Titolo: Scritti minori
Sottotitolo: Con l’aggiunta degli ultimi ritrovamenti
Autore: Stirner, Max
Note: Biblioteca di “Anarchismo” — 16
Titolo originale: Max Stirners Kleinere Schriften und seine Entgegnungen auf die Kritik seines Werkes: Des Einzige und sein Eigenthum. Aus den Jahren 1842-1847. Herausgegeben von John Henry Mackay, Berlin 1898, Verlag von Schuster & Loeffler.
Prima edizione: maggio 2012
SKU: biblioteca-000016
Dimensioni: cm 16,5 x 23,5
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    Nota editoriale

    I. Scritti sull’educazione e sulla scuola

      1) Il falso principio della nostra educazione o l’umanesimo e il realismo

      2) [Educazione fisica]

      3) [Friedrich Karl von Savigny]

      4) [Il titolo di dottore]

      5) [Un maestro di scuola]

      6) [Friedrich Karl von Savigny]

      7) Johann Karl Friedrich Rosenkranz sulla libertà d’insegnamento

      8) [Friedrich Karl von Savigny]

      9) In merito alla destituzione degli ecclesiastici e dei maestri di scuola in Prussia

      10) Da dove e dove?

      11) [Addestramento prussiano]

      12) [Una preghiera prima delle lezioni]

      13) Le leggi della scuola

    II. Arte e religione

    III. Scritti su Königsberg

      1) [Königsberger Skizzen di Karl Rosenkranz. Prossima pubblicazione]

      2) Recensione a Königsberger Skizzen di Karl Rosenkranz

      3) [Glossen und Randzeichnungen zu Texten unserer Zeit (Glosse e note marginali a testi del nostro tempo) di Ludwig Walesrode. Una recensione]

      4) [Ancora su Königsberger Skizzen di Karl Rosenkranz]

    IV. Alcune cose provvisorie sullo Stato fondato sull’amore

    V. Recensione a Les mystères de Paris di Eugène Sue

    VI. Risposte alle critiche mosse a L’unico e la sua proprietà

      1) I recensori di Stirner

      2) I reazionari filosofici. Risposta a I sofisti moderni di Kuno Fischer

    VII. Scritti su Bruno Bauer

      1) A proposito de Die Posaune des jüngsten Gerichts über Hegel, des Atheisten und Antichristen [1841] [La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo e anticristo] di Bruno Bauer

      2) Sull’impiego dei teologi nelle università tedesche. Voto teologico

      3) [Il voto di Philipp Konrand Marheineke]

      4) [Dalla Francia]

      5) [Nell’università di Copenhagen]

      6) [Un voto teologico riguardo l’impiego dei teologi nelle università tedesche]

      7) [Le mura di Gerico]

      8) Il voto separato di Marheineke

      9) [Il Sinodo]

      10) I felici di vivere

      11) Arte e scienza

    VIII. Risposta di un membro della comunità berlinese alla lettera dei cinquantasette ecclesiastici intitolata La festività domenicale. Parola d’amore ai nostri parrocchiani

    IX. Il problema ebraico

      1) [La corporazione degli Iloti]

      2) [Sulla questione degli Ebrei]

      3) [Il rafforzamento della morale]

      4) [Le leggi contro gli Ebrei e la sventura]

    X. Scritti sulla censura

      1) [Una legge sulla stampa]

      2) La libertà di udire

      3) [La missione della stampa]

      4) Il processo del dottor Jacoby

      5) [Diana di Efeso]

      6) Difesa del dottor Jacoby

    XI. “I Liberi”

      1) [A proposito della lega dei “Liberi”]

      2) I “Liberi”

    XII. Scritti vari

      1) [Cambiamenti nel Ministero]

      2) [Calunnia]

      3) [La “Literarischen Zeitung”]

      4) [La “Vossische Zeitung”]

      5) [Il “Corriere tedesco”]

      6) [La Russia]

      7) [La “Foreign Quarterly Review”]

      8) Il costume è meglio della legge

      9) “Il patriota”. [Problemi interni]

      10) [Problemi linguistici]

      11) [Il Michele tedesco]

      12) [L’“Annunciatore della Borsa del Mar Baltico”]

      13) [Letteratura nazionale dei Tedeschi]

      14) [I commercianti di Königsberg]

      15) [Elezioni per la Dieta del distretto dell’Hanel occidentale]

      16) [I commercianti di Königsberg]

      17) [Sanssouci]

      18) [Importanza degli Stati provinciali in Prussia]

      19) [L’“Athenaeum”]

      20) Arte e scienza

      21) [Sul divorzio]

      22) [Elezione del rabbino capo]

      23) I Tedeschi della Germania orientale

      24) La benedizione dei bambini

      25) La marina [tedesca]

      26) Il mandato revocabile

      27) Impero e Stato

      28) Manchevolezze del sistema industriale

      29) Marina da guerra tedesca

      30) Borsa merci

    XIII. Ultimi ritrovamenti

      1) Recensione a Theodor Rohmer, Deutschlands Beruf in der Gegenwart, Zürich und Winterthur 1841.

      2) Poesie

        Nuove costruzioni

        In montagna

        A una madre

        Viaggio sull’acqua

        Separazione

        All’amata

      3) Sull’impegno del cittadino e su di un certo impegno religioso

      4) Corrispondenza

      5) Sabato e Domenica o la festività cristiana

      6) Cristianesimo e anticristianesimo

Nota editoriale

Questa raccolta degli Scritti minori di Max Stirner viene pubblicata seguendo un criterio diverso da quello che John Henry Mackay applicò nella sua seconda edizione, quella del 1914. Ciò significa che essa si presenta in modo diverso anche dalla traduzione di Angelo Treves che segue strettamente l’ordine fissato da Mackay. In effetti, a mio avviso, quest’ordine aveva delle pecche considerevoli mettendo insieme scritti di grande importanza, frutto della riflessione filosofica di Stirner, con note redazionali e piccole cronache quotidiane che fanno parte del suo lavoro giornalistico. Eppure, anche in questi “pezzi” di scarso significato e di improbabile lettura si trovano importanti spunti – sparsi qua e là – riguardanti i problemi della scuola, della censura, la questione ebraica, ecc. Ho ritenuto quindi opportuno dividere tutti gli scritti in tredici sezioni o capitoli.

  1. Scritti sull’educazione e sulla scuola, di cui i più importanti sono senza dubbio Das unwahre Prinzip unserer Erziehung, oder: Humanismus und Realismus [Il falso principio della nostra educazione o l’umanesimo e il realismo] e Über Schulgesetze [Le leggi della scuola].

  2. Arte e religione.

  3. Scritti su Königsberg di cui i più importanti sono la doppia recensione ai Königsberger Skizzen [Schizzi di Königsberg] di Karl Rosenkranz e quella alle Glossen und Randzeichnungen zu Texten unserer Zeit [Glosse e note marginali a testi del nostro tempo] di Ludwig Reinhold Walesrode.

  4. Alcune cose provvisorie sullo Stato fondato sull’amore.

  5. Recensione a Les mystères de Paris [I misteri di Parigi] di Eugène Sue.

  6. Risposte alle critiche mosse a L’unico e la sua proprietà.

  7. Scritti su Bruno Bauer di cui il più importante è Über B. Bauer’s Die Posaune des jüngsten Gerichts über Hegel, des Atheisten und Antichristen [A proposito de La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo e anticristo].

  8. Mitglieds der Berliner Gemeinde wider die Schrift der siebenundfünfzig Berliner Geistlichen Die christliche Sonntagsfeier. Ein Wort der Liebe an unsere Gemeinen [Risposta di un membro della comunità berlinese alla lettera dei 57 ecclesiastici intitolata La festività domenicale. Parole d’amore ai nostri parrocchiani].

  9. Il problema ebraico.

  10. Scritti sulla censura.

  11. I “Liberi”.

  12. Scritti vari.

  13. Ultimi ritrovamenti.

Per una guida alla lettura rinvio ai miei due libri su Stirner. Il primo, dal titolo Max Stirner, in seconda edizione accresciuta e corretta, è disponibile nella Collana “Pensiero e azione” delle Edizioni Anarchismo. Il secondo, dal titolo Teoria dell’individuo. Stirner e il pensiero selvaggio, anche questo in seconda edizione accresciuta e corretta, è disponibile nella stessa collana di cui sopra.

A.M.B.

I
Scritti sull’educazione e sulla scuola

1) Il falso principio della nostra educazione
o l’umanesimo e il realismo

Il nostro tempo si sforza di trovare una parola con la quale esprimere il proprio spirito. Si fanno quindi avanti molti nomi e tutti pretendono di essere quello giusto. Sotto tutti i punti di vista il nostro tempo mostra il più vario brulichio di parti; le aquile del momento attuale si radunano intorno all’eredità del passato, che si sta decomponendo. Vi è dappertutto una grande quantità di cadaveri politici, sociali, ecclesiastici, scientifici, artistici, morali ed altri ancora; e finché tutti questi cadaveri non saranno consumati, l’aria non sarà pura, pesante rimarrà il respiro.

Senza la nostra collaborazione il tempo non tirerà fuori la parola giusta: tutti vi dobbiamo collaborare. Se però tanto dipende da noi, allora è giusto che ci chiediamo che cosa si è fatto e si pensa di fare di noi; ci domandiamo con quale tipo di educazione si cerca di metterci in grado di creare quella parola. Si educa coscienziosamente quella predisposizione che abbiamo a diventar creatori o ci si tratta soltanto come creature, la cui natura tollera un puro addestramento? La questione è altrettanto importante quanto soltanto può esserlo una delle nostre questioni sociali; anzi è la questione più importante, perché quelle si appoggiano su questa come sul loro fondamento. Se voi siete qualcosa di valido, allora opererete anche qualcosa di valido. Ognuno sia “perfetto in se stesso”: allora anche la vostra comunità, la vostra vita sociale sarà perfetta. Pertanto noi ci preoccupiamo soprattutto di ciò che si fa di noi nel tempo in cui possiamo venire educati: il problema della scuola è il problema della vita. Ciò salta abbastanza agli occhi anche adesso. Da anni si combatte su questo terreno con un calore e una franchezza che superano quelle del terreno politico, perché non urtano contro gli ostacoli di un potere dispotico. Un venerabile veterano, il professor Theodor Heinsius che, come il compianto professor Wilhelm Traugott Krug, fino alla tarda età ha conservato forza e solerzia, ha cercato recentemente con un piccolo scritto di eccitare nuovamente l’interesse per questo argomento. Il titolo è: Konkordat zwischen Schule und Leben oder Vermittlung des Humanismus und Realismus, aus nationalem Standpunkt betrachtet, Berlin 1842, [Concordato tra la scuola e la vita o una conciliazione tra umanesimo e realismo, considerato da un punto di vista nazionale]. Due partiti, gli umanisti e i realisti, lottano per la vittoria. Ciascuno dei due vuole raccomandare il suo principio educativo come l’autentico e il migliore per le nostre necessità. Non volendosi litigare con gli uni o con gli altri, Heinsius nel suo libretto parla con quella mitezza e spirito conciliante, che mirano a riconoscere alle due parti il proprio diritto, ma che intanto commettono la più grande ingiustizia verso la questione stessa, perché a questa si tende un servizio soltanto con una decisione tagliente. Questo peccato contro lo spirito della questione resta ormai l’eredità irrifiutabile di tutti i mediatori di poco coraggio. I “concordati” offrono soltanto un ripiego:

Soltanto franco come un uomo: pro o contro,
e come la parola d’ordine: schiavo o libero!
Anche gli dèi discesero dall’Olimpo,
e combattono sulla torre del partito.

[Georg Herwegh, Die Partei]

Prima di arrivare alle sue proposte proprie, Heinsius traccia un breve schizzo dello sviluppo storico dopo la Riforma. Il periodo tra la Riforma e la rivoluzione è quello del rapporto – il che qui voglio soltanto affermare senza motivare, perché penso di esporre la cosa più in dettaglio in altra occasione – tra maggiorenni e minorenni, tra dominanti e asserviti, tra potenti e impotenti. Per dirla in breve, è il periodo della sudditanza. A prescindere da ogni altro motivo che potesse giustificare una superiorità, la cultura – in quanto potere – sollevò chi così la possedeva al di sopra dell’impotente, cioè di chi ne era privo. E la persona colta passò nel suo ambiente (grande o piccolo che fosse) per potente, forte, per uno che si impone: infatti costui era un’autorità. Non tutti potevano essere chiamati a tale posizione di dominio o a tale autorità; perciò anche la cultura non era per tutti, perché una cultura di tutti sarebbe stata in contraddizione con quel principio. La cultura procura una superiorità e rende signori: e così in quell’epoca di signori essa era un mezzo per dominare. Soltanto la rivoluzione spezzò il regime dei padroni e dei servi. Allora entrò in vigore il principio che ognuno doveva essere padrone di se stesso. Ciò comportò la necessaria conseguenza che la cultura, la quale rende signori, d’ora in poi doveva essere universale; e ovviamente si impose il compito di trovare ormai la vera cultura universale. Il bisogno di una cultura universale, accessibile a tutti, dovette trasformarsi in lotta contro quella cultura che testardamente si affermava come esclusiva; e la rivoluzione dovette alzare la spada anche in questo campo contro il dispotismo del periodo della Riforma. L’idea della cultura universale urtò contro la cultura esclusiva; a questo riguardo la guerra e la lotta si trascinarono attraverso fasi diverse e sotto molti nomi fino ai nostri giorni. Per le opposte posizioni, che si affrontano nei due campi avversi, Heinsius ha scelto i nomi di umanesimo e realismo, e noi vogliamo mantenerli perché per quanto non molto felici, sono però i più diffusi.

Fino al XVIII secolo, quando l’Illuminismo cominciò a diffondere la sua luce, la cosiddetta cultura superiore rimase incontestabilmente nelle mani degli umanisti e si basava quasi esclusivamente sullo studio dei classici antichi. Su un binario parallelo procedeva un’altra cultura, la quale cercava pure un modello nell’antichità e sostanzialmente equivaleva ad una notevole conoscenza della Bibbia. Il fatto che in entrambi i casi si scegliesse a propria unica materia la miglior cultura del mondo antico, dimostra abbastanza chiaramente quanto la propria vita non offrisse ancora qualcosa di pregevole e quanto noi fossimo ancora lontani dal poter creare le forme della bellezza con una nostra originalità e il contenuto della verità con la nostra ragione. Noi non dovevamo che imparare forma e contenuto: eravamo apprendisti. E come il mondo antico dominava da padrone su di noi attraverso i suoi scultori e la Bibbia, così l’esser signori e servi – il che può essere storicamente dimostrato – era la sostanza di tutte le nostre vicende; e solamente da questo carattere dell’epoca si spiega perché con tanta naturalezza si aspirasse ad una “cultura superiore” e si ambisse a contraddistinguersi per essa davanti al popolino. Chi possedeva cultura diventava padrone degli incolti. Una cultura popolare gli sarebbe stata nemica, perché il popolo doveva rimanere in “stato laicale” di fronte ai dotti signori e doveva soltanto ammirare e venerare questa signorilità, che gli era estranea. Così il romanismo continuò fra le persone colte; i suoi sostegni sono il latino e il greco. Inoltre non poté non succedere che questa cultura rimanesse del tutto formale; sia perché dell’antichità, da un pezzo morta e sepolta, potevano mantenersi soltanto le forme, direi quasi gli schemi della letteratura e dell’arte; e sia soprattutto perché la signoria sugli uomini viene acquisita e mantenuta proprio attraverso una superiorità formale: si richiede soltanto un certo grado di capacità intellettuale per essere superiori agli incapaci. La cosiddetta cultura superiore era perciò una cultura elegante, un sensus omnis elegantiae, una cultura del gusto e del senso della forma, che in fondo minacciava di scadere a cultura puramente grammaticale e che tanto profumava dei profluvi del Lazio la stessa lingua tedesca che ancor oggi si ha l’occasione di ammirare nelle più belle costruzioni di frasi alla latina, per esempio, nella Geschichte des brandenburgisch-preussischen Staates [Storia dello Stato brandeburghese-prussiano] Berlin 1842. Un libro per tutti, di Alfred Zimmermann, recentemente apparso.

Intanto dal razionalismo nasceva a poco a poco uno spirito di opposizione a questo formalismo; e al riconoscimento degli universali e stabili diritti umani si abbinava la richiesta di una formazione umana, che fosse per tutti. La carenza di un’istruzione reale e che incidesse nella vita era evidente nel modo in cui finora avevano proceduto gli umanisti. Tale carenza produsse l’esigenza di una formazione pratica. D’ora in poi qualsiasi sapere doveva diventare vita; il sapere doveva diventare qualcosa di vissuto. Infatti soltanto un sapere che si fa realtà è la perfezione del sapere stesso. Se si fosse riusciti ad introdurre nella scuola la materia della vita e ad offrire così a tutti qualcosa di utile e proprio per questo a guadagnare tutti a questa preparazione alla vita, dirigendoli alla scuola, il popolo non avrebbe più invidiato per il loro sapere fuori del comune i dotti signori e avrebbe messo fine al suo “stato laicale”. Superare lo “stato sacerdotale” dei dotti e lo “stato laicale” del popolo è l’aspirazione del realismo; e ciò supera necessariamente l’umanesimo. Il fatto di cominciare a rifiutare di far proprie le forme dell’antichità classica comportò che la signoria dell’autorità perdesse il suo nembo. Il tempo recalcitrò contro il rispetto tradizionalmente dovuto all’erudizione, come in genere si ribellò contro qualsiasi rispetto reverenziale. L’essenziale superiorità dei dotti, cioè la cultura generale, doveva diventare un bene per tutti. Ma che cos’è la cultura generale – ci si chiedeva – se non (in parole povere) la capacità di “poter interloquire su tutto” o (in parole più gravi) la capacità di padroneggiare ogni argomento? Era a tutti evidente che la scuola era rimasta indietro in confronto alla vita, perché non solo era sottratta al popolo, ma anche perché quelli che frequentavano la scuola trascuravano la cultura generale per una cultura esclusiva. La scuola non teneva buona una gran quantità di materia che la vita ci impone di padroneggiare già dai banchi della scuola stessa. La scuola – così si pensava – deve pur tracciare le linee fondamentali del nostro armonizzarci con tutto ciò che la vita ci offre; e deve pur provvedere a che nessuno degli oggetti, di cui un giorno ci dovremo occupare, ci sia completamente estraneo e resti al di là delle nostre capacità. Perciò si cercò con grande zelo la dimestichezza con le cose e le vicende del nostro tempo e si assunse una pedagogia applicabile a tutti, che soddisfacesse il bisogno a tutti comune di orientarsi nel proprio mondo e nel proprio tempo. A questo modo quelli che sono i diritti umani per principio – l’uguaglianza e la libertà – acquistarono, in campo pedagogico, vita e realtà: l’uguaglianza, perché quella cultura era di tutti; e la libertà, perché, nelle cose di cui si aveva bisogno, si diventò abili e quindi indipendenti e a se stanti.

Però comprendere il passato – il che ci insegna l’umanesimo – e afferrare il presente – il che ha di mira il realismo –, tutt’e due non conducono che al potere sul temporale e caduco. Eterno è solo lo spirito che coglie se stesso. Perciò anche uguaglianza e libertà ricevettero soltanto un’esistenza subordinata. Si poteva diventare uguali agli altri ed emancipati dalla loro autorità. Ma dell’uguaglianza con se stessi, della composizione e riconciliazione del nostro uomo temporale ed eterno, della trasfigurazione della nostra natura a spirito; in una parola, dell’unità e dell’onnipotenza del nostro io, che basta a se stesso perché non lascia sussistere nulla di estraneo fuori di sé, di tutto questo in quel principio non si poteva riconoscere alcuna traccia. La libertà appariva soltanto come indipendenza dalle autorità: però era ancora vuota di autodeterminazione e non forniva ancora i fatti di un uomo libero in se stesso, auto-rivelazioni di uno spirito senza attenzioni riverenziali, cioè al riparo dal fluttuare dei ripensamenti. Certo, chi aveva una cultura formale non doveva più eccellere sopra il livello della cultura generale e da un uomo “di cultura superiore” si trasformò in un uomo “di cultura unilaterale” (in quanto tale egli mantiene naturalmente il suo valore incontestabile, poiché qualsiasi cultura generale è destinata ad irradiarsi nelle diverse unilateralità di una cultura speciale). Ma chi aveva quel tipo di cultura che voleva il realismo non andava neppure al di là dell’uguaglianza con gli altri e della libertà dagli altri; non andava al di là del cosiddetto “uomo pratico”. È bensì vero che la vuota eleganza dell’umanista, del dandy, non poteva sfuggire alla sconfitta; ma il vincitore brillava del verderame della materialità e non era nulla di più alto di un industriale senza gusto. Il dandismo e l’industrialismo lottano per avere in preda amabili ragazzi e ragazze e, per allettarli, si scambiano le armi, per cui spesso il dandy si presenta con rozzo cinismo e l’industriale con biancheria candida. Certo il vivo legno della mazza ferrata dell’industriale manderà a pezzi il secco bastone del dandy smidollato; ma, vivo o morto, il legno rimane legno, e se la fiamma dello spirito deve splendere, il legno deve bruciare. Ma intanto perché anche il realismo deve ugualmente perire, se esso accoglie in sé (e non si può negare che abbia la capacità di farlo) ciò che vi è di buono nell’umanesimo? Certo esso può accogliere in sé ciò che vi è di inalienabile e di vero nell’umanesimo: la cultura formale. Il che gli è reso sempre più facile attraverso il modo scientifico (divenuto possibile) e razionale di trattare tutte le cose da insegnare (ricordo soltanto, a modo di esempio, ciò che Karl Becker ha fatto per la grammatica tedesca); e attraverso questa nobilitazione esso potrà scacciare il suo avversario dalla sua solida posizione. Siccome tanto il realismo quanto l’umanesimo partono dal principio che qualunque educazione è destinata a procurare all’uomo una capacità; e siccome tutt’e due concordano nel dire che – per esempio – sul piano del linguaggio si devono abituare gli uomini ad usare tutti i modi di dire che servono ad esprimersi, e sul piano della matematica si devono loro inculcare tutti i modi della dimostrazione, e così via; siccome tutt’e due concordano che si debba mirare a raggiungere la maestria nel maneggio della materia, cioè ad esserne padroni, allora non potrà certo non succedere che infine anche il realismo riconosca come scopo ultimo la formazione del gusto e metta in prima linea l’attività formatrice (come in parte già ora succede). Infatti in campo educativo tutta la materia data ha il suo valore soltanto per il fatto che i bambini imparano a far qualcosa con essa, ad usarla. È bensì vero – come sostengono i realisti – che rimane impresso soltanto ciò che è utile e che serve a qualcosa; però l’utilità dovrà essere creata soltanto nel formare, nel generalizzare, nel presentare, e non si potrà respingere quest’esigenza umanistica. Gli umanisti hanno ragione nel volere principalmente l’educazione formale; hanno torto nel non trovarla nella padronanza di qualunque materia. I realisti domandano una cosa giusta quando dicono che ogni materia deve cominciare ad essere trattata a scuola; ma sbagliano, quando non vogliono considerare come scopo principale l’educazione formale. Se il realismo esercita il giusto auto-rinnegamento e non si abbandona a traviamenti materialistici, può giungere a superare così il suo avversario e insieme a mettersi d’accordo con lui. Ma perché gli siamo ostili? Il realismo depone dunque davvero il fardello dei suoi vecchi princìpi ed è all’altezza dei tempi? Tutto resta da giudicare da qui: se si riconosce nell’idea che il nostro tempo si è conquistata come la cosa più cara o se occupa un posto stazionario dietro il nostro tempo. Deve cadere quell’inestinguibile paura, con cui i realisti rifuggono dall’astrazione e dalla speculazione. A questo scopo voglio addurre alcuni passi di Heinsius, che su questo punto non cede ai rigidi realisti e risparmia a me di citarli, il che mi sarebbe pur facile. A p. 9 Heinsius dice: “Negli istituti di cultura superiore si sentiva parlare dei sistemi filosofici greci, di Aristotele e Platone, ma anche dei sistemi filosofici moderni, di Kant (che presenta come indimostrabili le idee di Dio, della libertà, dell’immortalità), di Johann Gottlieb Fichte (che mette l’ordinamento morale del mondo al posto del Dio personale), di Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Hegel, Johann Friedrich Herbart, Karl Christian Krause, e come possono altrimenti definirsi tutti gli scopritori e annunciatori di una sapienza sovrumana. Ma che cosa dobbiamo fare noi – ci si chiede –, che cosa deve fare la nazione tedesca delle fantasticherie idealistiche, che non appartengono né alle scienze empiriche e positive né alla vita pratica, e neppure giovano allo Stato? Che ce ne facciamo di un sapere oscuro, che serve soltanto a confondere lo spirito del tempo, che conduce ad essere miscredenti e atei, che divide gli animi, che fa scappare gli studenti dalle cattedre dei suoi apostoli, e che addirittura rende oscura la nostra lingua nazionale, dato che trasforma in mistici enigmi i più chiari concetti della sana intelligenza umana? È questa la sapienza che deve educare i nostri giovani a diventare uomini moralmente buoni, ad essere persone riflessive e ragionevoli, fedeli cittadini, lavoratori utili e valenti nella loro professione, mariti amorosi e padri solerti nell’impiantare il benessere della loro famiglia?”. E a p. 45 Heinsius dice: “Se guardiamo la filosofia e la teologia, che come scienze del pensiero e della fede stanno in prima linea in ordine al bene del mondo, che cosa sono diventate attraverso i loro attriti vicendevoli, ai quali Lutero e Leibniz hanno aperto la strada? Il dualismo, il materialismo, lo spiritualismo, il naturalismo, il panteismo, il realismo, l’idealismo, il soprannaturalismo, il razionalismo, il misticismo e come altro si definiscono tutti gli “ismi” astrusi di speculazioni e sentimenti eccentrici: che beneficio hanno poi arrecato allo Stato, alla Chiesa, alle arti, alla cultura popolare? Il pensare e il sapere si è certo ampliato quantitativamente; ma il pensiero è forse diventato più chiaro e il sapere più sicuro? La religione, in quanto dogma, è più pura; ma la fede soggettiva è più confusa, indebolita, infranta nei suoi sostegni, scossa dalla critica e dall’ermeneutica, o trasformata in fanatismo oppure in ipocrisia farisaica. E la Chiesa? Ohimé, la sua vita è disunione e morte. Non è così?”. – Perché i realisti si mostrano così mal disposti verso la filosofia? Perché disconoscono la propria vocazione e vogliono a tutta forza restare limitati invece di sciogliersi da ogni limite. Perché odiano l’astrazione? – Perché sono essi astratti; perché astraggono dal perfezionamento di se stessi, dallo slancio verso la verità che redime.

Vogliamo forse consegnare nascostamente la pedagogia ai filosofi? Tutt’altro! Si comporterebbero in modo piuttosto goffo. Essa venga affidata soltanto a coloro che sono più che filosofi, e perciò anche infinitamente di più che umanisti o realisti. Questi ultimi fiutano giustamente che anche i filosofi dovranno tramontare; ma non sospettano che al loro tramonto seguirà una resurrezione. Essi astraggono dalla filosofia per raggiungere senza di essa il cielo dei loro scopi; la scavalcano e cadono nell’abisso della loro vacuità: come l’ebreo errante, essi sono immortali ma non eterni. Solo i filosofi possono morire e trovare nella morte il loro vero io. Con essi muore il periodo della Riforma, l’epoca del sapere. Sì, è proprio così: il sapere stesso deve morire per rifiorire nella morte come volontà. La libertà di pensiero, di fede e di coscienza, questi splendidi fiori di tre secoli, risprofonderanno nel grembo materno della terra, affinché una nuova libertà, quella del volere, si nutra dei suoi succhi più nobili. Il sapere e la libertà del sapere fu l’ideale di quel tempo, che (in quanto ideale) è stato finalmente raggiunto all’apice della filosofia: a questo punto l’eroe costruirà a se stesso il rogo e metterà in salvo nell’Olimpo la sua parte eterna. Con la filosofia si conclude il nostro passato, e i filosofi sono i Raffaello del periodo del pensiero: in essi il vecchio principio si attua in brillante sfarzo di colori, e, ringiovanendosi, da temporale e caduco diventa eterno. D’ora in poi chi vuol conservare il sapere, lo perderà; ma chi vi rinuncia, lo conquisterà. Soltanto i filosofi sono chiamati a queste rinunce e a questa conquista: essi stanno davanti al fuoco fiammeggiante e, come l’eroe morente, devono bruciare la loro spoglia mortale affinché lo spirito imperituro diventi libero.

Per quanto si può, si deve parlare in modo piuttosto comprensibile. Infatti l’errore dei nostri giorni sta pur sempre nel fatto che il sapere resta come incompiuto e non perspicuo; nel fatto che rimane un sapere materiale e formale, positivo, e non si eleva a sapere assoluto; nel fatto che ci pesa addosso come un fardello. Come quell’uomo dell’antichità dobbiamo desiderare di dimenticare, dobbiamo bere al Lete che rende beati: altrimenti non torneremo in noi. Tutto ciò che è grande deve saper morire e trasfigurarsi con la propria morte; soltanto ciò che è miserevole raccoglie, come l’artritico tribunale della camera imperiale, atti su atti e brilla per millenni in graziose figure di porcellana, come l’intramontabile puerilità dei Cinesi.

La vera scienza trova il suo compimento, cessando di essere sapere e ridiventando un semplice impulso umano: la volontà. Così, per esempio, chi per anni ha riflettuto sulla sua “vocazione di uomo”, immergerà tutte le preoccupazioni e le peregrinazioni del suo ricercare nel Lete di un semplice sentimento, di un impulso, che da quell’ora in poi lo guiderà pian piano, nello stesso momento in cui avrà trovato quell’impulso. La “vocazione dell’uomo”, che questi ha ricercato per i mille sentieri e viottoli dell’indagine, erompe all’improvviso, appena è stata riconosciuta, nella fiamma del sapere morale e incendia il petto dell’uomo che non è più disperso nella ricerca, ma è diventato di nuovo fresco e ingenuo.

Orsù, o scolaro, bagna di buona voglia
il terreno petto nell’aurora mattutina.

[W. Goethe, Faust]

Questa è la fine e insieme l’immortalità del sapere: il sapere, che ridivenuto semplice e immediato, si dice e si rivela di nuovo e in figura nuova in ogni azione come volontà. Non la volontà è originariamente ciò che è giusto, come volentieri ci vorrebbero assicurare i pratici; non si può scavalcare il voler sapere per star subito nella volontà; ma il sapere perfeziona se stesso in volontà, quando si spiritualizza e come spirito, “che si costruisce il corpo”, crea se stesso. Perciò ogni educazione, che non si prefigga questa morte e questa ascensione al cielo del sapere, porta con sé tutti i difetti della caducità, la formalità e la materialità, il dandismo e l’industrialismo. Un sapere, che non si purifichi e concentri tanto da portare a volere; o, in altre parole, un sapere che mi appesantisca soltanto come un avere o un possesso invece di fondersi completamente con me in modo tale che l’io, mobile e libero e senza l’impaccio di un possesso da trascinarsi appresso, cammini per il mondo con animo vispo; un sapere dunque, che non sia diventato qualcosa di personale, fornisce una misera preparazione alla vita. Non lo si vuol lasciare arrivare all’astrazione, che sola però garantisce la vera consacrazione ad ogni sapere concreto: infatti l’astrazione uccide realmente la materia e la trasforma in spirito, ma assicura l’autentica e definitiva liberazione. Solo nell’astrazione sta la libertà: uomo libero è soltanto chi supera il dato e riprende nell’unità del suo Io anche ciò che ne ha ricavato colla sua ricerca.

Il nostro tempo, dopo aver raggiunto la libertà di pensiero, mira a perfezionare questa libertà di pensiero fino a trasformarla in libertà di volere al fine di attuare questa libertà di volere come il principio di una nuova epoca. Perciò anche il fine ultimo dell’educazione non può più essere il sapere, ma il volere nato dal sapere; e perciò ancora l’espressione eloquente di ciò che l’educazione deve ottenere è l’uomo personale o libero. La verità stessa non consiste in altro se non nel rivelare se stessi: e a questo appartiene il ritrovare se stessi, la liberazione da tutto ciò che è estraneo, l’estrema astrazione o la liquidazione di ogni autorità, la riconquista dell’ingenuità. Ora la scuola non fornisce tali uomini veri: se pur tuttavia essi ci sono, lo sono nonostante la scuola. Questa ci fa bensì padroni delle cose e tutt’al più anche padroni della nostra natura; ma non ci rende nature libere. Ma nessun sapere, per quanto profondo ed esteso, nessun ingegno e acutezza di mente, nessuna sottigliezza dialettica ci preserva dalla meschinità del pensare e del volere. Non è davvero merito della scuola, se noi da lei non portiamo via l’egoismo. Ogni genere di vanità correlativa, ogni genere di avidità di guadagno, di ambizione, di cariche, di sollecitudine meccanica e servile, di ambiguità, ecc., si combina sia col sapere diffuso sia con l’elegante cultura classica. E siccome tutta questa istruzione non esercita alcun influsso sul nostro agire morale, spesso essa subisce il destino d’essere dimenticata nella misura in cui non serve: ci si scrolla di dosso la polvere della scuola. E tutto ciò avviene perché la cultura viene ricercata soltanto nei suoi aspetti formali o materiali o al massimo in tutt’e due, ma non nella verità, nell’educazione del vero uomo. È vero che i realisti fanno un progresso, domandando che lo scolaro avverta e capisca ciò che impara: Friedrich Diesterweg, per esempio, la sa lunga sul “principio della sperimentazione”. Ma anche qui l’oggetto non è la verità, ma qualcosa di positivo (in cui c’è anche da contare la religione), che lo scolaro è condotto a mettere d’accordo e in rapporto con la somma del suo rimanente sapere positivo, però senza elevarsi al di sopra del grezzo sperimentare e guardare, e senza alcun incitamento a lavorare ulteriormente con l’intelligenza, che egli ha acquistato guardando, e a produrre ulteriormente con l’intelligenza, cioè ad essere speculativo, il che in pratica equivale ad essere morale e a comportarsi da persona morale. Al contrario si pensa che debba bastare educare persone sensate; non si ha di mira in verità di educare degli uomini capaci di usare la ragione. Capire cose e dati, la cosa finisce qui: comprendere se stessi non sembra essere cosa da tutti. Così si promuove il senso del positivo, nel suo aspetto formale o anche materiale; e si insegna ad accontentarsi del positivo. Come in certe altre sfere, così anche in quella pedagogica non si lascia che la libertà si affermi, che la forza dell’opposizione si manifesti: si vuole sottomissione. Non si mira che ad un’istruzione formale e materiale; per cui dai serragli degli umanisti escono soltanto degli eruditi e da quelli dei realisti soltanto degli “utili cittadini”: entrambi però non sono che uomini sottomessi. Il nostro buon fondo di rozzezza viene violentemente soffocato e con esso lo sviluppo del sapere verso la libera volontà. Il risultato della vita scolastica è allora la pedanteria. Come da bambini ci siamo abituati ad adattarci a tutto quanto ci veniva imposto, così più tardi ci adattiamo e rassegniamo alla vita positiva, ci rassegniamo al tempo, diventiamo suoi servi e cosiddetti buoni cittadini. Ma allora dove mai, al posto della sottomissione finora alimentata, si rafforza uno spirito di opposizione? Dove mai invece di una persona che impara si educa una persona creativa? Dove l’insegnante si trasforma in collaboratore? Dove ancora l’insegnante riconosce che il sapere si cambia in volere? Dove mai l’uomo libero, e non puramente l’uomo colto, costituisce il fine dell’educazione? Purtroppo in pochi posti. Si deve diffondere la persuasione che compito supremo dell’uomo non è la cultura, la civilizzazione, ma lo svolgere un’attività propria. Verrà forse per questo trascurata la cultura? Proprio no; come non intendiamo perdere la libertà di pensiero, quando vogliamo che essa passi e si trasfiguri nella libertà del volere. Se l’uomo mette innanzitutto il suo onore nel sentire se stesso, nel conoscere se stesso e nello svolgere una sua attività – e cioè nel sentimento di sé, nella coscienza di sé e nella libertà –, allora egli mirerà da solo a bandire l’ignoranza la quale trasforma l’oggetto, che resta a lui estraneo e incompreso, in un limite e in un ostacolo per la sua conoscenza di se stesso. Se si risveglia negli uomini l’idea della libertà, i liberi si libereranno incessantemente daccapo; se invece si fa di loro soltanto degli uomini colti, allora essi si adatteranno sempre alle circostanze in modo sommamente educato ed elegante e degenereranno in servili anime da lacchè. Che cosa sono per lo più i nostri soggetti colti e ricchi d’ingegno? Sogghignanti padroni di schiavi e schiavi essi stessi.

I realisti possono vantarsi della prerogativa che essi non educano persone puramente colte, ma giudiziosi e utili cittadini. Anzi il loro principio: “Si insegni tutto in ordine alla vita pratica”, potrebbe addirittura passare per la parola d’ordine del nostro tempo, purché però essi non intendano la prassi in senso grossolano. La vera prassi non è farsi strada nella vita; e il Sapere ha un pregio più elevato che non quello di potere essere usato per raggiungere scopi pratici. La prassi suprema è piuttosto che un uomo libero riveli se stesso; e il sapere, che sa morire, è la libertà che dà la vita. “La vita pratica”! Dicendo questo, si crede di aver detto molto. Eppure gli stessi animali conducono una vita del tutto pratica, non appena la madre li ha svezzati dal loro teorico stato di lattanti; e cercano il cibo a loro piacere nei boschi e nei prati oppure vengono legati al giogo di un lavoro. Peter Scheitlin, che conosce la psicologia degli animali, potrebbe spingere il paragone ancor più innanzi fin entro il campo della religione, come si può vedere dalla sua Tierseelenkunde [Psicologia degli animali], Berlin 1840: un libro molto istruttivo, proprio perché tanto accosta gli animali all’uomo civilizzato e l’uomo civilizzato agli animali. Quell’intenzione di “educare alla vita pratica” produce soltanto uomini di princìpi, che agiscono e pensano secondo le massime, ma che non sono uomini per principio; che sono spiriti legalisti, non spiriti liberi. Completamente diversi sono invece quegli uomini, nei quali la totalità del pensare e dell’agire si muove e ringiovanisce continuamente. E ancora completamente diversi sono quegli uomini, che sono fedeli alle loro convinzioni: le convinzioni stesse restano incrollabili, non pulsano come sangue arterioso continuamente rinnovato dal cuore, si irrigidiscono – per così dire – come corpi solidi, e – anche se acquisite e non imparaticce – sono pur qualcosa di positivo e per di più passano per qualcosa di sacro. Così l’educazione realistica può aver di mira dei caratteri solidi, valenti, sani, degli uomini imperterriti, dei cuori fedeli: e questo è un guadagno incalcolabile per la nostra generazione di caudatari. Ma i caratteri eterni, la cui stabilità consiste soltanto nel fluire incessante della loro quotidiana creazione di sé, e sono appunto eterni perché costruiscono se stessi in ogni momento, e perché traggono di volta in volta il loro apparire del momento dalla freschezza che non appassisce e non invecchia mai, e dalla attività creatrice del loro spirito eterno, questi caratteri eterni dunque non escono da quel tipo di educazione. Il cosiddetto carattere sano anche nel migliore dei casi è soltanto un carattere ostinato; se deve essere un carattere perfetto, deve diventare contemporaneamente un carattere sofferente, che palpita e rabbrividisce nella felice passione di un incessante ringiovanimento e di una rinascita.

E così i raggi di qualunque educazione convergono nell’unico centro, che si chiama personalità. Il sapere, per quanto erudito e profondo o vasto e chiaro possa essere, rimane pur soltanto un possesso e una proprietà, fintantoché non si fonderà e scomparirà nel punto visibile dell’io per eromperne fuori prepotentemente come volontà, come spirito trascendente e inafferrabile. Il sapere subisce questa trasformazione allorquando cessa di stare incollato soltanto ad oggetti, allorquando diventa sapere di se stesso o – se questo sembra più chiaro – un sapere dell’idea, un’auto-coscienza dello spirito. Allora esso si muta – per così dire – nell’impulso, nell’istinto dello spirito, in un sapere incosciente, di cui ciascuno si può fare almeno un’immagine confrontandolo col fatto che egli stesso ha sublimato tante e così vaste esperienze in quel semplice sentimento, che si chiama tatto: tutto quell’ampio sapere, ricavato da quelle esperienze, è concentrato in un sapere immediato, per mezzo del quale egli sui due piedi decide il da farsi. Ma il sapere deve arrivare qui, a questa immaterialità, sacrificando le sue parti mortali e, in quanto immortale, diventando volontà.

La miseria della nostra educazione è consistita fin qui per lo più nella circostanza che il sapere non si è corretto in volontà, in attuazione pratica, in pura prassi. I realisti hanno avvertito questa lacuna, ma vi hanno messo riparo in modo miserevole formando degli uomini “pratici” senza idee e non liberi. La maggior parte dei seminaristi sono un documento vivo di questa triste piega. Dirozzati alla bell’e meglio, dirozzano essi stessi; addestrati, addestrano a loro volta. Ma ogni educazione deve diventare personale; e, partendo dal sapere, deve pur tenere costantemente presente l’essenza del sapere stesso, e cioè che esso non deve mai essere possesso ma l’io stesso. In una parola, non è il sapere che deve essere formato, ma è la persona che deve giungere al dispiegamento di se stessa. La pedagogia non deve ulteriormente partire dall’idea di civilizzare, ma dall’idea di formare persone libere, caratteri sovrani; perciò la volontà, che finora è stata violentemente soffocata, non deve continuare ad essere indebolita. Se non si frena l’impulso al sapere, perché si deve frenare l’impulso al volere? Se si coltiva l’impulso al sapere, si coltivi anche l’impulso al volere. La caparbietà e la maleducazione dei bambini ha lo stesso diritto di esistere della loro avidità di sapere. Se si stimola a bella posta questa avidità di sapere, si susciti anche la forza naturale della volontà, cioè quella di opporsi. Se il bambino non impara ad avere un sentimento di se stesso, non impara appunto la cosa più importante. Non si soffochi il suo orgoglio, la sua franchezza. Contro la sua arroganza la mia libertà resta sempre garantita. Infatti se l’orgoglio del bambino degenera in tracotanza, allora il bambino mi fa violenza: questo Io non dovrò tollerare, perché io stesso sono un uomo libero come il bambino. Ma devo difendermene attraverso il comodo baluardo della autorità? No! Se oppongo il rigore della mia libertà, allora la tracotanza dei bambini cadrà da sola. Chi è uomo completo non ha bisogno di essere un’autorità. E se la franchezza esplode in impudenza, questa perderà la sua forza di fronte al dolce potere di una donna autentica, al suo carattere materno o di fronte alla fermezza di un uomo. Si è molto deboli, se si deve chiedere aiuto all’autorità; e si sbaglia, se si crede di correggere l’impudente trasformandolo in un intimorito. Esigere timore e rispetto è cosa che, come l’epoca ormai conclusa, appartiene allo stile rococò.

