagna pubblica di indiretto incitamento al terrorismo, questo fenomeno non si sia dato, almeno nella maggioranza dei casi e dei paesi. Lo stillicidio di azioni di cui dicevo sopra nulla ha che vedere con il terrorismo e laddove vi sono stati episodi di questo tipo – penso al Perù, per esempio – essi si inseriscono nello scontro armato che lì si sta svolgendo. È stata una significativa sconfitta dello Stato, che sul terrorismo lucra, e dello spettacolo, esso sì terrorista). Quindi, anche per il sabotaggio, si può concludere che può avere una sua rilevanza soltanto nella misura in cui si pone come opposizione preventiva generalizzata al sistema capitalista ed al dominio statale, mentre risulta poco utilizzabile ed inefficace in una situazione di guerra.

Guerra alla guerra” è uno slogan suggestivo; rimanda sostanzialmente alla possibilità di trasformare una guerra decisa dallo Stato in una guerra sociale. Non ripeterò certo le argomentazioni sin qui svolte, ma mi pare evidente che, al di là del fascino ideologico, questa formulazione rischia di essere priva di contenuti reali di fronte ad una guerra neomoderna, ad una operazione di polizia. La sua unica valenza positiva consiste nell’opporsi ad un pacifismo umanitarista e generico che nulla modifica delle condizioni sociali esistenti, né dei rapporti di autorità e potere. La sua pecca sta nell’assenza dei soggetti di questo rovesciamento e dunque nel suo carattere prettamente ideologico. La guerra alla guerra, per avere un senso, deve essere una guerra alle cause che spingono gli Stati alle guerre; quindi un’opposizione radicale alla società delle merci e dello spettacolo, dello Stato come detentore dell’autorità e della forza, al lavoro, alla vita quotidiana com’è regolamentata.

Che si tratti di obiezione totale di coscienza, di diserzione generalizzata dai ruoli e dallo Stato, di sabotaggio della sopravvivenza corrente, di guerra al potere, è illusorio sperare nell’effetto esplosivo e moltiplicatore dato da una guerra realmente guerreggiata.

È invece questione di tutti i giorni, di una opposizione materiale costante.


Torino-Firenze, febbraio-aprile 1991

Riccardo d’Este [Malcolm D’ldd]

Appendice: La guerra e la pace [12]

Con il pesante intervento spettacolare dei grandi mezzi di informazione la guerra è entrata nella casa di tutti, diventando il problema del giorno.

Ma come accade spesso, quando affrontiamo un argomento che suscita nel nostro intimo una complessa reazione di sentimenti e paure, non siamo in grado di approfondire facilmente tutti gli aspetti di questo problema.

È necessario, infatti, quando ci si accinge a lottare contro un nemico che ci minaccia, chiedersi cosa quest’ultimo vuol fare, perché il massimo di notizie possibili sulle sue azioni ci fornirà il massimo di occasioni per rintuzzarlo, difenderci, passare al contrattacco. A me sembra che non ci siamo posti con chiarezza una domanda fondamentale: che cos’è la guerra? Non ce la siamo posta perché tutti crediamo, chi in un modo chi nell’altro, di sapere perfettamente cos’è la guerra e quindi di essere in grado di fare quanto necessario per combattere coloro che intendono realizzarla.

In realtà, non abbiamo le idee chiare. Che queste idee le abbiano poco chiare i grandi mezzi di informazione, ha poca importanza perché non è certo da questi che possiamo trarre quanto ci bisogna per produrre quel minimo di analisi in grado di dare coerenza e significato alla nostra azione. Più significativo il fatto che, leggendo una gran parte della stampa anarchica, sembra di leggere “La Repubblica” o “L’Espresso” riveduti e corretti, quando non sembra di leggere una rivista di diritto internazionale, con poche modifiche di linguaggio e qualche ingenuità in più.

Per le idee padronali non si tratta tanto di mancanza di chiarezza, quanto di interessi grossolanamente evidenti: la guerra rappresenta per le classi dominanti un mezzo per garantire, dentro certi limiti, la continuazione del dominio. Ma per chi si pone contro il dominio, cosa significa la guerra?