Di che cosa ci lamentiamo dunque, se consideriamo le carenze della nostra odierna educazione scolastica? Del fatto che le nostre scuole sono ferme ancora al vecchio principio, quello del sapere senza volontà. Il nuovo principio è quello della volontà come trasfigurazione del sapere. Dunque nessun “concordato tra scuola e vita”, ma la scuola deve essere vita; e, nella scuola e fuori della scuola, il compito deve essere l’auto-rivelazione della persona. Tutta l’educazione scolastica sia educazione alla libertà, non alla sottomissione: essere liberi, questa è la vera vita. L’aver capito che l’umanesimo è senza vita avrebbe dovuto spingere il realismo a farsi questa convinzione. Invece, della cultura umanistica si avvertì soltanto che essa non sapeva rendere abili alla cosiddetta vita pratica (borghese, non personale); e, in opposizione a quella cultura puramente formale, ci si volse ad una cultura materiale pensando che, attraverso la comunicazione della materia utile nei rapporti col mondo, non solo si sarebbe superato il formalismo ma anche si sarebbero soddisfatti i bisogni più profondi. Ma anche l’educazione pratica resta ancora largamente indietro in confronto all’educazione personale e libera; e se quella fornisce la capacità di farsi strada nella vita, questa procura la forza di far sprizzare da sé la scintilla della vera vita; se quella prepara a sentirsi come a casa in un determinato mondo, questa insegna a sentirsi a casa con se stessi. Non è ancora tutto, se ci comportiamo come membri della società; potremo invece comportarci anche perfettamente come membri della società, solo allorquando saremo uomini liberi, persone auto-creative (che creano se stesse).

Ora, se l’idea e l’impulso del tempo nuovo è la libertà del volere, la pedagogia deve tener di mira, come suo principio e suo fine, la formazione della libera personalità. Umanisti e realisti si limitano ancora al sapere, e tutt’al più si preoccupano del libero pensiero e, attraverso una liberazione teorica, fanno di noi dei liberi pensatori. Tuttavia, attraverso il sapere, noi diventiamo liberi soltanto interiormente (una libertà, alla quale del resto mai si deve rinunciare); ma con tutta la libertà di coscienza e di pensiero noi esteriormente possiamo restare schiavi e in soggezione. E tuttavia proprio quella libertà, che è esteriore per il sapere, è per la volontà la libertà interiore e vera, la libertà morale.

Soltanto in questa cultura che è universale, perché in essa chi sta in basso si incontra con chi sta in alto, noi incontriamo la vera uguaglianza di tutti, l’uguaglianza delle persone libere: soltanto la libertà è uguaglianza.

Se si vuole un nome, al di sopra degli umanisti e dei realisti si possono mettere i “morali” (così si dice in Germania), perché il loro scopo ultimo è l’educazione morale. Ma allora sorge subito l’obiezione che costoro ci vorranno formare un’altra volta in vista di leggi di morale positiva, come in fondo è sempre avvenuto finora. Ma neppure io lo voglio solo per il fatto che è avvenuto finora; e il fatto che voglio che si risvegli la capacità di opporsi e che l’ostinazione non sia spezzata ma trasfigurata, questo potrebbe sufficientemente chiarire la differenza. Intanto per distinguere l’esigenza posta qui anche dalle migliori aspirazioni dei realisti – come, per esempio, quella che esprime il programma appena pubblicato di Adolph Diesterweg, a p. 36: “Il punto debole delle nostre scuole sta nel difetto di formazione del carattere, come è in genere il punto debole della nostra educazione. Noi non formiamo ad un modo di sentire”. Preferisco dire che noi d’ora in poi abbiamo bisogno di un’educazione personale (e non di imprimere un modo di sentire). Se un’altra volta si vogliono chiamare con un nome in “isti” coloro che seguono questo principio, per conto mio chiamiamoli personalisti.

Perciò, per ricordare ancora Heinsius, “il vivo desiderio della nazione che la scuola venga maggiormente avvicinata alla vita” resta soddisfatto soltanto se si trova la vera vita nella piena personalità, indipendenza e libertà. Infatti chi mira a questo scopo non rinuncia a nulla di quel che di buono hanno l’umanesimo e il realismo, ma li eleva e li nobilita entrambi infinitamente di più. E anche il punto di vista nazionale, che Heinsius sostiene, non può essere lodato come quello giusto, perché questo è invece soltanto il punto di vista personale. Solo l’uomo libero e personale è un buon cittadino (realisti), e anche in mancanza di una cultura specifica (erudita, artistica, ecc.) è un giudice pieno di buon gusto (umanisti).

Se, per concludere, dobbiamo esprimere in brevi parole verso quale traguardo il nostro tempo si deve dirigere, ci sia lecito formulare press’a poco così il necessario tramonto della scienza senza volontà e il sorgere del volere cosciente di sé, che si compie nello splendore solare della persona libera: il sapere deve morire per risorgere di nuovo come volontà e per ricrearsi ogni giorno da capo come persona libera.



[Das unwahre Prinzip unserer Erziehung, oder: Humanismus und Realismus fu il primo e più ampio saggio che Stirner consegnò alla “Rheinische Zeitung für Politik, Handel und Gewerbe”, edita a Köln. Comparve nei supplementi ai quattro numeri 100, 102, 104 e 109 del 10, 12, 14 e 19 aprile 1842 e fu ristampato per la prima volta da me nel I fascicolo della VI annata della “Neue Deutsche Rundschau” (Freie Bühne) del gennaio 1895 a Berlino. Era firmato “Stirner”. (Nota di J.H. Mackay)]

2) [Educazione fisica]

Il direttore Diesterweg ha aggiunto al suo Einladung zur öffentlichen Prüfung der Seminarschule am 18. März 1842 [Invito all’esame pubblico della scuola del seminario, per il 18 marzo 1842] alcune “osservazioni”, alla fine delle quali dice: “In queste osservazioni si trova pure un serio avvertimento per coloro ai quali spetta di favorire le richieste che i maestri propongono, incoraggiando il secondo ramo dell’educazione, quello fisico, mediante palestre ginniche. La primavera si avvicina! Oppure la nostra speranza dovrà andare un’altra volta delusa?”.



[“Rheinische Zeitung”, n. 94, 4 aprile 1842]

3) [Friedrich Karl von Savigny]

Nuovamente la stampa berlinese ci reca uno scritterello molto raccomandabile, che si sforza, dopo il libro di Bülow-Cammeron, di trarre qualche profitto dai presenti permessi di stampare. In ciò si distingue, e spesso avemmo occasione di notarlo, specialmente la libreria del Gabinetto berlinese di lettura, e se le altre librerie volessero seguire questo buon esempio, si potrebbe concepire qualche speranza che l’arretrata capitale non si lasci sorpassare dalla svelta provincia di tutta la distanza che ci separa dalla stella Sirio. Essa dovrà trotterellare alquanto in fretta, prima di scorgere di nuovo la brillante stella “Walesrode” nella nordica costellazione “Königsberg”. Il menzionato opuscolo porta il titolo Die juristische Fakultät der Universität zu Berlin, seit der Berufung des Herrn v. Savigny bis zur Niederlegung seines akademischen Amtes, und deren erforderliche Umgestaltung [La Facoltà giuridica dell’università di Berlino, dalla nomina del signor von Savigny fino alla sua cessazione dall’ufficio accademico, e la necessaria trasformazione di quella Facoltà], Berlino, Edizioni del Gabinetto berlinese di lettura. Sarebbe ingiusto voler estrarre da un opuscolo il meglio perché con ciò molti lettori potrebbero essere portati a lasciar da parte l’opuscolo stesso; ma è necessario richiamare l’attenzione sul fatto che l’opuscolo citato non si riferisce soltanto alla Facoltà di Berlino, ma anche a tutte quelle prussiane, anzi alle tedesche in genere. Poiché da quando fu caratterizzata l’indole della scuola giuridica “storica” o meglio “non filosofica”, e fu dimostrata la non vitalità, di cui ha colpa quella scuola, della scienza giuridica, fu progettata una necessaria riforma della Facoltà, riforma che, “essendo fondata sulla natura degli eventi e reclamata da questi”, non può essere rimandata come avventurosa. E tale riforma è indispensabile per ciascuna università e si farà strada: “Perché non si può paralizzare lo spirito del tempo, e questo non è compreso da coloro che sono costituiti per aprirgli vie legali, esso se le crea effettivamente da sé”. Chi potrebbe oggi chiamare ancora buone dichiarazioni come quelle del signor von Savigny nel suo scritto Vom Beruf unserer Zeit für Gesetzgebung und Rechts wissenschaft [1814] [Sulla vocazione del nostro tempo per la legislazione e la scienza giuridica], nel quale una superba filologia si esprime con le seguenti parole: “Per ciò che particolarmente riguarda le letture sul Diritto civile, sono certo che sia meglio non tenerle nella situazione presente, in quanto che per il bisogno pratico basta una ulteriore trattazione, mentre potrebbe essere difficile, per mancanza di speciali fondi storici, fornire all’argomento una pagina scientifica”. Che non basti la “ulteriore trattazione”, il signor von Savigny lo riconoscerà nel posto che ora occupa, e se a ciò egli associa la considerazione che per il suo metodo “storico” non esiste certo nessun altro polo idoneo che la “ulteriore trattazione” medesima, poiché tutti i metodi, e anche questa trattazione, sono molto meccanici, troverà naturalmente necessaria una trasformazione della Facoltà, quale l’autore dell’opuscolo traccia in modo così semplice e persuasivo. Perché la “scuola storica” ha risolto il compito che le assegnò lo spirito del tempo e adesso anche il suo capo, il signor von Savigny, ha deposto il suo ufficio di pubblico insegnamento, per dimostrare esteriormente che questo periodo è terminato. Ognuno può vedere alle pp. 26-31 il piano della trasformazione.



[“Rheinische Zeitung”, n. 158, 7 giugno 1842]

4) [Il titolo di dottore]

Si diventa a poco a poco stufi di sentire celebrare e lodare ogni cosa possibile, senza princìpi e alla giornata. È realmente un’ingiuria sostenere: “La soppressione dell’acquisto del titolo di dottore ha piacevolmente sorpreso tutti i galantuomini di Breslavia”, come se chi non fu piacevolmente sorpreso non potesse essere un galantuomo di Breslavia.

Ma tale è lo stile spensierato di chi si inebria di una gioia tanto più grande quanto più l’oggetto della sua gioia è una bagattella. E questo predicato sarebbe in realtà il più tenue e il più mite che si possa applicare a quell’editto sui titoli. Chi è promosso dottore non fa certo un esame più difficile di chi supera l’esame di teologia o l’esame per gli alti gradi dell’insegnamento; ma guadagna un titolo risonante mentre il secondo resta semplicemente un candidato. Ma se quest’ultimo, avendo bisogno di un titolo, o per amore della sua piccola fidanzata o della mogliettina, oppure anche per soddisfare la propria vanità, vuole avere il titolo di dottore, egli ha già superato un esame equivalente a quello del candidato al titolo dottorale, e più di un “galantuomo di Breslavia” non gli farà carico se si limita ad acquistare semplicemente il titolo. Tutta la questione deriva da questo, che noi siamo dei Micheli tedeschi, i quali non osano, senza un titolo, mettere piede fuori della porta di casa. E devono “tutti i galantuomini” approvare che si favorisca questo prurito di titoli mediante un editto contro gli acquirenti del titolo? Col lardo si pigliano i topi, questo è ciò che vedo in questa facilitazione all’acquisto di titoli, e tutti i nostri signori nobili e tutto il Medioevo e i nostri ceti della Dieta, e tutte le finzioni sentimentali e menzognere del nostro tempo, mi vengono in mente a proposito di queste storie di titoli. Ma la cosa ha anche un lato serio, come ci fa l’onore di dirci il corrispondente da Breslavia della “Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. del 2 settembre: quel corrispondente che usò la bella frase dei “galantuomini”. Egli scrive: “I dottori che hanno comprato il titolo (diciamolo fra parentesi, tutti i dotti hanno comprato il loro titolo), esercitano in Germania un diritto ingiusto di fronte ai non-dottori”. Ciò che segue è troppo importante perché non lo si debba offrire ai lettori; con questo, se lo si considera giustamente, si getta uno sguardo nel fondo del cuore di tutta la nostra vita statale. “Anzitutto i dottori, essendo annoverati fra gli esenti, godono di una giurisdizione più elevata; inoltre in certi casi, per esempio in caso di ingiurie e simili, lo Stato conduce il processo per loro conto; essi si limitano a denunciare e l’ulteriore forma di giudizio è l’inchiesta statale, mentre processi di quel genere per tutti i non esenti vengono svolti per la via del comune procedimento civile. Quindi, per esempio, il borghese ingiuriatore, nelle cause per oltraggio, è sempre colpito di una pena più grave, in confronto al dottore-esente, di quella in cui sarebbe incorso se il dottore fosse stato considerato pari o inferiore al borghese”. Non grida forse al cielo un simile privilegio, e non sarebbe logico insorgere contro di esso? No, egli trova perfettamente regolare che chi è addottorato dopo un esame goda di un privilegio di classe degno di tempi tenebrosi, ed è sdegnato soltanto perché è possibile acquistare un simile diritto antinaturale. I dottori di acquisto, egli dice, esercitano evidentemente un diritto ingiusto di fronte ai non-dottori. No, i dottori, i nobili esenti, o piuttosto lo Stato stesso che sanziona una simile iniquità, esercitano una evidente ingiustizia. Temo che i dati statistici degli uomini onesti di Breslavia indichino nulla di buono, così come la gioia del Michele tedesco per i titoletti e le stellette.



[“Rheinische Zeitung”, n. 263, 20 settembre 1842]

5) [Un maestro di scuola]

Il re ha fatto conoscere al ministro della Giustizia la sua intenzione che a partire da un tempo da destinarsi venga assegnata agli assessori non pagati un onorario, e ai referendari delle remunerazioni. Certamente era ingiusto che servitori di cui lo Stato non può fare a meno, fossero assunti senza essere pagati e quindi gli assessori venissero posposti ai luogotenenti. La “Königsberger Zeitung” è quasi effettivamente, sebbene non nominalmente, redatta dal maestro superiore Witt, là impiegato in una scuola dello Stato. Perciò si tentò già prima d’ora di privare il maestro superiore Witt del suo posto d’insegnante, come incompatibile con l’opera di giornalista, senza che tale richiesta avesse finora avuto nessun seguito. Ora Witt fu citato davanti al Concistoro, dove dovette certificare che la sua attività professionale non è minimamente danneggiata dal suo lavoro di redattore. Gli si fa particolarmente carico anche della circostanza che egli l’anno scorso lasciò stampare in una certa occasione, nella tipografia della “Königsberger Zeitung”, due poesie anonime, opera del professore Lengerke, e nel memoriale indirizzato al Concistoro di quella città si notò espressamente che il professore Lengerke avrebbe propriamente meritato un castigo molto grave, che tuttavia anche questa volta sarebbe stato condonato. Difficilmente il maestro superiore Witt sfuggirà a una rimozione in via amministrativa!



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 140, 20 maggio 1842]

6) [Friedrich Karl von Savigny]

Benché il signor von Savigny, dal momento in cui il defunto Eduard Gans fu nominato professore sia andato via dalla Facoltà giuridica e abbia soltanto continuato le sue letture, rimase tuttavia il celebre e illustre capo delle Facoltà, che non poté sottrarsi alla direzione da lui impressa. Ora il signor von Savigny, essendo stato nominato ministro, è diventato estraneo alla Facoltà, e quindi è giunto per questa il momento di chiedersi se debba continuare nella vecchia strada o dare ascolto al rimprovero molte volte rivoltole di tenere ingiustamente separate la teoria e la pratica giuridica e di far sì che “i membri e i semplici scolari della Facoltà di legge sembrino spettri di una epoca passata, i quali, se cercano di immischiarsi nella vita, possono agire soltanto disturbando il prossimo e diffondendo il terrore”. Coglie questo momento di un importante periodo della vita, di una epoca della Facoltà giuridica berlinese l’autore di un opuscolo testé comparso: Die juristische Fakultät der Universität zu Berlin, seit der Berufung des Hrn. v. Savigny bis zur Niederlegung seines akademischen Amtes und deren erforderliche Umgestaltung [La Facoltà giuridica della università di Berlino, dalla chiamata del signor von Savigny fino alla sua dimissione dal posto accademico e la necessaria trasformazione di quella Facoltà]. L’autore cerca non soltanto di scoprire la radice del vecchio male, ma anche di aiutare ad estirparla.

Il signor von Savigny fu chiamato nell’anno 1810, quindi al tempo della fondazione dell’università berlinese, e da allora in poi la Facoltà si formò e si completò quasi unicamente alla scuola di lui, alla scuola storica. La storia di questa scuola e del suo capo quindi è strettamente connessa con quella della Facoltà giuridica. Quando la scuola storica cominciò la sua lotta contro i giuristi della filosofia aprioristica, ebbe un avversario facilmente domabile, e salì in considerazione fra i contemporanei affluenti al romanticismo. Perché la scuola storica e il suo capo non sono altro che forme del nostro periodo romantico, che ora giacciono avvizzite sul suolo di un presente appena sbocciato, e spiccano abbastanza mirabilmente col loro sbiadito colore malaticcio di fronte al fresco verde di una nuova vita. Ogni salute doveva venire cercata nel passato. Lingua, arte e religione dovevano ritornare nel costume antico-tedesco e accanto ai Nibelunghi le Pandette dovevano essere l’eterna verità. Questa romantica scienza del diritto cominciò a tremare leggermente e senza accorgersene quando nell’anno 1818 Hegel venne a Berlino e operò un nuovo e potente risveglio con le sue lezioni sul diritto naturale. “Ma l’avversario non era ancor penetrato nella Facoltà giuridica stessa”. Ciò avvenne quando il dottor Gans, discepolo di Thibaut e di Hegel, fu assunto come professore straordinario nell’anno 1826. A lui deve il suo primo impulso la scuola giuridica prussiana che ora fiorisce. In tal modo la filosofia aveva dato aiuto alla scienza giuridica contro la scuola giuridica unilaterale dei cosiddetti storici, o, come Gans li definì esattamente, dei “non-filosofi”. Frattanto però anche quella scuola giuridica in se stessa era crollata in molte parti, in quanto che “i germanisti e canonisti si affezionarono talmente alle loro proprie fonti giuridiche, da un lato il costume legale germanico e dall’altro il Diritto canonico, che con mentalità unilaterale, come i romanisti, che volevano ristabilire il puro Diritto romano, pensavano soltanto alla risurrezione del Diritto germanico e canonico”. Il signor von Savigny tentò di evitare lo scoppio di una vera lotta pronunciandosi, nella Prefazione al primo volume, edito nel 1840, del suo System des heutigen römischen Rechts [Sistema di Diritto romano odierno], contro l’unilateralità che tratta il Diritto romano con singolare preferenza senza tener conto delle modificazioni che quello ebbe a soffrire nel Medio Evo per opera del Diritto canonico e del costume legale tedesco. Per togliere di mezzo anche il soprannome della scuola non filosofica, egli prese sotto la sua protezione il professore Sthal e favorì la recente chiamata di quest’ultimo alla Facoltà giuridica facendola proporre dai suoi partigiani. Ma entrambe le misure non furono appropriate né capaci di scongiurare la tempesta prorompente. Perché l’opinione generale si esprime nel senso che le vedute manifestate nella citata Prefazione non trovano conferma nel libro stesso, e che quindi non si è conclusa la pace fra i germanisti amici del presente e i romanisti ammiratori dell’antichità. E per quanto riguarda la filosofia del professore Sthal, questa non viene riconosciuta come vera filosofia neanche dai giuristi aventi cultura filosofica. Essa aderisce ai princìpi generali della scuola storica, ma inoltre si avvolge in un manto mistico religioso e persegue scopi gerarchici e reazionari sotto il pretesto di voler combattere la rivoluzione. “A queste lotte teoriche si aggiunse recentemente un forte impulso in quanto la pratica del Diritto tedesco trovò nella filosofia una mediatrice per elevare se stessa al grado di scienza”. La scienza del Diritto prussiano crebbe in poco tempo formidabilmente e guida la schiera dei giovani pratici. Così corredata, essa picchia alla porta della Facoltà giuridica, che finora le era rimasta chiusa, e chiede di entrare. Si potrà resistere a questa giustificata richiesta? C’è da aspettarsi che l’attuale ministro dell’Istruzione riconosca la fondatezza di quella domanda, poiché egli, come distinto giurista prussiano, non può misconoscere la necessità di riformare la Facoltà giuridica secondo lo spirito della Patria. Che in ciò noi non ci inganniamo ce lo garantisce la nomina da poco avvenuta del praticista prussiano, munito di una cultura filosofica, dottor Heydemann, al posto di professore straordinario. L’autore dell’opuscolo citato desidera quindi, allo scopo che la scienza giuridica e la vita giuridica si riconciliino dopo la lunga separazione, che venga soddisfatto il bisogno da lungo tempo sentito di una riforma della Facoltà, e anzi traccia i contorni della riforma auspicata. Egli vuole che il diritto comune continui a essere insegnato, ma non come Diritto comune tedesco, cioè come diritto sussidiario per tutti i paesi appartenenti all’antico impero tedesco, ma come base storica dalle varie legislazioni dei singoli Stati tedeschi; domanda quindi una interpretazione filosofica e uno sviluppo storico fino alla formazione delle diverse legislazioni. Per il Diritto prussiano si deve andare oltre. Non basta più come finora tenere una lezione su quello, ma “si richiederanno diverse dissertazioni sul Diritto prussiano, che lo trattino sotto l’aspetto storico, sistematico ed esegetico”. Ma dove prendere dei maestri idonei a trattare in tal modo la Scienza del diritto quale la rende necessaria lo spirito del tempo? L’autore obietta a questa domanda: “Si assegni agli assessori dell’Alto tribunale, sotto certe condizioni utili a provare la loro capacità di insegnare, il diritto di tenere pubbliche lezioni, e presto in parte da costoro, in parte anche da alti funzionari, emergerà un gran numero di insegnanti capaci, i quali apporteranno una fresca vita nella scienza del diritto. Anche la Facoltà di medicina trae i suoi più bravi membri dalle file dei medici pratici, e anche essa senza costoro dovrebbe presto cessar di formare degli utili medici pratici”. Certamente si dovrebbero indirizzare le aspirazioni anche in questo senso, e mentre ora la laurea in legge libera soltanto dal primo esame pratico, e invece il grande esame di Stato non attribuisce all’assessore nemmeno il diritto di pretendere l’abilitazione di privato docente, dovrebbe “al posto del primo esame di Stato subentrare la promozione a dottore, per mezzo della quale la preparazione del giurista pratico si compirebbe scientificamente, e per l’abilitazione si dovrebbe esigere il grande esame di Stato, e così il docente sarebbe reso più idoneo a far conseguire al giovane giurista un’adatta preparazione alla vita pratica”. Ciò annullerebbe la tesi esposta dal signor von Savigny: “Per quanto riguarda particolarmente le lezioni sul diritto patrio, sul Codice civile, credo realmente che sia meglio non tenerle nella situazione presente, poiché per i bisogni pratici basta l’ulteriore esercizio, mentre potrebbe riuscire difficile al soggetto per mancanza di speciali fonti storiche l’acquistare un valore scientifico”.

L’autore propone la seguente ripartizione dei corsi di insegnamento ai fini di una simile riforma: 1) per la Storia del Diritto romano; 2) per la Storia del Diritto tedesco; 3) per il Diritto civile prussiano; 4) per il Diritto penale prussiano; 5) per il Diritto ecclesiastico prussiano; 6) per il Diritto pubblico prussiano. Sono questi alcuni lineamenti dell’opuscolo molto solido che è comparso ora opportunamente e che non mancherà di provocare ulteriori discussioni sull’argomento trattato.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 141, 21 maggio 1842]

7) Johann Karl Friedrich Rosenkranz sulla libertà d’insegnamento

La questione della libertà d’insegnamento, specialmente sulla libertà di cattedra teologica, nei nostri giorni ha acquistato un’importanza di cui difficilmente si ha un’idea esatta. Ai giornali soprattutto incombe il dovere di tener testa e illuminare la coscienza del popolo su tale argomento perché non soltanto in Germania, ma anche in Francia e Inghilterra comincia ad accendersi la lotta spirituale, cosciente o incosciente, intorno a questo punto.

Quindi, quando un uomo come Rosenkranz, la cui parola è spiata curiosamente da tutti, in una ampia opera discute questo oggetto, il pubblico può aspettarsi che i giornali diffondano più largamente le sue parole. Nei Königsberger Skizzen [Schizzi königsberghesi] egli tocca tale questione nella forma seguente:

“Nessuno pensa a negare in linea di principio l’incondizionata libertà dell’insegnamento nella matematica, nelle scienze naturali, nella filosofia, nella storia, nella filologia e anche nella Scienza del diritto. Soltanto la teologia sembra trovarsi imbarazzata di tale libertà, ma solo in questo il suo insegnamento nell’università si fa dipendente da scopi pratici e non onora la scienza in sé e per sé. Se la Facoltà di teologia deve essere una scuola preparatoria ecclesiastica, un istituto per la formazione di ecclesiastici, nel corso del tempo deve sorgere conflitto fra il simbolo confessionale, che è limitato, e la scienza che ha un impulso universale, perché il simbolo, quale la teologia deve farlo intendere, è soltanto un gradino nel manifestarsi della coscienza di sé nel cristianesimo. Il simbolo è soltanto un assoluto relativo, e a ogni professore di teologia, per quanto egli si umili davanti ai grandi del passato, lo spirito della storia sussurra nelle orecchie che Lutero e Melantone, Calvino e Beza furono anche professori. Prima d’ora non c’era alcun dubbio che il teologo universitario non dovesse esporre la dogmatica, l’esegetica, la storia ecclesiastica dal punto di vista della sua confessione. Dopo il periodo della luce, dopo la rivoluzione francese, dopo che è sorta una scienza canonica, una simbolica comparata, un’interpretazione veramente filologica, una storia ecclesiastica interpretata dalla prospettiva della storia mondiale, e finalmente una dogmatica speculativa e l’unione delle Chiese protestanti, ciò è impossibile. David Friedrich Strauss ha dato la parola d’ordine nella prefazione alla sua opera dogmatica dicendo che d’ora in poi tutte le differenze confessionali, anche quelle fra cattolicesimo e protestantesimo, si raggruppano nel contrasto fra eteronomia e autonomia della scienza. Interessantissimo per i rapporti fra teologia e filosofia negli ultimi tempi è apparso il fatto che certe Facoltà teologiche costringono a uscire dalle Facoltà i membri che eventualmente sorpassassero, per mezzo della filosofia, i pretesi limiti della loro scienza positiva, per istallarsi con la loro eresia speculativa nella Facoltà di filosofia. Poveri teologi! In verità, la loro situazione è spesso strana e non mi meraviglio se spesso cercano in uno sforzo risoluto una via d’uscita dal loro intimo Io oppresso. Spesso è mosso loro il rimprovero di ipocrisia. L’arido sentimento, il piatto intelletto sono presto pronti a trattare come un mentitore l’uomo di alta fede. Altrettanto è pronta a ciò la prudente esperienza del mondo, la psicologia del signor von Knigge, esperta di tutti gli angoli e le piaghe dell’umana nequizia. Molti sono i livelli dell’imputare di falso una opinione altrui, dell’ingannare se stesso, dell’ondeggiare e mutare fra l’illudere se stesso e l’illudere gli altri, per giungere da ultimo ad una cosciente ipocrisia! Di questa scala, che ha sviluppato così profondamente Karl Daub nel suo libro poco letto e finora poco compreso, intitolato: Über die Selbstsucht in der Theologie [L’egoismo nella teologia] (libro che aspetta ancora il suo tempo), di questa scala si approfittano poco i poveri teologi. Non si immagina in quale segreto dissidio spesso la loro intelligenza vive con se stessa, e talora si entusiasma per la filosofia, talora la teme di nuovo come una traditrice. Non si immagina quali avvenimenti morali li guidano nella vita, quali orribili esperienze facciano in sé silenziosamente del peccato e della forza diabolica della debolezza dell’uomo, della provvidenza divina, e quanto questa occulta esperienza biografica foggi la loro pubblica teologia della cattedra. Non si immagina quale lotta essi spesso sostengano con ciò che insegnano, talora perché devono dirsi in segreto di non sapere se ciò che insegnano sia l’eterna verità, e in questo caso con tanto maggior zelo si volgono alla fede; talora perché conoscono la contraddizione in cui le loro opere e i loro sensi stanno con la santità della vita che la fede esige! Come spesso la carne li tenta! Come si sprofondano in una divorante beatitudine! Fu proposto di istituire per i teologi protestanti, fra l’università e la professione, dei seminari, in cui essi venissero educati al servizio della Chiesa per mezzo di una preparazione tecnica. La Prussia ne possiede di già uno simile nel Wittenberg. Ma il candidato protestante non ha, come quello cattolico, da imparare molte cose superficiali. La cosa principale presso noi protestanti rimane la predica come forma primordiale di esporre il Cristianesimo”.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 218, supplemento, 6 agosto 1842]

8) [Friedrich Karl von Savigny]

Il signor von Savigny negò, come è noto, al nostro tempo la vocazione di far leggi. Al nostro tempo? È possibile che egli la neghi anche al tempo presente; ma quando quella parola fu pronunziata, noi vivevamo in un altro tempo, non nel “nostro tempo”. Noi strisciavamo allora come piccoli comodi parassiti sul grasso flemmatico corpo del periodo della reazione o della restaurazione e ci ingrassavamo onestamente e silenziosamente lieti col pingue cibo dell’amore. Amore, fiducia, devozione, previdenza paterna e pietà filiale, sono cose molto belle; ma non si deve biasimare il giurista signor von Savigny se egli espresse la sua convinzione che il suo tempo, il quale vive di amore, non possa fare leggi. Il nostro amoroso periodo, ammalato di venerazione, ha confermato quella tesi. Ordinanze e rescritti – le loro copie si trovano in ogni casa – ne abbiamo ricevuti in varia misura, ma finora le leggi non sono venute, perché l’amore ama lo “status quo”, e per l’uomo che ama, “la tranquillità è il primo dovere del cittadino”. Da tutte le forme di questo periodo si può ricavare la prova di quanto le forme stesse intristiscano miseramente sotto il vago principio dell’amore, e la prova può anche venir spinta fino al punto da far paura.

Frattanto a proposito di questo problema si trovano i dati più eloquenti in uno scritto che, appunto in grazie di una simile fattiva compilazione, ha un valore inestimabile. È questo l’abbozzo di una Zeitgemässen Verfassung der Juden in Preussen [Costituzione per gli Ebrei in Prussia, conforme ai tempi]. Non i consigli devono essere in questo libro altamente pregiati, non il pensiero dell’emancipazione degli Ebrei, il quale, come per lo più avviene nel limitarsi a un grido di soccorso, lascia intatto il vero nerbo della questione, può essere chiamato importante; ma l’esposizione storica del contegno che i cristiani osservano verso gli Ebrei durante il periodo dell’amore, la prova inconfutabile che il signor von Savigny ha ogni ragione circa il suo tempo. Ecco ciò che non si può abbastanza lodare in questo scritto. Ed è questa in realtà un’esposizione che spezza il cuore, poiché si vede come ogni giorno l’amore cristiano si batte il vuoto petto per tirarne fuori una legge in favore degli Ebrei, e geme e sospira con la speranza dell’avvenire e frattanto lascia ogni cosa nello stato in cui si trova. L’amor cristiano non può dare agli Ebrei nessun altro bene che il battesimo; e l’amore cristiano promette loro giorno per giorno durante un quarto di secolo – che cosa? Esso stesso non lo sa – forse soltanto qualche legge molto bella. È questo l’eterno gioco fra l’ebreo e il cristiano. Oh Ebrei, il cristiano non può voler altro che convertirvi; anche in questa volontà egli dimostra il suo amore. Perché lo accusate dunque dell’ingiustizia di non volervi pareggiare a lui? Forse non cerca di farvi cristiani e non vi manda i suoi missionari? Certamente il cristiano vuole che voi siate fatti uguali a lui, ma voi non lo volete, voi ripudiate il suo amore. Il cristiano è innocente e voi lo siete pure. Finché gli uni e gli altri sarete quel che siete, le cose resteranno sempre ferme a questa innocenza.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 257, 14 settembre 1842]

9) In merito alla destituzione degli ecclesiastici
e dei maestri di scuola in Prussia

La sospensione del professor Witt dall’insegnamento liceale a Königsberg [vedi sopra il par. 5] ha dato vita a un piccolo scritto dal titolo: Was bestimmt das Gesetz über die Absetzbarkeit der Geistlichen und Schullehrer? Ein juristisches Gutachten [Che cosa dispone la legge circa il licenziamento degli ecclesiastici e degli insegnanti? Un parere giuridico].

Questo scritto intende analizzare senza passione e senza pregiudizi il caso Witt da un punto di vista giuridico formulando un giudizio quanto più è possibile sicuro sotto il profilo del diritto. Comparando le leggi e le ordinanze, il risultato è che, secondo i princìpi della legge, la proibizione imposta dalle autorità competenti alla partecipazione del professor Witt alla redazione della “Königsberger Zeitung” non ha fondamento in diritto. Si chiede tutto sommato se da un punto di vista politico l’attività del professor Witt non abbia avuto un’influenza sulla sua attività di professore, ossia ci si chiede quale influenza egli abbia esercitato abusando della sua professione. A tutto questo si deve rispondere risolutamente con un no. Ma qui, sembra opportuno soffermarci su ciò che è stato scritto:

“Siccome non esiste nessuna disposizione di legge che autorizzi o proibisca a un subalterno lo svolgimento di un’attività privata oltre quella pubblica ne consegue che il divieto fatto al prof. Witt non ha senso se rapportato alla sua attività ufficiale. Per questo motivo, il rifiuto di un dipendente alla volontà del superiore non può essere indicato come colpa di insubordinazione. Così, l’ordine di Gabinetto del 12 aprile 1822 contenente disposizioni gravissime contro insegnanti ed ecclesiastici non può essere applicato in quanto riguarda soltanto agitazioni di carattere demagogico. Ne deriva che gli uffici civili, come ogni altra occupazione privata, devono essere considerati liberi e indipendenti fino a quando (questo lo concediamo volentieri) l’occupazione collaterale non entri in conflitto e non contraddica i doveri d’ufficio. Quest’ultima clausola conduce alla seguente considerazione finale: nel caso in cui un’occupazione collaterale assorba talmente le energie fisiche e intellettuali di un impiegato da costringerlo a trascurare i suoi impegni d’ufficio, nemmeno questo fatto autorizza un superiore a chiedere al proprio dipendente di abbandonare tale occupazione minacciandogli una punizione ufficiale. Invece, trascurare il proprio ufficio è già motivo a procedere contro la negligenza dell’impiegato ma in questo caso, il superiore ha il diritto di ammonire e richiamare, insomma, l’attenzione dell’impiegato. Comunque, da parte del professor Witt non c’è stata alcuna negligenza. Lo stesso superiore diretto testimonia la dedizione e la capacità del professore. Ciò sta a significare che i rapporti di Witt con la redazione del giornale non hanno influito minimamente sul rapporto che egli ha con il suo ufficio. Si dovrà allora chiedere se i motivi siano riscontrabili in quelli politici? Per rispondere a questa domanda bisognerà precisare due punti: il tipo di collaborazione del professor Witt e la tendenza della ‘Königsberger Zeitung’. Questa tendenza può venire sintetizzata in poche parole, dicendo che essa si propone di fare dell’alleviamento della censura concessa con l’ordinanza del 24 ottobre 1841, quell’uso appunto concesso in virtù di tale istruzione. Il suo principale indirizzo è l’amore e il rispetto per il re, osservanza per la legge, guerra ai compromessi, difesa degli interessi della patria. In questo non si trova niente che possa insospettire i sentimenti dei Prussiani, così come non si deve temere che da una pura fonte sgorghino elementi politici torbidi in quanto nessuna parola viene stampata sulla ‘Königsberger Zeitung’ senza l’appoggio del censore nominato dal Ministero. Per conseguenza; se Witt fosse realmente un redattore responsabile di quel giornale non si può dedurre che le sue dottrine – quelle che vengono infuse ai giovani – possano contrastare i princìpi del giornale stesso. Tutto questo può apparire diverso soltanto a quelle persone incapaci o timorose di formulare un giudizio esatto e non da parte delle autorità centrali dalle quali ci si aspetta una libera e chiara interpretazione della realtà presente. Queste autorità possono essere anche ingannate da qualche voce ma ciò non toglie che una diversa illuminazione debba spingerli a modificare una misura che noi riteniamo illegale, in quanto priva di contenuto giuridico. Il fatto che questa apprensione si sia avverata ora, dimostra la parziale opinione del relatore e non una chiara visione della realtà. Se fosse diversamente, il relatore in questione avrebbe agito contro le precise ordinanze ministeriali poiché le disposizioni della polizia e del Ministero degli Interni (25 maggio 1824) prevedono che i superiori siano attenti a destare i sentimenti dell’attaccamento, della fedeltà e dell’obbedienza verso il re e lo Stato e controllino – proprio per questo aspetto – tutti quegli insegnanti a loro sottoposti. Allora, se per causa della collaborazione del professor Witt al giornale, fosse sorta anche lontanamente l’idea che tale collaborazione potesse soffocare i sentimenti nei discepoli, il superiore non avrebbe omesso di denunciarlo presso il regio collegio provinciale per le scuole tanto più che l’ordinanza del 16 agosto 1833 vuole e pretende proprio questo. Se a tutto si aggiunge che la posizione di Witt nella ‘Königsberger Zeitung’ non è quella di un redattore responsabile, ma quella più semplice di un tecnico (egli si occupa soltanto della impaginazione del giornale) e quindi lontano dall’esercitare un’influenza letteraria si deve ammettere che il timore espresso dal suo superiore deve ritenersi esagerato. Così, alla domanda: ‘se dal punto di vista politico la collaborazione del professor Witt al giornale abbia influito sulla sua attività di professore, o se si possa temere che debba influire incompatibilmente con la sua carica di insegnante’ si deve rispondere di no.

“Con ciò crolla anche l’ultima immaginabile ragione di collegare davanti alle autorità superiori quella collaborazione con l’ufficio coperto da Witt in maniera tale che, concludendo, il risultato è questo: secondo i princìpi del diritto, il divieto espresso dalle autorità nei confronti del professor Witt di continuare a far parte della redazione del giornale e la sospensione basata su questa ipotetica partecipazione, non sembrano conformi alle leggi”.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 288, supplemento, 15 ottobre 1842]

10) Da dove e dove?

Chi non conosce il [romanzo familiare] Herr Lorenz Stark [1795] di Johann Jakob Engel nel quale la lotta tra la violenza del padre e la libertà del figlio si presentano così forti che quell’unico esempio può essere valido per tutti i tempi e dove, essendo quello un libro tedesco, la tensione dei contrasti non si conclude tragicamente ma con una tenera riconciliazione? Questa lotta che si rinnova e che investe l’“autorità tradizionale” e la “libertà conforme ai diritti dell’uomo” non potrà concludersi sempre in modo così pacifico perché non tutti i padri sono buoni come Stark, né tutti i figli sono dolci e teneri come il figlio di Stark. Chi narra la gara, nella storia mondiale, di queste due forze, deve spesso scrivere con inchiostro di sangue.

Anche altre figure compariranno su quel campo di battaglia e sono figure piene di nauseante pigrizia e sottomissione, tanto che, qualche volta, ho il timore di trovare esempi del genere nella mia stessa casa e siccome dalle cose piccole si imparano quelle grandi e in una favola di animali si riconosce la natura degli uomini, vi narrerò la storia della mia casa. Il mio padrone di casa è cresciuto sotto un severo regime paterno senza aver fatto mai niente per liberarsene. Esige, per questo, una uguale e incondizionata obbedienza dal figlio e quando vede qualche ragazzo più vivace, asserisce che ovunque le cose non vanno più come, secondo lui, dovrebbero andare. Almeno nella sua casa una simile scostumatezza non gli si deve presentare davanti agli occhi. Egli ama dal profondo del cuore il suo unico figlio, ha per lui ogni sorta di cura e gli permette qualsiasi piacere purché “lecito”, così come il figlio si dà pensiero per il padre lasciandolo fare ciò che desidera perché soltanto il padre sa procurargli le gioie più belle e più adatte. La gioventù non sa comprendere ciò che è buono ma con il suo “giudizio limitato” riesce soltanto a fare il male; per non oltrepassare il limite della modestia, rimettersi umilmente agli ordini paterni, senza mai “permettersi un giudizio su di essi con tenebrosa arroganza”. Questo pensa, grosso modo, il mio padrone di casa e quindi si può immaginare la sua sorpresa quando, un giorno, il figlio gli chiese di avere una parte indipendente nei suoi affari. Se egli non avesse visto tanti ragazzi sfacciati, certamente avrebbe trattato con molta durezza il proprio figlio che con presunzione gli aveva chiesto la parte della sua attività. Invece rispose: come tu stesso puoi vedere il nostro negozio richiede una unità e una volontà sola; le cose quindi devono restare così. Tuttavia siccome sei diventato un uomo e devi fare onore a tuo padre, desidero assicurarti una rendita determinata con la quale potrai continuare a rappresentare la dignità della famiglia. Spero che con il tuo orgoglio non metterai in pericolo il dono e il mio affetto. Il ragazzo commosso per quelle parole rinunciò alla sua porzione di libertà e, rassegnato, continuò a vivere tranquillamente. Ma, nuovamente la voce della natura e della libertà si fece sentire. Amava infatti una ragazza povera ma ricca di doti. Tale amore lo spinse ad andare dal padre al quale chiese di poter sposare Freia. Spazientito il padre, che da tempo aveva trovato per suo figlio un’altra ragazza, rispose: “se non vuoi che ti maledica per sempre, ti ordino di rinunciare a questa fisima. Quando sarà tempo provvederò a scegliere una moglie che faccia al caso tuo e non quella chiacchierona che mi è odiosa”. Il figlio tacque. Da quel momento padre e figlio vivono l’uno accanto all’altro in una strana pace. Il padre si sforza di ostentare affetto e cura tanto da far credere che fra loro regni il migliore accordo ma, “si capisce l’intenzione e si diventa di cattivo umore!”. Per questo, non so come finirà questa reciproca finzione dell’amore e mi chiedo: chi dei due ha colpa? Ma guai al figlio se egli è così codardo da sposare la ragazza che gli viene imposta. Ma chi dei due, il padre o il figlio, ha la maggiore colpa? Certamente il figlio il quale permette che il suo inalienabile diritto di uomo, il senso di libertà che gli permette di determinare il suo destino, vengano compromessi. Il padre agisce con una colpa minore perché abituato dalla pietà non può conoscere la “libertà”.