Per i padroni la guerra è una semplice accelerazione nell’impiego di mezzi che sono praticamente in corso di applicazione da sempre. Gli eserciti esistono, le bombe ci sono, le armi pure. Le guerre sono in atto ininterrottamente da sempre, scoppiando qua e là, secondo una geografia e una logica che seguono le regole dello sviluppo e della sopravvivenza del capitale. I padroni non hanno grandi problemi analitici da risolvere. Essi non possono scatenare la guerra per il semplice motivo che non hanno mai smesso di farla. Per coloro che intendono lottare contro la guerra, la cosa è diversa. La loro lotta, infatti, si dispiega attraverso un ventaglio di interventi e di azioni che sono realizzabili solo in funzione della propria capacità di svelare il meccanismo che regge il fenomeno della guerra.

Questo ventaglio è determinato, a sua volta, dai propri interessi di classe, dalle limitate concezioni che si posseggono sui fenomeni sociali e politici, dalla propria visione ideologica della realtà ecc.

In linea teorica tutti dovrebbero essere contro la guerra, specialmente contro la guerra che oggi è diventata possibile, in quanto tutti sono sottoposti al pericolo dell’annientamento. Ma allora come si spiega che non tutti sono contro la guerra? Come si spiega che i governanti trovano sostenitori e realizzatori della loro follia? Si spiega col fatto semplicissimo e fondamentale della divisione di classe. È evidente che la guerra non fa paura a tutti, oppure non fa paura a tutti nello stesso modo. È chiaro che molti, vicini alle leve del dominio e legati allo sfruttamento, se non padroni o dominatori essi stessi, si fanno passare la paura della guerra con la prospettiva del rafforzamento della propria situazione di privilegio.

Da ciò deriva che le elucubrazioni che questa gente produce, sia nei giornali sia attraverso le emittenti, non possono rispecchiare il desiderio di far considerare la guerra come una cosa immediata. Esistono certamente possibilità che ciò sia vero, ma a tale conclusione dovremmo arrivarci da soli e non facendoci trainare dalle idee pilota di chi gestisce il potere [13].

Ritorna quindi l’importante quesito: che cos’è la guerra? Le pubblicazioni correnti, ed anche i fogli anarchici, finiscono per diventare mezzi di ripetizione di quello che sostiene la propaganda di regime. Ci dicono che la guerra è vicina. Ripetiamo che dato che la guerra è vicina, bisogna fare tutto il possibile per allontanarla, per impedirla, perché gli anarchici sono stati da sempre contro la guerra e perché la guerra è una tremenda calamità che colpisce tutti, che non ha vincitori ma soltanto vittime, che costituisce un delitto contro l’umanità.

Argomenti bellissimi e profondamente morali che hanno un solo difetto: non spostano i programmi di genocidio del potere e dicono nulla di nuovo alla gente.

Facciamo l’ipotesi che più correntemente si è verificata nella storia e che in passato ha travolto fior di anarchici della migliore levatura intellettuale. Come si è detto, siamo tutti contro la guerra (a parole). Anche i più convinti sostenitori delle virtù risolutive del conflitto armato tra gli Stati non hanno mai trovato il coraggio di affermarlo apertamente, tranne in qualche vano delirio, subito rintuzzato da collaboratori più avveduti e sagaci. Chi prepara la guerra è sempre uno dei propagandisti più accesi della pace. Di più: egli imposta la sua propaganda di pace sul fatto che bisogna a tutti i costi fare il possibile per salvare i valori della civiltà, valori che risultano sistematicamente minacciati da quanto avviene nel campo avverso (a sua volta l’avversario agisce ed opera allo stesso modo). Bisogna fare di tutto per impedire la guerra e, spesso, si finisce per convincere la gente che dovendo fare di tutto si può anche fare la guerra per impedire una catastrofe più grossa. Allo scoppio della guerra che per prima si chiamò mondiale, Kropotkin, Grave, Malato ed altri illustri anarchici giunsero alla conclusione che bisognava partecipare alla guerra per difendere le democrazie (francese, in primo luogo) attaccate dagli imperi centrali (Germania, in primo luogo). Questo tragico errore fu possibile, e sempre sarà possibile, perché si fece, allora, la stessa considerazione che si va facendo oggi: non si sviluppò un’analisi anarchica ma ci si affidò ad una rielaborazione anarchica delle analisi fornite dagli studiosi e dai divulgatori al servizio dei padroni. Per cui si arrivò alla conclusione che la guerra restava sempre una tragedia immensa e terribile, ma era da preferirsi al più grave danno che sarebbe venuto da una vittoria del militarismo teutonico. Certo, non tutti gli anarchici furono ciechi davanti le gravi deviazioni di Kropotkin e compagni; Malatesta reagì violentemente scrivendo da Londra, ma il male era fatto e determinò, a sua volta, conseguenze non trascurabili su tutto il movimento anarchico mondiale.