Da dove deriva, oggi, questa doppia volontà nella vita familiare? Da quello spirito che diventò carne in Pietro il Grande. Questi, indicato come il fondatore della civiltà in Oriente, l’autocrate, creò (cosa meravigliosa) per primo la legge che i genitori non dovessero più decidere le nozze dei figli senza il consenso di questi. La civiltà è il “da dove” della determinazione di se stesso, la sua matrice. Dove ci porterà? A quella perfetta libertà che non rinuncia a sé per “amore” di un altro? L’amore, che non ha volontà propria, si trasformerà nell’egoismo, che non abbandona a nessuno la propria libertà. “Da dove e dove?”. Questa domanda caratterizza i tempi odierni che, trovandosi a un bivio, non sanno che strada percorrere. Viviamo infatti in un’epoca carica di problemi e cerchiamo di ridurli a un numero sempre minore fino a condensarli in tre o due soltanto per poi farne scaturire uno solo del quale troveremo sempre una soluzione. Se le fumose formulazioni dei dotti sono diventate prive di contenuto e di interesse, tanto più profondamente influiscono ora le serie domande degli uomini di Stato. Chi non ha letto Woher und Wohin? [Da dove e dove?] in cui il ministro di Stato von Schön si sfoga? Rari sono quelli che devono aver conosciuto questo libretto distribuito una volta in pochi esemplari ma già ripetutamente ristampato! Dopo che l’opuscolo fu pubblicato a Strasburgo con una Appendice, seguì presto una seconda edizione nello “Staatsarchive” [“Archivio di Stato”] di Buddeus, e manca soltanto che anche il grosso pubblico ne prenda conoscenza, visto che siamo arrivati a porci delle domande sulle condizioni del nostro tempo. A ciò si può convenientemente provvedere adesso.

Un breve compendio darà le parti essenziali. “Da dove il grido – Stati generali?”. Così comincia il signor von Schön. “Federico II è il vero fondatore della burocrazia prussiana ma gradualmente questa ha toccato l’apogeo. Di essa Strauss dice che abbia agito nella direzione della Chiesa cattolica. Infatti, come il prete compie il servizio divino soltanto per sè senza riguardo o rapporto con la comunità, così il funzionario prussiano, specialmente quello che vive lontano dal popolo, crede che il servizio statale esista soltanto per lui e che egli non esiste per il popolo bensì solo per se stesso”. E, poiché “ogni funzionario si considera come un particolare padrone nel distretto a lui attribuito e in una simile situazione deve necessariamente farsi troppo valere presso il popolo” ne consegue che “il popolo si convince sempre di più di essere guidato come con delle bretelle senza conoscere il motivo e lo scopo, invitato e obbligato ora a questa ora a quella azione o prestazione. Si riconosce ancora come per l’unilateralità dei singoli uomini potenti, i fini dello Stato vengono sconvolti e turbati quando, come avviene, per simili tendenze parziali si pretendono dal popolo prestazioni e contributi.

“Doveva dunque accadere che questa tutela di uomini maggiorenni condotta nello spirito della gerarchia burocratica ferisse dolorosamente e profondamente il senso di indipendenza della parte del popolo scartata per minorità. Ogni volta che il popolo ha accolto con entusiasmo gli ordinamenti comunali, con grandissimo desiderio guardò a un ordinamento civico e a una rappresentanza popolare e parlamentare in quanto sperava che in questi Istituti avrebbe trovato posto almeno la parte colta del popolo. Le disgrazie degli anni 1807-1813 e le leggi di quel tempo richiesero in maniera ancora più ragguardevole l’indipendenza del popolo dandogli una coscienza sempre più chiara. Il frutto più bello fu la milizia territoriale prussiana non fondata da funzionari civili e militari ma uscita dal popolo e maturata tramite la forza del popolo.

“Era giunto il tempo del pentimento. Il governo, dopo la guerra del 1813, conobbe il nuovo punto di vista in cui doveva collocarsi, e si formò in esso il proposito di sviluppare, da quel punto di vista, l’organizzazione dello Stato in conformità ai tempi. Ma la burocrazia militare e civile ben presto vide che nella medesima misura in cui crescevano l’emancipazione e l’indipendenza del popolo e le Diete provinciali in genere guadagnavano d’importanza, doveva diminuire l’importanza fino allora avuta dalla burocrazia. Si temette che il notevole peso delle Diete togliesse all’antico peso dei funzionari la sua grande importanza nella bilancia dello Stato, e così cominciò una metodica reazione contro i tempi e i loro postulati relativi al governo. Seguirono passi su passi per conservare alla burocrazia il suo peso. L’ordinamento comunale, senza apparire barbaro e incoerente, fu gradualmente sofisticato e plasmato burocraticamente. Ma si ritenne conveniente la sua esistenza. La milizia territoriale subì attacchi così violenti che, pur già modificata nel carattere e limitata nel suo tono basilare, sembrò addirittura incerta nella sua durata. Comunque non si decise di sopprimerla; ma vi si aggiunsero sempre più istituzioni speciali che, in contrasto col suo spirito originario, l’avvicinavano maggiormente al militarismo burocratico. Le Diete provinciali furono accolte dal popolo con vero entusiasmo, poiché sembrarono una prova del riconoscimento della maturità del popolo stesso e perché si credette di potere per mezzo loro far giungere al sovrano, insieme con la voce dei funzionari, anche quella del popolo, e a maggior ragione lo si credette in quanto sembrava che la tendenza dei tempi lo pretendesse. Ma i governanti, che per quello che riguardava la voce popolare non erano che strumenti del sovrano, non permisero che tale voce si propagandasse. Fu temuta e sospettata, e la burocrazia tra paure e inquietudini crescenti cercò di conservare e mantenere la sua condizione di tutrice. Quando per esempio la Dieta prussiana, convinta che il popolo tutto avrebbe difeso il Paese, pregò il sovrano di puntualizzare alcuni punti, molti alti funzionari militari sdegnati negarono la pretesa degli Stati provinciali ad avere anche una sola voce su tali argomenti o di potere presentare addirittura proposte in merito; anzi definirono arrogante la proposta della Dieta e perciò meritevole di castigo. Allo stesso modo, reclami contro impiegati della amministrazione e proposte per lo sviluppo di una vivace vita pubblica non trovarono nessuna eco; anzi non fecero che eccitare la reazione della burocrazia e il risultato fu che il popolo, con tutta la sua fedeltà al sovrano, divenne sempre più irrequieto. Così stavano le cose nella Prussia del 1840. Il re allora chiese graziosamente: quali delle promesse anteriori volete voi, Stati prussiani, – vedere confermate? E la Dieta risposte di volere soltanto l’adempimento di quanto in relazione agli Stati fu promesso nel 1815 e dopo; e precisamente che gli Stati generali, su richiesta, diano consigli affinché i funzionari superiori dell’amministrazione, di fronte all’assemblea degli Stati, non abbiano una posizione di comando come quella che hanno presso le Diete provinciali. Così risposero gli Stati alla domanda del loro re, e così dovettero rispondere, perché la maledizione delle generazioni future li avrebbe colpiti se adesso avessero rinnegato la verità davanti al trono del loro re e al cospetto di Dio e soffocato la voce della loro coscienza e della loro convinzione.

“Dove condurrà quella proposta? Quale sarà la conseguenza della convocazione degli Stati generali? Sicuramente essa raggiungerebbe considerevoli risultati; perché gli Stati generali: 1) – Amministreranno tutti gli affari che non sono di competenza del governo, ma della nazione e dei Comuni. Per cui da un lato il popolo guadagnerà in indipendenza, desiderio e capacità di buone opere e valide imprese e dall’altro ancora, un gran numero degli attuali funzionari diventerà superfluo. 2) – Esigeranno informazioni sull’Amministrazione delle Finanze, contrasteranno gli sperperi ora permessi con la scusa del bene pubblico; pretenderanno lo snellimento dell’amministrazione per cui sarà diminuito il numero degli impiegati. 3) – Includeranno nella loro giurisdizione quella parte dell’Amministrazione giudiziaria che in special modo deve saper valutare esattamente la situazione del Paese e quasi unicamente avere una sana comprensione dell’uomo e un giusto criterio naturale; per cui da un lato si avrà una migliore amministrazione della giustizia, poiché allora il giudice sarà messo in grado di trattare secondo i suoi doveri professionali gli affari giudiziari affidatigli permanentemente e dall’altro lato si potrà enormemente diminuire il numero dei funzionari. 4) – Proporranno e si incaricheranno di collegare la forza armata al popolo e cioè di rendere atto il popolo alle armi. Allora, i primi gradi dell’educazione militare apparterranno maggiormente al popolo e la riserva creerà quel legame che unirà indissolubilmente il popolo alla forza armata. 5) – Avranno l’importanza che loro spetta e che è basata sulla loro natura, dentro e per lo Stato. Conseguentemente i funzionari civili e militari verranno posti, anche secondo il loro parere, nella situazione richiesta dalla natura delle loro funzioni e dal genere della loro attività. Arroganza e servilismo, due mali gravi e intollerabili, verranno eliminati o almeno minimizzati. E sull’indole e la mentalità del popolo ciò avrà un influsso benefico. 6) – La rappresentanza parlamentare darà al sovrano l’occasione di valutare il merito e il valore dei suoi funzionari; forse in modo unico e permanente. Chi deve comparire davanti agli Stati per render loro conto della sua amministrazione, non può essere ignorante e superficiale; la cattiva volontà avrebbe fine. Per cui il sovrano sarebbe sicuro di avere scelto l’uomo giusto per l’Ufficio affidatogli; e, apprezzabile fortuna per il sovrano e lo Stato, nell’aria libera della rappresentanza parlamentare tutti i misteri e le manovre della polizia trovano sempre una fine immediata. 7) – Gli Stati generali opererebbero sullo spirito della legge. Chi vuole e può negare che ora, per quasi tutte le misure prese dal governo, non ci sia sfiducia nei confronti dei funzionari per quanto riguarda la loro valutazione delle cose e il peso da loro dato alle circostanze? Diversamente andrà quando le disposizioni saranno emanate dal Parlamento. Negli Stati generali è concentrata la conoscenza della situazione e dei bisogni di tutto il popolo, e perciò le leggi da loro emanate esprimono l’opinione del popolo stesso.

“Soltanto per mezzo degli Stati generali sorgerà e fiorirà nel nostro paese una vita pubblica. Se il loro giorno è venuto nessuno potrà fermare la corsa del sole. Il tempo del governo paterno o patrimoniale per il quale il popolo è costituito da bambini impuberi che devono lasciarsi condurre a piacimento, non può tornare. Se non si prende il tempo come esso è, se non si cava da esso ciò che vi è di buono e non lo si coltiva, il tempo punisce”.

Il signor von Schön ha così brevemente sintetizzato la risposta alle due domande, e poiché la storia del mondo procede a passo a passo, per ora quella risposta è sufficiente. Molte variazioni verranno composte sul medesimo tema, ed in parecchie di queste vi sarà un’audacia tale da dimenticare l’attacco alla burocrazia.

Una tra le variazioni l’abbiamo già davanti agli occhi. Essa consiste in chiare considerazioni, scritte da un uomo di spirito coraggioso, ma non destinate a essere pubblicate su un giornale tedesco. Se il protestantesimo ci ha dato la libertà di pensiero, ciò non significa che anche le manifestazioni del pensiero siano state rese libere. Non si dice: le parole non pagano dazio, ma solamente: i pensieri non pagano dazio. Dopo, come prima, le parole devono pagare il dazio, oppure passare come merce di contrabbando. Se si prende il contrabbandiere lo si bandisce, se per caso non gli tocca la fortuna di essere gradito da un autocrate: “straniero”. Come è stato detto, il nostro amico chiosatore ha scritto per il Michele tedesco, ma non per le tipografie tedesche.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 289, supplemento, 16 ottobre 1842]

11) [Addestramento prussiano]

Nel terzo fascicolo del “Patrioten. Inländische Fragen” [“Patriota. Problemi interni”] di Ludwig Buhl c’è tra l’altro un articolo sulla Istruzione privata, scuole private e parrocchiali. Chi non sa che in tutto il mondo non esiste regime scolastico migliore del prussiano? Questa frase banale ha girato per ogni dove. Come se noi fossimo davvero insieme con la nostra scuola i luminari della terra! Chi, oltre noi, – escludo i Russi i quali in quanto popolo più colto rimangono per noi l’irraggiungibile ideale – chi, mi domando, può mostrare un militarismo fatto di così distinto e muto spirito di subordinazione e di tale precisione meccanica? Chi può vantare una burocrazia fatta quasi esclusivamente da funzionari nel corpo e nell’anima che all’infuori di ciò non sono nulla? Da che dipende dunque un esercito così addestrato e una burocrazia così temperante? Soltanto dal fatto che noi apprezziamo convenientemente l’importanza della cultura ed educhiamo tutti tempestivamente. Da noi tutto è “addestrato”. Gli alberi del giardino di Luigi XIV non potrebbero essere meglio coltivati e potati. Come si potrebbe dubitare dell’esemplarità delle nostre scuole se noi coltiviamo tutto? Perciò non si intenda l’argomento con spirito limitato. Noi abbiamo mirato e raggiunto gli scopi più alti: da noi la scuola è la vita, e la vita, tutta la vita, è una scuola. Rimanere scolari per tutta la vita è in realtà qualcosa di grande e bello; di più, è la vera soluzione dell’enigma: “perfettibilità indefinita”. Restare sempre sotto il maestro di scuola, non significa forse la più nobile negazione di se stessi e non ci autorizza a tentare di diventare un giorno maestri di scuola? In realtà, l’esser maestri di scuola è cosa che si è miscelata al nostro sangue, noi portiamo dentro il maestro di scuola, o per parlare con parole insolite, la polizia e la gendarmeria, e solo ciò che è radicato non si smuove. Dunque perché curarsi affannosamente dei particolari istituti scolastici dove vengono educati i bambini? Si sbaglia a intendere la fama delle nostre scuole in questo senso limitato. Anche se i fanciulli sono trascurati dai maestri ciò non significa nulla e ci si può mettere subito riparo: uno scolaro svogliato che diventerà impiegato o passerà sotto la sorveglianza di un commissario, diventerà presto un buon scolaro; basterà soltanto che comprenda che sarà difficile sfuggire da una aula scolastica grande un determinato numero di miglia quadrate. Questo bisogna ricordare, che gli alunni delle scuole non sono la cosa principale, prima di leggere l’articolo sopra citato. Esso ci insegna che per tale questione da noi si sta così male come in qualsiasi altro Stato poliziesco. Per cui le parti rimandano sempre al tutto: “Hai veramente ragione, non trovo nemmeno l’ombra dello spirito, tutto è addestramento”.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 314, supplemento, 10 novembre 1842]

12) [Una preghiera prima delle lezioni]

Ecco un delizioso episodio del nostro Consiglio comunale, il quale, come si sa, ha deliberato che non si faccia nulla a favore della pubblicità tanto desiderata, perché il presidente ha saputo a suo tempo insinuare giustamente che la concessione della pubblicità è totalmente contraria ai desideri del governo, e in particolare alle aspettative dell’Alto presidente, signor von Meding. L’episodio è il seguente: Il direttore e gli insegnanti del ginnasio “Friedrich Wilhelm”, a causa della pubblicazione della loro determinazione di cominciare tutte le lezioni con una preghiera, hanno tenuto una conferenza per obbligarsi reciprocamente sulla loro parola d’onore a non divulgare mai più i risultati delle loro conferenze, al fine di evitare ogni indiscreta corrente d’aria di pubblico giudizio. E certamente manterranno questa loro concorde promessa, prova ne sia che il signor direttore, dimostrando il suo profondo silenzio ha già comunicato “bello e caldo” questo silenzioso segreto della conferenza. Mi auguro che il nostro giornale sia, come il signor direttore, abbastanza discreto da tenere per sé la notizia; inoltre osservo incidentalmente che egli non aveva intenzione di cominciare le lezioni con una preghiera “perché ciò avrebbe portato via troppo tempo”, ma di santificare soltanto le ore iniziali; purtroppo finora s’è scontrato con opposizioni che però egli “con l’aiuto di Dio spera di eliminare”. Dunque, silenzio, nessuno parli di ciò ad alta voce!



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 348, 14 dicembre 1842]

13) Le leggi della scuola

Il nostro compito non è certamente quello di trattare nel senso più ampio del termine il problema delle leggi che riguardano la scuola, in quanto, in un soggetto di tale ampiezza, bisognerebbe esaminare queste leggi come destinate agli allievi ed anche ai maestri e regolanti tutti i rapporti della scuola nella sua vita interna come pure in quella esterna. Piuttosto limiteremo il nostro studio alle leggi della scuola prese nella loro accezione ristretta in quanto leggi riguardanti gli allievi e metteremo da parte ogni senso più ampio di queste leggi, anche perché una corretta soluzione del problema richiederebbe un approfondimento di un dominio molto più ampio. In effetti, il carattere essenziale delle leggi per gli allievi, come pure delle leggi per i maestri – per quanto in questo caso queste si esprimano spesso attraverso un capovolgimento dei termini – quello delle leggi che regolano i rapporti della scuola con la sua organizzazione interna così come la sua posizione di fronte agli altri organismi dello Stato e allo Stato stesso, questo carattere deve essere strettamente lo stesso e riprodursi costantemente.

Ma anche con questa limitazione, le leggi della scuola sono necessariamente e assolutamente comprese nel concetto generale di legge, ed è attraverso una corretta comprensione di quest’ultimo che si arriva ad una conoscenza precisa del loro dominio e delle varie diramazioni. Nessuna legge è fatta in modo arbitrario o a caso; ogni legge, al contrario, è fondata sulla natura dell’oggetto per il quale essa esiste e vi si trova, per così dire, inclusa. In effetti, ogni esistente, sia nel mondo dei fenomeni che in quello dello spirito, si presenta sotto qualche forma particolare che assume l’aspetto di un elemento semplice e possiede così e precisamente per questa ragione qualche cosa di completo in sé, una ricchezza di fondo, una diversità di parti o differenze che nasce dalla sua propria scomposizione interna. Se si mettono in evidenza queste differenze e se si mostra come, in quale rapporto, con quale fusione esse si ricollegano necessariamente all’oggetto preso nella sua semplicità, allora l’oggetto stesso apparirà in questa scomposizione come esso era nella sua unità ricca di significato e di differenze, e le differenze stesse, dal momento che esse sono l’oggetto scomposto, esprimono nei propri elementi di scomposizione le leggi stesse dell’oggetto.

Ne segue che nessuna legge è prescritta dall’esterno all’oggetto: le leggi della pesantezza sono il contenuto analitico dell’idea di pesantezza stessa; le leggi del popolo ebreo non sono create a caso e prescritte dallo spirito di un unico legislatore, ma esse hanno avuto la propria fonte nello spirito del popolo, esse sono questo spirito stesso di cui traducono le concezioni dando al loro contenuto il massimo sviluppo. Dobbiamo lasciare da parte la dimostrazione scientifica più sviluppata della natura della legge che abbiamo segnalato e ancor meno ci possiamo occupare della eventuale prova tratta da un gran numero di leggi particolari raccolte in tutte i domini; ci basta qui di aver espresso l’idea fondamentale che ci servirà da guida per la continuazione del nostro studio. Al contrario, un problema ci tocca da vicino: come le leggi dell’oggetto possono diventare le leggi per l’individuo? Quando prendiamo un oggetto o, per essere più precisi, un concetto come scopo delle nostre aspirazioni, quando ce lo proponiamo come fine, cominciamo con l’analizzare ciò che è in esso e una tale analisi del suo contenuto ci permette di conoscere le leggi che condizionano la sua esistenza. Nello stesso tempo, dato che la realizzazione di questo scopo non è possibile che con la penetrazione del suo contenuto e si confonde con essa, queste leggi diventano obbligatorie per chi cerca di raggiungere lo scopo suddetto. Ciò che lo scopo porta in se stesso come propria legge, esso lo propone e l’impone, attraverso la rivelazione del suo contenuto, come legge a chi se l’è assegnato come compito e che, nei suoi sforzi per raggiungerlo, si trova legato con esso, mantenuto all’interno di un’orbita come per attrazione e impedito di uscire da una qualsiasi parte. La legge dello scopo, per chi vi vuole pervenire, è un ordine e si realizza nell’interdizione di ogni tentativo di fare diversamente. Coloro che ci prescrivono queste leggi sono gli stessi che conoscono meglio di noi il concetto o lo scopo e in ciò essi agiscono come porta-parola coscienti: essi non ci danno ordine alcuno di loro propria autorità, ma soltanto gli ordini che essi stessi ricevono dal concetto o dallo scopo.

Dopo avere discusso del principio fondamentale, ritorniamo al nostro compito col problema seguente: come definire le leggi della scuola, nel loro senso più alto, in quanto leggi per l’allievo? e diamo subito questa semplice risposta: esse sono il contenuto analizzato del concetto “allievo”. Descrivere questo contenuto, esporre la sua struttura, questo è lo scopo della nostra ricerca.

La vita dell’uomo comincia con un contatto naturale e diretto col mondo: in questa situazione, la sua percezione non è esercitata che con i suoi sensi e la sua facoltà di provare sensazioni definisce il suo stato. In questa prima forma di coscienza egli conduce una vita completamente solitaria, senza stabilire con gli altri una differenza che non esiste che nella misura del possibile. Ma, grazie a questa possibilità, egli si libera presto di questo stato, perviene a cogliere la realtà e gli oggetti prendono l’aspetto di qualche cosa di estraneo di cui l’uomo sente il desiderio di diventare padrone. Il suo rapporto con questi oggetti riveste la forma di gioco, ed è sotto questa forma che si presenta la prima attività della vita dell’uomo all’interno della famiglia.

Ma un progresso essenziale (si può dire una nuova epoca) allarga il campo del gioco e gli dà una importanza talmente grande da trasformarne totalmente l’aspetto. Mentre fino a questo momento l’oggetto, da cui il fanciullo si differenziava, aveva la forma e il senso delle cose, con le quali il fanciullo stesso non si comportava che come un’altra cosa; adesso questo oggetto è diventato un Io, in faccia al quale il fanciullo si definisce ugualmente come un Io. Questo allargarsi non è un salto in avanti sprovvisto di livelli intermedi, ma uno sviluppo necessario della forma primitiva della coscienza. Il rapporto di un uomo con un Altro, in quanto fatto generale, è mantenuto bene, solo che quest’Altro ha spezzato le barriere che gli erano state imposte dalla conoscenza naturale e diretta e ha manifestamente creato un contenuto più ricco: ha smesso di definirlo come una cosa e ha messo un Io al suo posto.

Le relazioni di un Io con gli altri suoi simili appaiono in primo luogo come il bisogno di cercare una società e, l’Io avente qui solo la sua prima significazione generale non ancora allargata, è l’Io primitivo e non sviluppato, il più prossimo all’oggetto: così il fanciullo vuole giocare col fanciullo e quelli della stessa età si riuniscono insieme. Così l’individuo non acquisisce più soltanto il sentimento della sua esistenza al contatto delle cose naturali, maneggiandole, rompendole o sparpagliandole, ma conquista un oggetto essenzialmente differente che gli fa acquisire, al posto del sentimento di esistere e di vivere, la conoscenza del suo Io. Diventa necessario per lui accordarsi con questo nuovo oggetto, comprenderne il senso e, lasciando la rigidezza di quello che non era che la sua prima conoscenza del suo Io, avanzare verso questa fonte di vita che è la conoscenza di sé.

Quali esigenze contiene questo rapporto di un Io con un altro Io? In primo luogo, come tutti i rapporti, quelle che nascono dalla penetrazione reciproca, dalla coordinazione e dal ravvicinamento. E ciò perché ogni Io deve da una parte darsi e dall’altra prendere l’altro Io. Questa è l’origine di tutti i racconti che i fanciulli si fanno tra loro e delle storie che inventano e alle quali gli altri prestano un orecchio attentissimo. Con questo mezzo l’uno dà all’altro ciò che possiede, che è in lui, e, così facendo, si dà egli stesso.

Avendo ciascuno il desiderio di confidarsi all’altro, diviene potente l’esigenza di svelare totalmente ciò che è nascosto nel cuore dell’uomo. Bisogna che ci si liberi della propria incapacità, del proprio ritegno e che ci si apra: l’uomo totale, secondo le sue facoltà, appare a poco a poco in piena luce. Se chiamiamo questa rivelazione dell’uomo che esce come un fiore dal suo bocciolo, “dare una forma esteriorizzata”, esiste ancora un’altra attività che si oppone apparentemente a questa, e che possiamo qualificare come “dare una forma interiorizzata”. Solo che, in realtà, non esce nient’altro dall’uomo, sotto questa forma esteriorizzata, che l’umano in generale, che egli racchiude in sé secondo le proprie facoltà; ciò che non era in lui che possibilità, verso la quale tendevano i mezzi in suo possesso, diventa, con questo sviluppo, realtà e scopo raggiunto. Un tale elemento puramente umano è nella sua forma sviluppata il patrimonio dell’umanità, così come essa lo ha accumulato col proprio lavoro durante millenni. Così l’individuo, col suo proprio sviluppo, fa suo nello stesso tempo – e si tratta di un solo e medesimo atto – tutto ciò che in se stessa l’umanità ha accumulato e che è puramente umano: questa appropriazione appare come un fattore di accordo comune, perché, nello stesso tempo in cui dà una forma interiorizzata a ciò che l’umanità ha di già conquistato, essa dà anche una forma esteriorizzata a ciò che esiste di puramente umano e di non ancora comunicato nel cuore dell’individuo. L’unità di queste due azioni formatrici verso 1’esterno e verso l’interno è l’educazione.

II rapporto dell’Io con un altro Io è dunque caratterizzato dal desiderio di educazione, dal desiderio di comprendere l’altro Io e di fare comprendere o di comunicare il proprio Io. Senza dubbio questo desiderio di comunicazione non concerne subito che un Io della stessa età e della stessa coscienza; ma in questi rapporti si incontra presto il sentimento che questi due Io non possono intendersi veramente ed efficacemente nel loro stato naturale di reciproca rigidezza. Essi si scontrano tra loro, vengono alle mani ed arrivano alla discordia e al nervosismo. Le relazioni dei fanciulli tra loro, senza sorveglianza e senza intervento superiori, diventano soggetto di disordine e di delusione. Da queste lotte senza freno nasce la necessità di stabilire un legame di conciliazione. Il fatto è che l’Io non ha trovato nei suoi rapporti con l’Io che è suo uguale, l’accordo con l’Altro, lo cerca adesso legandosi con chi gli è superiore e sforzandosi di intendersi con lui. Ma qui gli si oppone la ricchezza di un mondo ancora insospettato, un individuo racchiudente una profusione di tesori che gli erano sconosciuti. Egli ha coscienza di ciò che lo differenzia da quest’ultimo e la coscienza che ha di queste differenze si associa in lui alla certezza immediata che questa pienezza dell’Io non gli è del tutto estranea e inaccessibile. Vediamo così svegliarsi l’intuizione e la speranza di questo Io superiore, la volontà di raggiungerlo, e anche il rispetto e il dono di sé che ispira. Tutto ciò che questo Io sente di grande nell’individuo superiore, lo prega di comunicarglielo e, in questo modo, lo eleva al rango di Maestro.

A partire da questo momento, l’Allievo – ciò è in effetti diventato il giovane uomo che ha sentito il bisogno di un Superiore come Maestro – l’Allievo percorre tutte le tappe del suo intendersi col Maestro, dell’insegnamento che ne riceve, sempre nel pensiero di volersi appropriare di ciò che egli considera come proprietà del Maestro.

Cercheremo di precisare ancora in qualche modo, come l’individuo comincia, uscendone, ad elevarsi al di sopra della vita scolare. È così che nel corso dell’intesa col maestro e dell’appropriazione di ciò che gli sembra suo, questa verità appare alla coscienza: “ciò che egli porta in sé, ciò che il maestro possiede, ha anche una esistenza propria indipendente della sua manifestazione in tanto che maestro”. L’oggetto al quale si rapportano gli sforzi e la coscienza e di cui, fino al presente, il maestro era l’espressione, si sublima e si allarga fino a diventare l’oggetto il cui possesso soltanto dava al maestro il suo valore e gli assicurava di fronte all’allievo una posizione superiore. Così, al posto del maestro, è la scienza che, nella sua forma pura, si presenta all’Io come un dovere ed è la libertà che costituisce il suo dominio. In una prima analisi e nel suo senso più ristretto, la libertà è l’indipendenza riguardo il maestro; ma, continuando la sua strada, tramite la verità che è il contenuto della scienza, la libertà stessa diventa la vera libertà perché “la verità rende liberi!”. Quello che prima era semplice intesa, diventa adesso vera comunione spirituale: è il passaggio dalla comprensione dell’allievo alla riflessione razionale di chi si è convenuto chiamare studente e che solo, nel senso pieno e largo del termine, è il “discepolo della scienza”. In effetti l’università è così lontana dalla concezione della scuola che soltanto come paragone il nome di scuola di insegnamento superiore gli si può adattare; le relazioni dei maestri e degli allievi sono, secondo la loro natura, completamente trasformate. Senza dubbio alla vita scolare non succede sempre la vita universitaria, ma diverse altre forme di vita che racchiudono tutte la prima, in quanto il terreno dove esse si evolvono è quello della libertà, fino al punto in cui questa libertà è abbassata al suo significato più meschino e più banale, alla semplice indipendenza riguardo il maestro. Questo è il caso di tante associazioni per il tempo libero.

In questo modo abbiamo assegnato alla scuola il ruolo di tappa necessaria nella crescita dello spirito umano, tappa compresa tra due limiti: da una parte la vita ancora sottomessa alle sensazioni all’interno della famiglia, prima del risveglio dell’aspirazione alla comprensione, e dall’altra parte la vita sottomessa alla ragione nella libertà dopo avere riconosciuto le insufficienze della formazione dell’intelligenza. All’interno della stessa scuola troviamo che i rapporti tra maestro e allievo sono una cosa della più grande essenzialità. Il maestro è l’oggetto che l’allievo si sforza di assimilare nella propria coscienza, di unire lui a se stesso e di comprendere. Così questo è lo scopo di quest’ultimo, e il maestro, rivelandosi ed esponendo le sue concezioni, prescriverà all’allievo le leggi secondo le quali egli vuole essere accolto, compreso e assimilato.

La più ampia definizione che possiamo dare per riassumere la natura del maestro è questa: il maestro è fatto per l’allievo. Questa definizione esige da parte dell’allievo che non ostacoli la funzione del maestro e non gli opponga il proprio carattere testardo e intrattabile: l’insubordinazione è quindi interdetta. A questo divieto si ricollega, in secondo luogo, questa esigenza per l’allievo di essere fatto per il maestro, allo stesso modo in cui il maestro è fatto per l’allievo: la sottomissione, dapprima facile, la franchezza – la parola poco importa – sono dunque stabilite. Ambedue, questa interdizione e quest’ordine, si riuniscono per formare la legge dell’obbedienza. L’obbedienza è a tal punto la legge fondamentale più generale e più necessaria, che non ci si può basare soltanto su di essa a causa proprio della sua generalità non strutturata. Occorre quindi riconoscere che l’esistenza del maestro per l’allievo e i suoi rapporti con lui hanno un contenuto estremamente ricco e che i loro tratti più essenziali meritano di essere enunciati come leggi.

Il maestro è in sé, come per l’allievo, un essere che ha dei sentimenti, del sapere e della volontà, e l’allievo, assimilando queste tre componenti, lo coglie nella sua totalità. Per i sentimenti, in effetti, egli è l’uomo di fede, per il sapere è l’uomo scientifico, per la volontà è l’uomo morale. Chi si sforza di cogliere ciò, dà in sé una forma interiorizzata della fede, della scienza e dell’etica del maestro e perverrà certamente – perché, allo stadio di coscienza dell’allievo, si pone fermamente il postulato che la religione, la scienza e l’etica contrassegnano il maestro di una impronta duratura e personale –, perverrà a conquistare ciò che si chiama cultura religiosa, scientifica e morale che, all’interno della scuola, è lo scopo di tutti gli sforzi.

Quale legge si ricava per l’allievo dal fatto che il maestro ha dei sentimenti? Il maestro, secondo la natura della sua sensibilità, si comporta direttamente come possessore di sentimenti e, di conseguenza, viene assimilato in questo modo direttamente. Che la fede religiosa del maestro sia la fede dell’allievo senza altro intermediario che la trasmissione diretta! La legge che ne risulta per l’allievo è quella della fede in Dio (fede religiosa), il cui contenuto, per la sua fecondità, è ricco in leggi che si possono analizzare fino al dettaglio. Sono queste leggi che, trapiantate nel cuore dell’allievo, portano a buon termine l’educazione religiosa.

In quanto possessore del Sapere, il maestro è esso stesso, in molti modi, in legame intimo con l’allievo, la qual cosa si ottiene solo a forza di lavoro. Bisogna che, per questo legame, il suo sapere sia assimilato e che il maestro ritrovi presso l’allievo un lavoro attivo analogo per acquistarlo. La legge che ne deriva è quella del lavoro scientifico, che può determinare le più svariate prescrizioni, come quella di un lavoro attento, ordinato e applicato, e che riveste per altro la forma delle leggi più specifiche, come l’attenzione, l’ordine e l’applicazione. Si possono in questo modo collocare tra le interdizioni quelle, per esempio, di non frequentare la classe, di andarsene troppo presto in viaggio o in vacanza, di deteriorare i libri della biblioteca in prestito, ecc. Si tratta di ciò che la stessa materia del sapere esige, prescrivendo i modi della sua acquisizione e della sua appropriazione con leggi attraverso le quali l’educazione scientifica comincia a prendere vita.

In quanto avente della volontà, il maestro è quello che, secondo la concezione della moralità considerata come la sola capace di dare alla volontà un’esistenza reale, con l’azione del volere, rende reali e traduce nella vita le verità che gli rivelano la religione e la scienza. A questa realizzazione e a questo completamento della verità stabilita dalla religione e riconosciuta dalla scienza, corrisponde presso l’allievo un’attività simile per soddisfare le esigenze della volontà del maestro, esigenze comandate dalla fede del maestro e trasmesse dal suo sapere: ma bisogna che la vita si annunci qui come legge dell’atto morale. Come le due leggi precedenti, questa si scompone a sua volta in molte leggi particolari, e ciò concerne i rapporti che l’allievo intrattiene attraverso i suoi comportamenti (maniere, modi di fare, condotta): prima di tutto, con i suoi maestri (delle regole della deferenza fanno anche parte le leggi concernenti il rispetto dell’edificio scolastico e degli altri mobili predisposti dal o per il maestro, del personale impiegatizio, ecc., e anche le leggi relative alla tenuta del vestiario, alle futilità della moda, all’abitudine degli speroni, ecc.); e in secondo luogo, con i condiscepoli (interdizione del chiasso da liceali, ordine di obbedire a tutti i sorveglianti, ecc.); e in terzo luogo, con tutti gli altri. Quest’ultimo punto si può a sua volta suddividere in tre parti: relazioni con la famiglia (bisogna considerare qui le leggi ad uso dei pensionati), con la Società civile (per esempio, l’interdizione di frequentare i cabaret) e con lo Stato (per esempio, l’interdizione di appartenere ad associazioni segrete e particolarmente di carattere demagogico). Con l’applicazione delle leggi dell’azione viene raggiunto lo scopo della scuola che, sotto il nome di educazione morale è enunciato come l’esigenza più alta e che deve essere considerato come un limite ad ogni libero volere; perché “davanti la volontà il libero volere tace!”.

Crediamo che con lo scritto presente abbiamo esposto gli elementi essenziali della legislazione della scuola, nella misura in cui essa è legislazione per gli allievi, senza che sia necessario mostrare nei dettagli come, a partire da questa radice, essa abbia sviluppato rami e branche, fino a dare leggi particolari sempre più specifiche, cosa che non sarebbe possibile seguire con i mezzi della nostra modesta esperienza, per cui non abbiamo la pretesa di risolvere un simile problema che richiederebbe la vita intera di un maestro e una ricca esperienza pedagogica.

Ma il seguente problema ci sembra meritare una risposta: in qual misura la legislazione della scuola può o non intervenire nel campo d’azione dei genitori? La famiglia non è dispensata dalle leggi della scuola, ma al contrario essa deve vegliare sull’osservazione di queste leggi fuori della scuola. Dal momento che i genitori hanno affidato il fanciullo alla scuola, questa restituisce loro il diritto di tutela e di sorveglianza che gli hanno trasmesso, con il mandato di prendere cura che l’allievo osservi tutti gli insegnamenti e le leggi della scuola, nel senso più largo della parola, e li metta in pratica anche fuori della scuola e in tutti gli ambienti, e che si mostri così, sotto tutti i punti di vista, formato e trasformato dalla scuola. È tuttavia il settore della sorveglianza che la scuola, nella sua qualità di sorvegliante generale, confida ai genitori, settore limitato, diverso secondo le scuole ed estremamente ridotto per alcune, per esempio per le scuole dei cadetti.

Che i fanciulli non siano in nessun caso privati della scuola, in quanto tappa necessaria della loro vita, questo è un problema dello Stato. Che i genitori, i tutori, ecc., non apportino nessun ostacolo al funzionamento della scuola. Lo Stato dovrà prendersene cura e la scuola dovrà segnalare i casi di difficoltà. Riguardo i genitori la scuola non dispone di nessuna legge. La scuola può senza dubbio imporre la legge della frequenza scolare regolare all’allievo, supponendo che quest’ultimo voglia eluderla, ma se sono i suoi genitori che vi mettono ostacolo, bisogna allora fare intervenire un’altra forza. Lo stesso per la legge riguardante i puntuali pagamenti della retribuzione scolare. Soltanto l’allievo può essere giudicato dalla scuola e solo il suo errore può essere punito. E ciò perché le leggi della scuola si applicano senza restrizioni agli atti compiuti dall’allievo liberamente e si fermano quando l’allievo è impedito ad agire liberamente o quando la condotta è imposta dalla famiglia; cioè quando chi agisce veramente non è l’allievo ma si tratta di un’altra persona. Questa restrizione previene il metodo “spartano” di strappare i fanciulli dalle cellule familiari e mantiene l’integrità del carattere delle leggi della scuola.

Infine, siccome le leggi per gli allievi costituiscono nello stesso tempo i fondamenti delle leggi per i maestri e, per così dire, la prima delle due imposte di una finestra di cui queste ultime costituiscono la seconda: resta dimostrato quello che si è detto nel presente studio e cioè che bisogna sviluppare quello che vi è di essenziale presso il maestro o quello che e presupponibile vi si trovi. Le leggi concernenti la scuola in quanto istituzione offrono i mezzi adeguati per permettere l’assimilazione del maestro da parte dell’allievo, queste leggi trovano il proprio fondamento e la propria giustificazione nella natura delle leggi qui sviluppate. Ma l’esposizione che abbiamo appena tratteggiato e poi abbandonato subito, la consideriamo un compito non adatto alle nostre possibilità, in quanto un simile lavoro risulta essere in conflitto con la modestia che ci viene fatto obbligo di avere.



[Testo, dell’ottobre 1834, dal titolo originale Über Schulgesetze costituente la dissertazione obbligatoria per lo Staatsexamen da superare per ottenere la facultas docendi. Come si sa Stirner non superò questo esame. Il testo è stato rinvenuto nel 1920 da Rolf Engert e pubblicato a Dresda in opuscolo.]

II
Arte e religione

Hegel tratta dell’arte prima che della religione. Questa collocazione le conviene; le conviene addirittura da un punto di vista storico. Non appena l’uomo ha il presentimento che egli ha dentro di sé un al di là, cioè che egli non si esaurisce nella sua condizione animale e naturale ma deve diventare un altro (e per l’uomo attuale l’altro, che egli deve diventare, è un uomo futuro che deve essere atteso al di là del suo stato attuale: cioè è uno che sta al di là, come il giovane è il futuro e l’al di là del ragazzo, verso cui deve crescere, e come l’uomo morale è l’al di là del bambino puramente innocente); dunque, non appena l’uomo ha quel presentimento e si sforza di dividersi e sdoppiarsi fra ciò che egli è e ciò che deve diventare, allora egli tende con desiderio a questa seconda cosa, a questo secondo uomo diverso e non ha pace finché non vede davanti a sé la figura di quest’uomo, che sta al di là. Egli ha lunghe perplessità; avverte soltanto che una figura luminosa vuole elevarsi nel buio del suo intimo: questa però non ha ancora un profilo sicuro e una forma precisa. Assieme al volgo, che brancola incerto nel buio, anche il genio brancola un certo tempo alla ricerca di quell’immagine, di cui egli ha avuto un presentimento. Ma ciò che non riesce ad altri, riesce a lui: egli dà forma a quel presentimento, ne trova la figura, crea l’ideale. Che cos’è l’uomo perfetto, la definizione più propria dell’uomo di cui tutti desiderano farsi una chiara opinione se non l’uomo ideale, l’ideale dell’uomo? L’artista ha finalmente scoperto la parola giusta, l’immagine giusta, la visione giusta di ciò che tutti vogliono. Egli la propone: è l’ideale. “Sì, è proprio così. Esso è quella figura del perfetto, è espressione del nostro desiderio, il lieto annuncio (l’evangelo) che ci riportano i nostri esploratori, da lungo tempo mandati in ricognizione, cioè gli interrogativi del nostro spirito assetato di conforto”. Così esclama il popolo davanti alla creazione del genio, e cade adorante in ginocchio.

Sì, adorante! Il forte impulso dell’uomo a non essere solo, ma a sdoppiarsi; a non essere contento di sé – dell’uomo naturale –, ma a cercare il secondo – l’uomo spirituale –, quest’impulso dunque è soddisfatto dall’opera del genio; lo sdoppiamento è compiuto. Solo adesso l’uomo tira un respiro di soddisfazione, perché la sua confusione interiore è dissolta, l’inquietante presentimento è scacciato in quanto figura: l’uomo sta di fronte a se stesso. Ciò che gli sta di fronte è se stesso e non lo è: egli è il suo al di là, verso cui vanno tutti i suoi pensieri e sentimenti senza raggiungerlo del tutto; egli è il suo al di là, avviluppato e inseparabilmente intessuto con l’al di qua del suo presente. L’al di là è il Dio del suo intimo; ma egli ne sta al di fuori, perciò non può afferrarlo, non può capirlo. Allarga le sue braccia con desiderio, ma non può raggiungere ciò che gli sta di fronte. Infatti se potesse raggiungerlo, come gli potrebbe “star di fronte”? Dove starebbe lo sdoppiamento con tutte le sue pene e delizie? Dove starebbe – usiamo un’altra parola, che esprime tale sdoppiamento – la religione?

L’arte crea uno sdoppiamento, in quanto oppone l’ideale agli uomini; ma lo sguardo all’ideale, che dura finché l’ideale non è stato di nuovo assorbito e ingoiato da fissi occhi cupidi, si chiama religione. Appunto perché essa è un guardare, ha bisogno di un oggetto; e l’uomo si comporta da religioso verso l’ideale proiettato dalla creazione artistica, verso il suo secondo Io divenuto esteriore, come verso un oggetto. Qui stanno tutti i crucci e le lotte di millenni. Infatti è terribile essere fuori di sé; e fuori di sé è ognuno che abbia se stesso per oggetto, senza potersi fondere del tutto con questo oggetto né poterlo annullare in quanto oggetto, cioè in quanto qualcosa che sta di fronte. Il mondo religioso vive delle gioie e dei dolori, che riceve da questo oggetto; vive nello sdoppiamento di se stesso, e la sua esistenza temporale non è secondo la ragione ma secondo l’intelletto. La religione è questione d’intelletto! Lo spirito dell’uomo è duro come quell’oggetto, che nessun uomo pio può del tutto far suo e al quale invece deve sottomettersi; ed è altrettanto ritroso di fronte a questo oggetto: lo spirito è intelletto. “Freddo intelletto!?” Allora voi non conoscete altro che quel “freddo” intelletto? Ma non sapete che niente è così caldo e infuocato, niente ha il coraggio degli eroi quanto l’intelletto? Censeo, Carthaginem esse delendam, disse l’intelletto di Catone e rimase inamovibile. La terra si muove intorno al sole, diceva l’intelletto di Galilei anche quando, vecchio e debole, abiurò in ginocchio la verità; e quando si alzò in piedi, il suo intelletto ripeté: “Eppur si muove intorno al sole”. Nessun potere è così grande da confondere la nostra convinzione che due per due fa quattro; e il perenne motto dell’intelletto resta questo: “Sto qui e non posso fare diversamente”. E la religione dovrebbe essere affare di un simile intelletto, che è incrollabile soltanto perché il suo oggetto non può essere scosso (2 x 2 = 4, ecc.)? Sì, lo è. Essa ha pure un oggetto incrollabile, di cui è divenuta preda: l’artista gliel’ha creato; solo l’artista potrebbe ritoglierlo. Essa infatti è senza genialità. Non ci sono geni religiosi, e nessuno sosterrà che in cose di religione si possano distinguere geni, talenti e gente senza talento. Ognuno ha uguale capacità nei confronti della religione, e altrettanto quanto nei confronti della comprensione del triangolo o del teorema di Pitagora. Non si confonda però la religione con la teologia: per quest’ultima non tutti hanno identica capacità, altrettanto quanto per l’alta matematica e l’astronomia. Queste cose richiedono un raro grado di acume. Solo il fondatore di religione è geniale; ma egli è anche il creatore dell’ideale, con la creazione del quale diventa impossibile ogni ulteriore genialità. Laddove lo spirito è legato ad un oggetto e ogni misura del movimento di esso spirito è fissata proprio da questo oggetto (infatti se l’uomo religioso volesse elevarsi al di sopra dell’insormontabilità di questo oggetto dubitando decisamente dell’esistenza di Dio, con ciò stesso cesserebbe d’essere un uomo religioso: come, per esempio, uno che crede negli spettri, se dubitasse decisamente dell’esistenza di questi spettri, di questi oggetti, non sarebbe appunto più uno che crede negli spettri. L’uomo religioso si costruisce “prove dell’esistenza di Dio” solo perché, avvinto da questa fede in tale esistenza, si riserva un libero movimento dell’intelligenza e del suo acume all’interno di questa fede); laddove – dicevo – lo spirito dipende da un oggetto, che esso cerca di spiegare, d’indagare, di sentire, d’amare, ecc., esso non è libero e, dato che la libertà è la condizione della genialità, non è neppure geniale. Una devozione geniale è cosa altrettanto assurda quanto un geniale tessuto di corda. La religione resta accessibile anche alle persone più scipite e ogni sempliciotto senza fantasia può avere e, anzi, avrà sempre religione. Infatti la sua mancanza di fantasia non gli impedisce di vivere in stato di dipendenza.

“Ma non è l’amore l’essenza più vera della religione, esso che è tutto affare di sentimento e non di intelletto?”. Se esso è affare di cuore, deve per ciò stesso essere meno affare dell’intelletto? È un affare di cuore, se occupa tutto il mio cuore. Questo non esclude che occupi anche tutta la mia intelligenza; né l’essere affare di cuore la rende cosa particolarmente buona, perché anche l’odio e l’invidia possono essere anch’essi affare di cuore. Di fatto l’amore è soltanto un affare dell’intelletto, e pur tuttavia resta impregiudicato nel suo titolo di essere affare di cuore: non è affare della ragione, perché nel regno della ragione non c’è amore; proprio come in cielo – secondo la nota affermazione di Cristo – non c’è matrimonio. Certo si può parlare di amore “senza intelletto”. Esso o è così senza intelletto, per cui è senza valore e tutt’altro che amore (come qualche volta succede che si chiami amore l’incapricciarsi per una bella faccia); oppure esso appare solo temporaneamente senza una manifesta intelligenza, ma può giungere ad esprimerla. Così l’amore del bambino è innanzitutto in sé “secondo intelletto” pur senza una lucida presa di coscienza, ma nondimeno già dall’inizio affare dell’intelletto, perché l’amore del bambino arriva soltanto fin dove arriva l’intelletto del bambino e con l’intelletto sorge e cresce. Finché il bambino non dà alcun segno di intelligenza – come ciascuno può aver sperimentato –, egli non dimostra alcun amore. Solo nella misura in cui egli distingue gli oggetti (tra cui ci sono anche le persone), egli si attacca più ad una persona che ad un’altra, e con la sua paura o – se così lo si vuol chiamare – con il suo rispetto comincia il suo amore. Il bambino ama perché è attratto da un oggetto, dunque anche da una persona, nell’ambito della sua forza o del suo fascino: egli sa distinguere il modo materno di comportarsi di sua madre dal modo di comportarsi di altri, anche se al riguardo non sa ancora esprimersi secondo intelligenza. Prima di quell’atto di intelligenza nessun bambino ama, e il suo amore più devoto non è altro che l’atto più profondo d’intelligenza. Chi ha opportunamente osservato l’amore dei bambini, potrà confermare questa affermazione con la sua esperienza. Ma con la comprensione dell’“oggetto” (così si sente chiamare significativamente, anche se alquanto rozzamente, le persone amate) non sale o scende soltanto l’amore dei bambini, ma qualunque amore. Se interviene un’incomprensione, finché questa dura, l’amore più o meno ne scapita. E si adopera anzi la parola “incomprensione” al posto di “dissapore” per indicare un turbamento dell’amore. L’amore è irrimediabilmente perduto, se ci si è totalmente ingannati nei riguardi di una persona: il malinteso è allora completo e l’amore è spento.

L’amore ha necessariamente bisogno di un oggetto. È la stessa cosa per l’intelletto, che è la vera e unica attività spirituale dell’uomo religioso, proprio perché costui ha pensieri soltanto a riguardo di un oggetto, solo meditazioni e devozione, non liberi pensieri, senza oggetto, “razionali”; anzi questi ultimi egli considera e condanna come idee filosofiche cervellotiche.

Ma, se un oggetto è necessario all’intelletto, l’attività di questo cessa sempre a quel punto in cui ha sfruttato il suo oggetto, per cui non ci trova più niente da fare e quindi ha chiuso con esso. Con la sua attività finisce la sua partecipazione alla cosa. Infatti se l’intelletto deve darsi con amore e dedicare a questa cosa tutte le forze, essa deve essere per lui un mistero. Anche a questo proposito succede all’intelletto come all’amore. Ad una coppia è garantito un amore imperituro, se i due partner appaiono quotidianamente nuovi l’uno all’altro e ciascuno riconosce nell’altro una sorgente inesauribile di vita fresca, cioè un mistero, qualcosa di insondabile, di inafferrabile. Se essi non trovano più nulla di nuovo l’uno nell’altro, il loro amore si risolve irrimediabilmente in noia ed indifferenza. Così pure l’intelletto esiste soltanto in quanto è operante; e allorquando esso non può più usare le sue forze a riguardo di un mistero, perché l’oscurità di questo è scomparsa, esso si allontana dall’oggetto interamente capito e quindi diventato senza gusto. Chi vuol essere amato dall’intelletto deve guardarsi bene, come una donna astuta, dall’offrirgli le sue grazie tutte in una volta: ogni mattina una nuova grazia e l’amore durerà per i secoli! Ed è proprio il mistero che trasforma un affare di cuore: tutto l’uomo si applica alla cosa con la sua intelligenza, e ciò la trasforma in affare di cuore.

Ora, se l’arte degli uomini ha creato l’ideale e quindi ha dato loro un oggetto, col quale lo spirito lotta a lungo e in questa lotta con gli oggetti fa valere la pura attività dell’intelletto, allora l’arte è la creatrice della religione; e in un sistema filosofico, come è quello di Hegel, non può occupare un posto dietro la religione. Non soltanto dei poeti come Omero ed Esiodo “hanno costruito i loro idoli ai Greci”, ma anche altri in quanto artisti hanno fondato religioni, anche se poi ci si rifiuta di dar loro il nome di artisti perché troppo insignificante. L’arte è il principio, l’alfa della religione; ma ne è anche la fine, l’omega; anzi, di più, ne è l’accompagnatrice. Senza l’arte e senza l’artista, che crea l’ideale, la religione non sorge. Per opera di lui essa ancora tramonta, se egli ritrae la sua opera. Per opera di lui essa anche si mantiene, in quanto egli la rinfresca continuamente. Se l’arte si leva in tutta la sua energia, essa crea una religione e sta all’inizio di essa. Mai la filosofia è creatrice di una religione, perché mai essa produce una figura, che possa servire da oggetto all’intelletto; essa non genera alcuna figura, e le sue idee senza immagini non si possono adorare nel culto religioso. Al contrario l’arte segue sempre l’impulso a mettere in risalto l’aspetto più proprio e migliore dello spirito o addirittura lo spirito stesso nella sua maggior pienezza possibile nella sua figura ideale; segue sempre l’impulso a liberare lo spirito dalle tenebre, che lo circondano per tutto il tempo che esso sonnecchia nel petto del soggetto artistico, e, donandogli una figura, a fare di lui un oggetto. Allora l’uomo si trova di fronte a questo oggetto, Dio; e lo stesso artista cade in ginocchio davanti a lui, che è la creazione del suo spirito. Nel rapporto e nella lotta con l’oggetto la religione segue una via opposta a quella dell’arte. La religione infatti cerca di riprendere nell’interiore dell’uomo, che è il posto della religione, e di rendere di nuovo soggettivo quell’oggetto, che l’artista ha prodotto concentrando tutta la forza e la ricchezza del suo interiore in una splendida configurazione e mettendo sotto gli occhi del mondo questa configurazione, che si armonizza con i bisogni e i desideri di ogni uomo. La religione mira a conciliare l’ideale e Dio con l’uomo, il soggetto, e a spogliarlo della sua dura oggettività. Dio deve diventare interiore (“non io, ma Cristo vive in me”); lo sdoppiamento vuol dissolvere e disfarsi di se stesso; l’uomo, sdoppiato dall’ideale, mira da parte sua a riconquistarselo (a guadagnare Dio e la grazia di Dio, e infine a fare di Dio il proprio io). E, d’altro lato, il Dio ancora separato dall’uomo cerca di guadagnare questi per il regno dei cieli: ambedue si completano e si cercano. Ma non si incontrano mai e non divengono mai un’unica cosa. La religione stessa scomparirebbe, se ambedue diventassero un’unica cosa, poiché essa religione sussiste solo se restano separati. Perciò il credente non spera di più che di giungere un giorno a vedere Dio “faccia a faccia”.

Però l’arte accompagna anche la religione, in quanto l’interiore dell’uomo, arricchito dalla lotta con l’oggetto, prorompe di nuovo in un genio per una nuova configurazione e abbellisce e trasforma l’oggetto qual era stato fin qui, riplasmandolo. È difficile che passi una generazione senza una simile trasfigurazione, dovuta all’arte. Da ultimo però l’arte sta anche alla fine di una religione. Con animo ilare essa mette mano di nuovo alla sua creazione dall’al di là in cui essa creazione era caduta nel tempo della religione, e non più soltanto l’abbellisce ma l’annienta del tutto. L’arte, esigendo indietro la sua creatura, che è la religione, compare al tramonto di una religione; e mentre essa arte presenta, trastullandosi, come una commedia da ridere tutta la serietà della vecchia fede, perché questa ha perduto la serietà del contenuto che ha dovuto restituire al gioioso artista, essa arte ha ritrovato se stessa e perciò una nuova capacità creatrice. Infatti – non risparmiamole il rimprovero di crudeltà! – quanto crudelmente essa annienta nella commedia, altrettanto inesorabilmente essa ricostituisce ciò che pensa di annientare daccapo. Essa crea un nuovo ideale, un nuovo oggetto e una nuova religione. L’arte non può trattenersi dal costruire di nuovo la religione; e le immagini del Cristo di Raffaello trasfigurano il Cristo in modo tale che egli diventa la base di una nuova religione, della religione del Cristo biblico “purificato da tutti i canoni” umani. Di nuovo l’intelligenza comincia la sua instancabile attività di riflessione, dato che essa riflette così a lungo sul nuovo oggetto finché lo abbia tutto penetrato con una comprensione sempre più profonda: con l’amore più generoso l’intelligenza si sprofonda nell’oggetto e ne ascolta le rivelazioni e ispirazioni. Quanto questa intelligenza religiosa ama ardentemente il suo oggetto, altrettanto ardentemente essa odia tutti coloro che non lo amano: l’odio religioso è inseparabile dall’amore religioso. Chi non crede nel suo (dell’intelligenza) oggetto è un eretico; e invero non è uomo devoto chi tollera l’eresia. Chi potrà negare che Filippo II di Spagna era infinitamente più devoto di Giuseppe II di Germania; e che Hengstenberg è veramente devoto, mentre Hegel non lo è? Nella misura in cui nel nostro tempo l’odio è diminuito, nella stessa misura l’amore religioso per Dio si è illanguidito ed ha ceduto ad un amore umano, che non è pio ma morale, perché “zela” con più ardore il bene degli uomini che non quello di Dio. Il tollerante Federico il Grande – è vero – non può passare per un modello di devozione, ma certo per un eminente modello di umanità.

Chi serve il suo Dio, deve servirlo interamente. È perciò pretesa assurda, per esempio, che il cristiano non metta in catene un ebreo. Anche il cristiano dal cuore più mite non può fare altrimenti, se non vuole essere indifferente davanti alla sua religione o comportarsi sconsideratamente. Se riflette secondo intelletto alle esigenze della sua religione, deve escludere l’ebreo dai diritti cristiani o – il che è lo stesso – dai diritti dei cristiani e ciò soprattutto per quanto riguarda lo Stato. Infatti la religione, per chi vi aderisce con zelo, è un rapporto di sdoppiamento.

Questa è dunque la posizione dell’arte verso la religione. L’arte crea l’ideale e sta al principio. La religione trova un mistero nell’ideale e diventa per ciascuno devozione tanto più intima quanto più egli saldamente aderisce all’oggetto e da esso dipende. Se però il mistero viene rischiarato, se l’oggettività e l’estraneità vengono infrante e proprio per questo l’essenza di una data religione viene annientata, allora la commedia deve assolvere il suo compito e, attraverso la dimostrazione evidente del vuoto o – meglio – dello svuotamento dell’oggetto, liberare l’uomo dall’attaccamento, dovuto alla sua fede antica, a ciò che è diventato sterile deserto. Conformemente a questo suo carattere, la commedia in ogni campo strappa fuori ciò che vi è di più sacro e utilizza, per esempio, il sacro matrimonio, dato che il matrimonio così come è presentato da lei non è più sacro ma una forma divenuta vuota, alla quale non si deve ulteriormente stare attaccati. Ma anche la commedia precede la religione, come tutta l’arte: essa fa solo spazio al nuovo, al quale l’arte stessa intende dare di nuovo forma.

Se l’arte crea l’oggetto e se la religione vive soltanto agganciata all’oggetto, allora la filosofia si distingue molto chiaramente da tutt’e due. Essa non ha di fronte un oggetto, come la religione; né ne crea uno, come fa l’arte; ma essa invece distrugge ogni oggetto e ogni oggettività, e respira la libertà. La ragione, che è lo spirito della filosofia, si occupa solo di se stessa e non si cura di alcun oggetto. Al filosofo Dio è indifferente quanto un sasso; egli è l’ateo più completo. Se si occupa di Dio, non è per rendergli culto ma per usarlo: la ragione cerca allora soltanto una scintilla di ragione, che si cela in ogni forma. Infatti la ragione cerca solo se stessa, si cura solo di se stessa, ama solo se stessa o – per essere precisi – non ama se stessa perché non ha alcun oggetto in sé, ma è se stessa. Neandro quindi con giusto istinto ha portato il suo “pereat” al Dio dei filosofi.

Però noi qui non intendiamo parlare più a lungo della filosofia: essa sta al di là del nostro tema.



[Kunst und Religion è il secondo importante contributo che Stirner scrive per la “Rheinische Zeitung”, pubblicato subito dopo il primo nel supplemento al n. 165 del 14 giugno 1842. È firmato anch’esso “Stirner”. È stato ripubblicato da me per la prima volta a Berlino nel “Magazin für Litteratur”, e precisamente nel n. 52 della LXIII annata del 29 dicembre 1894. (Nota di J.H. Mackay)]

III
Scritti su Königsberg

1) [Königsberger Skizzen di Karl Rosenkranz. Prossima pubblicazione]

“Se prima risuonava la formula banale: dal Reno fino alla Vistola, adesso in Germania si è così benevoli da dire: dal Reno fino al Pregel. La Dieta di Königsberg del 1840 per l’omaggio al re e la Dieta di Danzica del 1841 ricordarono un’altra volta con vivacità al resto della Germania che, al di là della Vistola, non hanno cessato di esistere né libertà né intelligenza”. Queste sono parole di un uomo molto apprezzato non solo nel mondo dei filosofi ma in quello della cultura in generale, tratte dalla prefazione al suo libro di prossima pubblicazione, Königsberger Skizzen [Schizzi königsberghesi] di Karl Rosenkranz (Edizioni Gerhard, Danzica). Fino a due anni fa solo poche persone avrebbero concepito un interesse particolare per questo libro, per quel tanto almeno che riguarda il luogo e le sue peculiarità; ma ora che la franchezza e la magnanimità di Königsberg sono riecheggiate in tutti i cuori leali dell’intera Germania, le cose stanno molto diversamente. Ci sta a cuore tutto quel che riguarda uomini grandi e amici, anche le cose più insignificanti; e chiunque ce ne dà notizia ci rallegra sinceramente e si merita il nostro ringraziamento più pieno. Ma se chi ce ne dà notizia è una persona così gradita in se stessa, come lo è certamente Rosenkranz per tutti quelli che lo conoscono, chi non ascolterà con gioia e piacere le sue innocenti parole! Noi conosciamo soltanto la prefazione di ciò che verrà in seguito; per il momento possiamo già indovinare qualcosa, affinché attraverso un appello tempestivo si raccolgano in gran numero gli uditori curiosi. “Forse non avrei fatto stampare questi schizzi, se il relativo materiale non si fosse raccolto proprio senza la mia intenzione. Il valore delle mie osservazioni lo metto nella loro spregiudicatezza. Il mio campo è solo quello dei segreti pubblici. È bensì vero che io, sia detto di passata, getto uno sguardo nelle vostre case; della maggior parte degli alloggi della città conosco le sporte ricamate appese alle pareti, l’orologio a pendolo, il vaso dei fiori, il tavolo di cucito, il ritratto di famiglia presso la finestra; di questo poi conosco le fisionomie stereotipate; vedo ogni nuovo negozio che si apre, ogni nuova insegna che viene appesa, ogni nuova mano di vernice che si dà alla casa. Ma lo faccio del tutto ingenuamente; non ho finalità segrete; e quindi voi non dovete evitarmi come un traditore, o addirittura come un pubblico ufficiale incaricato di redigere un resoconto segreto delle note caratteristiche della vostra condotta.

“Prussia orientale, Prussia occidentale e Lituania non sono certo parte della Confederazione germanica. Ma questo non è un motivo per non ritenerle germaniche nell’origine della loro cultura e nel carattere del loro sviluppo. II fatto che la Prussia abbia mantenuto il suo territorio originario indipendente dalla Confederazione germanica mi sembra piuttosto essere stata prudenza degna di lode; e mi meraviglio soltanto del fatto che sembra ci si dimentichi spesso di questa separazione e si considerino immediatamente come valide anche per noi tutte le misure della Confederazione germanica. L’interesse, che da tempo si è incominciato ad avere per Königsberg da parte di coloro che abitano fuori di essa, è perciò grande e generale. Basta riflettere un po’ per essere portati a prestare maggiore attenzione a una città, da cui sono usciti uomini come Kant, Johann Georg Hamann, Christian Jakob Kraus, Theodor Gottlieb von Hippel, Johann Jacob Harder, Johann Georg Schaffner [si tratta di Scheffner], Friedrich Ludwig Werner, Ernst Theodor Hoffmann e altri ancora; e dalla quale di quando in quando sono venuti stimoli così duraturi al restante mondo civile”.

Ma “questi schizzi toccano anche problemi generali del tempo. In questo scritto non tratto come compiti della scienza i veri e propri problemi religiosi ed ecclesiali. Molto invece mi si criticherà per quanto riguarda i problemi politici”. L’egregio Autore introduce ora la sua “confessione politica” con le parole del barone August von Haxthausen, prese dalla sua Ländlicher Verfassung Preussens [Costituzione del Land di Prussia], pp. 7 e sgg. Essa è troppo ampia per essere presentata in estratto; può essere invece opportunamente rinviata al momento in cui comparirà il libro, quando le parole stesse dell’Autore offriranno una possibilità molto migliore alle nostre riflessioni. È sufficiente che la Germania sappia in anticipo che prossimamente le verrà presentato un ritratto, fatto da uno dei suoi uomini migliori e più nobili, e abbozzato con accorta mano d’artista.



[“Rheinische Zeitung”, n. 132, 12 maggio 1842]

2) Recensione a Königsberger Skizzen di Karl Rosenkranz

Dopo un’attesa per molti versi carica di tensione, il libro è ora apparso. Soddisfa le aspettative? Credo di sì. Queste aspettative potevano andare in due direzioni: o noi avremmo avuto – il che è la cosa più importante – un’immagine riuscita di Königsberg, che recentemente ci è diventata tanto cara, oppure Rosenkranz si sarebbe addentrato in alcune interessanti questioni attuali. Per quanto riguarda anzitutto il primo punto, mi sono trovato bensì ampiamente soddisfatto, però devo aggiungere che sono vissuto troppo poco a Königsberg e inoltre sono già trascorsi molti anni dal mio soggiorno là, per cui non posso seguire criticamente l’Autore in dettaglio. Ma per quel tanto che posso seguirlo, devo perfettamente convenire con lui in tutto; e sono sicuro che anche coloro che non hanno mai visto Königsberg da questi scritti ricaveranno una visione sorprendentemente chiara. Però si dovrà leggere tutto il libro e non ci si limiterà a scegliere questo o quello schizzo. Se si cercasse questo o quell’effetto particolarmente convincente, sarebbe facile trovarne molti da comunicare agli altri. Mi sembra intanto utile mettere in rilievo soltanto qualcosa delle caratteristiche generali di Königsberg, affinché un gran numero di persone colleghino una certa idea al nome di questa città. Dice Rosenkranz: “Mi sembra che il tratto principale di Königsberg stia in un’universalità, dominata dalla più sobria intelligenza. L’universalità raduna in essa quasi tutti gli elementi significativi della cultura; però, a causa dell’isolamento della città, questi si riducono a poche persone. È difficile che manchi qualcosa: ogni mestiere, ogni arte, ogni scienza, ogni modo di vivere, ogni orientamento politico ed ecclesiastico vi sono rappresentati. Ma spesso un elemento è proprio soltanto rappresentato. Non è profondamente radicato; è lì soltanto per far vedere che esiste. È presente più come una possibilità che come una realtà. Uno che ami scherzare potrebbe trovare spunto per dire che Königsberg è la città, in cui tutto si trova nella situazione del press’a poco, ecc.”. – “Ciò nondimeno è molto importante che Königsberg possegga tale universalità di elementi culturali. Con ciò dimostra la sua predisposizione al progresso. Non esclude nulla da sé a priori, ma va incontro anche alle cose più esotiche con capacità di accoglimento. – Ma nella sua universalità è anche di inesorabile rigore logico: la chiarezza dei concetti e dei giudizi è una delle prime esigenze degli abitanti di Königsberg, ecc.”. – “Questo rigore logico, unito a quell’universalità, è la base di una rara fondatezza di giudizio. Da sola, l’intelligenza condurrebbe ad un estremo rigorismo prosastico. Tutto ciò che non le fosse immediatamente comprensibile, sarebbe immediatamente proscritto. Ma la molteplicità degli interessi, che si agitano a Königsberg, impedisce una simile desolazione. Per quelle cose alle quali uno non arriva con la sua intelligenza, se ne trova un altro. Costui sa giustificare il suo oggetto e valorizzarlo davanti all’intelligenza. Si può quindi osservare spesso come in una data occasione, in cui si debba pronunciare un giudizio, sorgano due partiti opposti, uno che respinge e uno che ammette. Ma nel corso della disputa la loro dialettica produce un giudizio, in cui la veemenza del biasimo è mitigata da una migliore presa di coscienza della cosa e il favore esagerato è moderato dalla scoperta dei vari punti deboli. Questo giudizio, raggiunto come risultato della discussione, viene poi abitualmente accolto nella tradizione comune. Certo, il processo appena descritto è quello che avviene in tutto il mondo; ma a Königsberg è – per così dire – organizzato. Anche quando non ce lo si aspetterebbe, a Königsberg si fa sentire un’opposizione”.

Tutto questo diciamo per la prima aspettativa, che – come penso – non andrà delusa. Al libro è utilmente aggiunta anche una carta geografica con delle figure. Anche la seconda promessa “di toccare problemi generali del tempo” è stata mantenuta dall’Autore; il quale, usando un geniale modo di esprimersi, ha diffuso su alcuni di essi una luce rischiaratrice. Nel far ciò 1’Autore stesso si espone alla nostra considerazione, perché tutto il suo modo di giudicare dipende dal suo punto di vista, e il mondo guarda a lui non diversamente da come lui guarda al mondo. Ora, se pur noi troviamo Rosenkranz così amabile come sempre, così sereno, aperto, schietto, così grazioso e delicato, non dovremo però neppure tacere il fatto che egli sembra rappresentare nella sua propria persona quello spirito del tempo, che egli ritiene di poter riassumere in una sola parola: eclettismo. In più punti egli parla di questo confluire del singolo nella corrente dell’universale; ed egli non vedrà certo un biasimo nel fatto che lo si chiami figlio del suo tempo, cioè dell’eclettismo. Solo che ci si potrà anche attardare nel flusso del tempo, diventando un habitué delle acque interne senza mai nuotare al largo nei flutti dell’oceano. Dove fiume e mare si incontrano, lì si spazia con lo sguardo, si contemplano con animo disteso e interesse le mutevoli forme che assume il mare, e... ci si comporta bene a casa. È vero che i nostri giorni sembrano ancora molto eclettici; però non lo sono più. Una spaccatura li ha attraversati, proprio come di notte si spacca la crosta di ghiaccio dell’Haff: senza sapere della spaccatura parecchi viandanti sbadati vi precipiteranno dentro al mattino presto, quando non è ancora chiaro, dato che non hanno sentito il rumore che c’è stato nella notte e ritengono di dover pur sapere qualcosa delle possibili fenditure del ghiaccio, siccome fino a poche ora prima hanno percorso più o meno la stessa strada senza pericolo. Il nostro tempo non è più eclettico e senza partiti; però migliaia di persone lo sono ancora e vogliono restarlo. Bella situazione senza partiti, come si gusterebbe la tua pace idilliaca! Però non ti voglio, non voglio l’abbondanza dei tuoi piaceri; non voglio la tua beata universalità, la tua pace, la tua innocenza. Finché il carattere del nostro tempo fu eclettico, Rosenkranz passò per uno dei suoi incontestati capofila; ma da quando di eclettico è rimasto solo il suo ingannevole aspetto, egli dovrebbe affrettare i passi con audacia maggiore di quanto non faccia per non diventare un ritardatario.

I due volumi che abbiamo offrono abbondante materiale per mettere in guardia del pericolo di restare indietro. Il lettore, che sente nel suo animo che l’eclettismo è cosa passata, se ne accorgerà da solo. Da parte mia voglio proprio mettere in evidenza un passo che potrebbe anche essere trascurato, perché chi giudica benevolmente le cose abbia anche la possibilità di scusarle amabilmente.

I, 286. “Se vedo l’immagine di un ebreo che grida al governatore: ‘Crocifiggilo! Crocifiggilo! Il suo sangue sia su di noi e sui nostri figli’, e poi esco di chiesa o mi allontano dalla statua della Via crucis e quindi incontro per strada la stessa fisionomia, allora ci vorrebbe una fede cristiana più solida per ricordarmi che Cristo ha perdonato agli Ebrei, doveva perdonarli perché non sapevano quello che facevano. Il volgo crede invece di mostrarsi cristiano non dimenticando ancora oggi ciò che gli Ebrei hanno fatto un dì”.

Allora si deve essere un cristiano, un “cristiano solido” per non odiare gli Ebrei? È bensì esatto che la religione cristiana ha assunto come principio etico l’amore ai nemici e perciò ha qualcosa di più delle altre religioni; ma questa superiorità sulle altre religioni non può essere considerata come una superiorità sull’umanità e non può servire ad attribuire al cristianesimo, come qualcosa di proprio, l’amore ai nemici. L’amore ai nemici è senz’altro qualcosa di umano, e non è necessario essere un “cristiano solido” ma neppure semplicemente cristiano per amare i propri nemici. Davide amava Saul, Socrate amava la sua gente, che l’avvelenò; come il popolo ebreo crocifisse Cristo e il selvaggio canadese di Seume un cristiano. E ci vorrebbe una “più solida fede cristiana” per non serbare rancore proprio ad un nemico irresponsabile – così li riteneva Cristo stesso (“Perdona loro, perché non sanno quello che fanno”) – e ai suoi tardi nipoti? Così si sottrae al suo terreno ciò che è semplicemente umano per trapiantarlo nel cielo cristiano: e così si giunge conseguentemente ad uno Stato cristiano e pure ad una filosofia cristiana. Invece è proprio il modo di “essere cristiani del volgo”, che lo spinge ad odiare gli Ebrei. Se un cristiano guarda in faccia un greco moderno, non gli viene in mente di odiarlo quale discendente di quelli che uccisero Socrate per veleno; ma se vede un ebreo, al cristiano viene in mente l’uccisione di Cristo. Dato che egli è cristiano, il primo suo sentimento verso l’ebreo è l’odio. Ma se poi egli lascia che in lui parli l’umanità e se sente la disumanità dell’odio, può richiamarsi a questo riguardo al cristianesimo, ma solo per il fatto che esso cristianesimo ha assunto in sé e quasi preso a prestito dall’umanità l’amore ai nemici. Quindi potrà essere che, per non soccombere alla tentazione di odiare gli Ebrei per il misfatto dei loro antenati, si debba essere “cristiani più solidi”, cioè ricordarsi della legge cristiana dell’amore al nemico, legge passata dall’umanità alla religione; ma potrà darsi al contrario che, per non lasciarsi neanche prendere da una simile tentazione, non occorra essere altro che veri uomini. Anche i “più solidi cristiani” hanno ceduto a questa tentazione, come dimostra il Medioevo; e vi cedono tuttora, come dimostra lo “Stato cristiano”. Un uomo libero, che abbia una nobile coscienza di sé, attraverso la forza della sua umanità soffoca questo serpente già nella culla. Avviene parimenti in innumerevoli altri casi che il cristianesimo ci induca in tentazione e poi ci salvi soltanto attraverso un principio preso a prestito dall’umanità ed espresso come legge religiosa.

Ho scelto questo passo, in sé poco significativo, perché il leone si riconosce dall’artiglio e perché esso contiene un’allusione sufficiente al fatto che Rosenkranz non considera il mondo con sguardo puro e sereno dal punto di vista dell’umanità, anche se egli è certamente uno degli uomini più umani e liberali nel senso comune della parola. È bensì vero che l’umanità guida lui, come guida innumerevoli altri uomini, in tutte le sue vie; però essa non è diventata qualcosa di personale, non è diventata l’idea che fece di sé il proprio mondo; non è l’unica coscienza di se stesso, il suo Io pieno; e perciò essa non ha altra energia se non quella di tenerlo in suo dominio. Ma chi è dominato non può fare a meno che talvolta i suoi capricci personali lo dominino al di là di chi già lo domina: il padrone in fin dei conti non è lui stesso e il servitore dell’umanità rimane – per se stesso – un cristiano. Nella vita il suo padrone, cioè l’umanità, determina la sua volontà; quando è nella sua cameretta egli determina se stesso, ed è cristiano. Inoltre egli non tralascerà di tentare di convertire il suo padrone alla sua fede. Con la sua bella fede che tutto deve servire alla glorificazione del cristianesimo, Rosenkranz mi ha vivacemente richiamato alla mente la credulità di Philipp Konrand Marheineke, il quale “non si fa scrupolo di affermare che, se si prende in considerazione la sostanza del libro di Bruno Bauer (Kritik der evangelischen Geschichte der Synoptiker [1841-1842] [Critica della storia evangelica dei Sinottici]), esso stesso mira alla glorificazione del cristianesimo”: come attraverso i giochetti della sua simbolistica (per esempio, nell’articolo La casa di Kant) ha nuovamente risvegliato in me – dato che sto biasimandolo, aggiungo anche questo – il ricordo di Karl Friedrich Göschel.

Ma, nonostante tutto questo, quante cose stupende offre il libro! La mia critica non deve turbare il grande godimento che suscita la sua lettura; ma la si prenda solo come un ingrediente di mandorle amare, che rende il tutto ancor più gustoso. Compito del critico è proprio questo: egli ritiene di non fare il suo dovere, se non dà un po’ addosso all’autore e se non lo biasima. Perciò per il lettore benevolo farò seguire ancora alcune citazioni dal libro, dato che esse saranno accolte in un giornale.

Vol. I, p. 286: “È interessante vedere in quale angustia si vengano a trovare fra noi i signori feudali cristiani nei confronti degli Ebrei. Dato che essi credono alla Bibbia dell’Antico Testamento con non minor zelo che al Nuovo Testamento, devono per forza tenere in alto concetto il popolo ebraico. Quando vogliono dimostrare una verità di fede, essi citano senza distinzione e critica alcuna i salmi, le Lettere di S. Paolo, il Genesi e gli Atti degli apostoli. Per loro è tutta parola di Dio, tutta rivelazione, è tutto ispirato; il contesto non importa. Perciò parlano sempre anche del popolo di Dio, dalla cui stirpe regale è uscito Cristo; la quale parentela principesca – fra l’altro – dovevano notare coloro che sono abbastanza antistorici da scorgere sempre in Cristo una natura assolutamente democratica. Se hanno davanti a sé una bella testa di ebreo con la fronte alta, gli occhi profondi, naso nobile, labbra fini ma forti, barba scura, confessano a se stessi che Gesù poteva avere un aspetto del tutto simile. Pur tuttavia non vogliono aver nulla a che fare con gli Ebrei. Per loro gli Ebrei come venditori ambulanti sono troppo sporchi, troppo avidi di guadagno, troppo ridicoli nel loro modo di fare. Come agiati commercianti, che frequentano le fiere, che possiedono un loro magazzino, li sopportano; però solo costretti dalla necessità, quando devono comperare o vendere oppure quando viaggiano sulla carrozza postale. Puzzano ancor troppo di aglio e sono troppo attaccati al loro Vecchio Testamento. Come banchieri che, vestiti secondo la moda più recente, si recano in fretta alla Borsa con splendidi cavalli ‘puro sangue’; la cui casa è modello d’eleganza; che ogni giorno ‘ricevono gente’, offrendo ottimo Champagne; nella cui libreria brillano le opere di Schiller e Goethe, Byron e Scott, Victor Hugo e Balzac in rilegature inglesi; le cui figlie cantano le recenti arie operistiche de Gli ugonotti di Meyerbeer con accompagnamento di piano viennese; come banchieri, che hanno ricevuto in dono da un monarca cristiano l’ordine del Redentore; che sono una specie di diplomatici, una potenza politica; come banchieri, gli Ebrei irritano l’aristocratico con la loro ricchezza, il loro lusso, la loro cultura, la loro influenza. E così anche questo tipo di Ebrei non gli va bene. Non può forse fare a meno degli Ebrei, se questi sono medici illuminati e cultori di scienza; ma odia in loro il loro atteggiamento illuministico, fa loro colpa di essersi troppo snazionalizzati. Come scrittori poi, come è il caso di Gabriel Riesser, gli sono completamente abominevoli. Per un ebreo che scriva articoli di giornale o addirittura rediga un giornale, egli ha solo parole ingiuriose. ‘Giovane ebreo’ è qui una espressione tecnica”.

Vol. I, p. 320: “Vi è un profondo rapporto tra Prussia (la provincia), e la Svevia. Nella diagonale della vita tedesca che va da sud-ovest a nord-est si formano dei poli, che esercitano una silenziosa azione l’uno sull’altro, come si può vedere nella storia della letteratura. Ora, come una volta Kant fece scendere in campo contro di lui i teologi di Tubinga Gottlob Christian Storr e Karl Christian Flatt finché però con David Friedrich Strauss il razionalismo vinse il soprannaturalismo, così ancora proprio qui Strauss incontra un favore migliore che altrove. Nell’ambito della mia esperienza limitata mi sono accorto con stupore che dei proprietari di terre prussiani hanno letto di seguito per tutto un inverno Strauss pagina per pagina; ne hanno parlato, anzi hanno trattato poi in corrispondenza epistolare le opinioni diverse, che di lui si erano fatte.[1] Da noi gli ecclesiastici, mossi da interesse ben diretto – non riesco a immaginare la cosa diversamente –, hanno reagito alle dottrine di Strauss spesso in modo terroristico. Questo funzionerà un po’ per l’immediato, ma non a lungo, perché la libertà di ricerca è inseparabile dal protestantesimo. Se gli straussiani volessero costituirsi in una confessione – il che però nessun fatto lascia supporre –, nessuna potenza al mondo potrebbe impedirlo loro. Come è sempre successo per le sette oppresse, non mancherebbero di fanatismo, e quindi di gioiosa voglia di soffrire, di sacrificarsi. Il ‘Hengstenbergische Kirchenzeitung’ ha prospettato spesso le cose in modo tale da mettere in dubbio il coraggio degli straussiani di porre a repentaglio per le loro convinzioni i loro beni terreni, il loro onore terreno. Ma quel giornale si sbaglia. Per cose di più basso rango gli uomini hanno affrontato fermamente la morte, e sempre con coraggio da leone quando si trattava di aprire col loro sangue la strada ad un nuovo credo. La palma del martirio è la più dolce. Come è successo ancora recentemente innanzitutto nel caso dei predicatori dei vecchi luterani i quali, pur separati dai loro, hanno guadagnato sempre maggior coraggio, così succederebbe anche per gli straussiani”.

Vol. II, p. 65: “Qualcosa di molto profondo deve pur sostenere l’impulso impetuoso che sentiamo di impossessarci subito di ciò che passa sull’attuale scena francese. Dev’essere la simpatia delle nazioni, che suscita questo fascino; e d’altra parte questa simpatia deve essere suscitata dall’opposizione, che Francesi e Tedeschi nutrono tra di loro ma anche tentano di placare. Per i due popoli il tempo dell’odio è cosa passata. È bensì vero che con grande determinazione essi dicono a se stessi di essere sommamente indipendenti l’uno dall’altro, e che per conservare questa loro indipendenza si ammazzerebbero subito vicendevolmente con tutti gli strumenti di morte della strategia militare più moderna. Ancora recentemente il signor Nikolaus Becker ha cantato ai Tedeschi questo orgoglio nazionale e il signor Alfred de Musset l’ha cantato ai Francesi. Tuttavia molto più che alla guerra essi mirano alla pace. Perciò abbiamo assistito allo spettacolo mirabile che un esercito di 600.000 uomini, che pareva incendiarsi all’idea della gloria di sgozzare il nemico, dopo pochi mesi ha ripiegato sui sentimenti più pacifici; e che i preparativi militari che, secondo ogni umana previsione, dovevano metter capo allo scoppio di una guerra, hanno potuto pacificamente esser fatti rientrare. Il tedesco trova nel francese tutto ciò che gli manca: levigatezza esteriore, versatilità sociale, disinvoltura personale abbinata ad un grande sentimento di dignità personale, coscienza nazionale, apertura di vita, rapidità d’azione. Ma il francese trova nel tedesco profondità di sentimento, solidità di cultura, umanità della coscienza, universalità di vita e di aspirazioni, maturità nell’azione. Ma proprio perché il tedesco è più universale, perché nessuna boria nazionalistica lo detiene, egli si dà da fare per appropriarsi l’elemento francese”.

Vol. II, p. 100: “Fin dai tempi più remoti il tedesco è appassionatamente dedito al bere. La Germania è la terra in cui regnano vino, birra e acquavite. Il tedesco beve di tutto. E attraverso le varie colonizzazioni ha trapiantato lontano questa sua passione. Ma in lui la propensione al bere proviene da motivi del tutto diversi da quelli dei popoli, ai quali uno scarso sentimento della coscienza o la semi-privazione della coscienza garantisce ancora il maggior piacere. In lui è l’orgoglioso sentimento di sé, che vuole avere per così dire a che fare col bere come un nemico, il quale non deve poter capir nulla guardandolo in faccia. È la libertà dell’autocoscienza, audace fino al delitto, che prova un orribile piacere ad avere a che fare con la natura, per vedere fino a che punto essa riesce a sottometterlo.

“Il germanico ha per così dire un’eccedenza di forza in sé, alla quale si oppone con un altro eccesso. Il latino, come l’arabo, non sa nulla di questo strano impulso. Senza lotta egli è moderato verso una tentazione, perché gli è necessario vivere in equilibrio con se stesso e col mondo. Ma il germanico tanto più sente in sé un impulso verso una situazione che lo può strappare a se stesso, quanto più è certo nel suo intimo di se stesso e perciò è anche proclive a giocare a priori col mondo. Non il momentaneo suicidio, di cui vanno in cerca il finlandese e lo slavo nel bere, non il prurito sensuale in quanto tale, ma la forza dello spirito è quella che attira il tedesco a vuotare bicchiere dopo bicchiere. Nel suo bere smodato vi è un disprezzo della natura in quanto forza. Bere soltanto per inebriarsi, solo per poter abbandonarsi all’incoscienza del sonno, per gustare la beatitudine del non essere, non gli darebbe alcun godimento: ma per lui il bere ha un fascino orribile come una forza, di fronte alla quale si mantiene libero, poiché la assume direttamente in se stesso, la fa mescolare col suo sangue. C’è in lui la stessa arditezza con cui il re del mare Regnar Lodbroki, quando nella torre i serpenti lo rodevano, cantava le sue gesta col ritornello: ‘morirò ridendo’. Senza questa demoniaca profondità della tentazione non sarebbe possibile spiegare la gioia con la quale beve il tedesco. Esser capace di bere molto è diventato per lui una specie di questione d’onore”.