Allo stesso modo, oggi molti compagni anarchici non si fermano alle superficialità che si possono leggere su alcuni nostri giornali e riviste, ma approfondiscono meglio il problema.

Torniamo un momento alle affermazioni generiche che abbondano dappertutto. Non è certo con gli appelli alla fraternità universale, all’umanità, alla pace, al valore della civiltà, che si possono mobilitare le forze realmente disponibili a combattere contro lo Stato. Altrimenti per quale motivo, quando ci troviamo all’interno dei problemi relativi allo scontro sociale ed economico (disoccupazione, case, scuole, ospedali, ecc.) evitiamo accuratamente di ricorrere a banalità del genere? Adesso che ci occupiamo della guerra siamo di colpo autorizzati forse a far scadere le nostre analisi al livello delle generalizzazioni degli umanitaristi radicali?

Il fatto è che ricorriamo a questi luoghi comuni, che hanno come denominatore il concetto di paura, perché non sappiamo cosa fare, né cosa dire, né che cosa sia in realtà – oggi, nell’attuale situazione politica italiana ed europea e mondiale – il fenomeno della guerra [14].

Presi dal panico per questa nostra incapacità, profondamente consci che né la nostra gloriosa tradizione antimilitarista (con le eccezioni viste sopra), né tutto il bagaglio altrettanto glorioso del pensiero anarchico, ci possono salvare, ricorriamo al laboratorio analitico del potere. Ed allora ci trasformiamo in dilettanti studiosi di problemi internazionali. I nostri fogli si riempiono di riflessioni, a dir poco comiche, sui rapporti tra USA e URSS, tra Nato e Patto di Varsavia, tra paesi del Medio Oriente ed Europa; i problemi economici si intersecano con le strategie militari; i dati tecnici relativi alle bombe A, H, N, si mischiano nelle nostre pagine (e nella nostra testa) agli effetti della propaganda psicologica. Ne viene fuori una grande confusione che dà la misura reale di quanto siamo lontani dalla realtà dello scontro e di quanto ogni nostro tentativo di avvicinarci manchi il bersaglio. Allora diventiamo pateticamente boriosi. Insistiamo nel costruire le nostre analisi con sempre maggiori dati, presi a prestito dai manuali del potere, e spieghiamo alla gente che la paura fa novanta. Non ci rendiamo conto che così facendo risultiamo funzionali a quella parte dello schieramento padronale che oggi gioca proprio sulla paura per ottenere due risultati fondamentali: distogliere l’attenzione delle masse sfruttate dal sempre più pesante sfruttamento che le aspetta e prepararle, perché no, proprio alla guerra. Non dimentichiamo che il modo migliore di spingere all’accettazione di una guerra è quello di diffonderne la paura. Domani, con pochi sapienti aggiustamenti nella propaganda di regime, questa paura della guerra totale si trasformerà facilmente nella voglia e nel desiderio di accettare una guerra limitata per impedire la guerra totale, e chissà che non si trovi un novello Kropotkin (fra i tanti neokropotkiniani che infestano i nostri fogli anarchici) capace di sostenere la necessità della piccola guerra di fronte alla guerra totale (dopo tutto, “piccolo è bello”).