Mi permetto di aggiungere qui un’annotazione, che feci anni fa alla Germania di Tacito (cap. 24) e che voglio offrire come affermazione parallela senza ulteriori correzioni: la voglia di gioco, che hanno i Germanici, fece sacrificar loro perfino la libertà e la vita. È questa la più forte astrazione alla quale può condurre l’uomo, che a quella voglia sacrifica ciò che gli è proprio. Ciò che rimane di sostanziale in questa rinuncia ai più elevati beni personali, è la fedeltà al patto, la parola data in pegno. Qui si vede il germanico, puro nella sua indole, dopo che si è levato via completamente ciò che in lui vi è di accidentale (e di questo fa parte anche quella porzione di libertà che si può perdere). Resta l’io puro, indistruttibile, qui nella forma della fedeltà o del mantenimento della parola, dopo che si sono messi a repentaglio moglie e figli, la libertà, anzi la stessa vita. Il germanico mette coraggiosamente alla prova se stesso, la sua integrità, per resistere così ad ogni prova. Questa passione di mettere in gioco tutto, di guadagnare o di perdere del tutto ciò che si può guadagnare o perdere, era estremamente violenta; era voglia di gioco, voglia di presentare anche nella sua somma negatività ciò che altrimenti passava come qualcosa di sommamente positivo. Nella voglia di lotta e di guerra misero in gioco gli stessi beni e spesso per nessun altro motivo che la brama avventurosa di metterli a repentaglio.

Ciò che non è chiaro di quanto ho appena riferito, diventerà sufficientemente chiaro dalla più luminosa esposizione di Rosenkranz.



[“Rheinische Zeitung”, n. 207, supplemento, 26 luglio 1842]

3) [Glossen und Randzeichnungen zu Texten unserer Zeit (Glosse e note marginali a testi del nostro tempo) di Ludwig Walesrode. Una recensione]

Che Königsberg meriti sempre più di attirare su di sé gli occhi della intera Germania, perché come coscienziosa guardiana dei confini pone ogni cura a difenderci dalla soggezione e dalla servilità di fronte allo slavismo, viene di giorno in giorno più apertamente riconosciuto con l’interesse crescente che da tutte le parti si manifesta per questa città. Ma recentemente è uscito di là uno scritto che, qualunque cosa si pensi del suo contenuto, può con tutta ragione venir chiamato un avvenimento, nel senso in cui si è cominciato a dare a questa parola una importanza cospicua. È intitolato: Glossen und Randzeichnungen zu Texten unserer Zeit, Königsberg 1842. Quattro lezioni pubbliche tenute in Königsberg da Ludwig Walesrode. Questo scritto ha per il tempo presente un valore straordinario non soltanto perché per mezzo di esso è venuta alla luce per noi lettori la virile franchezza dell’autore, ma perché più di quattrocento persone nella seconda residenza del paese hanno collaborato alla manifestazione della mentalità nascosta in quello scritto. A tal proposito l’autore così si spiega nella Prefazione per l’egregio sconosciuto che leggesse il libro. “Il nostro libricino è sorto da pubbliche lezioni. Come fatto e non sotto il rapporto critico, l’autore può chiamare quelle lezioni un fenomeno, caratterizzante lo spirito pubblico di Königsberg. Le lezioni, a cui assistettero più di 400 uditori, dame e signori, di tutte le classi sociali, assunsero formalmente l’aspetto di un comizio, coi suoi drammatici rapporti fra oratore e pubblico. Ogni espressione simpatizzante con le tendenze progressiste, ogni parola evocante il nostro tempo fu salutata con clamorose acclamazioni e con applausi. Fenomeno questo che l’autore non menzionerebbe se egli si lusingasse che il consenso andava a lui piuttosto che alle idee generali che agitano la nostra epoca. Il suo unico merito singolare può essere quello di aver detto in pubblico, davanti a centinaia di testimoni, cose sulle quali invece si discute soltanto fra quattro mura. Ma anche questo merito viene diminuito all’autore dal fatto che egli conosceva il suo pubblico”.

Queste lezioni compaiono ora stampate quali furono tenute, e danno così occasione all’autore di dire le cose seguenti sulla censura di Königsberg, dopo aver espresso il suo malumore contro la censura in genere: “Io non ho in realtà motivo di essere malcontento del mio censore, se non fossi irritato contro i censori in generale. In Königsberg, la libera parola è diventata già moneta spicciola del commercio intellettuale e nessun censore è in grado di metterla fuori corso, anche se volesse. Noi abbiamo in Königsberg dei censori che hanno assunto con penosa abnegazione il più odioso di tutti gli uffici, per non lasciarlo cadere nelle mani di gente che lo assumerebbe con gioia. Königsberg, di fronte all’Oriente, è una città di confine non soltanto secondo la geografia statistica, ma anche in senso spirituale. Già da lungo tempo, prima ancora che si trattasse di costruire fortificazioni presso il Pregel, l’idea ha costruito le sue torri all’uso di Montalembert contro gli asiatici prementi; e i censori, là dove appena potevano farlo, e spesso anche là dove non potevano, non hanno messo ostacoli ai lavori che si compivano nei fortilizi avanzati dall’intelligenza. Ma noi vogliamo aspettare a fare il panegirico dei censori königsberghesi fin quando la censura tedesca morirà di una beata morte. Un simile elogio fa miglior figura in un discorso funebre”.

Quattro lezioni formano il contenuto del libro. Nella prima intitolata: Le maschere della vitaFantasia d’un mercoledì delle ceneri, è detto a pagina 19: “Certi storici che non vogliono la controrivoluzione assicurano che il costume medioevale non soltanto è pregevole in senso poetico, ma è anche una garanzia per il riposo spirituale del mondo”. Essi non hanno torto! Il redattore di corte non ha soltanto da scrivere il programma di tutte le mascherate di corte e i bollettini della cucina di corte e farli stampare come edificante lettura di tutto l’Impero romano, ma ha anche la incombenza di trarre dalle nubi auspici felici per ogni rappresentazione per ogni teatro di corte e di comunicare i fenomeni celesti ufficiali nella parte ufficiale della sua gazzetta. Egli è l’unico uomo nel Sacro Romano Impero al quale il cielo deve in tutte le circostanze dar ragione. Se per esempio piove durante il viaggio trionfale d’un imperatore, il redattore di corte scrive: il cielo stesso pianse lacrime di gioia sulla terra felice. Se il sole brilla, allora sorride il cielo azzurro e dorato e non sa contenersi dalla gran gioia. Se lampeggia e tuona, ciò significa una salva di gioia da parte dell’artiglieria celeste; se nevica, il cielo stesso spande i suoi fiori dal candor del giglio sul trionfatore; insomma, il povero Cielo deve, su ordine dell’imperiale gazzettiere di corte, fare i suoi devoti omaggi in occasione d’ogni grande mascherata, come uno stipendiato lacchè. Però per la simbolica galantemente leggiadria dell’imperiale gazzetta di corte, il cielo più perfetto è quello che dapprima si mostra fortemente annuvolato – dovrebbero magari cadere alcune gocce di pioggia – e da cui improvvisamente in un dato indescrivibile momento, il chiaro sole prorompe, tagliando le nubi”.

Nella seconda lezione: La nostra aurea età, sono particolarmente riusciti i “tratti fondamentali, tali della storia naturale dei ricchi”. Alla terza lezione: Torneo letterario di Don Chisciotte, si può togliere quanto segue: “La lingua tedesca è nata libera e repubblicana; essa raggiunge le più alte cime montane e i ghiacciai dell’arte poetica e del pensiero, per librarsi con l’aquila nel sole. Ma essa si concede anche, come gli Svizzeri, per la guardia del corpo al dispotismo. Quello che il re dell’Hannover disse al suo popolo in pessimo tedesco, non avrebbe potuto dirlo nel miglior inglese. In breve, la nostra lingua, come le pillole di Morrison, è buona e utile a tutto: solo una cosa le manca di cui ha molto bisogno, lo stile politico! Certamente, in epoche di gravissimo pericolo, quando la cattedrale di Colonia si specchia nel Reno, cosa che essa fa soltanto in circostanze gravissime, la lingua tedesca assume, con l’alto permesso dei superiori, una specie di enfasi politica; allora ogni campo di patate viene chiamato giardino e onesti borghesi di piccole città sono promossi uomini, e ogni cucitrice si cambia bruscamente durante la notte in una donzella tedesca. Ma questo è soltanto lo stile difensivo politico, che di solito viene chiamato alle armi insieme con la riserva; finora la nostra lingua non è giunta all’offensiva. Quando il tedesco vuole avanzare pretesa al suo più elementare diritto politico, che gli è confermato su carta bollata così legalmente come la sua sposa dal contratto di nozze, allora egli chiosa la sua richiesta con tante circonlocuzioni curialesche, professioni di devozione, segni di rispetto e con tante assicurazioni di una fedeltà e di un amore imperituri, che si dovrebbe ritenere tutto ciò piuttosto la cerimoniosa lettera d’amore di un garzone sarto che una legittima richiesta. Perché il tedesco non ha abbastanza coraggio di avere ragione, e quindi chiede mille volte perdono se ha per avventura osato credere, pensare, pretendere o anche soltanto immaginarsi di poter sostenere una pretesa politica presso una persona d’alto grado. Forse che per esempio il maggior numero delle suppliche per la libertà di stampa non ricorda quel marchese di Posa, completamente vestito in costume nel guardaroba del teatro, che si getta ai piedi del re Filippo gridando: Sire! largite la libertà di pensiero! Ci si può dunque ancora meravigliare, quando simili suppliche vengono pure respinte e passate agli atti con le parole del re Filippo: Strano visionario! I pochi Tedeschi che ebbero il coraggio di esporre, quali avvocati della loro patria, i diritti politici di quella in lingua chiara e concisa, come si conviene a uomini, devono alla viltà del nostro sistema politico di essere caduti come vittime nelle mani dell’Inquisizione di Stato. Perché laddove la viltà è la norma, il coraggio è delitto! Uno scrittore politico del nostro tempo, potrebbe molto facilmente, per semplici peccati di stile, per aver lasciato apparire le sue parole e i suoi pensieri nella nuda verità, anziché vestiti del costume prescritto dal maestro delle cerimonie, venire dolcemente giustiziato, e ciò in conformità al diritto. Quindi lo stile tedesco è così eunuchescamente vile, quando deve valorizzare diritti politici e così goffamente agita il turibolo sotto il naso dei potenti. Se avviene che un principe in qualche occasione dica: voglio esercitare il diritto e la giustizia!, subito interi sciami di frasi giornalistiche si precipitano come api selvagge sulle macchie di miele, e ronzano di gioia intorno alla preziosa scoperta da essi fatta nella deserta landa politica. Ma c’è cosa più offensiva per un principe, che la semplice manifestazione della volontà di esercitare il primo dovere di un regnante, trascurando il quale egli dovrebbe mutare il proprio nome in quello di un Nerone e di un Busiride, venga strombazzata da tutti i giornali come una straordinaria inaudita virtù principesca? E ciò si verifica nella “Staatszeitungen”, sotto l’occhio del censore, sotto gli auspici della Dieta federale! Non si dovrebbe applicare a un tale sgarbato lodatore il paragrafo 92 del Codice penale in tutta la sua severità?”.

Rinunciamo a saccheggiare la quarta lezione: Variazioni sopra melodie moderne e nazionali in voga. Le poche cose esposte bastano a mostrare al resto della Germania dove essa debba cercare le sue simpatie.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 137, supplemento, 17 maggio 1842]

4) [Ancora su Königsberger Skizzen di Karl Rosenkranz]

Il libro di Karl Rosenkranz, testé pubblicato, Königsberger Skizzen, sul quale prima ancora della sua comparsa si fondarono grandi speranze in fogli pubblici, mantiene in realtà tutto ciò che promette la sua Prefazione, in ricca quantità, benché non venga raggiunta sempre la perfetta misura. Colpevole di questo difetto non è per avventura una trascuratezza dell’autore, ma la media altezza del suo punto di vista, tuttora circonfuso da molte nebbie, da un romanticismo leggermente ondeggiante. Se volessi qui addentrami in una critica che, come si conviene a critiche scientifiche, dovesse anche interessarsi dell’autore e dargli insegnamenti nella misura che comportano le forze del critico, dovrei provare ad avvalorare la mia asserzione. Comunque, per motivi facili a intendersi, ciò non si può fare adesso, e soltanto si può, a titolo di prova, indicare come per esempio negli articoli del primo volume (il secondo non l’ho ancora letto) il pauperismo non viene acutamente, decisamente sviluppato dall’essenza dello Stato “cristiano” o, in genere, religioso (ciò che avrebbe dovuto essere il disegno principale); la materia delle prigioni per vero è, con senso pratico, raccomandata a miglioramenti umani; ma il reato, dalla cui concezione esatta e diversa da quella finora in uso nel nostro Stato può unicamente derivare un mutamento radicale nel Diritto penale, viene lasciato interamente alla sua nozione tradizionale; la questione ebraica viene abbandonata a un giudizio in cui si frammischiano la cristianità e la cultura moderna, e così di seguito. Ma non si lasci il lettore turbare da questa mia esposizione, e se non la trova egli stesso confermata dalla lettura, la ritenga non detta. Il libro contiene tante cose splendide e rinfresca così completamente che chi non lo legge rinuncia a un grande godimento. Dico che tutti devono leggerlo: perché se anche soltanto chi conosce Königsberg e la sua regione vede da quelle descrizioni rievocato il paese noto, tuttavia tanta vita ed evidenza prorompe dalle descrizioni stesse e ogni cosa è percorsa da un filo così semplice e naturale di riflessioni universalmente umane, che appena qua e là viene voglia di saltare alcune pagine. Molte cose meriterebbero di trovar posto in fogli pubblici, e con ciò si offrirebbe loro la più larga diffusione, e voglio addurre due di questi passi il cui testo ha già esperimentato molte variazioni e molte altre ne esperimenterà, specialmente per ciò che riguarda il secondo. Essi possono rendere familiari al lettore la maniera e la forma di Rosenkranz.

“Recentemente presso di noi si è parlato anche del rafforzamento del nostro Stato. Fu addotta una importante autorità militare, secondo la cui opinione Königsberg deve venire trasformata in una imprendibile fortezza. È possibile, ma la mia opinione è diversa. Mi sembra che la facilità con cui ora la città potrebbe sempre estendersi oltre la linea dei bastioni e conglobare in sé le officine situate di fronte a quella linea corrisponda pienamente al suo carattere di universalità e alla sua capacità di progresso. L’universalità (Rosenkranz caratterizza nell’universalità e nell’intellettualità la natura essenziale di Königsberg) ha una periferia infinita, il progresso ha un termine indefinito. Il bastione come un confine che si deve presto rimuovere e rinnovare mi sembra simile all’intelligenza comprendente tutta la cultura, intelligenza che, per parlare col vecchio Kant, non ha una funzione costitutiva, ma soltanto una funzione regolatrice. È del tutto naturale che i militari in tempo di pace si volgano alla costruzione di fortezze. E si comprende come in ciò si possano sviluppare molte cognizioni, acume, genio ed arte. È nell’ordine che operi in modo lusinghiero la tendenza a sorpassare anche in questo ramo dell’attività umana i tentativi anteriori. È necessario che, con l’arte di fortificare i terreni, tanto progredita per mezzo della moderna geografia scientifica, il sistema della difesa con fortilizi venga assai meglio conformato e adattato alla rete dei fiumi, alle catene di monti, alle pianure. Ed è evidente che una massa di proletari può trovare pane nel costruire fortezze e strade provinciali. Ma se si afferma che uno Stato è protetto nel miglior modo da linee fortificate, si dice un errore. Per le operazioni di semplici armate concedo che siano di decisiva importanza le porte di una fortezza che si aprono a un corpo di esercito in fuga, e le provvigioni di munizioni e di vettovaglie che quella fortezza custodisce. Ma quando dei popoli si battono l’uno con l’altro, le fortezze non hanno tale importanza. Un popolo è dappertutto, il suo esercito può anche perdere ma non venire vinto, se vuole vincere. Non si può appunto citare Varsavia, perché noi sappiamo che la causa della Polonia era già perduta prima che nell’ultima guerra Varsavia cadesse. L’intima disunione dei Polacchi, che è il loro male ereditario, li aveva già prima annientati, e il fortunato assalto dei Russi alla capitale, che terminò la lotta, fu soltanto l’ultimo esteriore risultato della disunione dei Polacchi e del loro tradimento contro se stessi. Per la Francia come per lo Stato che finora – perché non si può sapere apoditticamente quello che l’avvenire apporterà – spinse alle più alte cime il sistema dell’accentramento, la fortificazione di Parigi potrebbe avere una grande importanza. A me fa pena vedere la città del divertimento europeo rinchiusa dentro opere fortificate. La serena volubilità della vita parigina mi sembra stare in troppo aspro contrasto con le rigide mura e con le torri. Forse anche questi bastioni sono soltanto lavori preparatori di futuri boulevard, quando la crescente popolazione avrà collocato intorno alla città una nuova cinta di edifici. Se contro la fabbrica di fortezze si richiama il sistema di Napoleone di ignorarle, di marciare oltre, i militari rispondono che egli fu un genio, e che per i geni non ci sono regole: essi modificano ogni cosa. Ma chi garantisce loro che non venga un altro genio della guerra?”.

Circa la frequenza dei mendicanti di Königsberg, dice fra l’altro Rosenkranz: “Uno dei motivi più generali mi sembra essere l’indulgenza delle infime classi popolari. L’uomo comune è pigro, lento, poco ingegnoso, anzi ha l’orrore del lavoro. Non pone ancora alcun onore nel mantenere se stesso, né alcun disonore nel farsi mantenere finché si trova nel bisogno, promette di fare tutto ciò che potrà. Tuttavia la parola con cui ci avvicina è questa: abbiate compassione! Ma non appena è passato il momento del maggior bisogno, diventa di nuovo apatico, grossolano, riflette se deve accettare una proposta, e comincia con l’affacciare pretese esagerate, che spesso espone con grossolanità. Presso di noi il piccolo artigiano difficilmente osserverà il termine promesso per la consegna di un lavoro e si farà pagare enormemente. Quindi se taluno cade in una difficile situazione, non cerca qui prima di tutto in se stesso le risorse per crearsi di nuovo una migliore situazione, ma riflette su chi possa porgergli appoggio. Gli basta il fatto di trovarsi nell’imbarazzo per concludere che gli altri devono aiutarlo. Ma l’attendere un aiuto che deve venir dal di fuori, la perdita di tempo che da ciò deriva, lo stato d’animo depresso che si nutre dell’opinione che gli altri dovrebbero pur fare qualche cosa, rovinano il carattere. Ne sorge una passività spesso colossale, che sviluppa talora una forza negativa nel sopportare le privazioni, la quale non avrebbe altro da fare che cambiarsi in senso positivo per subito neutralizzare questa somma di miseria. A questa tendenza a farsi sostenere dall’esterno corrisponde realmente l’inclinazione dei königsberghesi. Al sistema di prendere corrisponde il sistema di dare. Königsberg è straordinariamente benefica. Certo è letteralmente vero tutto ciò che ci è detto, essere cosa celeste l’asciugare le lacrime di un fratello addolorato, il dare da mangiare agli affamati, il dissetare gli assetati, il vestire gli ignudi. Ma la smisurata beneficenza fa dei poveri un ceto organizzato, o meglio, non dei poveri, poiché costoro si nutrono da sé, quantunque con fatica e privazioni, ma dei pigri accattoni. Questa è la giusta parola. È un grande malinteso, da molto tempo riconosciuto, quello di volere aiutare la miseria con semplici doni. Certo, in alcuni casi, ciò deve avvenire momentaneamente, ma non deve diventare un sistema, perché la miseria è anche la divina madre delle scoperte della molteplice ed elevata attività. Che la miseria, quando non è eliminata dal di fuori, possa condurre al delitto, alla frode e al furto, è una opinione in realtà abbastanza diffusa, che non si può abbastanza contestare. Già Federico il grande individuò questa molle indolenza sprofondata in se stessa, e scrisse la dura affermazione che soltanto per mezzo della disperazione questo popolo può essere condotto a fare qualche cosa. L’aiuto che a taluno giunge dal di fuori può essere assai presto consumato, e allora la vecchia miseria ritorna e aspetta di nuovo un miracolo. Così la pigrizia, la quale spesso è bisognosa, ma non dovrebbe essere tale, viene aumentata dalla beneficenza, e allora non si sa come avvenga che l’abisso, invece di colmarsi, si faccia sempre più profondo. Quanto più la beneficenza si sviluppa in un sistema, tanto è più sfacciata la richiesta che le si rivolge. Essa riconosce la miseria e il suo dovere di alleviarla, anzi autorizza l’eventuale sofferente ad aspettarsi l’aiuto. Così la passività finora considerata e la beneficenza sono entrate in uno scambievole rapporto di reciproco aumento. Ossia, la beneficenza è una di quelle virtù che più facilmente prosperano, perché non è troppo difficile togliere dal proprio superfluo qualche cosa per un altro. Inoltre, la beneficenza materiale può essere ostentata. I nomi dei benefattori possono essere enunciati e stampati. Per la vanità è lusinghiero l’apparire ai bisognosi come un piccolo Deus ex machina. Se un personaggio principesco, quando fa in una città un breve soggiorno, toglie da un sacchetto pieno alcune centinaia di talleri e le dona ai poveri della città stessa, questa è un’azione lodevole; ma questa azione è forse costata al personaggio il più piccolo sacrificio, il più piccolo sforzo? Forse si è privato di qualcuna delle sue lussuose abitudini?

“Inoltre, a questo proposito si manifesta una religiosa confusione nel sentimento di molte persone. La bacchettoneria si impadronisce furtivamente del cuore. Si annida nel cuore la credenza che Dio benedirà la nostra beneficenza anche in rapporto a noi, cioè ai nostri beni terrestri, e non ci lascerà mai mancare di tali beni onde non dobbiamo smettere di beneficare. La superstizione di fondare con la beneficenza un’assicurazione presso Dio per la nostra propria prosperità, contamina la beneficenza stessa. Le formule con cui il bisognoso ringrazia sono tutte destinate a mantenere tale superstizione. Una buona azione che ci sarà rimunerata da Dio in triplice misura, non è altro che l’impiego di un capitale che ci aspettiamo di ricuperare con ricco interesse. Chi fra noi potrebbe vantarsi di essere libero da questo farisaico calcolo nel momento della buona azione?”. Ho dunque torto quando dico che Rosenkranz avrebbe dovuto fare qui ancora un passo, l’ultimo, il decisivo, senza il quale anche quando è detto sopra suona più o meno non edificante?

Nell’ultima parte: La vita ecclesiastica, Rosenkranz dice: “Con sorpresa ho verificato nella cerchia della mia limitata esperienza che certi Prussiani proprietari di beni per tutto un inverno lessero tutto Strauss una pagina dopo l’altra, e lo discussero, e anzi entrarono fra loro in corrispondenza epistolare in merito alle loro divergenti opinioni. Se gli straussiani volessero costituirsi come setta confessionale (ciò che del resto nessun fatto autorizza a presumere), nessuna potenza della terra potrebbe impedirlo”. Questa notizia, che i proprietari di beni partecipano alla concezione filosofica di Strauss, conferma in modo impressionante la notizia, del resto sicura, che appena si seppe di una Lega di “Liberi” una quantità di proprietari di beni di Königsberg si informò con zelo degli esatti particolari e si manifestò pronta ad entrare nella Lega. Se si cancella la parola setta confessionale che in questo argomento è fuori posto, poiché vale soltanto nel campo ecclesiastico e religioso, i Liberi appaiono precisamente come gli iniziatori di una Lega tale, che nessuna potenza della terra la può impedire.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 201, supplemento, 20 luglio 1842]

IV
Alcune cose provvisorie sullo Stato fondato sull’amore

È nota a tutti la cosiddetta lettera aperta del barone von Stein. Se ne è ricavata l’idea che il successivo periodo della reazione si sia scostato dai princìpi esposti in questa lettera aperta per volgersi verso un altro modo di pensare, cosicché dopo un breve periodo il liberalismo del 1808 è caduto in un sonno protrattosi fino ai nostri giorni. Si può però dubitare del preteso misconoscimento di quei princìpi; e anche già a giudicare dall’esterno dovrebbe sembrare molto strano che quegli stessi uomini energici, che pochi anni prima in circostanze tempestose mostravano una visione liberale, avessero dovuto poco tempo dopo senz’altro staccarsi da essa per battere una strada opposta. Se finalmente si è riconosciuto che l’idea, a lungo mantenuta, che la rivoluzione francese è diventata infedele a se stessa a causa del cambio repentino dell’impero napoleonico poggia su un giudizio[2] e un giudizio superficiale, perché dovrebbe ora esserci un identico rapporto tra il liberalismo di Stein e la successiva cosiddetta reazione? Ma vediamo un po’ più in dettaglio questa lettera aperta.

Come salta subito all’occhio, Stein ha in comune con la rivoluzione francese due obiettivi, cioè l’uguaglianza e la libertà; però è importante vedere come egli definisce l’una e l’altra.

Per quanto riguarda innanzitutto l’uguaglianza, egli ha riconosciuto che doveva essere distrutto il predominio di coloro che per la loro condizione erano privilegiati, e al posto del dominio di molti doveva subentrare una centralizzazione completa. Perciò doveva finire quella “sudditanza ereditaria”, che faceva regnare molti signori sui sudditi dell’unico signore, il re; doveva rimanere soltanto l’unica sudditanza ereditaria di tutti, e anzi doveva essere rafforzata attraverso la destituzione dei molti signori. Parimenti doveva scomparire la “forza di polizia” dei singoli, finché un’unica polizia vigilasse su tutti i sudditi. La “giurisdizione patrimoniale”, che spettava a pochi privilegiati a causa di un antico diritto, doveva essere rimpiazzata da un’unica giustizia monarchica e i giudici dovevano dipendere soltanto “dalla suprema autorità”. Attraverso una tale centralizzazione l’interesse di tutti viene attratto su di un unico punto, cioè sul re; da quel momento si sarà sottoposti soltanto a lui senza altre sudditanze ereditarie ad altri sudditi del re; si starà soltanto sotto la sua forza di polizia; soltanto dalla giustizia del principe si riceverà una sentenza; non si dipenderà più dalla volontà di coloro che sono “nati più in alto”, ma soltanto dalla volontà di coloro che sono “posti più in alto”, cioè di coloro che il re colloca in sua vece per compiere la sua volontà e prepone a coloro ai quali essi debbono provvedere nel suo nome: si dipenderà cioè dalla volontà dei pubblici ufficiali. La dottrina dell’uguaglianza, così come è presentata nella lettera aperta, mira a portare tutti allo stesso livello di sudditanza. Nessun suddito del re sarà in futuro contemporaneamente suddito di un altro suddito; nella dipendenza saranno cancellate tutte le differenze di rango, e vi sarà un’unica dipendenza comune.

Questo principio d’uguaglianza non può essere scambiato con quello della rivoluzione francese. Quest’ultima voleva un’uguaglianza dei cittadini; la lettera aperta voleva l’uguaglianza dei sudditi, una sudditanza uguale. Quella differenza trova espressione appropriata nel fatto che la “rappresentanza nazionale”, chiesta dalla lettera aperta, deve portare davanti al trono i “desideri” dei sudditi fatti uguali; mentre in Francia i cittadini attraverso i loro rappresentanti hanno una “volontà”, ma certo soltanto una volontà di cittadini, non una volontà libera. Il “suddito” ha soltanto il diritto di “desiderare”.

Ma, in secondo luogo, la lettera aperta non vuole soltanto l’uguaglianza, vuole la libertà di tutti. Di qui il grido: “Procurate che ognuno” (con questa parola si esprime l’uguaglianza dei sudditi) “possa sviluppare liberamente le sue forze in una direzione morale”. In una direzione morale? Che cosa può significare? Come contrario non si può pensare alla direzione fisica, dato che la lettera aperta “vuole ottenere una schiatta fisicamente e moralmente più forte”. Anche la direzione intellettuale difficilmente potrebbe essere esclusa da quella morale, dato che si è favorita quanto più possibile la scienza. Più semplicemente resta come contrario della direzione morale la direzione immorale. Ma immorale è un suddito, quando esce dal cerchio delle sue caratteristiche di suddito. Un suddito che nella vita dello Stato, in politica si arrogasse una “volontà” invece che un “desiderio”, sarebbe manifestamente immorale. Infatti soltanto nella sudditanza consiste il valore morale del suddito: nell’ubbidienza e non nell’auto-determinazione. Pertanto sembra impossibile poter dichiarare la “direzione morale” conciliabile con la “direzione spontanea”, la direzione alla libera volontà, all’indipendenza e sovranità del volere. E siccome la parola “morale” allude all’obbligazione, si sarà inteso un risveglio del sentimento del dovere in quanto “libero sviluppo di energie”. Siete liberi, se fate il vostro dovere: questo è il senso della direzione morale. Ma in che cosa consiste il dovere? La lettera aperta lo descrive in modo chiaro e determinato con le parole, che sono diventate un motto: “Nell’amore per Dio, il re e la patria!”. Si sviluppa liberamente nella direzione morale chi sviluppa se stesso nella direzione di questo amore. Restava così fissato lo scopo preciso dell’educazione: d’ora in poi essa era un’educazione morale o leale, un’educazione al senso del dovere; in cui ovviamente doveva essere anche prevista l’educazione religiosa poiché, inculcando i doveri verso Dio, anch’essa altro non era che educazione morale. E certo si è moralmente liberi quando si compie il proprio dovere. La coscienza, cioè il potere della moralità sull’immoralità, la sovrana e regina dell’uomo morale, all’uomo che è fedele al suo dovere dice che ha agito bene: “Me lo dice la mia coscienza!”. Certo la coscienza non dice se il dovere eseguito era un vero dovere; essa parla soltanto se viene trasgredito quello che passa per dovere. Perciò la lettera aperta raccomanda di risvegliare la coscienza, di inculcare il dovere “verso Dio, il re e la patria”; di vivificare il sentimento religioso del popolo e di curare l’educazione e l’istruzione della gioventù. Questa è la libertà, che secondo la lettera aperta deve rendere felice il popolo: la libertà nell’adempimento del dovere, la libertà morale.

Sopra abbiamo detto che l’uguaglianza secondo la lettera aperta era essenzialmente diversa da quella annunciata dalla rivoluzione francese; lo stesso dobbiamo ora dire della libertà. Libero è il cittadino sovrano del popolo sovrano: così insegnò la rivoluzione. Libero è chi ama Dio, il re e la patria: così insegna la lettera aperta. Là è libero il cittadino sovrano, qui il suddito pieno d’amore; quella è la libertà civica, questa è la libertà morale.

E questo principio dell’uguaglianza e della libertà, in quanto uguaglianza dei sudditi e libertà morale, non era soltanto – per così dire – il senso di quella lettera aperta e dei suoi autori; ma era il sentimento dominante di tutto il popolo, era proprio il nuovo entusiasmante principio per il quale si diede l’assalto alla potenza napoleonica: era la libertà e l’uguaglianza rivoluzionaria, trasformata in libertà e uguaglianza cristiana. In una parola, fu il principio del popolo tedesco e particolarmente del popolo prussiano a partire dalla sua sollevazione contro la dominazione straniera, attraverso il periodo della cosiddetta reazione o restaurazione fino ad adesso quando trova la sua conclusione. Perciò bisogna rifiutare come erronea l’opinione che un impulso di liberazione politica, simile all’impulso rivoluzionario, abbia condotto il popolo alla vittoria su Napoleone. Se il suo principio fosse stato quello politico, il popolo non vi avrebbe rinunciato o non avrebbe acconsentito a che perdesse la sua forza. Si fa torto al governo, se si crede che esso ha sottratto al popolo qualcosa, cui questi coscientemente aspirava. A prescindere dall’impossibilità di una simile sottrazione, governo e popolo furono davvero unanimi nella difesa della libertà politica, questo “parto della rivoluzione”. Anzi fu proprio questo a conquistare a Federico Guglielmo III tanta devozione e amore, per cui egli rappresentò per così dire la perfetta personificazione di quella libertà morale; per cui egli fu completamente uomo del dovere, un uomo coscienzioso: “il giusto”.

Come possiamo vedere, il dovere dell’amore costituisce il centro della libertà morale. Come abitualmente si ammette senza possibilità di contraddizione, il cristianesimo è – per sua intima essenza – la religione dell’amore. Perciò anche la libertà morale, che si concentra nell’unico comandamento dell’amore, sarà il più puro e cosciente compimento del cristianesimo. Chi non è altro che amore, ha raggiunto il sommo, è veramente libero! Così recita il vangelo della libertà morale. Quando nei cuori si risvegliò questa convinzione e li colmò con la beatitudine di una verità trionfante, allora la forza del despota fu necessariamente troppo piccola contro la potenza di un tale sentimento; e il cristianesimo nella sua forma più gloriosa, che è l’amore, accendendo i popoli, scese in campo contro lo spirito della rivoluzione con la certezza della vittoria. Questo aveva voluto estirpare dalla terra il cristianesimo; ma il cristianesimo si levò con tutta la forza della sua natura, entrò come amore nell’arengo contro di esso, e vinse: vinse sopra uno spirito, che aveva bensì potuto soffocarlo sotto molti aspetti, ma una cosa sola non aveva potuto soffocare del cristianesimo: l’amore. Infatti, pur essendo crollate sotto i colpi della rivoluzione molte manifestazioni cristiane, l’amore – che è la più intima essenza del cristianesimo – era rimasto nel cuore della libertà rivoluzionaria. Essa libertà rivoluzionaria custodì in se stessa il suo nemico (l’amore); perciò dovette soccombere davanti al suo nemico, quando questi le si avvicinò dal di fuori.

Ma cerchiamo noi stessi di conoscere un pochino questo nemico della libertà rivoluzionaria, che è l’amore. Si usa contrapporre all’amore la ricerca egoistica di sé, perché la natura di quest’ultima comporta che chi la segue, proceda senza rispetto o compassione verso gli altri. Ora, se mettiamo il valore dell’uomo nel disporre di se stesso, cioè nel fatto che non una cosa o un’altra persona lo determinino ma lui stesso sia creatore di se stesso – creatore e creatura ad un tempo –, probabilmente chi ricerca egoisticamente se stesso resterà di gran lunga lontano da questo traguardo. Il suo principio è: “le cose e le persone sono per me”. Se potesse aggiungere: “anch’io sono per loro”, non sarebbe più ricercatore egoistico di se stesso. Egli ha di mira soltanto di agguantare l’oggetto delle sue brame; corre dietro – per esempio – con passione ad una fanciulla per sedurre questo oggetto leggiadro (infatti questa per lui non è di più di un oggetto), ecc. Non gli passa per la mente di diventare un altro uomo per amore di questa fanciulla, di far qualcosa di se stesso per meritarsela; no, egli resta quello che è. E proprio quello che lo rende spregevole è che non è possibile scoprire in lui nessun tentativo di plasmare se stesso o di determinare se stesso.

Per chi ama, le cose stanno in modo del tutto diverso. La ricerca egoistica di sé non cambia l’uomo; l’amore invece fa di lui un altro uomo. “Da quando è innamorato, è diventato tutt’altro uomo”, si suol dire. Ma, in quanto innamorato, egli fa realmente qualcosa di se stesso, perché egli elimina da se stesso tutto ciò che contraria la persona amata; volentieri e generosamente si lascia determinare e, trasformato dalla passione dell’amore, si regola sull’altra persona. Se nella ricerca di me stesso le cose esistono soltanto per me, nell’amore esisto anche per esse: esistiamo l’uno per l’altro.

Ma lasciamo la ricerca egoistica di sé al suo destino e confrontiamo invece l’amore con la determinazione di sé o la libertà. Nell’amore l’uomo determina se stesso, dà a se stesso una certa impronta, si fa creatore di se stesso. Solo che egli fa tutto questo non per amore di se stesso, ma di un altro. La determinazione di sé dipende ancora dall’altro; è insieme determinazione attraverso l’altro, è passione: chi ama si lascia determinare dalla persona amata.

L’uomo libero invece non determina se stesso né attraverso l’altro né in vista dell’altro, ma solo da se stesso. Egli percepisce se stesso e in questa percezione di sé trova l’impulso alla determinazione di sé: solo percependo se stesso, egli agisce in modo ragionevole e libero. C’è una differenza se si è determinati da altri o da se stessi, se si è amanti o razionali. L’amore vive del principio che ognuno deve fare ciò che fa per amore dell’altro; la libertà vive del principio che lo deve fare per se stesso: là mi muove il riguardo per l’altro, qui muovo me stesso. Chi è pieno d’amore agisce per amore di Dio, dei fratelli, ecc., e non ha alcuna volontà propria: “Sia fatta non la mia, ma la tua volontà”, questo è il suo motto. Chi è razionale non vuol compiere nessun’altra volontà che la sua ed ha stima anche di chi possiede una sua volontà propria, non di chi segue la volontà di un altro. Quindi l’amore ha ragione contro l’egoismo, perché è cosa più nobile far propria ed eseguire la volontà di un altro che non, irresoluti, esser pungolati dalla cupidigia eccitata da qualche oggetto; è cosa più nobile decidersi secondo un altro che non decidersi e lasciarsi andare. Ma contro la libertà l’amore non ha ragione, perché nella libertà soltanto la determinazione di sé diventa verità. L’amore è invero l’ultima e più bella soffocazione di se stessi, il modo più glorioso di annientamento di sé e di immolazione, la vittoria più deliziosa sull’egoismo. Ma mentre l’amore spezza il puntiglio, che si dovrebbe soltanto chiamare testardaggine e cupidigia, allo stesso tempo reprime anche la volontà, che sola conferisce all’uomo la dignità di uomo libero. Perciò nell’amore dobbiamo distinguere due cose diverse. Trattenendosi dall’egoismo, l’uomo celebra nell’amore la propria glorificazione, perché chi è pieno d’amore ha pur una volontà anche se non sua propria, mentre l’egoista non ne ha. Chi ama esercita una determinazione di sé, perché per amore dell’altro fa qualcosa di se stesso e si trasforma nella forma conveniente all’altro; l’egoista non conosce la determinazione di sé e persevera nella sua rozzezza, senza diventare creatore di sé in nessuna misura. Chi ama è un prodotto di se stesso, poiché si cerca e si trova nell’altro; mentre l’egoista è un prodotto della natura, una creatura che né si cerca né si trova. Ma come appare l’amore di fronte alla libertà? Die Braut von Korinth [La sposa di Corinto] pronuncia quelle orribili parole, che rivelano il terribile crimine dell’amore contro la libertà:

“Qui cadono vittime
né agnelli né tori
ma uomini: è inaudito”.

(W. Goethe, Die Braut von Korinth, 1797)

Sì, è inaudito: le vittime sono uomini. Perché ciò che solo rende uomo un uomo, cioè la libera volontà, l’amore scaraventa tempestosamente a terra; dichiarando dall’alto del suo trono sovrano che il suo regno è l’unico beatificante, ed elevandosi alto sulle spalle di schiavi, l’amore proclama il potere assoluto dell’abulia.

Siccome non si può dire tutto in ogni momento, ci interrompiamo qui e lasciamo ad un’occasione più favorevole di esporre dettagliatamente come si configuri lo Stato fondato sull’amore.[3] Qui troveremo sempre il principio che chi ama non ha volontà ma desideri; e vedremo quanto furono profetiche le grandi parole del governatore di Berlino, il conte von Schulenburg: la pace è il primo dovere civico! Nelle braccia dell’amore la volontà dorme e riposa, e vegliano soltanto desideri e petizioni. Senza dubbio anche una lotta attraversa questo tempo di regime dell’amore: è la lotta contro coloro che non hanno amore. Dato che la concordia è l’essenza dell’amore; dato che prìncipi e popoli sono uniti nell’amore, essi devono eliminare ciò che mira ad allentare il vincolo dell’amore: gli insoddisfatti (i demagoghi, i carbonari, le Cortes in Spagna, la nobiltà in Russia e in Polonia, e così via). Questi turbano la fiducia, l’abnegazione, la concordia, l’amore; “teste inquiete” buttano all’aria la pace della fiducia: e la pace è il primo dovere civico!



[Dopo che la sua impresa, progettata a Berlino nel luglio 1843 col titolo “Berliner Monatsschrift”, era fallita per la Prussia a causa della censura, Ludwig Buhl pubblicò a sue spese il “primo e unico” fascicolo della stessa a Mannheim nel 1845. Il piccolo volume, composto di non più di venti fogli di stampa – oggi molto raro –, contiene due saggi di Stirner. Dopo una “pubblica confessione”, i giudizi del tribunale superiore della censura e l’originario “prospetto” di Buhl, alle pp. 34-49 apre il volumetto il primo saggio Einiges Vorläufige vom Liebesstaat. È firmato “Stirner”. (Nota di J.H. Mackay)]

V
Recensione a Les mystères de Paris di Eugène Sue

I misteri hanno suscitato grande scalpore nel mondo e già ne è sorto un grande numero di imitazioni. Si vuol conoscere il fondo nascosto, lo “strato più basso” della società e si gira curiosamente lo sguardo nei suoi angoli bui e raccapriccianti. Ma con quali occhi vi si guarda? Con gli occhi di una moralità garantita, di un ribrezzo virtuoso. “Che abisso di corruzione, che orrore, che vizi profondi! Signore Iddio, come possono succedere cose così scellerate nel tuo mondo?”. Ma ben presto si risveglierà l’amore cristiano, che si appresterà a tutte le opere di misericordia e di soccorso fattivo. “Qui si deve portare salvezza, qui si deve contrastare la malizia di Satana; oh certo, qui c’è da portare grande salvezza e da guadagnare parecchie anime al regno del bene!”.

Ora i pensieri cominciano ad agitarsi; si riflette sui mille mezzi e modi per porre rimedio al male e per ovviare alla corruzione sconfinata. Carceri con celle separate, monti di pietà per lavoratori male in arnese, istituti per fanciulle cadute e pentite, e innumerevoli altre cose vengono non solo proposte ma anche subito concretizzate. Si fonderanno anche società di beneficenza in tal numero, quale non se ne era mai visto prima, e non mancheranno spirito di sacrificio e liberalità. Rodolfo, granduca di Gerolstein, è stato elevato da Eugène Sue a modello luminoso di questo amore del prossimo, che si accresce a vista d’occhio.

Quale male si vuol togliere? Il vizio, il piacere di peccare. Attraverso utili riforme se ne devono tagliare le fonti; gli si devono strappare le anime traviate, che devono invece essere spinte al piacere della moralità. E chi compirà questa grande opera di togliere al peccato le sue vittime e i suoi servitori? Chi d’altro, se non coloro che amano la virtù e che riconoscono nella condotta morale la vera vocazione dell’uomo?

Dunque i virtuosi vogliono condurre sulla retta via i viziosi; i servitori del regno del bene vogliono distruggere il regno del male.

Non siete tutti d’accordo che non ci può essere nulla di più grande e di più nobile che la glorificazione del bene? E avete qualcos’altro da rimproverare a voi stessi e di cui pentirvi, se non che voi ancor fin troppo spesso vi allontanate dalla via del bene e “peccate”? Viene in mente a qualcuno di voi di chiedersi se il bene sia degno di essere ambito e sia davvero ciò che l’uomo deve cercare di attuare in vita sua? Al riguardo voi non avete dubbi, come non ne hanno i viziosi e i dimentichi di Dio; i quali sanno trovare cose fondamentali da ridire contro il vizio e il peccato, anche se poi peccano molto.

Voi, che volete convertire e rendere migliori i peccatori, siete voi stessi inconvertibili e incorreggibili. Non vi lasciate nemmeno sfiorare dal dubbio che il bene sia una vuota illusione; se dovete confessare a voi stessi che non lo raggiungete mai – come i filosofi, i quali pure restano soltanto “amanti della sapienza” –, voi siete tuttavia dell’avviso che i peccatori debbano essere portati al bene e poi condotti “ad agire bene”. Voi volete convertire i peccatori allontanandoli dal piacere del male; e non potete invece convertire voi stessi allontanandovi dal piacere del bene? Non chiedetevi che cosa sia il bene, ma se esso esista; o se volete proprio sapere che cosa sia, allora chiedetevi innanzitutto se esso non sia una vostra immaginazione.

Però voi siete persuasivi nelle vostre dimostrazioni, perché vi basta soltanto portare degli esempi: “La menzogna è male, ma la sincerità è bene; l’incapacità di pentirsi è male, la volontà di pentirsi e il pentimento sono un bene; l’impudicizia è peccato, la castità è una virtù, ecc.”.

Orsù dunque, gettiamo uno sguardo a I misteri e osserviamo il gioco reciproco che in questo romanzo svolgono virtù e vizio. Non dirò nulla del quadro e della trama di questa storia, perché suppongo che l’abbiate letta. Neppure parlerò del cosiddetto valore artistico del libro. Se un cosiddetto acrobata si produce in pezzi temerari o un prestigiatore compie cose mirabolanti, alla fin fine si dirà pure che erano artifici da acrobata e da prestigiatore, eccellenti nel loro genere; ma di tale genere non si parla con particolare stima. Così non voglio criticare il nostro Autore a riguardo dell’abilità nel descrivere i caratteri e i contrasti sociali, anche se difficilmente egli avrà potuto soddisfare in tutto gli esperti più raffinati. Tuttavia non ho della descrizione in sé una così grande opinione da lasciarmi accecare dal talento in essa dimostrato di contro alla carenza di qualsiasi profonda e coraggiosa presa di coscienza della natura della società. Anche Johann Joseph von Görres ha sciupato un bel talento per la caparbietà del suo ottuso modo di pensare e per questo suo sciocco comportamento puerile deve farsi reggere con le dande fino alla morte; e come lui molti altri.

Quantunque il granduca di Gerolstein non possa passare per l’eroe del romanzo, tuttavia l’intero ingranaggio dello stesso romanzo non soltanto viene messo in moto da lui, ma egli rappresenta anche l’altezza delle concezioni e dei pensieri, a cui s’eleva lo stesso Autore. Questa altezza non è altro che l’idea di moralità, e ad ogni pensiero e fatto viene applicata la stessa misura: quella della moralità.

Abbiamo dunque davanti a noi un’opera d’arte poetica che, costruita tutta dal punto di vista della moralità, farà vedere quali uomini produca questo punto di vista e che cosa venga in sostanza alla luce sotto il dominio di questo principio.

Avendo commesso una colpa contro il sacro capo del suo padre e signore, contro cui in un momento di furor d’amore aveva sguainato la spada, Rodolfo (il granduca), pieno di rimorso, si sente spinto alla decisione di farne penitenza. Egli stima di poter attuare questa sua penitenza soltanto “operando il bene secondo tutte le sue forze”. Questo proponimento lo porta a Parigi, dove egli va alla ricerca delle spelonche della povertà e del crimine per alleviarvi le sofferenze, per ammansire i cuori induriti (o anche per precipitare nella disperazione attraverso una terribile punizione) e per portare aiuto dove si può. Con i suoi mezzi di principe gli riesce facile ovviare a molte miserie fisiche, e la famiglia Morel – tra gli altri – gli deve la gioia di poter continuare a vivere; però più che l’eliminazione del dolore fisico gli preme l’allontanamento dei pericoli morali e questo intento lo porta ad incontrare la vera eroina del romanzo.

Fleur de Marie o – come vogliamo chiamarla semplicemente – Maria, figlia del suo primo amore (della cui esistenza Rodolfo neppure sospetta), è in prigione. Tra le mani orribili della Civetta (Chouette) e per altre tristi condizioni, essa è diventata una fiorente fanciulla e infine, pressata dalla povertà e infinocchiata da alcune mezzane, ha dovuto decidersi a intraprendere il mestiere della cortigiana. Ancora intatta dal piacere di questo tipo di vita, viene macchiata senza macchiare se stessa. Essa non è partecipe e non ancora schiava della concupiscenza, la quale soltanto darebbe la vera convalida alla sua condizione. Così la trova Rodolfo: e ciò che di lei non aveva potuto fare il vizio, ora cerca di fare la virtù. Egli tenta di condurre alla virtù la povera fanciulla, che minaccia di diventar preda del vizio. Rodolfo adopera tutte le promesse e gli allettamenti, coi quali egli può sperare di incantare la fantasia facilmente eccitabile della fanciulla. Essa, che non era “caduta” in mezzo ad una vertiginosa vita viziosa, non resiste alle promesse insinuanti di chi vuole attrarla alla virtù e “cade”. Essa potrebbe anche cadere, a condizione però che si possa risollevare. Ma come può E. Sue, il poeta della borghesia virtuosa e liberale, farla arrivare a sollevarsi di nuovo? Non è salva, se si rifugia in seno alla moralità, che sola può rendere felici? Se si pensa, per esempio, che essa debba elevarsi alla pietà religiosa, questo avviene ampiamente, poiché la vera moralità e la vera pietà religiosa non possono mai essere del tutto separate l’una dall’altra. Infatti perfino quegli uomini morali che negano il Dio personale conservano poi il loro dio o la loro dea nel bene, nel vero, nella virtù.

Tuttavia non ritengo che Maria, dopo quella caduta, potesse elevarsi alla religiosità. Ritengo soltanto che, se ci fosse qualcosa di più prezioso della moralità e della religiosità, il nostro poeta non avrebbe potuto saperlo perché non rientrerebbe nel giro dei suoi pensieri e i suoi personaggi non potrebbero mai elevarvisi, dato che anche i migliori fra di loro non possono essere migliori del loro creatore. Maria, che è stata ingaggiata da Rodolfo al servizio della morale, vi persevererà d’ora in poi fedele e ubbidiente come una serva devota e docile, e qualunque evoluzione presenterà la sua vita futura, essa avrà solo quel destino che il severo servizio della sua divinità imporrà a Maria, la serva fedele.

Sfuggita agli artigli della Civetta, che poteva corrompere soltanto il suo corpo, Maria va a finire sotto il potere del prete, che corromperà la sua anima delicata insegnandole che d’ora in poi la sua vita dovrà essere una vita di penitenza per guadagnarsi attraverso di essa il futuro perdono di Dio. Ciò decide di tutto il suo avvenire. Questo verme, messole nel cuore dal prete, la rode in continuazione finché la costringerà a rinunciare al mondo e a ritirarsi dal mondo, e infine le divorerà e spezzerà addirittura il cuore, già dedito a Dio. E tuttavia il pio insegnamento del prete è la vera dottrina della morale, davanti alla quale devono tacere infine tutte le “ragionevoli” obiezioni di Rodolfo.

Rodolfo infatti si abbandona alla dolce speranza di poter gustare, alla corte di Gerolstein, con Maria, la sua affascinante figlioletta, i piaceri di un’intima vita familiare e le gioie di un padre. Gli sarà così possibile ricoprire quotidianamente la sua bambina, da tutti venerata e adorata, la principessa morale e virtuosa, con nuovi doni d’amore e ricompensarla in modo principesco e paterno delle pene dell’esistenza derelitta, che un tempo dovette subire. Tutti i piaceri del mondo, che soltanto la corte di un granduca può offrire, d’ora in poi le devono essere aperti.

Ma a quale prezzo Maria dovrebbe guadagnarsi questi piaceri? Soltanto se nessuno viene a sapere della sua condotta passata sarà riconosciuta l’amabilità della sua condotta presente. Se invece lo si venisse a sapere, nessuna corona pur splendida potrebbe difendere la povera principessa dagli sguardi velenosi e dalle sprezzanti scrollate di spalle degli spietati cultori della purezza morale. Rodolfo lo sa molto bene e perciò non si fa il minimo scrupolo di ingannare tutto il suo ambiente a riguardo degli anni giovanili di Maria. Quale uomo ragionevole farebbe altrimenti? Non si deve esagerare, neppure in cose morali! Così parla il liberale morale.

Ma Maria, la pura sacerdotessa del principio morale, può allontanare da sé con una bugia l’espiazione invece di sopportare con animo pentito tutte le conseguenze del suo misfatto, lei che adesso è entrata nel mondo morale? Può sgattaiolare ingannando gli altri nel voler apparire più pura di quello che è? “Ingannare, sempre ingannare – grida disperata –; avere sempre paura, sempre mentire, sempre tremare davanti allo sguardo di chi si ama e si stima, come trema il delinquente davanti allo sguardo inesorabile del giudice!”. Maria, la serva dell’altare della moralità, può mentire?

La bugia è un peccato, che nessun uomo morale può perdonare a se stesso. Può anche scusarsi quante volte vuole, adducendo lo stato di necessità: ma anche la bugia necessaria rimane pur sempre una bugia. Come potrà servire alla verità al di là di tutte le tentazioni chi si lascia traviare a cedere alla bugia, trovandosi in qualche tentazione? Nessun maestro di morale può giustificare la menzogna. Eppure gli uomini morali mentono molto: il che dimostra proprio soltanto che il principio della moralità o del bene è troppo debole per guidare la vita reale. Infatti nella vita reale l’uomo viene inconsapevolmente condotto a delle azioni che deridono il suo debole principio. Ma non ci si sottrae ad un’ubbia altrimenti che superandola teoricamente.

Maria, una volta guadagnata al culto del bene, ha sentimenti troppo delicati per lasciarsi indurre a fare un’eccezione alla sua regola. Essa non sa mentire. Ma non potrebbe confessare al mondo, questo “giudice inesorabile”, ciò che essa ha commesso? Potrebbe confessarlo, ma poi sarebbe anch’essa “giudicata.”. Il mondo del bene non potrebbe sussistere, se non avesse dei “beni”; e, fra questi beni, la castità è un bene, la cui perdita esso non perdona a nessuna donna. Una successiva durevole costumatezza può far cicatrizzare la ferita originariamente inferta all’onore morale; ma nessun lasso di tempo laverà via l’ignominia della ferita. Il mondo, che crede alla morale e ai beni di questa, non sa dimenticare. Per il mondo questi beni hanno un valore: può pur mettere le cose come vuole, ma non può soffocare del tutto la sensazione di una mancanza o di un difetto, quando è andato perduto uno di questi beni, ai quali la sua ubbia è incollata. Una donna, che abbia abbandonato la sua castità, che sia vissuta tra “i reietti della società”, che si sia “degradata”, sarà guardata storta per sempre: infatti essa è “macchiata, avvelenata, colpita da infamia”, è “disonorata”. E per la vergogna, che essa si è tirata addosso, il mondo domanda come espiazione una vergogna ininterrotta, una vergogna che il mondo si darà da fare per tener continuamente desta nella penitente.

Si ritiene forse però che questa è soltanto un’esagerazione e una falsa vergogna, che ogni persona non ipersensibile potrebbe facilmente superare. Però dobbiamo chiederci che cosa abbia propriamente valore nel giudizio morale del mondo, se la persona in quanto tale oppure i suoi beni. Non manca di profonda coerenza il fatto che proprio il tempo del liberalismo e della borghesia tanto tenga alla moralità: un banchiere e un moralista giudicano l’uomo da un unico e medesimo punto di vista, cioè non per quello che egli è per se stesso, ma per quello che egli è in base ai beni che possiede. “Ha soldi?”. A questa domanda si affianca l’altra parallela: “Ha virtù?”. Il banchiere non si occupa di chi non ha soldi: costui gli fa vergogna; e chi non “possiede” le virtù di un onesto borghese non deve avvicinarglisi troppo. L’uno e l’altro misurano secondo i beni; e la mancanza di un bene è e resta una mancanza. Come un cavallo, che abbia tutte le virtù del miglior cavallo ma un brutto colore, ha una mancanza, un difetto; così anche la donna, che abbia perduta l’immacolata purezza, porterà una macchia vita naturale durante. E a ragione, perché le manca uno dei beni principali, che fanno onore ad una donna morale. Anche se Maria ora è casta, non lo è però sempre stata; anche se ora essa è innocente, non lo è stata prima. L’innocenza è di natura così delicata che non può essere mai toccata; offesa una volta, è scomparsa per sempre. L’innocenza è tale fissazione che per essa Morel impazzisce e Maria diventa bigotta. E deve essere così. Se insuperabile è il distacco tra riprovevole e puro, tra immorale e morale, Maria esprime allora con delicatezza, intimità e sincerità il sentimento di questo insolubile contrasto. Essa è “profanata”.

Cosa può dimostrare l’obiezione che già da un bel po’ non si è più così pignoli su queste cose e, contrariamente a quanto succedeva prima, si dimostra una grande indulgenza? Innanzitutto questa affermazione potrebbe essere contestata, perché è bensì vero che non si comminano più pene ecclesiastiche, ma sul piano morale si giudica molto meno lassisticamente che ai tempi dell’ancien régime. E poi la grande massa ha sempre avuto dure callosità in molti punti della propria pelle e si è mostrata insensibile alle strette conseguenze dei propri articoli di fede. Perciò una persona tanto sensibile e delicata e dalle convinzioni severe, come è Maria, dovrà necessariamente cadere nell’andazzo dell’uomo della strada?

Dobbiamo invece riconoscere che per lei, che si sentiva compenetrata dalla convinzione di dover soddisfare appieno le esigenze della morale, era inevitabile ritirarsi dal mondo. Infatti non poteva ingannare il mondo senza agire immoralmente; e neppure poteva confessare le sue vicende personali, se non voleva mietere la derisione e lo scherno del mondo invece che godimento. Qualunque gioia le si potesse offrire per il futuro, sarebbe stata subito avvelenata dal pungolo della vergogna. Con questi sentimenti, quando suo padre pensa di fare i primi approcci col principe Enrico, suo innamorato, essa esclama: “Voi volete che muoia nel vedermi così abbietta ai suoi occhi”. Essa non aveva più nulla da sperare dal mondo: davanti a lui essa doveva tenersi qualcosa sulla coscienza oppure da lui doveva farsi serbare rancore o richiamare qualcosa: si era guastata col mondo.

Ma perché si rifugia in Dio? Perché né il mondo né lei stessa potevano levarle il suo peccato. Solo Dio può perdonarla. Gli uomini devono attenersi al codice del bene; e nel regno del bene sono soltanto sudditi. Solo Dio è il re assoluto, al quale anche il bene è soggetto. Quando intende far grazia non chiede dove è il bene, ma interroga soltanto la sua volontà, che non ha limiti. E che cosa indica questo rivolgersi di Maria al Signore? Di nuovo questo: essa avverte che, secondo il criterio morale, non le potrà mai più esser fatta giustizia e che quindi essa ha bisogno di un altro criterio e di un altro giudizio. Che attraverso una vita di pentimento essa cerchi di guadagnarsi direttamente da Dio la sua assoluzione, è parimenti opera del pio prete, che evidentemente non poteva dirle: “Chi lega se stesso è legato; e chi scioglie se stesso è sciolto”. Ciò che essa poteva permettersi da se stessa cerca di ottenere dal di fuori; ma non sarebbe appunto né morale né devota, se agisse altrimenti.

Questa fanciulla morale come poteva perdonare a se stessa prima l’impudicizia e poi addirittura la menzogna? A questo scopo occorre più che la pura moralità; se questa fosse bastata, tutta la piacevole costruzione di E. Sue sarebbe crollata in un nulla ridicolo; il bene non sarebbe più la cosa suprema; l’uomo sarebbe superiore a virtù e vizio, moralità e peccato.

Tutto il contrasto consiste nel fatto che un paio di persone ottuse hanno a che fare tra di loro, tutt’e due ottuse per l’idea fissa del bene e del male. A seconda che il mondo giudica: questo e quest’altro possiamo farlo, perché è bene; quello invece – per esempio, mentire – non possiamo farlo, perché è male; così pensa anche Maria, che Rodolfo ha condotto alla virtù.

Se il poeta avesse applicato a Maria non il metro della virtù e della moralità, ma l’avesse misurata su di se stessa come misura sua propria (allo stesso modo in cui si agirebbe più accortamente, se si valutasse il leone non secondo una qualità umana, la magnanimità, ma secondo la sua natura animale di leone), sarebbe forse apparso il mirabile risultato che Maria è diventata una misera fanciulla perduta solo dal momento in cui ha conosciuto la virtù e si è consacrata al suo servizio, mentre nel tempo della sua condotta disonesta era stata una persona sana, libera e piena di speranza. Tutto questo non deve avere quasi soltanto il senso superficiale che la penitenza collegata alla virtù ha reso infelice la povera fanciulla e le ha tolto la sua serenità; ma deve avere il senso più preciso che essa doveva diventare per forza una schiava oppressa, quando fosse entrata nel mondo morale e avesse cominciato a sottoporsi ai doveri di questo. Una volta che l’angelo sterminatore della conversione l’avesse afferrata, questa delicata fanciulla sarebbe stata spacciata. Sotto il peso delle situazioni in cui l’aveva gettata il suo destino, lo spirito aperto e assennato di questa baiadera avrebbe potuto accumulare in sé quel forte fuoco della collera, che serve a sfondare il grave peso di una società irrigidita e a sollevarsi da uno stato di umiliazione. Che importanza aveva la perdita della castità di una fanciulla, che aveva spirito e coraggio di far pagare questa e quella perdita a tutto il mondo colpevole?

Ma Eugène Sue non conosce altra felicità che quella della gente onesta, altra grandezza che quella della morale, altro valore umano che quello della virtuosità e della devozione a Dio. Una creatura umana, che poteva diventare una persona libera, dovette essere sedotta al servizio della virtù; un animo ancora incorrotto dovette essere corrotto e avvelenato dalla folle idea dell’“uomo buono”. Se un poeta è capace di descrivere come la sua eroina – che deve condurre la sua vita nel turbinio dei vizi più schifosi e deve perfino dare in preda al vizio il fiore della sua vita – non diventi schiava del vizio come Chouette o il maestro di scuola o le sue coetanee, ma – simile ad un’atea che osservi le usanze ecclesiastiche perché costretta – rimane completamente libera, non si potrebbe allora pensare che egli avrebbe dovuto mantenerla anche al di sopra dell’influsso della virtù? Eppure no, il fiacco poeta, che sogna l’ideale “della giusta borghesia e del vero Stato”, fa di lei non un carattere d’acciaio, ma un’anima sentimentale facilmente affascinabile dall’idea fissa del “bene”; fa di quella stessa fanciulla, che aveva resistito al vizio, un essere debole, senza energia, che si abbandona anima e corpo alla schiavitù della virtù.

In tutto questo romanzo non si trova una persona, che si possa chiamare fatta da sé, una persona che, senza riguardo verso i suoi impulsi e verso lo stimolo di una fede (fede nella virtù, nella moralità, ecc.; fede nel vizio), crei se stessa in forza della propria onnipotenza creatrice.

Gli uni infatti seguono ciecamente la guida del loro cuore, della loro indole, della loro natura. Così Rigolette (tortorella): essa è proprio quella che è, cuor contento e mediocrità beata; quello che essa è, lo resterà sempre, un essere senza sviluppo, proprio come il suo canarino: essi possono soltanto subire e sopportare un destino, ma non possono diventare diversi. Il rovescio di Rigolette è il piccolo storpio, un ragazzo che prova piacere nel male degli altri; che si lascerà sempre determinare dal suo piacere, appunto la gioia del male altrui; gioia, che crescerà con gli anni in quell’essere perfido, finché costui un dì finirà sul patibolo e scenderà così senza storia nella fossa, come Rigolette scenderà in una tomba onorata. – Che tipo di stimoli eserciti sull’individuo un potere che abbia in uggia il vivere, non fa qui nessuna differenza sostanziale; in Ferrand è l’avarizia, nel mordace la loquacità smidollata, ecc.

Per la seconda specie di persone senza sviluppo e libertà, cioè per coloro che dipendono non tanto dal loro impulso naturale ma tanto più da una fede o da un’idea fissa, Eugène Sue – il quale, lui stesso schiavo tra questi schiavi, non sa fare di meglio – ha usato una precisione patologica soprattutto a riguardo degli zelanti della virtù. Sta in prima linea il suo granduca, che crede nella virtù e appartiene al grande ordine dei “benefattori dell’umanità sofferente” e porta l’insegna del suo ordine non sul petto ma dentro il petto. Questo “fratello misericordioso”, Rodolfo, mite e severo e tutto teso ad “avere cure materne” per gli uomini, vuol migliorare fisicamente e moralmente e premiare quegli infelici, che sono caduti nel fango del peccato; ma vuole anche mettere nell’impossibilità di nuocere e punire con raffinati strazi dell’anima quelli che sono corrotti senza speranza di ravvedimento. Così arriva a Parigi e poi se ne va di nuovo non guarito dalla sua idea fissa, dopo aver introdotto sua figlia nel tempio della virtù ed averla privata dell’ultima possibilità di diventare una vera persona. Quando infine la virtù priva questa fanciulla dell’intelletto e della vita, allora si aprono gli occhi a questo fratello misericordioso: non però – per così dire – a riguardo dell’idolo, al cui servizio sacerdotale egli ha sacrificato l’infelice fanciulla, ma a riguardo della “giustizia del Dio imperscrutabile”, il quale con la perdita della figlia vendica su di lui, padre, l’aggressione da lui fatta a suo padre. Questo campione della virtù e della religione è così ottuso che nella coerente attuazione del suo proprio principio – attuazione, che non può fare a meno di riconoscere e ammirare nel modo di agire della figlia –, non vede altro che il “giudizio dell’ira” di Dio. Maria compie interamente e perfettamente ciò che esigono la morale e la religione; suo padre in persona deve riconoscere che “la sua sfortunata fanciulla è dotata di una logica inesorabile per tutto ciò che riguarda la delicatezza del cuore e il sentimento dell’onore, per cui non le si può rimproverare nulla”; e “rinuncia a cercare di persuaderla, perché tutti gli argomenti di ragione sono impotenti di fronte ad una persuasione così invincibile, che proviene da un sentimento nobile ed elevato”; anzi egli confessa che, al posto di Maria, egli pure avrebbe agito “così degnamente e coraggiosamente”: e adesso che cosa vede in questa inflessibile, perfetta moralità di sua figlia? Un “castigo” di Dio, che per punizione gli manda la sublimità d’animo di sua figlia! In verità, non si poteva tratteggiare con maggior crudeltà e scherno il vile “giusto mezzo” della nostra epoca liberale di quanto non abbia involontariamente fatto qui uno smidollato sostenitore di quel “giusto mezzo”. – Il buon principe nel suo pellegrinaggio penitenziale non ha “imparato nulla e dimenticato nulla”. Come uomo incapace di evolvere e di costruire se stesso subisce soltanto il duro destino, che il servizio della virtù prepara ai suoi fedeli: fa soltanto esperienze teologiche, non umane. Oppure critica qualche volta il padrone di cui è servitore? E gli viene in mente almeno una volta di chiedersi quale sia l’essenza delle idee di moralità, religiosità, onestà, ecc., il cui servizio egli promuove? La sua intelligenza è bloccata a loro riguardo, come davanti a un confine inamovibile: ulteriore elevazione, ogni redenzione o liberazione da questo padrone assoluto è impossibile da questo punto di vista per questo principe, che è pur capace di giudicare le cose. Per quanto sagace possa dimostrarsi come uomo morale, egli è del tutto ottuso nel giudicare gli uomini: immagine fedele del suo misero poeta, sacerdote della virtù.

Prigioniera della fede opposta e a questa fanaticamente devota è la madre Martial. Anche il crimine ha e deve necessariamente avere i suoi fanatici, che in esso credono e lo vogliono mettere in onore: la madre Martial è un’eroina del vizio. Essa vive e muore per il suo ideale, il crimine. Come i fedeli della virtù, così anch’essa, la fedele del vizio, è privata della capacità di evolvere e di creare se stessa a causa di un’idea fissa. Essa deve perire con questa grande passione, perché non sa liberarsene. Anche per lei vale il motto: “Io sto qui, non posso fare altrimenti”. Irrigidita e invecchiata nella sua fede, essa – come ogni altro credente – è incapace di critica, che sarebbe invece l’unica redenzione da ogni ubbia che si gonfia fino alla santità inaccessibile. Anzi tutte le ragioni, che potrebbero salvarla, le servono invece – come avviene per i folli – a rafforzarla. Per lei non c’è altra esperienza che quella delle vicende che su di lei attira il delirio, che avvolge la sua vita e cerca di tradursi in atto nella sua vita: essa non fa che esperienze immorali e malsane, come coloro che vanno in direzione opposta alla sua non fanno che esperienze morali e devote.

La fede nella virtù, diventata stabile modo di sentire, è lo spirito di Rodolfo; il vizio, come stabile modo di sentire, è rappresentato dalla madre Martial. Quale tremendo severo giudizio essa pronuncia sul figlio “scostumato”, che nulla vuol sapere dei rigidi princìpi del vizio. Essa guida il ménage familiare come una donna di princìpi, piena dei princìpi del crimine, così come altri capi-famiglia, pieni dei princìpi del bene, esercitano un dominio puntiglioso e, come Bruto, soffocano il sentimento paterno. La maestà della virtù è essenzialmente diversa dalla maestà del vizio, e lo stabile ordinamento dell’una è più sopportabile dell’altra? Dal suo romanzo precedente Atar-Gull Eugène Sue avrebbe potuto imparare come sentimento di vendetta e sentimento del diritto si identifichino, come il bene e il male coincidano; come il moro nero appartiene al diavolo solo perché è nero, mentre il parigino bianco, che a quello attribuisce il premio della virtù, appartiene a Dio solo per il suo color bianco che non porta segni di bruciacchiature. Ma non si può migliorare quel buon poeta, come non si possono migliorare i personaggi dei suoi romanzi, i quali, quando si convertono, diventano e devono per forza diventare più miserevoli e schiavi di quanto erano prima.

Dato che vediamo che i personaggi principali ed anche altri sono caratteri asserviti e prigionieri, dominati dai loro impulsi e dalla loro fede, spogli di ogni capacità di auto-creazione e di auto-appartenenza, non abbiamo particolarmente bisogno di menzionare i personaggi di secondo piano. È chiaro che il poeta non è riuscito a farne se non delle persone limitate, la cui rozza natura o costituzione perversa, le cui cupidigie o vicissitudini preparano questo o quest’altro destino. Così è certamente il mondo; ed Eugène Sue ha dimostrato soltanto che egli sa acquistarsi il beneplacito di questo mondo, ma non sa sollevarlo dai suoi cardini e redimerlo.

Nessuna meraviglia quindi se I misteri hanno incontrato tanta risonanza. Attraverso di essi il mondo morale riceve il parto meglio riuscito della pedanteria, l’immagine fedele del suo spirito umanitario, l’eco piena dei lamenti in cui esso prorompe, la stessa volontà di riforma a riguardo di cose che sono tanto irreformabili quanto tutto ciò che è turco. Mahmud II non è stato l’unico benevolo e inutile riformatore del nostro tempo. Tutto intero il liberalismo – e chi mai oggi posto in alto o in basso loco, non sarebbe liberale! – nutre la grande speranza di ingentilire e raffinare cose turche. “II nostro tempo è malato”, così dice con sguardo turbato l’amico all’amico; e subito fanno ambedue un’escursione botanica per cercare il “giusto rimedio” fra le graziose erbe del paese.

O amici, il vostro tempo non è malato, è decrepito; perciò non tormentatelo tentando di salvarlo, ma alleviategli la sua ultima breve ora accelerandola e, dato che non può guarire, lasciatelo morire.

“Dappertutto vizi e crimini!”. Lo riconoscerete voi stessi; e se forse nutrite ancora dei dubbi, aprite I misteri per contemplare tutta la miseria della debolezza umana. Cercate una buona volta di “riformare” le cose turche. Mentre sperate di sanarle, le manderete a pezzi. Non hanno difetti, come non ne ha un vecchio per il fatto solo di esser vecchio. Certo sfugge al vecchio la pienezza delle energie giovanili; ma, se le avesse, non sarebbe appunto vecchio; e chi volesse porre rimedio a questo difetto della vecchiaia, sarebbe un riformatore benintenzionato come Mahmud II e i nostri liberali. Il vecchio va incontro al disfacimento; ma voi vorreste ringiovanirlo, rinsaldando nuovamente le sue ossa tremolanti. Il nostro tempo non è malato per poter essere risanato, ma è vecchio e la sua ora è suonata. Ciononostante saltano fuori migliaia di Eugène Sue e offrono i loro rimedi da ciarlatani.

Dobbiamo infine spendere ancora una parola sulle eccellenti disposizioni del principe, appartenente all’ordine dei benefattori, e le proposte filantropiche dello stesso romanziere? Esse vanno a finire tutte a “calpestare” le persone col premio o col castigo, finché esse faranno della virtù la loro padrona! Sono proposte per il miglioramento dello Stato, come prima della Riforma di Lutero si facevano innumerevoli proposte per il miglioramento della Chiesa: ma a che servono i miglioramenti, quando non c’è più nulla da migliorare?



[Il secondo saggio, che Stirner ha scritto per la “Berliner Monatsschrift” di Buhl, è una recensione de I misteri di Parigi di Eugène Sue, che allora andavano suscitando grande scalpore. Esso è l’ultimo di questo volume e vi occupa le pp. 302-332. È firmato “Max Schmidt”, che è evidentemente un collegamento erroneo dello pseudonimo e del cognome di Schmidt-Stirner; ma è fuor di dubbio che esso sia di Stirner. (Nota di J.H. Mackay)]

VI
Risposte alle critiche mosse a L’unico e la sua proprietà

Nota introduttiva di J.H. Mackay

La prima risposta, che Max Stirner ha dato alla critica della sua opera, venne subito; e quasi due anni dopo fu mosso a darne una seconda. Le pubblicò ambedue sugli stessi fogli, sui quali erano comparsi anche gli attacchi contro di lui (il secondo attacco almeno, dapprima comparso altrove, fu rinnovato attraverso una ristampa su uno di essi): sulla “Wigand’s Vierteljahrschrift” e sugli “Epigonen” del suo editore Otto Wigand di Lipsia.

La prima risposta è certamente sua; la seconda lascia dubbi sulla sua autenticità. Confrontando probabilità e dubbio, noi propendiamo per la sua probabilità, dato che molte cose stanno a suo favore e poche a favore del dubbio.

Entrambe le risposte mostrano come Stirner inceda, dopo che la battaglia è finita, attraverso il campo sul quale ha vinto: tiene l’arma ancora in mano e solo qua e là alza il braccio per colpire. Ed anche se egli può impedire la lotta solo per oggi e non mettere fine una volta per tutte a quella lotta che divamperà ancora domani, egli sa che è lui che ne uscì per la prima volta vincitore.

Egli ha adempiuto al compito che si era proposto. Da questo momento egli lascia tutto il resto ad altri.

1) I recensori di Stirner

Nota di J.H. Mackay

Delle tre critiche, che apparvero subito dopo la pubblicazione de L’unico e che Stirner ha onorato con una prima risposta, furono pubblicate la prima sulla rivista dell’editore dei suoi due avversari, la seconda come libretto separato e la terza in un giornale critico della scuola di Bruno Bauer, che però ebbe vita breve.

Ludwig Feuerbach, aspramente attaccato da Stirner, pubblicò anonimi i suoi brevi aforismi nel secondo volume della “Wigand’s Vierteljahrschrift” alle pp. 193-205 col titolo: Über Das Wesen des Christentums in Beziehung aud den Einzige und sein Eigenthum [Sull’Essenza del cristianesimo in rapporto a L’unico e la sua proprietà]. Egli riprese poco dopo, senza ritoccarlo, questo articolo nel primo volume delle sue Sämtliche Werke [Opere complete] dal titolo: Chiarimenti e aggiunte all’Essenza del cristianesimo e vi appose la seguente osservazione: “A proposito di questa intestazione faccio osservare che, qui come altrove, non miro al mio scritto in quanto scritto da me e non voglio difenderlo. Resto in un rapporto estremamente critico con il mio scritto; mi occupo sempre e soltanto del suo oggetto, della sua sostanza e del suo spirito. Della sua lettera si occupino pure i figli di Dio o del diavolo”.

L’opuscolo di Moses Hess si intitola Die letzten Philosophen [Gli ultimi filosofi] e comparve pure nel 1845 presso l’editore Leske di Darmstadt. Comprende 28 paginette ed è fornito di una breve introduzione.

Franz Szeliga, il terzo avversario, ha pubblicato la sua voluminosa critica Der Einzige und sein Eigentum. Von Max Stirner. Kritik nel 1845 [pp. 1-34] nel fascicolo di marzo dei “Norddeutsche Blätter für Kritik, Litteratur und Unterhaltung”, i quali più tardi apparvero anche col titolo “Beiträge zum Feldzuge der Kritik. Norddeutsche Blätter für 1844 und 1845. Mit Beiträgen von Bruno und Edgar Bauer, A. Fränkel, L. Köppen, Szeliga u. A.” [Contributi alla campagna della critica. Fogli della Germania settentrionale del 1844 e 1845. Con contributi di Bruno e Edgar Bauer, A. Fränkel, L. Köppen, Szeliga e altri] presso l’editore Adolph Riess di Berlino. La critica di Szeliga sta nel IX fascicolo del secondo volume come articolo introduttivo dello stesso fascicolo.

Se le pubblicazioni di Feuerbach, soprattutto attraverso la ristampa nelle sue opere complete, sono facilmente raggiungibili da parte di tutti, i “Norddeutsche Blätter” sono una rarità di antiquariato e l’opuscolo di Hess dovrebbe stare in poche mani ed essere difficilmente ritrovabile nelle sezioni di antiquariato delle librerie. Anche se proprio per questo motivo in un primo momento abbiamo pensato di riprodurre alla lettera le critiche di Szeliga e di Hess, abbiamo poi deposto questa intenzione perché, se l’avessimo fatto, avremmo troppo appesantito questo volume; ed inoltre le risposte di Stirner, per la coscienziosità che lo caratterizza, mirano costantemente a riprodurre l’intenzione dell’avversario con le sue stesse parole.

La risposta di Stirner: Recensenten Stirner [I recensori di Stirner] comparve nella “Wigand’s Vierteljahrschritft”, III volume del 1845 alle pp. 147-194, ed è firmato “M. St.”; è dunque sua.

* * *

Contro L’unico e la sua proprietà di Max Stirner sono comparsi questi tre saggi abbastanza ampi:

  1. La critica di Szeliga nel fascicolo di marzo dei “Norddeutsche Blätter. [Eine Monatsschrift für Kritik, Literatur und Unterhaltung].

  2. Sull’Essenza del cristianesimo in rapporto a L’unico e la sua proprietà nel volume precedente della “Wigand’s Vierteljahrschrift”.

  3. Un opuscolo, Gli ultimi filosofi, di M. Hess.

Szeliga si presenta come critico, Hess come socialista, e l’autore del secondo saggio si presenta come... Feuerbach. Una breve risposta potrebbe essere utile anche se – forse – non ai suddetti recensori, però a qualche altro lettore del libro. I tre oppositori sono d’accordo a riguardo di quelle parole, che più colpiscono nel libro di Stirner, cioè a riguardo dell’“unico” e dell’“egoista”. Perciò sarà quanto mai utile approfittare di questo accordo e parlare dapprima dei punti accennati.

Szeliga, dopo aver con tutta serietà lasciato crescere l’unico e averlo identificato con l’uomo (p. 4, “L’unico non è però sempre unico, ma è stato una volta bambino e poi giovinetto)”, ne fa un “individuo della storia mondiale”; e infine, dopo alcune definizioni degli spettri (da cui risulta che “uno spirito senza pensiero è un corpo e che il nudo, puro corpo è l’assenza del pensiero”), trova che l’unico è “conseguentemente lo spettro di tutti gli spettri”. È vero che egli aggiunge: “Per il critico, che nella storia del mondo non vede soltanto idee fisse che si rimpiazzano ma pensieri creativi che si sviluppano vieppiù; per il critico dunque l’unico non è uno spettro ma un fatto dell’auto-coscienza creatrice, che doveva comparire a suo tempo, al nostro tempo, e adempiere un suo determinato compito”. Solo che questo “fatto” è però soltanto un “pensiero”, un “principio” e un libro.

Feuerbach non si esprime molto precisamente sull’“unico”, ma lo considera senz’altro come un “unico individuo”, che “viene scelto da una classe o categoria e contrapposto come sacro e inviolabile agli altri individui”. In questo scegliere e contrapporre “consiste l’essenza della religione. Questo uomo, quest’unico, incomparabile, questo Gesù Cristo soltanto ed esclusivamente è Dio; questa quercia, questo luogo, questo boschetto, questo toro, questo giorno è sacro, non gli altri”. E conclude: “Lévati dalla mente l’unico in cielo, ma pure l’unico in terra”.

Hess, a dire il vero, allude soltanto all’unico. Dapprima egli identifica l’“unico” con “Stirner”; poi dell’unico dice che “è il tronco senza testa né cuore, cioè ha proprio questa illusione, perché di fatto egli non è solo senza spirito ma anche senza corpo; è nient’altro che la sua illusione”. Ed infine di Stirner, l’“unico”, egli pronuncia questo giudizio: “È solo un millantatore”.

Secondo quanto è stato detto, l’unico appare come “lo spettro di tutti gli spettri”, come “l’individuo sacro, che ci si deve levare dalla mente” e come un “millantatore” di poca importanza.

Stirner nomina l’unico, dicendo anche: i nomi non ti denominano. Egli lo esprime quando lo chiama l’unico; eppure aggiunge che l’unico è soltanto un nome. Intende dunque qualcosa di diverso da quello che dice; come, per esempio, chi ti chiama Ludovico, non intende un Ludovico in genere ma te, per il quale non ha alcuna parola.

Ciò che dice Stirner è una parola, un pensiero, un concetto; ma ciò che egli intende non è una parola, né un pensiero, né un concetto. Ciò che dice, non è ciò che intende; e ciò che intende è indicibile.

Ci si è sempre lusingati di parlare dell’uomo “reale, individuale”, quando si parlava dell’uomo. Ma era possibile questo, fin quando si volle esprimere questo uomo per mezzo di un predicato, a una denominazione, a un nome, a proposito dei quali però la cosa principale è l’intenzione, cioè l’inespresso? Gli uni si tranquillizzavano con la vera e completa “individualità”, che però non si libera dal riferimento alla “specie”; altri si tranquillizzavano con lo “spirito”, che è parimenti una determinazione e non una completa mancanza di determinazione. Soltanto nell’“unico” sembra raggiunta questa mancanza di determinazione, perché egli viene dato come l’unico inteso; perché se lo si coglie come concetto – cioè come qualcosa di espresso –, appare come del tutto vuoto, come un nome indeterminato, e quindi rimanda al suo contenuto al di fuori o al di là del concetto. Se lo si fissa come concetto – e questo fanno gli oppositori –, allora si deve cercare di darne una definizione e con ciò si arriverà necessariamente a qualcos’altro da ciò che è inteso. Lo si distinguerà da altri concetti e lo si comprenderà, per esempio, come “il solo individuo perfetto”, col che poi diventerà facile farne vedere l’assurdità. Ma tu ti puoi definire? Tu sei un concetto?

L’“uomo” come concetto o predicato non ti esaurisce, perché “uomo” ha un suo contenuto concettuale e perché si può dire che cosa è l’uomo e l’umano, cioè perché è possibile definire l’uomo; ma al di là di questa definizione tu puoi restare completamente fuori gioco. Certo anche tu, in quanto uomo, partecipi al contenuto concettuale dell’uomo, ma vi partecipi non in quanto tu. L’unico invece non ha alcun contenuto, è l’assenza stessa di determinazione; attraverso di te soltanto acquista contenuto e determinazione. Non c’è sviluppo concettuale dell’unico; da lui non si può costruire alcun sistema filosofico come da “un principio”, come dall’essere, dal pensare o dall’io; anzi ogni sviluppo concettuale finisce con lui. Chi lo considera un “principio”, pensa di poterlo usare a livello filosofico o teorico e tira per forza inutili fendenti nell’aria contro di lui. Essere, pensare, non sono che concetti indeterminati, che ricevono una determinazione attraverso altri concetti, cioè attraverso lo sviluppo concettuale. Ma l’unico è un concetto privo di determinazione e non può essere reso maggiormente determinato o ricevere un “contenuto più preciso” attraverso altri concetti. L’unico non è il “principio di una serie di concetti”, ma è una parola o un concetto incapace, in quanto parola o concetto, di qualsiasi sviluppo. Lo sviluppo dell’unico è il tuo e il mio auto-sviluppo; uno sviluppo del tutto unico, poiché il tuo sviluppo non è senz’altro il mio sviluppo. Solo in quanto concetto, cioè solo in quanto “sviluppo”, essi sono un’unica e stessa cosa; ma il tuo sviluppo è così diverso e unico quanto il mio.

In quanto tu sei il contenuto dell’unico, non si può pensare ad un contenuto proprio dell’unico, cioè ad un contenuto concettuale.

Con la parola “unico” non si vuol dire ciò che tu sei; come per il fatto che al battesimo ti si fornisce il nome di Ludovico, non si vuol dire ciò che tu sei.

Con l’unico si chiude il regno dei pensieri assoluti, cioè dei pensieri che hanno un proprio contenuto di pensiero, come col nome vuoto di contenuto il concetto e il mondo concettuale finiscono: il nome è la parola vuota di contenuto, alla quale può essere dato un contenuto soltanto attraverso ciò che si intende dire.

Ma nell’unico non si manifesta soltanto per esempio – come si immaginano i suddetti oppositori – la “menzogna del mondo egoistico che finora c’è stato”, no, nella sua nudità, nella sua spudorata “schiettezza” (cfr. Szeliga, p. 34), viene alla luce del sole la nudità dei concetti e delle idee; si rivela la vana boria dei suoi oppositori; diventa chiaro che la più grossa “frase” è quella che sembra essere la parola più ricca di contenuto. L’unico è la frase sincera, irrefutabile, aperta: è la chiave di volta del mondo delle nostre frasi, di questo mondo, al cui “principio era la parola”.

L’unico è un’affermazione, della quale con tutta schiettezza e onestà si riconosce che non afferma nulla. L’uomo, lo spirito, il vero individuo, la personalità, ecc., sono affermazioni o predicati, che sono pieni di contenuto, frasi di somma ricchezza di pensiero; di fronte a quelle sacre e sublimi frasi. L’unico è una frase vuota, senza pretese e senza alcun pregio.