Certo, noi anarchici siamo contro tutte le guerre, piccole o grandi che siano, ma una volta che ci limitiamo ad impostare il nostro discorso esclusivamente, o fondamentalmente, sulla paura veniamo a collocarci all’estrema sinistra del capitale, fornendo a quest’ultimo lo spiraglio di cui necessita per attenuare il dissenso che autonomamente si produce all’interno della massa degli sfruttati.

Di più, una volta che sviluppiamo appieno la nostra critica alla guerra atomica totale e facciamo vedere come siano terribili gli effetti delle bombe atomiche di ogni ordine e grado; ed una volta che aggiungiamo come semplice corollario che noi siamo non solo contro la guerra atomica ma contro ogni tipo di guerra tra Stati, perché ogni guerra è un genocidio, un misfatto abominevole, un delitto contro l’umanità; continuando con simili luoghi comuni, risultiamo contraddittori e dannosi. Forniamo infatti elementi fondati, scientifici e concreti contro la guerra atomica (questi ce li passa lo stesso capitale), ma ci limitiamo ai soliti luoghi comuni umanitari per quanto concerne la guerra non atomica, spingendo involontariamente la gente (che giustamente ha una ripulsa contro i luoghi comuni umanitari) a predisporsi per un rifiuto della guerra atomica e per una probabile accettazione della “piccola guerra”. E chissà che non sia proprio questo che il capitale vuole da noi.

Comunque, poiché non si può mettere in dubbio la nostra buona fede, non resta che approfondire l’argomento e chiedersi come sviluppare meglio la propaganda contro la guerra.

Se approfondiamo questa parte del problema ci accorgiamo che la guerra costituisce un momento particolare della strategia generale di sfruttamento realizzata dal capitale.

Spieghiamoci. Per gli Stati esistono aspetti ufficiali che scandiscono la differenza tra stato di guerra e stato di pace sul piano del diritto internazionale. È ovvio che questo tipo di differenza non può interessare gli anarchici, i quali per cogliere una situazione reale di guerra non dovranno aspettare che sia lo Stato “A”, tramite la sua diplomazia, a consegnare una dichiarazione di guerra allo Stato “B”. Compito degli anarchici è principalmente quello di spezzare, per quanto possibile e per il maggior tempo possibile, la cortina ufficiale che gli Stati stendono davanti agli occhi dei popoli per sfruttarli, ingannarli e portarli al macello. Per far ciò, quindi, non possiamo aspettare che le formalità del diritto internazionale siano compiute, dobbiamo precorrere i tempi e denunciare la situazione reale di guerra anche quando non esista uno stato di guerra ufficialmente riconosciuto.

Il sospetto che non sia possibile stabilire un confine netto tra guerra e pace è venuto, per la verità, anche agli stessi teorici del potere. Clausewitz, ai suoi tempi, si vide costretto a sviluppare un’analisi della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi”. Anche studiosi contemporanei (Bouthoul, Aron, Sereni, Fornari, ecc.) si sono resi conto del problema ed hanno cercato di cogliere l’elemento che consente una differenziazione, sia pure minima, tra stato di guerra e stato di pace. Dopo l’esame degli elementi caratterizzati dalla conflittualità armata, dai fenomeni di massa, dai processi di tensione dell’opinione pubblica – tutti elementi che non sono specifici dello stato di guerra soltanto – questi studiosi hanno dovuto concludere che ciò che caratterizza la guerra è il suo carattere giuridico e che questo carattere risulta essere atipico nei confronti della struttura giuridica che regola gli Stati belligeranti in “tempo di pace”. In altre parole, la guerra risulta caratterizzata dalla legittimazione ad uccidere, legittimazione realizzata attraverso la sfera giuridica che, di regola, in tempo di “pace” non tutela né l’omicidio né la strage.

Si vede chiaramente che i criteri che distinguono la guerra dalla pace non sono quelli che gli anarchici possono considerare validi. Noi non siamo disposti ad ammettere che lo “stato di guerra” ufficialmente dichiarato dal potere statale sia indispensabile per individuare, denunciare ed attaccare una “situazione reale di guerra”. E, da parte sua, lo Stato sa benissimo che l’aspetto ufficiale della “dichiarazione” di guerra non fornisce che un semplice alibi giuridico per un allargarsi dei processi di morte che esso, di regola, persegue come caratteristica specifica del suo proprio esistere. Lo Stato è strumento di sfruttamento e di morte, quindi è strumento di guerra. Dire Stato, significa dire guerra. Non esistono Stati in guerra e Stati in pace. Non esistono Stati che vogliono la guerra e Stati che vogliono la pace. Tutti gli Stati, per il semplice fatto della loro esistenza, sono strumenti di guerra. Per convincersi di ciò, e per superare l’obiezione di chi ci accusa di facile massimalismo, basta pensare al fatto, ovvio, che non saranno il numero di morti, la specificità dei mezzi usati, il terreno dello scontro, lo scopo che i belligeranti si prefiggono, a determinare una differenza tra lo “stato di guerra” e lo “stato di pace”. Uccidere sistematicamente una decina di lavoratori al giorno sul posto di lavoro è fenomeno di guerra che soltanto dal punto di vista del numero differisce (per quanto ci riguarda) dai morti che a migliaia si rinvengono sul campo di battaglia. Sotto questo profilo non esiste possibilità di individuare una “situazione reale di pace” sotto il regime del capitale, ma soltanto un fittizio “stato di pace” che equivale, in pratica, ad una “situazione reale di guerra”.

La guerra è quindi un’attività dello Stato che non caratterizza un periodo transitorio e circoscritto della sua esistenza, ma costituisce l’essenza stessa della sua struttura per quanto noi ne possiamo avere cognizione attraverso l’esperienza dei processi di sfruttamento. Cadono così le illusioni socialdemocratiche del disarmo unilaterale, del pacifismo perbenista, della nonviolenza borghese. Chi sostiene soltanto la tesi del pacifismo e con ciò si batte per impedire che lo Stato scateni una guerra è sostanzialmente un reazionario che sostiene la guerra costante dello Stato preferendola ad un’altra guerra (per lui diversa) ma che in sostanza non ha nulla di diverso, essendo praticamente un’estensione del conflitto su scala leggermente o notevolmente più ampia.

Si spiega così che partiti al governo (Psi) e partiti che hanno tradito l’ideale dei lavoratori (Pci) [15] o partiti che alimentano le velleità umanitarie della borghesia (radicali) possono fare, con grande faccia tosta o con stupida ignoranza della realtà, discorsi contro la guerra [16]. In pratica i loro discorsi garantiscono la continuità della guerra reale, preparando le masse all’accettazione di ulteriori (sempre possibili) allargamenti della guerra in vista di evitare una guerra sempre più grande che viene così rinviata all’infinito mentre si sviluppa e si mantiene lo stato oggettivo di conflitto.

Questi concetti dovrebbero essere – e in fondo, di fatto, sono – più o meno accettati da tutti gli anarchici. Però, come appare da molti articoli e interventi pubblicati negli ultimi anni nella nostra stampa periodica, si scivola con troppa facilità sul tema della guerra come qualcosa che si può evitare e che costituisce, di per sé, un obiettivo di lotta capace di coalizzare le forze rivoluzionarie.

Se negli altri settori di intervento abbiamo difficoltà (e nessuno può negare che queste difficoltà ci siano); se lo stesso movimento anarchico nel suo insieme stenta a ritrovare le sue strutture, le sue componenti, i suoi militanti; se il dialogo operativo aperto con le eventuali componenti del movimento rivoluzionario reale, superando le diffidenze altrui e nostre, adesso è muto e sordo, malgrado gli sforzi fatti ed il prezzo altissimo pagato; se il livello della pubblicistica anarchica è paurosamente basso; se gli stessi libri anarchici si diffondono sempre meno all’interno del movimento; c’è da chiedersi: l’accettazione della tematica della guerra, anche da parte nostra, e la mancata collocazione di questa tematica nella logica specifica dello Stato, non è forse una conseguenza della nostra sopravvenuta incapacità di indirizzarci verso la realtà delle lotte?