Qualcosa del genere hanno immaginato i recensori de L’unico; si attennero a dire che era una frase. Ma stimavano che egli pretendesse di essere una frase sacra, sublime; e gli contestarono tale pretesa. Egli non deve però essere che la frase senza alcun pregio; solo che proprio per questo egli è realmente quello che le roboanti frasi degli oppositori non riescono ad essere, e in tal modo egli distrugge tutta la costruzione di quelle frasi.

L’unico è una parola, e con una parola si dovrebbe pur poter pensare qualcosa; una parola dovrebbe pur avere un contenuto di pensiero. Ma l’unico è una parola senza pensiero, una parola che non ha alcun contenuto di pensiero. – Che cos’è allora il suo contenuto, se il pensiero non lo è? È un contenuto che non può esistere per la seconda volta, e per conseguenza non può neppure essere espresso. Infatti se potesse essere espresso, realmente e completamente espresso, allora esisterebbe per la seconda volta, esisterebbe nell’“espressione”.

Siccome il contenuto dell’unico non è un contenuto di pensiero, esso è anche impensabile e indicibile; ma siccome è indicibile, esso, questa frase perfetta, allo stesso tempo non è una frase.

Solo allorché nulla si esprime di te e tu sei soltanto nominato, tu vieni riconosciuto come tu. Finché di te si afferma qualcosa, tu sei riconosciuto soltanto come qualcosa (uomo, spirito, cristiano, ecc.). L’unico però non esprime nulla, perché è soltanto un nome; dice soltanto questo, che tu sei tu e nient’altro che tu, che tu sei un unico tu o te stesso. In forza di ciò tu sei senza predicati; con ciò però sei nello stesso tempo senza determinazione, senza professione, senza legge, ecc.

La speculazione mirava a trovare un predicato, che fosse così universale da poter comprendere in sé ognuno. Ad ogni modo un tale predicato non poteva esprimere ciò che ognuno deve essere, ma ciò che è. Se dunque questo predicato fosse “uomo”, con esso si dovrebbe comprendere qualcosa che ognuno deve diventare, perché altrimenti tutti quelli che non lo sono ancora, ne sarebbero esclusi; con esso si dovrebbe invece comprendere qualcosa che ognuno è. Ora “uomo” davvero esprime anche qualcosa che ognuno è. Solo che questo qualcosa è bensì espressione dell’universale che c’è in ognuno, è bensì espressione di ciò che ognuno ha in comune con gli altri; ma non è espressione di “ognuno”, non esprime chi è ognuno. Ti si esaurisce forse, se ti si dice che sei uomo? Con questo si esprime anche chi tu sei? Quel predicato “uomo” adempie forse il compito del predicato, che è quello di esprimere completamente il soggetto, e non tralascia invece proprio la soggettività nel soggetto per il fatto che non dice chi, ma soltanto che cosa è il soggetto?

Se perciò il predicato deve comprendere in sé ognuno, ognuno deve apparire in esso predicato come soggetto; cioè non soltanto come che cosa egli è, ma come chi egli è.

Ma come puoi presentarti come chi tu sei, se non ti presenti tu stesso? Sei tu un doppione o esisti solo una volta? Tu non sei mai fuori di te, non sei nel mondo una seconda volta, tu sei unico. Tu puoi presentarti soltanto, se ti presenti di persona. “Tu sei unico”: non è questo un giudizio? Se nel giudizio: “Tu sei uomo”, tu non ti presenti come chi tu sei, allora nel giudizio: “Tu sei unico”, ti presenti davvero come te stesso? Il giudizio: “Tu sei unico” non significa altro che “tu sei tu”; un giudizio, che il logico chiama un giudizio contraddittorio perché non giudica nulla, non dice nulla, perché è un giudizio vuoto o un giudizio che non è giudizio. – (Nel libro il giudizio contraddittorio è preso, come esso appare, quale “infinito” o indeterminato; qui invece è preso secondo l’aspetto per cui esso è il giudizio “identico”).

Ciò che il logico tratta con disprezzo, è certamente illogico o soltanto “formalmente logico”: ma, dal punto di vista logico, è anche soltanto una frase; è la logica che muore come frase.

L’unico deve essere soltanto l’ultima morente espressione (predicato) di te e di me; deve essere soltanto quell’espressione che si trasforma in ciò che si intende: un’espressione, che non è più tale, un’espressione che ammutolisce, che è muta.

Tu, unico! Quale contenuto di pensiero, quale contenuto di giudizio c’è qui ancora? nessuno! – Chi volesse ancora dedurre un proprio contenuto unico come da un concetto; chi opinasse che con l’“unico” si esprime di te ciò che tu sei, costui dimostrerebbe proprio di credere a delle frasi, perché non riconosce che le frasi sono frasi; dimostrerebbe di cercare nella frase un proprio contenuto.

Tu impensabile e indicibile, sei il contenuto delle frasi, il proprietario delle frasi, la frase in carne ed ossa, tu sei il Chi, il Questo della frase.

Nell’“unico” la scienza può aprirsi come vita, per il fatto che il suo “ciò” diventa “costui” e “quest’altro”, che poi non ricerca più se stesso nella parola, nel logos, nel predicato.


Szeliga si prende la briga di mostrare che l’unico “misurato col suo principio di vedere spettri dappertutto, diventa lo spettro di tutti gli spettri”. Egli ha il confuso presentimento che l’unico sia una frase vuota; ma non riflette che lui, Szeliga, è il contenuto della frase.

L’unico in cielo, al quale Feuerbach affianca l’unico in terra, è la frase senza soggetto. L’unico, qui pensato, si chiama Dio. Il fatto che la religione avesse l’unico almeno nel pensiero o come frase e che lo vedesse in cielo, le garantì la sua durata. Ma l’unico in cielo è proprio un unico, di cui nessuno si prende cura; al contrario Feuerbach volenti o nolenti si interessa dell’unico di Stirner, perché dovrebbe agire in modo strano, se volesse tirarsi fuori dalla testa il suo unico. Se l’unico in cielo fosse uno che si era conficcato nella sua propria testa invece che nella testa di Feuerbach, allora dovrebbe essergli difficile tirarsi fuori l’unico dalla testa.

Hess dice dell’unico: “È un millantatore”. Senz’altro l’unico, questa frase evidente, è una vuota millanteria; egli è la frase di Feuerbach senza il soggetto della frase. Ma non è una misera millanteria tirare in lungo e in largo questa millanteria, per cui di essa non si sia saputo dire altro? Ma Hess, quest’unico Hess, non è anche lui null’altro che una millanteria? Ma no!


Più ancora che per l’unico i recensori sono irritati per l’“egoista”. Invece di considerare con maggior attenzione l’egoismo così come è concepito da Stirner, restano fermi all’immagine che di esso hanno avuto fin da bambini e aprono il registro dei suoi peccati, già a tutti noto. Guardate qui l’egoismo, questo sinistro peccato: è questo che Stirner vuole “raccomandare” a noi!

Nell’antica Gerusalemme i recensori potevano levarsi contro la definizione cristiana: “Dio è l’amore”, ed esclamare: “Voi vedete che è un Dio pagano quello che viene annunziato dai cristiani. Infatti se Dio è l’amore, allora egli è il Dio Amor, il Dio dell’amore”. – Che bisogno avevano i recensori ebrei di immischiarsi ulteriormente nell’amore e nel Dio, che è l’amore, dato che essi da lungo tempo avevano sputato contro il Dio dell’amore, contro l’Amor?

Szeliga così descrive l’egoista: “L’egoista spera in una vita felice, senza problemi. Egli sposa una fanciulla ricca e poi si ritrova una donna gelosa e attaccabrighe: cioè quando la sua speranza si realizza, è delusa”.

Dice Feuerbach: “Vi è una differenza fondata tra quello che si chiama amore egoistico e amore altruistico. Quale differenza? In breve, questa: nel caso dell’amore egoistico l’oggetto è la tua etera, in quello dell’amore altruistico l’oggetto è la tua amata. In quel caso mi soddisfo come in questo; ma in quel caso subordino la persona ad una parte. In questo caso invece subordino la parte, il mezzo, l’organo al tutto, alla persona. Ma proprio per ciò in quel caso soddisfo anche soltanto una parte di me; in questo invece me stesso, il mio essere pieno e completo. Per farla breve: nell’amore egoistico sacrifico ciò che è più elevato a ciò che è inferiore, quindi un godimento più alto ad uno più basso. Invece nell’amore altruistico sacrifico l’inferiore a ciò che è più elevato”.

Hess si domanda: “Che cos’è innanzitutto l’egoismo, e in che cosa consiste la differenza tra la vita egoistica e la vita guidata dall’amore?”. Già questa domanda indica la sua affinità con i due precedenti. Come si può far valere contro Stirner un tale contrasto tra vita egoistica e vita d’amore, dato che in lui i due aspetti si conciliano perfettamente? Hess continua: “La vita egoistica è la vita del mondo animale inimicata con se stessa e che consuma se stessa. In genere, il mondo animale è proprio la storia naturale della vita inimicata con se stessa e che distrugge se stessa; e tutta la nostra storia fin qui non è stata altro, sul piano sociale, che storia del mondo animale. – Ma in che cosa si distingue il mondo animale della società dal mondo animale della foresta? In nulla, se non per la coscienza. La storia del mondo animale della società è appunto la storia della coscienza del mondo animale; e se la cima più alta del mondo animale naturale è l’animale da preda, il vertice del mondo animale della società è proprio l’animale da preda cosciente. – Come l’egoismo è il mutuo estraniamento della specie, così la coscienza di questo estraniamento (la coscienza egoistica) è la coscienza religiosa. Il mondo animale della foresta non ha alcuna religione soltanto perché gli manca la coscienza del peccato. Nell’umanità la prima coscienza è la coscienza del peccato. – Quando la teoria egoistica, la coscienza egoistica, religione e filosofia, avevano raggiunto il loro vertice, anche la prassi egoistica aveva dovuto raggiungere il suo vertice. Essa lo ha raggiunto nel gretto mondo cristiano moderno. Questo è l’ultima vetta del mondo animale della società. – La libera concorrenza del nostro gretto mondo moderno non è soltanto la forma compiuta dell’omicidio per rapina; essa è anche la coscienza del mutuo estraniamento umano. – Il gretto mondo moderno è la forma mediata cosciente e di principio dell’egoismo, corrispondente alla natura di questo mondo moderno”.

Queste sono descrizioni sommamente popolari dell’egoismo; e c’è soltanto da meravigliarsi che Stirner in persona non abbia proposto simili semplici riflessioni e, attraverso la considerazione di quanto l’egoismo sia balordo, volgare e mortalmente predatorio, non si sia lasciato indurre a ricusare quell’odiosa mostruosità. Se Stirner avesse riflettuto, come ha fatto Szeliga, che l’egoista non è che un minchione, che sposa una fanciulla ricca e si ritrova una donna litigiosa; se avesse visto, come Feuerbach, che l’egoista non può avere un’“amata”; o se avesse giustamente riconosciuto, come Hess, nell’egoista l’uomo animale e addirittura fiutato in lui 1’“assassino per rapina”, come non avrebbe poi dovuto concepire per lui un “profondo ribrezzo” e una “giusta indignazione”? Già il solo omicidio per rapina è una tale infamia che per sé era sufficiente che Hess esclamasse quest’unica parola contro l’egoista di Stirner per mandare in collera contro di lui tutti gli “uomini buoni” e per averli dalla sua parte: la parola è ben scelta e toccante per un cuore morale, quasi come l’esclamazione “eretico!” lo è per la folla credente.


Stirner ha l’audacia di affermare che Feuerbach, Hess e Szeliga sono egoisti. Certo egli non si limita ad esprimere così soltanto un giudizio di identità, dicendo cioè che Feuerbach non agisce che alla Feuerbach, Hess alla Hess, Szeliga alla Szeliga. Tuttavia egli ha dato loro un titolo francamente troppo equivoco.

Feuerbach vive nel suo mondo o in un altro mondo? Vive forse – per così dire – nel mondo di Hess, di Szeliga o di Stirner? Per il fatto che Feuerbach vive in esso, il suo mondo non è forse quel mondo che lo circonda, cioè quello che egli avverte, contempla, pensa alla Feuerbach? Egli non vive soltanto in mezzo ad esso, ma è il centro stesso di quel mondo, è il punto centrale del suo mondo. E come Feuerbach, così nessun altro vive in un mondo che non sia il proprio; come Feuerbach, ciascuno è il centro del suo mondo. Mondo è soltanto ciò che non è egli stesso, ma che però gli appartiene, che è in rapporto con lui, che esiste per lui.

Tutto gira intorno a te; tu sei il centro del mondo esterno e il centro del mondo del pensiero. Il tuo mondo arriva fin dove arriva la tua capacità di capire; e ciò che tu abbracci, è tuo per il solo fatto che lo comprendi. Tu unicamente sei “unico” soltanto insieme alla “tua proprietà”.

Intanto non ti sfugge che ciò che è tuo proprio, è anche suo proprio o ha una sua propria esistenza, è qualcosa di unico come te. Per tutto questo tu dimentichi te stesso in dolce dimenticanza di te.

Ma se tu ti sei dimenticato, sei forse del tutto scomparso? Se tu non pensi a te stesso, hai forse cessato di esistere? Se tu guardi il tuo amico negli occhi o rifletti ad una gioia che potresti procurargli; se tu innalzi lo sguardo alle stelle e scruti le loro leggi o mandi loro il tuo saluto, che dovrebbe portarle nella tua solitaria cameretta; se, guardando nel microscopio, tu ti perdi dietro al movimento degli infusori; se tu ti butti nell’acqua o nel fuoco per venire in aiuto a qualcuno, senza badare al tuo pericolo personale, certo allora tu non “pensi” a te stesso, ti “dimentichi”. Ma se tu esisti soltanto se pensi a te stesso, e se sparisci, se ti dimentichi: esisti soltanto attraverso l’autocoscienza? Chi non dimenticherebbe se stesso in ogni momento; chi non perderebbe di vista se stesso mille volte all’ora?

Questa dimenticanza di noi stessi, questo perdere di vista noi stessi è soltanto un modo di soddisfarci, è soltanto godimento del nostro mondo, della nostra proprietà, cioè godimento del mondo.

Non in questo auto-dimenticarci, ma nel dimenticare che il mondo è il nostro mondo, trova il suo fondamento l’altruismo, cioè l’egoismo preso per il naso. Tu ti prostri e ti abbassi davanti ad un mondo assoluto, “più alto”. L’altruismo non è un dimenticarsi nel senso che non si pensa a sé e non ci si occupa di sé, ma nel senso che si dimentica “ciò che è nostro” nel mondo, che ci si dimentica di essere il centro o il proprietario di questo mondo e che esso è nostra proprietà. La paura e il timore del mondo in quanto mondo “più alto” è l’egoismo scoraggiato, “umiliato”; l’egoismo in figura di servo, che non osa fiatare, che striscia in silenzio e “rinnega se stesso”, è rinnegamento di sé.

Il nostro mondo e il mondo sacro: qui sta la differenza tra l’egoismo sincero e quello che rinnega se stesso, inconfessato, che striscia in incognito.

Ma come stanno le cose con l’esempio di Feuerbach dell’etera e dell’amata? Nel primo caso è un rapporto d’affari senza interesse personale (e in innumerevoli altri casi, completamente diversi, non finirà tutto in un rapporto d’affari, se non si avrà sempre un interesse per la persona con cui si ha a che fare, cioè un interesse ad personam?); nel secondo caso è un rapporto personale. Ma qual è il senso di quest’ultimo rapporto? Senz’altro il vicendevole interesse alla persona. Se questo interesse alla persona scomparisse dal rapporto, questo interesse non avrebbe più senso. Infatti questo interesse soltanto è il suo pensiero. Ora, che cos’è il matrimonio, che è esaltato come un “sacro rapporto”, se non la fissazione di un rapporto interessante, malgrado il pericolo che esso diventi non interessante e senza senso? Si dice bensì che il matrimonio non deve essere scisso “con leggerezza”. Ma perché? Perché la leggerezza è “peccato”, se si tratta di “cosa sacra”. Non deve esserci leggerezza. Ecco allora un egoista che viene gabbato dalla sua leggerezza e che condanna se stesso a continuare a vivere in un rapporto senza interesse, ma sacro. L’unione egoistica è diventata un “sacro vincolo”: l’interesse reciproco delle persone cessa, il legame senza interesse rimane.

Un altro esempio di cose che non interessano è il lavoro. Esso passa per il compito di tutta la vita, per la vocazione dell’uomo. Da qui deriva l’idea fissa che ci si debba guadagnare il proprio pane e che sia una vergogna avere il pane senza aver fatto nulla per ottenerlo: è l’orgoglio del guadagno. Di per sé il lavorare non ha alcun valore e non fa onore a nessuno, come la vita sfaticata del “lazzarone” non gli è di disdoro. Una delle due: o tu hai un interesse all’attività lavorativa, e ciò non ti lascia tregua, devi per forza lavorare. (Ma in questo caso il lavoro è la tua gioia, la tua soddisfazione particolare, senza che tu per questo stia ad un livello più alto del lazzarone, la cui neghittosità è appunto la sua gioia). Oppure attraverso il lavoro tu insegui un altro interesse, un risultato o un “compenso”, e ti sottoponi ad esso soltanto come ad un mezzo, che conduce ad un fine. (Ma allora esso di per sé non è interessante né pretende in alcun modo di esserlo; e tu puoi ben sapere che esso non è qualcosa di pregevole o sacro di per sé, ma solo una cosa adesso inevitabile per ottenere il risultato inteso, cioè la ricompensa). Ma il lavoro, che viene considerato come l’“onore dell’uomo” e come la sua “vocazione”, è diventato il creatore dell’economia nazionale e rimane il signore del socialismo sacro. Infatti, secondo il socialismo, in quanto “lavoro umano” esso deve “perfezionare le capacità umane”; e questo perfezionamento è affare di vocazione umana, qualcosa di assolutamente interessante. (Di ciò diremo altre cose più avanti).

Credere che qualcosa di diverso dall’interesse possa giustificare la dedizione ad una cosa; questo credere in qualcosa, che va oltre l’interesse, genera il disinteresse, anzi il “peccato” inteso come attaccamento al proprio interesse.

Soltanto davanti all’interesse sacro l’interesse proprio diventa “interesse privato”, “egoismo” detestabile, “peccato”. Nel libro, Stirner indica brevemente la differenza tra interesse sacro e interesse proprio a questo modo: “Contro quello posso peccare; contro questo posso soltanto comportarmi con leggerezza”.

L’interesse sacro è ciò che non è interessante, perché è un interesse assoluto o un interesse per sé, indipendentemente dal fatto che tu ci trovi interesse o meno. Tu devi rendertelo tuo interesse; non è tuo originariamente, non è generato da te, ma è un interesse eterno, universale, puramente umano. Esso non è interessante, perché in esso non si trova un riguardo verso di te o verso il tuo interesse; è un interesse senza l’interessato, perché è un interesse universale o un interesse dell’uomo. E siccome tu non ne sei il proprietario, ma devi diventarne sostenitore e servitore, per questo cessa l’egoismo nei suoi confronti e inizia il “disinteresse”.

Se tu ti prendi a cuore un interesse sacro, resti prigioniero e sarai ingannato circa i tuoi interessi propri. Se tu canonizzi l’interesse che oggi persegui, domani ne sarai schiavo. Ogni comportamento verso qualcosa di interessante in modo assoluto o pregevole in sé e per sé, è comportamento religioso o semplicemente religione. Ciò che è interessante può essere appunto interessante soltanto per il tuo interesse; ciò che è pregevole può essere appunto pregevole soltanto per il fatto che tu gli attribuisci un pregio. Al contrario ciò che è interessante contro la tua volontà è non-interessante, e ciò che è pregevole contro la tua volontà è cosa spregevole.

L’interesse di quegli spiriti, come l’interesse della società, dell’uomo, dell’essere umano, degli uomini nel loro complesso, il loro “interesse essenziale”, è un interesse a te estraneo e deve essere il tuo interesse. L’interesse della tua amata è il tuo interesse e solo nella misura in cui è il tuo interesse, ti interessa davvero. Solo allorché cessa di essere il tuo interesse, può diventare un interesse sacro, un interesse cioè che deve esserci, anche se non è il tuo. Quello che finora è stato un rapporto interessante diventa adesso un rapporto senza interesse.

Nei rapporti d’affari e nel rapporto personale il tuo interesse viene per primo, e ogni sacrificio avviene solo a vantaggio di questo tuo interesse; al contrario nel rapporto religioso viene per primo l’interesse religioso, l’interesse dell’assoluto o dello spirito, cioè l’interesse a te estraneo; i tuoi interessi devono essere sacrificati a questo interesse estraneo.

L’egoismo ingannato consiste perciò nel credere a qualcosa che interessa assolutamente; nel credere ad un interesse che non proviene dall’egoista – cioè da chi è interessato – nel credere ad un interesse che si impone all’interessato, ad un interesse stabile di per sé, ad un interesse “eterno”. L’egoista è “ingannato” proprio perché il suo proprio interesse, l’“interesse privato”, non solo non viene preso in considerazione, ma addirittura viene condannato e tuttavia rimane “egoismo”, perché egli si prende a cuore anche questo interesse estraneo o assoluto soltanto nella speranza che gli procuri un piacere.

Questo assolutamente interessante, che deve essere interessante senza l’interessato, che invece di essere affare di un singolo deve essere piuttosto “la guardia del suo onore”, o si cerca uomini che siano i suoi “arnesi e strumenti”, Stirner lo chiama semplicemente “il sacro”. Difatti il sacro è l’assolutamente non-interessante, dato che pretende di essere interessante anche se nessun uomo se ne interessa. Esso è anche l’interessante in senso generale, cioè senza oggetto, perché esso non è qualcosa che interessi in modo unico, un interesse del singolo. In altre parole: questo “interesse generale” è più di te, è qualcosa di “più alto”; anche senza di te è un “assoluto”; è un interesse di per sé, qualcosa di estraneo a te; pretende da te che tu lo serva, e ti trova disposto, se tu ti lasci abbindolare.

Per restare alla commovente presentazione dell’etera di Feuerbach, abbiamo qui un uomo o una donna che volentieri vorrebbero essere impudichi, perché lo stimolo di natura non li lascia in pace. Ma – essi si dicono – tu lo sai che cos’è l’impudicizia? È un peccato, una volgarità; ci disonora. Se essi dicessero: “Attraverso l’impudicizia noi ci giocheremmo altri interessi, che per noi sono più importanti di questo piacere dei sensi”, questo non sarebbe uno scrupolo religioso ed essi offrirebbero il loro sacrificio non alla castità ma ad altri vantaggi, che non vogliono perdere. Se essi invece rinunciano a soddisfare gli impulsi di natura per amore della castità, allora ciò accade per scrupolo religioso. Che interesse hanno per la castità? Senz’altro non un interesse naturale: infatti la loro natura consiglia loro l’impudicizia. Il loro vero, evidente e innegabile interesse è l’impudicizia. Ma la castità è uno scrupolo del loro spirito, perché essa è un interesse dello spirito, un interesse spirituale: essa è un interesse assoluto, davanti al quale devono tacere gli interessi naturali e gli “interessi privati”. Quell’interesse assoluto rende pieno di scrupoli il loro spirito. Ora questi scrupoli gli uni allontanano di colpo esclamando: “Sciocchezze!”, perché per quanto possano essere altrimenti religiosi o pieni di scrupoli, qui un istinto dice loro che lo spirito è un despota d’umore tetro contro gli impulsi di natura. Altri invece superano quegli scrupoli attraverso un’ulteriore riflessione e si mettono al riparo anche sul piano teorico: quelli reprimono gli scrupoli, questi dissolvono gli scrupoli attraverso la loro virtuosità nel pensare.[4] – L’impudicizia e l’etera paiono dunque così orribili solo perché urtano contro l’“interesse eterno” della castità.

Solo lo spirito ha sollevato le difficoltà, ha creato gli scrupoli; dal che sembra derivare che questi possano di nuovo essere fugati soltanto spiritualmente o attraverso il pensare. In che gravi difficoltà si troverebbero quelle povere anime, che si lasciano indurre ad avere quegli scrupoli senza possedere quella capacità di pensare, attraverso cui potrebbero dominare quegli scrupoli! Che guaio, se dovessero aspettare finché la critica pura ridia loro la libertà! Ma essi si aiutano per intanto con una sana leggerezza dozzinale e mediocre, che è proprio così buona per le loro necessità quanto lo è il libero pensare per la critica pura: infatti il critico, in quanto virtuoso del pensare, ha un conato impetuoso a superare gli scrupoli attraverso il pensare.

Gli scrupoli sono appunto qualcosa di così quotidiano quanto il parlare o il chiacchierare. Che ci sarebbe dunque da ridire a loro riguardo? Niente: solo che gli scrupoli quotidiani non sono scrupoli sacri. Gli scrupoli quotidiani vanno e vengono; invece gli scrupoli sacri rimangono e sono assoluti, sono scrupoli assoluti (dogmi, articoli di fede, princìpi). Contro di essi si solleva l’egoista, il dissacratore: egli mette alla prova la sua forza egoistica contro il loro potere sacro. Ogni “libero pensare” è dissacrazione degli scrupoli e un egoistico darsi da fare contro il loro sacro potere. Se anche un certo libero pensare, dopo alcuni passi di carica, si arresta e si blocca davanti ad un nuovo scrupolo sacro, davanti al quale l’egoismo diventa un’infamia, tuttavia il libero pensare nella sua forma più libera – cioè la critica pura – non si ferma davanti ad alcuno scrupolo assoluto e dissacra con costanza egoistica uno scrupolo sacro dopo l’altro. Siccome però questo liberissimo pensare è soltanto un pensare egoistico, soltanto libertà di pensiero, diventa esso stesso sacro potere del pensare e annuncia il vangelo che la redenzione può solo trovarsi nel pensare. Soltanto il pensare si presenta come una cosa sacra, come una vocazione dell’uomo, come un sacro riflettere; soltanto il riflettere (conoscere) dissolve quindi gli scrupoli.

Se gli scrupoli potessero essere dissolti soltanto pensando, gli uomini non diverrebbero mai tanto “maturi” da disfarsene. La scrupolosità, anche se arriva ad essere riflessione pura o critica pura, è pur sempre soltanto religiosità; il religioso è chi è pieno di scrupoli. E resta scrupolosità, se si ritiene di poter eliminare lo scrupolo soltanto attraverso la riflessione e dunque si disprezza la “comoda” mancanza di scrupoli come “l’egoistica ripugnanza alla fatica della massa”.

All’egoismo pieno di scrupoli manca solo di riconoscere quello privo di scrupoli per mettere l’accento sull’egoismo invece che sulla scrupolosità e per riconoscere come vincitore l’egoista, non importa se egli vince col pensare o con la mancanza di scrupoli.

Con ciò si “rigetta” forse il pensare? No, solo gli si contesta il suo carattere sacro, lo si rinnega soltanto come scopo o vocazione; lo si lascia invece come mezzo ad ognuno che sia capace di usarlo. Scopo del pensare è piuttosto l’assenza di scrupoli; come in ogni singolo caso chi pensa mira pensando a trovare finalmente il punto giusto, o ad essere sollevato dal riflettere e a farla finita con questa cosa. Ma se si vuole canonizzare “il lavoro del pensiero” o – il che è lo stesso – chiamarlo “umano”, allora si assegna agli uomini una vocazione non meno che se si prescrive loro la fede, e li si allontana dalla mancanza di scrupoli invece di condurli ad essa come all’autentico o egoistico senso del pensare. Si inducono gli uomini alla scrupolosità e alla circospezione, promettendo loro una “salvezza” nel pensare; ma coloro che sono deboli nel pensare e che si lasciano indurre a pensare, a motivo della loro debolezza nel pensare non possono fare altro che acquietarsi con qualche pensiero, cioè diventando credenti. Invece di essere alleggeriti degli scrupoli, diventeranno scrupolosi, perché si immagineranno che la salvezza stia nel pensare.[5]

Eppure gli scrupoli, creati dal pensare, esistono e possono senz’altro essere anche eliminati attraverso il pensare. Ma questo pensare, questa critica raggiunge il suo scopo soltanto se è un pensare egoistico, critica egoistica; cioè se l’egoismo d’interesse viene fatto valere contro gli scrupoli o contro ciò che non è interessante; se l’interesse è riconosciuto apertamente e se l’egoista esercita una critica da egoista, invece di esercitarla da cristiano, da socialista, da umanista, da libero pensatore, da uomo spirituale.[6] Infatti l’interesse dell’unico, e dunque il tuo interesse, viene calpestato sotto i piedi proprio del mondo sacro e umano; e questo stesso mondo, al quale per esempio Hess e Szeliga rimproverano di essere egoista, da millenni ha legato invece l’egoista al palo della vergogna ed ha fanaticamente sacrificato l’egoismo ad ogni cosa “sacra”, che provenga dall’ambito del pensiero o della fede. Noi non viviamo in un mondo egoistico, ma in un mondo completamente sacro fin nei minimi brandelli di proprietà.

Potrebbe sembrare che debba essere affidato ad ogni singolo come egli possa eliminare i suoi scrupoli; ma che sia nondimeno compito della storia di sciogliere gli scrupoli attraverso la riflessione critica. Però proprio questo contesta Stirner; e proprio contro questo “compito della storia” egli afferma che la storia degli scrupoli e della riflessione su di essi volge al termine. Non il lavoro di dissoluzione degli scrupoli ma l’arbitrio, che non fa tanti complimenti con gli scrupoli; non la forza del pensiero, ma la forza dell’assenza di scrupoli sembra essere in arrivo. Il pensare può servire soltanto a fortificare e a rendere più stabile l’assenza di scrupoli. Il “libero pensiero” che prese avvio dalla ribellione egoistica e priva di scrupoli contro gli scrupoli sacri, cominciò con la mancanza di scrupoli; chi liberamente pensa si rende senza scrupoli a riguardo degli scrupoli più sacri: la mancanza di scrupoli è l’anima e il valore egoistico del libero pensiero. Il valore di questo pensare non sta in chi pensa ma nell’egoista, il quale pone egoisticamente il suo potere, la sua capacità di pensare, al di sopra degli scrupoli sacri e li aggredisce.

Nel libro, proprio per questa mancanza di scrupoli, Stirner ha usato espressioni come “scossa, scatto, grido prorompente di giubilo”. Egli dice: “La lunga notte del pensare e della fede non poté conoscere l’enorme importanza dell’esultanza spensierata”. Con ciò egli non ha indicato nulla di meno che, in primo luogo, il fondamento nascosto, egoistico di ogni singola critica del sacro, anche di quella più cieca e accanita; ma, in secondo luogo, anche la semplice forma della critica egoistica, che egli tentava di esercitare attraverso la sua forza di pensiero (una pura virtuosità): egli si sforzava di far vedere come uno che è senza scrupoli possa “far uso” del pensare, criticando gli scrupoli a partire da sé, l’unico. Dunque Stirner non lascia più la “redenzione del mondo” nelle mani di quelli che pensano ed hanno scrupoli.

Questa esultanza e queste grida di gioia possono essere facilmente derise, se si oppone loro la quantità e la grandezza dei profondi scrupoli, che in verità non possono essere superati con così poca fatica. Certo la quantità degli scrupoli, accumulati nella storia e sempre di nuovo eccitati da quelli che pensano, non può essere eliminata con un grido di giubilo. Quelli che pensano non possono tener conto di questo, se il loro pensare non contiene insieme una piena soddisfazione. Infatti la soddisfazione del loro pensare è il loro interesse effettivo. Il pensare non può, per esempio, essere soffocato dall’esultanza, come sul piano della fede il pensare deve essere soffocato dalla fede. Senz’altro in quanto interesse effettivo, e dunque come tuo interesse, esso non si lascerà soffocare. Tu, che hai la necessità di pensare, non puoi allontanare gli scrupoli soltanto esultando; devi allontanarli anche pensando. Ma proprio da questa necessità è sorto il pensiero egoistico di Stirner, ed è stata fatta da lui una prima mossa, pur ancora molto impacciata, per venire incontro all’interesse del pensare attraverso un egoismo privo di scrupoli. Il suo libro dovrebbe dimostrare che il rozzo grido di giubilo, se necessario, ha anche la potenza di diventare un grido di giubilo critico, una critica egoistica.

L’interesse sta alla base dell’egoismo. Ma l’interesse non è un puro nome, un concetto senza contenuto e privo di sviluppo concettuale, allo stesso modo dell’unico? Gli oppositori considerano l’interesse come un “principio”. Ciò implicherebbe che l’interesse venga concepito come assoluto. Il pensiero può essere un “principio”; ma allora esso deve sviluppare se stesso come il pensiero assoluto, come la ragione eterna. Se l’io deve essere “principio”, deve stare alla base come Io assoluto di un sistema costruito su di esso. Così si potrebbe fare dell’interesse un assoluto e derivare da esso, in quanto “interesse umano”, una filosofia dell’interesse; sì, la morale è davvero il sistema dell’interesse umano.

La ragione è una e la stessa: ciò che è razionale, malgrado tutte le stoltezze e gli errori, rimane razionale. La “ragione privata” non ha alcun diritto contro la ragione universale ed eterna. Tu devi e sei costretto ad assoggettarti alla ragione. Il pensiero è uno e lo stesso: ciò che viene effettivamente pensato è qualcosa di vero dal punto di vista logico e rimane invariabilmente vero, nonostante l’erronea persuasione contraria di milioni di uomini. Il pensiero “privato”, l’opinione, deve tacere davanti al pensiero eterno. Tu devi e sei costretto ad assoggettarti alla realtà. Ogni uomo è ragionevole; ogni uomo è uomo solo per il pensiero (il pensare distingue l’uomo dall’animale, dice il filosofo). Ebbene, allo stesso modo anche l’interesse è qualcosa di universale, e ogni uomo è un “uomo interessato”. L’interesse eterno in quanto “interesse umano” si oppone all’“interesse privato”; si sviluppa come “principio” della morale e, fra l’altro, anche del sacro socialismo, e sottomette il tuo interesse alla legge dell’interesse eterno. Esso compare sotto molte forme, per esempio, come interesse dello Stato, interesse della Chiesa, interesse dell’umanità, interesse di “tutti”, per farla breve come il vero interesse.

Ma il “principio” di Stirner sta in questo interesse, nell’interesse? O non eccita invece il tuo unico interesse contro ciò che è “eternamente interessante”, contro il “non-interessante”? E il tuo interesse è un “principio”, un pensiero logico? Esso è, come l’unico, una frase nel regno del pensiero; ma in te è unico, come te stesso.

È necessario dire ancora una parola sull’uomo. A quanto sembra, il libro di Stirner è scritto contro l’uomo. A causa di questo, come pure a causa della parola “egoista”, egli si è tirato addosso i giudizi più cattivi o ha suscitato i più ostinati pregiudizi. – Sì, è scritto effettivamente contro l’uomo. E Stirner avrebbe ugualmente potuto andar dritto allo stesso scopo senza offendere così gravemente la gente, se egli avesse ribaltato le cose e avesse detto che egli scriveva contro il non-uomo. Ma allora egli avrebbe avuto una responsabilità solo se fosse stato erroneamente compreso in modo opposto, cioè sentimentale, e fosse stato collocato nelle fila di coloro che elevano la loro voce per il “vero uomo”. Ma dice Stirner: l’uomo è il non-uomo; ciò che è l’uno è anche l’altro; ciò che si dice contro l’uno è detto anche contro l’altro.

Se si misura un essere con un concetto, esso non sarà mai trovato corrispondere perfettamente a questo concetto: se si misura te con il concetto di uomo, risulterà sempre che tu sei qualcosa di particolare; qualcosa che non può essere espresso con la parola “uomo”; dunque in ogni caso un uomo particolare. Ma se ci si aspettasse che tu fossi senz’altro uomo e nient’altro che uomo, e se tu non potessi cancellare il tuo carattere particolare tu saresti un non-uomo, cioè un uomo che non è veramente un uomo, o un uomo che è veramente un non-uomo. Il concetto di uomo avrebbe la sua realtà proprio nel non-uomo.

Il fatto che ogni uomo reale, misurato col concetto di uomo, è un non-uomo, la religione l’ha espresso con l’affermazione che tutti gli uomini sono “peccatori” (la coscienza del peccato). Oggi il peccatore si chiama “egoista”. E a che cosa ci si decise in conseguenza di questo giudizio? A redimere il peccatore, a superare l’egoismo, a trovare e ad attuare il vero uomo. Si respinse ciò che è particolare, cioè l’unico, a vantaggio del concetto; si respinse il non-uomo a vantaggio dell’uomo; e non si riconobbe che il non-uomo è la giusta e unica realtà possibile dell’uomo; si volle senz’altro una realtà veramente umana dell’uomo.

Ma si voleva una cosa assurda. L’uomo è realmente ed effettivamente nel non-uomo; ogni non-uomo è l’uomo. Ma tu sei non-uomo soltanto in quanto sei la realtà dell’uomo; sei non-uomo soltanto in confronto col concetto di uomo.

Tu sei non-uomo, e perciò sei perfettamente uomo, uomo reale ed effettivo; tu sei un uomo perfetto. Ma tu sei precisamente più che un uomo perfetto; tu sei un uomo particolare, unico. Uomo e non-uomo, queste contrapposizioni del mondo religioso, perdono il loro significato divino e diabolico, e quindi sacro o assoluto, in te, l’unico.

L’uomo, per riconoscere il quale i nostri santi tanto si struggono nel senso che essi sempre si agitano perché si riconosca l’uomo nell’uomo, viene perfettamente e realmente riconosciuto solo quando è riconosciuto come il non-uomo. Se egli viene riconosciuto come tale, cessano tutte le pretese religiose o “umane”, e il dominio dei buoni, la gerarchia, trova la sua fine, perché l’unico, l’uomo del tutto comune (non il virtuoso “uomo comune” di Feuerbach) è insieme l’uomo perfetto.

Dunque Stirner, scrivendo contro l’uomo, scrive anche contemporaneamente contro il non-uomo in quanto opposto dell’uomo; ma scrive non contro l’uomo che è non-uomo, e non contro il non-uomo che è uomo: in altre parole, egli scrive per l’unico il quale, per il fatto che è non-uomo, è senz’altro e di per sé uomo perfetto.

Soltanto dei pii, soltanto dei sacri socialisti, ecc., soltanto dei santi di ogni genere impediscono che l’uomo sia riconosciuto e apprezzato nell’uomo; solo essi reprimono il puro rapporto umano, per il fatto che essi hanno sempre limitato e mirano a limitare il comune rapporto egoistico. Essi hanno introdotto un rapporto sacro e, se possibile, vorrebbero fare di esso il rapporto più sacro.


In verità Szeliga dice ancora molte cose su ciò che è l’egoista e l’egoismo; ma di fatto ha esaurito il tutto nel suo esempio della signorina ricca e della moglie litigiosa. Egli descrive l’egoista come “restio alla fatica”, come un uomo che “spera che gli volino in bocca piccioni arrostiti”, che “non nutre delle vere speranze, degne di questo nome”, ecc.; con ciò egli intende un uomo che se la prende comoda. Se avesse subito definito l’egoista come un poltrone, la cosa sarebbe stata ancor più chiara e semplice.

Come Szeliga fa già capire che il suo egoista potrebbe essere misurato soltanto su di un assoluto, in quanto lo misura sul metro delle “vere speranze”, così Feuerbach, il quale di solito è più capace di trovare parole azzeccate, esprime già la cosa in modo più deciso affermando che l’egoista “sacrifica ciò che è più elevato a ciò che è più basso”; e che il non-egoista “sacrifica ciò che è più basso a ciò che è più elevato”. – Ma che cos’è “più elevato e più basso”? Non forse qualcosa che prende norma da te e di cui tu sei la misura? Se qualcosa valesse per te e per te precisamente in questo momento – perché solo in questo momento tu sei tu, tu sei reale solo al momento; come “tu in generale” saresti invece un “altro” in ogni momento – come “più elevato” di qualcos’altro, non lo sacrificheresti a quest’ultimo. Invece tu sacrifichi in ogni momento soltanto ciò che proprio in ogni momento vale per te come “più basso” o come meno importante. Quindi, se ciò che è “più elevato” secondo Feuerbach deve avere un senso, deve essere una cosa più elevata indipendente e separata da te, che sei momentaneo; deve essere una cosa assolutamente più elevata. Una cosa assolutamente più elevata è una cosa che non ti domanda dapprima se per te è più elevata, ma è più elevata tuo malgrado. Solo così si può parlare di una cosa più elevata e di un “godimento più elevato”, che “viene sacrificato”. Nell’esempio di Feuerbach una simile cosa più elevata è il godimento dell’amata in confronto al godimento dell’etera, o l’amata in confronto all’etera: quella è ciò che è elevato, questa ciò che è basso. Che per te l’etera sia forse il godimento più elevato, che in questo momento sia per te l’unico godimento che tu brami, che cosa importa a cuori grandi e nobili, come Feuerbach, che provano piacere soltanto con l’“amata” e decretano, secondo il metro del loro cuore puro, che l’amata deve essere ciò che è “più elevato”! Solo chi è affezionato ad un’amata, non chi è affezionato ad un’etera, “soddisfa tutto il suo essere pieno”. E in che cosa consiste tutto questo essere pieno? Appunto non nel tuo essere momentaneo; non in quell’essere che tu sei al momento; anzi neppure in quell’essere che tu sei in genere, bensì nell’“essere umano”. Per l’essere umano l’amata è la cosa più elevata. – Chi è dunque l’egoista secondo Feuerbach? Chi pecca contro ciò che è più elevato, che è assolutamente più elevato (cioè ciò che è più elevato, nonostante il tuo interesse contrario), contro ciò che non è interessante: dunque l’egoista è il peccatore. Anche Szeliga avrebbe finito col dire la stessa cosa dell’egoista, se fosse stato capace di esprimersi meglio.

Soltanto Hess afferma nel modo più chiaro che l’egoista è il peccatore. Per cui anche soltanto Hess riconosce completamente e manifestamente di non aver minimamente capito ciò di cui tratta il libro di Stirner. Nega forse Stirner che l’egoista è il peccatore e che l’egoismo “cosciente” (“cosciente” come lo intende Hess) è la coscienza del peccato? Se l’europeo uccide un coccodrillo, egli agisce da egoista nei confronti del coccodrillo; ma non ne ha coscienza o non lo avverte come un “peccato”. Se invece un antico egiziano, che riteneva animale sacro il coccodrillo, ne avesse ucciso uno per legittima difesa, avrebbe bensì difeso come egoista la sua vita, ma insieme avrebbe commesso anche un peccato: il suo egoismo sarebbe peccato, e lui, l’egoista, sarebbe un peccatore. – Di qui potrebbe apparire chiaro che l’egoista è necessariamente un peccatore di fronte al “sacro”, di fronte a ciò che è “più elevato”; se egli fa valere il suo egoismo contro ciò che è sacro, questo è senz’altro peccato. Ma, d’altra parte, è anche peccato soltanto finché esso è misurato sul sacro; e soltanto quell’egoista che è invasato dalla coscienza del sacro si trascina in giro con la “coscienza del peccato”. Un europeo, che si fa assassino di un coccodrillo, si rende parimenti conto del suo egoismo o agisce da egoista cosciente; ma non ritiene che il suo egoismo sia peccato e deride la coscienza del peccato che al riguardo ha l’egiziano.