La progressiva e vertiginosa atrofizzazione di quei pochi strumenti di intervento che eravamo riusciti a darci negli anni passati, dopo tanti sacrifici e lotte, non è forse uno degli elementi che contribuiscono a farci considerare il problema della guerra come centrale e prioritario, come separato e sovrastante gli altri problemi che la nostra lotta contro il potere ci pone giornalmente davanti?

E così facendo, cioè mettendo la testa sotto la sabbia delle nostre debolezze, ed affrontando il problema della lotta contro la guerra senza quel minimo di struttura militante che prima possedevamo e che ora non abbiamo più, non corriamo il rischio di essere i velleitari portatori di un’ideologia massimalista che risulta comoda soltanto al capitale?

Queste domande possono non essere condivise da molti compagni, però restano insolute come altrettanti punti che richiedono un approfondimento e una discussione.

Mi pare necessario un approfondimento delle condizioni generali dello scontro di classe e un riesame della funzione che gli anarchici possono svolgere all’interno dello scontro stesso, sia come movimento specifico, sia come capacità organizzativa in termini di strutture rivoluzionarie esterne, in grado di esprimere la potenzialità del movimento generale degli sfruttati.

È urgentissimo individuare le nostre debolezze, la persistenza delle nostre antiche paranoie, la stagnante ideologizzazione che inquina molti settori del movimento, le infiltrazioni socialdemocratiche e perbeniste, le titubanze sulle azioni da intraprendere, la smania del giudizio a priori, la chiusura chiesastica e maniacale, i residui dell’aristocraticismo che ci faceva considerare monotoni portatori della verità. Se dobbiamo ricominciare daccapo, e non è certo l’ottusità di Sisifo che ci manca, ricominciamo nel migliore dei modi, facendo piazza pulita degli antichi errori.

Portando alle estreme conseguenze un’analisi sulle nostre possibilità effettive di lotta non ci allontaniamo dall’impegno antimilitarista e dal problema della guerra; al contrario, siamo in grado di dare una risposta ben più precisa e significativa, un’indicazione ed un progetto di intervento ben più dettagliati di quanto non accada in questo momento che ci vede soltanto fornitori di rimasticature teoriche della classe dominante e farneticatori dozzinali di un massimalismo umanitarista che tutti possono condividere e proprio per questo nessuno è disposto a sostenere.

Alfredo M. Bonanno

[1] Se si può sorridere del delirio senile di un “autorevole” giornalista italiano come Indro Montanelli, che in un editoriale ha condensato, seriamente ma non senza humour involontario, l’ideologia americana nella figura di John Wayne, che ci ha sempre salvato e che quindi dobbiamo prendere come esempio, va oltre il limite concesso al ridicolo l’articolo di fondo di Paolo Mieli, direttore del quotidiano “La Stampa” di Agnelli e della Fiat, in data 28.11.1991. Costui, ex pseudogauchiste e calunniatore di professione di ogni movimento sovversivo, è incorso in un infortunio significativo, indecente anche dal punto di vista professionale. Mentre il suo stesso giornale titolava a tutta pagina “La guerra è finita”, prendendo atto dell’annuncio di cessate-il-fuoco dato da Bush, il direttore del medesimo giornale, in un articolo evidentemente scritto prima delle decisioni del “boss”, sproloquiava che “una volta iniziata la battaglia finale, questa non può essere interrotta prima di essere stata portata a compimento” e quindi teorizzava che gli alleati dovevano giungere sino a Baghdad onde evitare di lasciare “semi di tumulto in quegli Stati arabi che si sono impegnati nel conflitto”. Bush dovrebbe tirargli le orecchie, da buon ex direttore della CIA.

[2] Si può ricordare l’episodio di Filadelfia, del maggio 1985, quando la polizia lanciò una bomba incendiaria contro una casa, distruggendo buona parte del quartiere (citato in Abolire il carcere, p. 6, Nautilus, Torino 1990) ed è nel ricordo di molti, perché diffuso dalle tv di tutto il mondo, l’attacco micidiale sferrato contro un palazzo abitato da membri dell’Esercito di Liberazione Simbionese.

[3] Quella di Corea è stata l’unica guerra contemporanea combattuta sotto le bandiere dell’ONU. Caso unico e non più ripetutosi proprio perché l’URSS del 1950, ritenendo che non avrebbero “osato” tanto, non si occupò di bloccare la mozione che richiedeva l’intervento. In realtà, furono essenzialmente gli USA ad agire bellicamente, ma con un mandato delle Nazioni Unite.

[4] Cfr. Intorno al Drago, Nautilus, Torino 1990.

[5] Questi dati, come gli altri riguardo a Panama, sono ormai di dominio pubblico, neppure più celati. Una fonte importante è il libro Invasión de Panama, Panama 1990, scritto da uno dei più celebri autori panamensi, José De Jesus Martínez, scomparso nel febbraio di quest’anno [1991].

[6] Secondo i dati forniti dalla rivista “Fortune” in epoca prebellica, quindi non sospetta, precedente all’intossicazione propagandistica.

[7] Infatti la questione palestinese è stata evidentemente una pezza giustificativa per il regime iracheno, per attirare su di sé la simpatia e la solidarietà delle popolazioni arabe, visto che mai in precedenza Saddam Hussein e il suo governo si erano attivamente occupati del problema, salvo qualche interessata ospitalità ad organizzazioni palestinesi.

[8] Ormai risulta indiscutibile, con le successive penetrazioni nel territorio iracheno e con il dichiarato mantenimento della forza militare, la volontà degli USA di intervenire nella guerra civile in Iraq. Non tanto per scalzare dal potere Saddam, quanto per controllare gli sciiti appoggiati dall’Iran nonché altre forze – ad esempio tra i curdi – che potrebbero spingersi verso posizioni più radicali e squilibrare l’assetto regionale (non per nulla i curdi sono obbligati a ribadire che vogliono solo un’autonomia e non uno Stato indipendente, il che creerebbe un grosso problema alla Turchia, alleata degli USA e membro della NATO, che, come l’Iraq, si è sempre distinta nella violenta repressione del popolo curdo).

[9] La “sicurezza” è un settore fondamentale nei servizi. Mai come in quest’epoca vi è stata tanta proliferazione di agenti pubblici e privati dell’azienda “sicurezza”. Non si tratta soltanto di una valvola di sfogo rispetto alla disoccupazione, né semplicemente di una militarizzazione della vita corrente. E piuttosto un elemento centrale nel processo di riproduzione. Come, per esempio, nella produzione taylorizzata, nelle linee di montaggio in fabbrica, il cronometrista svolgeva un ruolo essenziale, così nella società della riproduzione, società di società, la funzione del controllore o poliziotto è importante quanto quella dei media o dei produttori e riproduttori di spettacolo sociale, politica inclusa.

[10] La pessima figura rimediata dall’URSS nell’intera crisi del Golfo e l’evidente ruolo di comprimari scelto dai paesi dell’Est (basti pensare, da un punto di vista militare, che hanno deciso di sciogliere il Patto di Varsavia pur sussistendo la NATO!) deriva da due ragioni fondamentali: la prima è che i regimi del “socialismo reale” non avevano più forza né ideologica né materiale (economica) per sopravvivere come blocco a sé stante, di fronte ai sommovimenti avvenuti in quei paesi ed alla congiuntura internazionale; la seconda è che i problemi di ordine interno sono prevalsi e prevalgono su quelli internazionali, di modo che il Nuovo Ordine Mondiale conviene all’URSS quanto agli USA, sebbene l’Unione Sovietica sia costretta, ma non del tutto di mala voglia date le questioni interne irrisolte, ad interpretare la parte del “luogotenente di campo”.

[11] Sembra incredibile come, almeno in Italia, parte della “sinistra” scimmiotti le ideologie ed anche le formulazioni proposte. Molti si sono lamentati che il nuovo ordine mondiale – concetto che hanno già introiettato – sia apparso sulla scena con vesti guerriere e distruttive, mentre, secondo loro, dovrebbe essere impostato sui quattro punti cardinali: pace, giustizia, democrazia e libertà. Il fatto che viviamo in una società capitalista e violenta scivola via, come fosse un male “occasionale”, superabile dagli “uomini di buona volontà”. Sarebbe davvero sciocco rimproverare questi personaggi, movimenti o partiti per non essere dei radicali o dei rivoluzionari, cosa che, onestamente, da tempo non pretendono manco di essere. Ma è troppo chiedere di evitare le chiacchiere confusioniste, quelle che vogliono far credere che, nelle condizioni storiche e materiali date, possano esistere un nuovo ordine mondiale “buono” ed un altro “cattivo”? Gli strateghi del Nuovo Ordine Mondiale, assai più coerentemente, non si pongono affatto simili futili problemi!

[12] Questo testo di Alfredo M. Bonanno è già apparso in Elementi per la ripresa di una pratica anarchica dell’antimilitarismo rivoluzionario, Edizioni Anarchismo, Catania 1982. I tagli e le modificazioni sono opera dell’autore stesso, mentre le note, compresa questa, sono tutte di chi ha curato il presente volume.
Il testo è evidentemente “datato” e si rivolge in prevalenza ad un dibattito interno al movimento anarchico riguardo alle iniziative contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso e, più in generale, intorno alla posizione da tenere di fronte al problema della guerra. In altri termini, la guerra reale del Golfo Persico era di là da venire, né del tutto immaginabile per come si è poi materialmente sviluppata.
Si è giudicato opportuno tuttavia ripresentare questo scritto poiché molti dei problemi che vi sono affrontati non solo non sono stati superati durante l’“emergenza” della guerra del Golfo, ma, semmai, sono riapparsi in maniera più drammatica e generalizzata. Né, ovviamente, si tratta di questioni che riguardano soltanto il movimento anarchico o questo o quell’altro movimento, avendo investito di sé ampie porzioni di società.
Si possono condividere in toto, in parte o per nulla le posizioni espresse già allora dall’autore riguardo alla guerra ed ai movimenti che vi si oppongono, ma è altresì evidente che sono dei nodi ineludibili, su cui esercitare la propria riflessione. Per questa ragione ci è parso utile riproporre il testo di Bonanno nell’insieme del presente volume.

[13] La guerra del Golfo, del tutto annunciata, è un esempio significativo: stava sotto gli occhi di tutti e da tempo, ma è dovuta scoppiare con tutta la sua tremenda spettacolarità affinché la gente ne prendesse effettiva coscienza.

[14] Paradossalmente, neppure oggi, dopo la provvisoria conclusione della guerra del Golfo, i più sanno realmente cosa sia una guerra, cioè quale il suo senso, quali le sue cause, quali i suoi effettivi effetti. Spesso si pensa di “sapere” perché si è visto in televisione o si è letto; d’altronde, è evidente che abbiamo visto e letto quello che hanno voluto farci vedere e leggere e che il bombardamento informativo non aiuta la comprensione reale, ma la confusione, che è il suo fine.

[15] Oggi il Pci è divenuto Pds e, in parte, Rifondazione comunista.

[16] Nella realtà dei fatti, che A. M. Bonanno non poteva prevedere, di fronte ad una diretta partecipazione italiana alla guerra, il Psi si è messo l’elmetto ed è stato tra i più convinti bellicisti; l’ex Pci ed ora Pds ha tenuto una condotta a dir poco oscillante, fra astensioni, voti contrari, appoggi ai movimenti pacifisti ma anche ai soldati nel Golfo ecc.; il Partito Radicale, infine, ha votato a favore della guerra, ribadendo, con bella conseguenza, la sua scelta di nonviolenza! Al di là dell’evidente incongruenza di questa posizione, del ridicolo cui si è esposta, valgono in questo caso le argomentazioni sviluppate dall’autore riguardo alle scelte compiute durante la prima Guerra Mondiale da Kropotkin ed altri, e più in generale sui limiti generali del “pacifismo” generico.

 
 

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