Di fronte al sacro l’egoista è dunque un peccatore; di fronte al sacro egli non può diventare altro che un reo. Il coccodrillo sacro bolla l’uomo egoista come uomo peccatore. L’egoista può allontanare da sé il peccato e la qualifica di peccatore, soltanto se dissacra il sacro: come l’europeo ammazza senza peccato il coccodrillo, perché sua santità il coccodrillo è per lui un coccodrillo senza santità.

Hess dice: “Il mondo attuale di trafficanti è la forma mediata, corrispondente al suo carattere, cosciente e di principio dell’egoismo”. Questo mondo attuale pieno di filantropia, che in linea di principio va completamente d’accordo col socialismo (si veda, per esempio, come nello Specchio della società e nel Piroscafo della Westfalia i “princìpi” dei socialisti siano proprio identici ai “pensieri della domenica” e agli ideali di tutti i buoni borghesi); questo mondo, in cui i più lasciano che le cose sacre li privino del loro tornaconto, e in cui gli ideali di amore fraterno, di amore per gli uomini, di diritto, di giustizia, di “essere per gli altri” e agire per gli altri, ecc., non solo passano di bocca in bocca ma hanno una serietà terribile e rovinosa; questo mondo, che ardentemente brama l’umanità vera e spera di trovare finalmente la giusta redenzione presso i socialisti, i comunisti, e i filantropi di ogni genere; questo mondo, in cui le aspirazioni socialiste non sono altro che l’intendimento manifesto di ogni “anima di trafficante” e trovano il favorevole consenso di tutti i benpensanti; questo mondo, il cui principio è il “bene di tutti gli uomini”, il “bene dell’umanità”, e che sogna questo bene soltanto perché non sa ancora come produrlo e non si fida ancora dell’attuazione socialista della sua idea preferita; questo mondo, che è in violenta polemica contro ogni egoismo, Hess chiama con disprezzo “mondo egoistico”. Egli ha nondimeno ragione. Siccome questo mondo è in polemica col diavolo, questo sta seduto sulle sue spalle. Solo che Hess avrebbe dovuto mettere anche il sacro socialismo sul conto di questo mondo egoistico e conscio di peccare.

Hess chiama la libera concorrenza la forma perfetta di assassinio per rapina e insieme la perfetta coscienza del vicendevole estraniamento umano (dell’“egoismo”). Qui l’egoismo deve un’altra volta portare la colpa. Ma perché ci si è decisi per la concorrenza? Perché essa sembrava utile per tutti e per ognuno. E perché adesso i socialisti vogliono eliminarla? Perché essa non ha garantito l’utilità sperata; perché intanto i più stanno male; perché ognuno vuole migliorare la sua situazione e a questo scopo sembra consigliabile eliminare la concorrenza. Ma qui l’egoismo è il “principio fondamentale” della concorrenza o invece gli egoisti hanno soltanto fatto male i loro conti a riguardo di essa? Non devono essi non praticarla più, proprio perché essa non soddisfa il loro egoismo?

La concorrenza è stata introdotta, perché vi si vide una salvezza per tutti, ci si trovò d’accordo su di essa, la si esperimentò in comune. Essa, che è isolamento e divisione, è essa stessa un prodotto dell’unione, dell’accordo, della medesima persuasione: e per essa ci si trovò non soltanto isolati, ma pure collegati. Essa fu una condizione legittima; il diritto fu un vincolo comune, un legame sociale. Ci si trova d’accordo, per così dire, sulla concorrenza come in una battuta di caccia tutti i cacciatori possono trovare conveniente per il loro scopo o per i loro scopi spargersi nel bosco e cacciare “isolati”. Si poteva discutere che cosa fosse più utile. Certo ora si vede – il che del resto non sono stati i socialisti a scoprire per primi – che in regime di concorrenza non tutti trovano il loro guadagno, il loro desiderato “profitto privato”, la loro utilità, il loro vero e proprio interesse. Ma ancora una volta lo si vede soltanto attraverso un calcolo egoistico o interessato.

Ora intanto ci si è fatta la propria immagine dell’egoismo; e per egoismo si intende semplicemente l’“isolamento”. Ma che cosa ha mai a che fare l’egoismo con l’isolamento? Diventerò Io (Ego), per esempio, egoista per il fatto che fuggo gli uomini? Certo mi isolo e sto da solo; ma per ciò stesso non sono per nulla più egoista di altri, che rimangono in mezzo agli uomini e godono della loro compagnia. Se mi isolo, è perché non trovo più alcun piacere in società; ma se resto fra gli uomini, ci resto perché essi hanno ancora molto da offrirmi. Il restare non è meno egoistico che il separarsene.

Nella concorrenza ognuno sta senz’altro isolato. Se però un giorno la concorrenza verrà meno, perché si capirà che la cooperazione è più utile che il fare da soli, allora nelle varie associazioni ognuno non sarà ugualmente egoista e non vorrà forse la propria utilità? Si ribatte che però la si vuole a spese degli altri. Sì, ma innanzitutto non soltanto a spese degli altri, perché gli altri non vogliono più essere così stupidi da voler lasciar vivere il singolo egoista a loro spese.

Tuttavia “egoista è chi pensa solo a se stesso”. Costui sarebbe un uomo che non conosce e non gusta tutte le gioie che provengono dal fatto di condividere con gli altri, cioè dal fatto di “pensare” anche agli altri; sarebbe un uomo che si priva di innumerevoli piaceri, cioè un poveretto. Ma perché questo reietto e isolato deve essere un egoista in confronto a delle nature più ricche? Noi potremmo senz’altro esserci abituati da un pezzo al fatto che la povertà passa per disonore, anzi per un delitto: e i sacri socialisti hanno dimostrato in modo convincente che il povero viene trattato come un reo. Ma i sacri socialisti si comportano con coloro che ai loro occhi sono dei poveri spregevoli proprio come i borghesi si comportano con i loro poveri.

Ma perché chi è più povero nei confronti di un certo interesse deve esser detto “più egoista” di chi ha quell’interesse? L’ostrica è più egoista del cane? Il moro è più egoista del tedesco? Il povero disprezzato rigattiere ebreo è più egoista del socialista entusiasta? Il vandalo, che distrugge opere d’arte che non sa apprezzare, è più egoista dell’intenditore che si prende cura di quelle opere d’arte con grandissimo amore, perché le sa apprezzare ed ha interesse per loro? E se uno – a prescindere dal fatto che si possa dimostrare che costui esista – non avesse alcun interesse “umano” per gli uomini; se egli non sapesse apprezzarli come uomini, non sarebbe un egoista più povero nei confronti di un dato interesse, invece di essere – come dicono gli avversari dell’egoismo – un mostro di egoismo? Chi ama un uomo, per questo amore è più ricco di un altro che non ama nessuno: ma in ciò non abbiamo una contrapposizione di egoismo e non-egoismo, poiché tutt’ due seguono soltanto il loro interesse.

Ma ognuno deve avere interesse per gli uomini, amore per gli uomini!

Ora, osservate bene fin dove arrivate con questo dovere, con questo comandamento dell’amore. Già da duemila anni l’amore viene raccomandato agli uomini: e, ciononostante, oggi i socialisti si lamentano che i nostri proletari sono trattati senza amore, come gli schiavi dell’antichità; e, ciononostante, gli stessi socialisti ancora una volta levano alta la loro voce a favore di questo comandamento dell’amore.

Se voi volete che gli uomini abbiano interesse per voi, estorcete loro un interesse e non restate dei santi non-interessanti, che presentano la loro sacra umanità come un abito sacro e gridano come mendicanti: “Rispettate la nostra umanità, che è sacra!”.

L’egoismo, così come lo presenta Stirner, non è il contrario dell’amore, il contrario del pensare; non è nemico di una vita di dolce amore; non è nemico dell’intima cordialità; ma neppure nemico della critica, non è nemico del socialismo. Per farla breve, non è nemico di un interesse effettivo: non esclude alcun interesse. Esso è contrario soltanto al disinteresse e a ciò che non è interessante: non è contro l’amore ma contro l’amore sacro; non contro il pensare ma contro il pensare sacro; non contro i socialisti ma contro i socialisti sacri, ecc.

L’“esclusività” dell’egoista, che si vorrebbe far passare per “isolamento, separazione, star da soli”, è invece piena partecipazione a ciò che è interessante attraverso l’esclusione di ciò che interessante non è.

Non si è voluto contare a vantaggio di Stirner la sezione più ampia del suo libro, intitolata “I miei rapporti”, i rapporti mondiali e l’associazione degli egoisti.


Per quanto riguarda il carattere particolare dei suddetti tre oppositori, sarebbe un lavoro uggioso volersi fermare su tutti i loro passi equivoci. Ma non può neppure essere mia intenzione per questa volta addentrarmi più particolareggiatamente in quei princìpi, che gli oppositori sostengono o vorrebbero sostenere, cioè nella filosofia di Feuerbach, nella critica pura e nel socialismo. Ognuno di essi merita una trattazione propria, per la quale si troverà un’altra occasione. Perciò dirò soltanto qualcosa per ognuno.

Szeliga

Szeliga comincia subito così: “La critica pura ha dimostrato, ecc.”, come se Stirner non avesse parlato di questo “soggetto”. Nelle prime due pagine Szeliga si presenta come il “critico, che è mosso dalla critica stessa a porsi come una sola cosa con l’oggetto da considerare, a riconoscerlo come spirito nato dallo spirito, a collocarsi all’interno della cosa da combattere”, ecc. Come abbiamo mostrato, Szeliga non si è collocato almeno all’interno del libro di Stirner; e perciò noi qui non lo vogliamo neppure considerare come il critico puro, ma semplicemente come uno dei tanti che recensiscono il libro. Ciò che la critica fa fare a Szeliga, noi lo consideriamo come fatto da Szeliga, senza badare se “la critica” farebbe proprio la stessa cosa. E così, per esempio, invece di dire: “La critica seguirà il curriculum vitae dell’unico”, noi diremo: “Szeliga seguirà...”.

Se Szeliga esprime concettualmente uno dei suoi pensieri con la parola “scimmia”, potrebbe anche darsi che la critica pura renda un tale pensiero con un’altra parola. Le parole non sono certamente indifferenti né per la critica né per Szeliga. E si farebbe un torto alla critica, se le si volesse imporre senz’altro la scimmia di Szeliga al posto di un pensiero, che ha forse un’altra sfumatura: la scimmia è la vera espressione di pensiero soltanto del pensiero di Szeliga.

Da pag. 24 a pag. 32 del suo lavoro Szeliga perora espressamente la causa della critica pura, ma la critica pura non potrebbe trovare abbastanza goffa questa maniera poetica di perorare la sua causa?

Noi non accettiamo il suo richiamarsi alla musa critica, che lo ha ispirato o “spinto”; e sorvoliamo su tutto quanto egli dice a lode della sua musa, anche sul “fatto nuovo dell’auto-perfezionamento, per il quale l’unico (cioè Stirner, che Szeliga, Feuerbach e Hess chiamano l’“unico”!) le ha offerto l’occasione”.

Come Szeliga sappia seguire il curriculum vitae dell’unico, lo si vedrà, se si confronterà per esempio la p. 6 (primo capoverso del suo saggio) con le pagine relative de L’unico. Alla “spensieratezza” di Stirner, quale mancanza di coraggio, Szeliga contrappone il “coraggio di pensare”. Perché “non si colloca poi all’interno di questa cosa da combattere”, perché non esamina se quella spensieratezza non si concili perfettamente col coraggio di pensare? Proprio a riguardo di questo argomento egli avrebbe dovuto cercare di “porsi come un’unica cosa con l’oggetto da considerare”. Ma chi avrà voglia di porsi come un’unica cosa con un oggetto così spregevole come la spensieratezza? Al solo nominarla, viene voglia di sputare per disprezzo.

Della critica pura Stirner aveva detto: “Dal punto di vista del pensiero non vi è alcuna forza, che potrebbe essere superiore alla sua; ed è un piacere il vedere come questo drago facilmente inghiotta, come fosse un gioco, ogni altro verme del pensiero”. Ora, siccome sembra a Szeliga che anche Stirner faccia della critica, egli ritiene che “l’unico adeschi (come scimmia) il drago – la critica – e lo aizzi a inghiottire il verme del pensiero, innanzitutto quello della libertà e dell’altruismo”. Ma quale critica usa Stirner? Probabilmente non la critica pura, dato che questa – proprio secondo le parole di Szeliga – combatte solo la libertà “particolare” in nome della libertà “vera” per “acquisire finalmente l’idea della vera libertà umana o l’idea della libertà in genere”. Che cos’ha a che fare la critica egoistica, e dunque per niente “pura”, di Stirner con “l’idea dell’altruistica vera libertà umana, con la libertà che non è un’idea fissa, perché (molto acuto questo perché!) essa non prende dimora stabile nello Stato o nella società o in una fede o in alcunché di particolare; ma si riconosce in ogni uomo, in ogni coscienza di sé, lascia ad ogni singolo la misura della sua stessa libertà, ma anche lo misura secondo questa sua propria misura?”. (L’idea della libertà, che conosce se stessa e che misura ogni uomo secondo la misura in cui egli l’ha accolta in sé! Proprio come Dio conosce se stesso e divide gli uomini in impenitenti ed eletti nella misura in cui lo accolgono, pur “lasciando ad ognuno la misura della sua stessa libertà”).

D’altronde l’unico deve “aver lanciato il drago – la critica – contro un altro verme del pensiero: il diritto e la legge”. Ma di nuovo non è la critica pura ma interessata. Se Stirner esercitasse la critica pura, allora egli dovrebbe – come esprime Szeliga – “esigere la rinuncia al privilegio, al diritto violento, la rinuncia all’egoismo”. Egli dovrebbe dunque condurre il diritto “vero, umano” a combattere contro quello “violento” e ammonire gli uomini ad attenersi al diritto vero. Stirner non usa mai la critica pura, non aizza questo drago contro nulla, non ha mai bisogno di essa e non raggiunge mai i suoi risultati attraverso “la progressiva purezza della critica”. Altrimenti dovrebbe anche immaginarsi, per esempio, come Szeliga, “che l’amore deve dapprima essere una nuova creazione, che la critica vuole suscitare”. Tali magnificenze di Szeliga, quali “la vera libertà, la rinuncia all’egoismo, una nuova creazione dell’amore”, non si presentano proprio alla sua mente.

Come abbiamo detto, noi sorvoliamo sui passi in cui Szeliga perora propriamente la causa della critica contro Stirner, anche se ogni frase dovrebbe essere contestata. In essi giocano un ruolo particolare “la riluttanza alla fatica, la pigrizia, il carattere pigro, la corruzione”. Ma poi si parla della “scienza dell’uomo”, che l’uomo deve creare dal concetto di uomo. A p. 32 si legge: “L’uomo da trovare non è più una categoria, perciò neppure qualcosa di particolare al di fuori degli uomini”. Se Szeliga avesse capito che l’unico, essendo una frase o categoria completamente senza contenuto, non è più una categoria, forse lo avrebbe riconosciuto come “il nome di ciò che per lui è ancora senza nome”. Ma c’è da temere che egli non sappia ciò che dice con le parole: “Non è più una categoria”.

Infine “il fatto nuovo dell’auto-perfezionamento, per il quale l’unico ha offerto l’occasione alla critica pura” consiste nel fatto che “il mondo, che l’unico porta a compimento, si è dato in lui e attraverso di lui la più completa smentita, e nel fatto che la critica può soltanto congedarsi da questo vecchio mondo in frantumi, in sfacelo e putrefazione”. Bell’auto-perfezionamento!

Feuerbach

Che Stirner abbia letto e capito L’essenza del cristianesimo di Feuerbach, potrebbe essere dimostrato soltanto attraverso una critica particolare dei suoi scritti, che qui non può essere presentata. Ci limitiamo perciò ad alcune poche cose.

Feuerbach crede di parlare secondo l’intenzione di Stirner, quando dice: “Questo è proprio un segno della religiosità di Feuerbach, del fatto che Feuerbach è vincolato: egli è ancora innamorato di un oggetto, egli vuole ancora qualcosa, egli ama ancora qualcosa: segno che egli non si è ancora slanciato verso l’assoluto idealismo dell’egoismo”. Ma intanto Feuerbach ha letto i passi seguenti de L’unico? Per esempio: “Il senso della legge dell’amore è all’incirca questo: ogni uomo deve avere qualcosa, che per lui vale più di se stesso”. Questo qualcosa dell’amore sacro è un fantasma. Oppure: “Chi è pieno di amore sacro (religioso, morale, umano), ama soltanto un fantasma, ecc.”. Inoltre, per esempio: “Non in quanto mio sentimento l’amore è una ossessione, ma a motivo dell’estraneità dell’oggetto, dell’assoluta amabilità dell’oggetto, ecc.”. E: “Il mio amore è proprio mio, soltanto se esso consiste in un interesse completamente egoistico, e quindi l’oggetto del mio amore è realmente oggetto mio o proprietà mia”. “Io mi attengo al vecchio suono dell’amore e amo il mio oggetto”, cioè il mio “qualcosa”.

Feuerbach intende la frase di Stirner: “Io ho riposto la mia causa su nulla”, come un’affermazione de “Il nulla”, e ne ricava che l’egoista è un pio ateo. Il nulla è certamente una definizione di Dio. Qui Feuerbach gioca con una parola, con cui Szeliga si affatica feuerbachianamente (“Norddeutsche Blätter für Kritik, Litteratur und Unterhaltung”, p. 33). Del resto, ne L’essenza del cristianesimo, si dice: “Vero ateo è soltanto colui per il quale i predicati dell’essere divino – come l’amore, la sapienza, la giustizia – sono nulla; ma non chi ritiene che soltanto il soggetto di questi predicati è nulla”. E non è questo il caso di Stirner, soprattutto se gli si accolla “il nulla” al posto di “nulla”.

Feuerbach domanda: “In che modo Feuerbach fa sussistere i predicati (divini)?”. E risponde: “Non in quanto predicati di Dio, no; ma in quanto sono predicati della natura e dell’umanità, cioè proprietà naturali, umane. Se vengono trasferiti da Dio all’uomo, essi perdono appunto il carattere della divinità”. Stirner risponde invece: Feuerbach fa sussistere i predicati come ideali: come determinazioni essenziali della specie, che nell’uomo individuo sono soltanto “imperfette” e diventano perfette soltanto “nella dimensione della specie”, quali “perfezioni essenziali dell’uomo perfetto”, e quindi come ideali per l’uomo individuo. Egli non li fa sussistere come caratteri divini, in quanto toglie loro il loro soggetto, Dio; ma li fa sussistere come caratteri umani, in quanto li “trasferisce da Dio all’uomo”. Ora Stirner si rivolge proprio contro l’uomo; e qui Feuerbach arriva di nuovo con tutta disinvoltura con “l’uomo” e afferma che, se i predicati fossero soltanto “umani” o trasferiti all’uomo, essi diventerebbero subito tutti “profani, volgari!”. Ma i predicati umani non sono per nulla più volgari o profani di quelli divini, e Feuerbach rimane lungi dall’essere un “vero ateo” secondo la sua summenzionata affermazione; e non vuole neppure esserlo.

“L’illusione fondamentale – dice Feuerbach – è Dio in quanto soggetto”. Ma Stirner ha dimostrato che l’illusione fondamentale è piuttosto l’idea delle “perfezioni essenziali”, e che Feuerbach, il quale sostiene a tutta forza questo “pregiudizio fondamentale”, proprio per questo è un vero cristiano.

“Feuerbach dimostra – si legge ancora – che il divino non è divino, che Dio non è Dio, ma è soltanto e in sommo grado l’essere umano che ama se stesso, che afferma e riconosce se stesso”. Ma chi è questo “essere umano”? Stirner ha dimostrato che questo essere umano è proprio quel fantasma, che si chiama anche uomo; e ha dimostrato che tu, essere unico, attraverso l’idea fissa di questo essere umano sei privato – per dirla alla Feuerbach – della tua “auto-affermazione”. Il punto controverso, che Stirner ha assunto, viene un’altra volta completamente eluso.

“Il tema, il nocciolo dello scritto di Feuerbach – si legge ancora – è il superamento della spaccatura in un Io essenziale e un Io inessenziale: la divinizzazione, cioè la posizione, il riconoscimento dell’uomo intero dalla testa ai piedi. In conclusione, non è forse espressamente affermata la divinità dell’individuo come la risoluzione del mistero della religione?”. “L’unico scritto, in cui il motto dei tempi recenti, cioè la personalità e l’individualità, ha cessato di essere una frase vacua e senza senso, è proprio L’essenza del cristianesimo”. Ma che cosa sia “l’uomo intero”, “l’individuo, la personalità, l’individualità” risulta da quanto segue: “L’individuo per Feuerbach è l’essere assoluto, cioè vero e reale ma perché egli non dice: questo individuo esclusivo? Perché in tal caso egli non saprebbe che cosa vuole: ricadrebbe nel punto di vista che egli nega, cioè nel punto di vista della religione”. – È dunque “l’uomo intero”, non “questo uomo”, non l’uomo comune, scellerato, egoistico. Certamente Feuerbach ricadrebbe nel punto di vista della religione, che egli nega, se di questo individuo esclusivo egli affermasse che è “l’essere assoluto”; e non per il fatto che egli affermerebbe qualcosa di questo individuo, ma perché di questo stesso individuo affermerebbe qualcosa di religioso (“essere assoluto”) o gli applicherebbe il suo predicato religioso; e perché – in secondo luogo – opporrebbe un “individuo” come “sacro, inviolabile agli altri individui”. Con le suddette parole non si dice perciò proprio nulla contro Stirner, dato che Stirner non dice nulla di un “individuo sacro, inviolabile”, di un “individuo esclusivo, incomparabile, che è o potrebbe diventare Dio”; non gli viene in mente di contestare all’“individuo” di essere un “comunista”. È bensì vero che Stirner ha ammesso le parole “individuo”, “singolo”, perché le ha fatte contemporaneamente confluire nell’espressione “unico”; ma con ciò egli ha fatto soltanto ciò che egli riconosce espressamente nel capitolo intitolato “Il mio potere”, quando afferma: “In fine devo ancora riprendere la mezza espressione, che ho a lungo voluto adoperare, quando... ecc.”.

All’affermazione di Stirner: “Io sono più che uomo”, Feuerbach oppone la domanda: “Sei tu anche più che un maschio?”. Ma allora è necessario in realtà trascrivere tutto questo passo “maschile”. Egli prosegue infatti: “Il tuo essere o piuttosto – dato che l’egoista disprezza la parola “essere”, anche se esprime la stessa cosa – il tuo Io non è maschile? Forse Stirner lo purifica soltanto dalla equivocità che – per esempio – ha in Feuerbach, il quale sembra parlare davvero di te e di me quando parla del nostro essere; mentre egli parla di un essere del tutto subordinato, e cioè dell’essere umano, che egli rende con ciò superiore ed elevato. Invece di tenere davanti agli occhi te – essere, te che sei un essere –, egli tratta gli uomini come “il tuo essere”, e lo fa costantemente come se avesse te davanti agli occhi. Stirner usa la parola “essere”, per esempio, quando dice: “Tu stesso col tuo essere mi sei prezioso, perché il tuo essere non è più elevato, non è più elevato e universale di te, è unicamente come te stesso, perché tu lo sei”. Puoi tu espellere la mascolinità anche da quello che si chiama lo spirito? Il tuo cervello, che è la parte interiore più sacra ed elevata del tuo corpo, non porta un’impronta maschile? I tuoi sentimenti, i tuoi pensieri non sono maschili? Ma sei tu un maschio d’animale: un cane, una scimmia, uno stallone? Che altro è dunque il tuo Io unico, incomparabile e per conseguenza asessuato, se non un avanzo non digerito del vecchio soprannaturalismo cristiano?”.

Se Stirner avesse detto: tu sei più di un essere vivente o di un animale, questo significherebbe pur tuttavia che tu sei anche un animale, ma che non vieni esaurito dall’animalità. Ora egli dice anche: tu sei più che uomo, perciò tu sei anche uomo; tu sei più che maschio, ma anche maschio. Solo che il fatto di essere uomo e di essere maschio non ti esprimono in modo esaustivo, e perciò tutto quanto ti viene presentato come “vera umanità” o “vera mascolinità” ti può lasciare indifferente. Ma tu ab immemorabili ti sei lasciato martirizzare o hai martirizzato te stesso con questi compiti pretenziosi: con essi le persone sacre pensano di detenerti ancora oggi. Feuerbach non è certo un “maschio d’animale”; ma non è anche di più di un maschio umano? Ha egli scritto L’essenza del cristianesimo come maschio o doveva essere nient’altro che maschio per scrivere questo libro? Non ci voleva invece l’unico Feuerbach? E un altro Feuerbach, per esempio Federico – che pure è un maschio – avrebbe potuto fare la stessa cosa? Siccome egli è quest’unico Feuerbach, egli è senz’altro anche un maschio, un uomo, un essere vivente, un francone, ecc. Ma egli è più di tutto questo, perché tutti questi predicati trovano la loro realtà soltanto attraverso la sua unicità: egli è un maschio unico, un uomo unico, ecc. Anzi, egli è un maschio incomparabile, un uomo incomparabile.

Che cosa vuol dunque dire Feuerbach col suo “per conseguenza io asessuato”? Se Feuerbach è più che un maschio, è “per conseguenza” asessuato? La parte interiore più sacra, più elevata di Feuerbach è senza dubbio una parte maschile, maschilmente improntata, come – fra l’altro – ve n’è una caucasica, tedesca, ecc.; ma tutto questo è vero solo per il fatto che è una parte interiore – o cervello – unica, una parte determinata in modo unico, come non capita una seconda volta in tutto il mondo, per quanto si possa immaginare il mondo pieno di “parti interiori”, parti interiori in quanto tali o assolute.

E quest’unico Feuerbach dovrebbe essere “un avanzo non digerito del vecchio soprannaturalismo cristiano”?

Pertanto è anche chiaro che Stirner non “espelle nel pensiero il suo io, come ritiene Feuerbach, dal suo essere sensibile, maschile”; come anche decadrebbe la confutazione data a p. 200 della “Wigand’s Vierteljahrschrift”, se Feuerbach non immaginasse L’unico in modo sbagliato come privo di individualità, così come lo aveva appunto descritto come “asessuato”.

“Realizzare la specie significa attuare una disposizione, una capacità, una determinazione in genere della natura umana”. – Piuttosto la specie è già realizzata attraverso questa disposizione; ciò invece che tu fai di questa disposizione è una realizzazione di te. La tua mano è perfettamente realizzata nel senso della specie; se no, non sarebbe una mano ma, per modo di dire, una zampa. Ma se tu addestri la tua mano, tu non la perfezioni nel senso della specie, non realizzi la specie; la quale è già reale e perfetta per il fatto che la tua mano è perfettamente ciò che indica la specie o il concetto generico “mano”, e dunque è perfettamente mano. Ma tu di essa fai quello che vuoi e puoi, lasci in lei l’impronta della tua volontà e della tua forza: della mano della specie fai una tua mano unica e particolare.

“È bene ciò che è conforme o corrisponde all’uomo; male e riprovevole, ciò che è in contraddizione con lui. Quindi sono santi i rapporti morali, come – per esempio – il matrimonio è santo non per se stesso ma in riguardo all’uomo; santi soltanto perché sono rapporti dell’uomo con l’uomo e quindi auto-affermazioni, auto-soddisfacimenti dell’essere umano”. Ma se uno fosse così poco uomo da considerare questi rapporti morali come non conformi a lui? Feuerbach gli dimostrerà che essi sono conformi all’uomo, all’“essere umano reale, sensibile, individuale”; e per conseguenza devono essere anche conformi a lui. Questa dimostrazione va tanto al fondo delle cose ed è così efficace che già da millenni essa ha riempito le prigioni di “non-uomini”, cioè di gente che non volle trovare confacente a sé ciò che è pur così confacente all’“essere umano”.

Feuerbach non è senz’altro materialista. (Nemmeno Stirner lo afferma, ma parla soltanto del suo materialismo rivestito delle proprietà dell’idealismo). Non è materialista perché si immagina di parlare dell’uomo reale; però non ne parla. Non è neppure idealista, perché è bensì vero che egli parla in continuazione dell’essere dell’uomo, di un’idea; però egli si immagina di parlare dell’”essere umano sensibile”. Afferma di non essere né idealista né materialista; e glielo si concede. Ma gli si concede pure ciò che lui stesso vuole essere e per cui alla fine si spaccia: egli è un “uomo comune, comunista”. Stirner lo ha anche visto così.

Feuerbach aggira, anzi non avverte neppure, il punto – l’unico punto importante – e cioè l’affermazione di Stirner che l’essenza dell’uomo non è l’essenza di Feuerbach o di Stirner o di qualunque altro uomo, così come le carte non sono l’essenza di un castello fatto di carte. Egli resta imperturbabilmente attaccato alle sue categorie di specie e individuo, io e tu, uomo e essere umano.

Hess

Hess ha alle spalle lo “sviluppo storico della filosofia tedesca”; ma nell’opuscolo Gli ultimi filosofi ha davanti a sé “lo sviluppo, dedotto dalla vita, dei filosofi Feuerbach, Bruno Bauer e Stirner” e sa esattamente dal suo proprio sviluppo, non dedotto dalla vita, che quello sviluppo “doveva andare a finire in questa assurdità”. Ma uno sviluppo dedotto dalla vita non è un’“assurdità”? E uno sviluppo non dedotto dalla vita non è parimenti un’“assurdità”? Ma no! Esso ha un senso, perché lusinga il senso della grande massa, la quale immagina sempre che un filosofo sia uno che non capisce niente della vita.

Hess comincia così: “A nessuno viene in mente di affermare che l’astronomo sia il sistema solare, che egli conosce. Ma il singolo uomo, che conosce la natura e la storia, secondo i nostri ultimi filosofi tedeschi, deve essere la specie, il tutto”. Ma come mai questa cosa non è venuta in mente a nessuno? Chi dice poi che il singolo uomo è la specie, perché “conosce” la natura e la storia? Hess l’ha detto, e nessun altro. Come appoggio a ciò egli cita anche un passo di Stirner, e cioè questo: “Come il singolo è l’intera natura, così egli è anche l’intera specie”. Ma Stirner dice forse che il singolo deve prima aver conosciuto per essere l’intera specie? Piuttosto Hess, questo singolo, è davvero tutta la specie “uomo”, e può servire tutt’intero come mallevadore dell’asserzione di Stirner. Che cosa sarebbe poi Hess, se non fosse neppure perfettamente uomo? Che cosa sarebbe, se gli mancasse la più piccola parte dell’essere umano? Ogni altra cosa, non però uomo: potrebbe essere un angelo, un animale o una figura simile all’uomo; ma un uomo egli può essere soltanto, se è un uomo perfetto. L’uomo non può essere più perfetto di quanto è Hess; non c’è nessun uomo più perfetto di Hess. Hess è l’uomo perfetto. Anzi, se si ammette volentieri un superlativo, è l’uomo più perfetto. In Hess c’è tutto: tutto quanto appartiene all’uomo. A Hess non manca neppure un briciolo di ciò che rende uomo l’uomo. Capita certo la stessa cosa per ogni oca, ogni cane, ogni cavallo.

Allora, non ci sarebbe alcun uomo più perfetto di Hess? Come uomo, nessuno. Come uomo Hess è tanto perfetto come ogni altro uomo; e la specie uomo non contiene nulla che anche Hess non contenga: porta con sé tutta la specie.

Una circostanza tutta diversa è costituita dal fatto che Hess non è soltanto un uomo, ma un uomo del tutto unico. Tuttavia questa unicità non torna mai a vantaggio dell’uomo, poiché l’uomo non può diventare più perfetto di quello che è. – Ma qui per il momento non vogliamo aggiungere ulteriori argomentazioni. Infatti ciò che è stato detto sopra basta a dimostrare quanto possa essere convincente Hess, quando accusa Stirner di “assurdità” soltanto a motivo del “sistema solare conosciuto”. In modo ancor più evidente egli svela l’“assurdità” di Stirner, a p. 11 del suo opuscolo, ed esclama poi con soddisfazione: “Questa è la logica della nuova sapienza!”.

Qui non ci importano le esposizioni che Hess fornisce dello sviluppo del cristianesimo, in quanto visioni socialiste della storia. La sua descrizione di Feuerbach e di Bruno Bauer è esattamente quella che può offrire uno che “lascia da parte la filosofia”.

Del socialismo egli dice: “Esso prende sul serio l’attuazione e la negazione della filosofia. Esso non si limita ad affermare che la filosofia deve essere negata in quanto pura dottrina e invece deve essere attuata nella vita sociale; ma indica anche come”. Avrebbe potuto aggiungere che il socialismo non vuole soltanto “attuare” la filosofia, ma anche la religione e il cristianesimo. Niente di più facile, se si conosce la vita come Hess, anzi la miseria della vita. Nell’Ebreo errante il fabbricante Hardy, quando è in miseria, è del tutto aperto agli insegnamenti dei gesuiti, soprattutto nel momento in cui lascia che l’“umano” sacerdote Gabriele gli reciti proprio gli stessi insegnamenti, però in forma “umana” e insinuante. Questi Gabrieli non sono più perniciosi dei Rodin.

Dal libro di Stirner, Hess cita un passo e ne ricava che Stirner non ha nulla da “obiettare contro l’egoismo pratico esistente, se non che gli manca la coscienza dell’egoismo”. Ma Stirner non dice – come invece Hess gli fa dire – che “tutto l’errore degli egoisti, che ci sono stati finora, consiste solo nel fatto che essi non hanno avuto coscienza del loro egoismo”. Nel passo citato Stirner dice: “Se soltanto esiste la coscienza di questo”. Di che cosa? Non dell’egoismo, ma del fatto che non è peccato approfittare dell’occasione. E dopo aver stravolto le parole di Stirner, Hess dedica tutta la seconda parte del suo scritto alla lotta contro l’“egoismo cosciente”. Nel bel mezzo del passo citato da Hess, Stirner dice: “Si deve pur sapere che il procedimento dell’approfittare dell’occasione non è spregevole, ma manifesta il puro fatto che l’egoista vi acconsente”. Quest’aspetto Hess trascura, perché dell’egoista consenziente egli non capisce altro da ciò che Marx aveva precedentemente affermato del piccolo trafficante e dei diritti umani comuni (per esempio, negli “Deutsch-französische Jahrbücher”); egli lo ripete, senza però minimamente raggiungere la capacità di perspicacia del suo predecessore. – L’“egoista cosciente” di Stirner non soltanto non aderisce alla coscienza del peccato, ma neppure alla coscienza del diritto, neppure alla coscienza dei comuni diritti umani.

Hess liquida Stirner così: “No, presuntuoso figliolo, non creo né amo per godere; ma amo per amore e creo per il gusto di creare, per impulso vitale, per immediato impulso di natura. Se amo per godere, allora non soltanto non amo, allora nemmeno godo, ecc.”. Ma Stirner gli contesta forse in qualche passo simili ovvietà? Non è invece Hess ad attribuire a lui un’“assurdità” per poterlo poi chiamare presuntuoso figliolo? “Presuntuoso figliolo” è infatti il giudizio conclusivo, al quale giunge Hess e che egli ripete alla fine. Attraverso simili giudizi conclusivi egli giunge a “lasciarsi alle spalle lo sviluppo storico della filosofia tedesca”.

Hess (p. 14) “scompone la specie in individui, famiglie, tribù, popoli, razze”. Questa scomposizione, egli dice, “questo estraniamento è la prima forma d’esistenza della specie. Per giungere all’esistenza, la specie deve individualizzarsi”. Ora, da dove ricava Hess tutto ciò che la specie “deve” fare? “Forma d’esistenza della specie, estraniamento della specie, individualizzarsi della specie”: tutto questo egli ricava dalla filosofia, che ha alle spalle, e per di più commette ancora il suo caro “omicidio per rapina”, “rapinando” – per esempio – Feuerbach e insieme “uccidendo” tutto quanto vi è di vera filosofia al riguardo. Egli avrebbe potuto apprendere proprio da Stirner che quel pomposo parlare di “estraniamento della specie” è un’“assurdità”. Ma dove avrebbe dovuto procurarsi le armi contro Stirner se non dalla filosofia, che egli ha alle spalle, naturalmente attraverso un omicidio per rapina di tipo socialista?

Hess conclude la sua seconda parte con la trovata che “l’ideale di Stirner è la società borghese, che prende per sé lo Stato”. Hegel ha dimostrato che l’egoismo è di casa nella società borghese. Ora, chi ha alle spalle la filosofia di Hegel sa anche da questa filosofia che uno che “raccomanda” l’egoismo, ha il suo ideale nella società borghese. In seguito si presenterà pure l’occasione di parlare dettagliatamente della società borghese; allora si vedrà che essa non è proprio il posto dell’egoismo tanto quanto non lo è la famiglia. L’intendimento di quella società è piuttosto la vita degli affari: una vita, che può essere portata avanti da santi e in modo santo – come succede oggi dappertutto – tanto quanto da egoisti e in modo egoistico – come oggi succede soltanto di pochi e in modo mascherato. La società borghese non sta a cuore a Stirner e non pensa a estenderla tanto da farle inghiottire Stato e famiglia. Hess ha potuto sospettare di lui cose simili, perché lo accosta con categorie hegeliane.

L’altruistico Hess si è assuefatto ad una piega redditizia e lucrosa, per il fatto che egli ripetutamente fa osservare che i poveri berlinesi attingono la loro sapienza al Reno, cioè a Hess e ai socialisti di là, ma anche alla Francia; e poi purtroppo guastano tutte queste belle cose per stupidità. Così egli dice, per esempio: “Presso di noi recentemente si è tanto parlato dell’individuo in carne e ossa, dell’uomo reale, dell’attuazione dell’idea, che non ci si può meravigliare se ne sia giunta notizia anche a Berlino e vi abbia scosso le teste filosofiche dalla loro beatitudine. Ma le teste filosofiche hanno capito la cosa filosoficamente”. – Noi dobbiamo menzionare ciò per estendere come si conviene – per quanto sta in noi – una fama meritata. Aggiungiamo inoltre che anche nella “Rheinische Zeitung” – quantunque non recentemente – si è molto “parlato” dell’uomo reale e cose simili, e precisamente soltanto da parte del corrispondente renano.

Subito dopo, “Hess vuol rendere comprensibile al filosofo ciò che egli intende per uomo reale vivente”. Volendolo rendere comprensibile, egli afferma che il suo uomo reale è un concetto, e quindi non un uomo reale. Hess stesso è bensì un uomo reale; ma di ciò che Hess intende per uomo reale possiamo fargli grazia, dato che sul Reno (“presso di noi”) se ne parla già abbastanza.

Stirner dice: “Se tu consumi il sacro, lo rendi tua proprietà. Digerisci l’ostia e te ne sbarazzerai!”. Hess risponde: “Come se noi non avessimo consumato da un pezzo la nostra sacra proprietà!”. Sì, noi abbiamo consumato ciò che è sacro in quanto sacro, in quanto proprietà sacra; ma non abbiamo consumato il carattere sacro che essa ha. Stirner dice: “Se tu consumi il sacro (Hess non prende la cosa con tanta esattezza e gli fa dire “sacra proprietà” invece di “il sacro”), lo hai reso tua proprietà”, cioè esso è per te qualcosa (per esempio, ciarpame), che tu puoi buttare via.

“Ragione e amore non hanno alcuna realtà”, Hess fa dire a Stirner. Ma questi non parla della mia ragione, del mio amore? In me essi sono reali, hanno “realtà”.

Si pretende che Stirner dica: “Noi non possiamo sviluppare dall’interno il nostro essere, le nostre proprietà”. Il tuo essere puoi certo svilupparlo; ma il “nostro essere”, l’“essere umano”, questa è un’altra cosa, di cui tratta tutta la prima parte del libro. Nondimeno Hess non fa un’altra volta alcuna differenza tra il tuo essere e il nostro essere; e in ciò imita Feuerbach.

Si rimprovera a Stirner di conoscere soltanto gli inizi del socialismo, e anche questi “soltanto per sentito dire, altrimenti egli dovrebbe – per esempio – sapere che lo stesso comunismo, attuato in politica, già da tempo si è spaccato nei due opposti dell’egoismo (intérêt personnel) e dell’umanismo (dévoûment)”. Questa opposizione importante per Hess – il quale del socialismo sa forse mille cose più di Stirner, anche se Stirner ha capito il socialismo meglio di lui – fu per Stirner un’opposizione di sottordine e sarebbe potuto sembrargli significativa soltanto se avesse avuto dell’egoismo idee così confuse quanto le ha senz’altro Hess.

Del resto, il fatto che Stirner “non sappia nulla della società”, per tutti i socialisti e i comunisti si capisce di per sé e non è necessario che Hess lo dimostri per primo. Se Stirner avesse riconosciuto la società, come avrebbe poi potuto osare scrivere contro il suo carattere sacro, e per di più così dettagliatamente e senza mezzi termini!

Ognuno, che non abbia letto il libro di Stirner, capisce inoltre incontestabilmente all’istante quanto Hess giudichi giustamente e quanto poco egli abbia bisogno di giustificare il giudizio seguente: “L’opposizione di Stirner contro lo Stato è l’opposizione del tutto abituale dei borghesi liberali, i quali danno parimenti la colpa allo Stato se il popolo impoverisce ed ha fame”.

Hess apostrofa Stirner a questo modo: “Unico, tu sei grande, originale, geniale! Ma avrei visto volentieri la tua lega degli egoisti anche soltanto sulla carta. Dato che questo non mi è concesso, mi permetto di descrivere la vera e propria idea della tua lega degli egoisti”. Egli vuol descrivere l’“idea” di questa lega; anzi la descrive, dicendo apoditticamente che “è l’idea di voler adesso introdurre nella vita la più cruda forma di egoismo, il comportamento selvaggio”. Siccome egli ha a che fare con l’“idea” di questa lega, si spiega anche come egli voglia vederla sulla carta. Come nell’unico egli non vede che un’idea, una categoria, così per lui anche quella lega, in cui l’unico è proprio il punto vitale, doveva diventare un’idea. E se ora si ripetessero ad Hess proprio le sue parole: “Recentemente presso di noi si è parlato dell’unico, e la notizia di ciò è arrivata fino a Colonia; ma la testa filosofica di Colonia ha capito la cosa filosoficamente”: come ne è venuta fuori un’“idea”?

Egli però prosegue e dimostra che “la nostra storia finora non è stata altro che la storia di associazioni o leghe egoistiche, i cui frutti – la schiavitù antica, la servitù romantica della gleba, la moderna, universale e di principio servitù della gleba – sono noti a tutti”. Innanzitutto Hess mette qui – e per questo bisogna anche prenderlo rigorosamente – “lega egoistica” invece dell’espressione di Stirner “lega degli egoisti”. I suoi lettori, che egli vuol persuadere – si vede bene dalla sua prefazione che tipo di gente egli deve persuadere, cioè degli uomini i quali compongono opere, come quelle di Bruno Bauer, derivandole da un’“istigazione della reazione”, e quindi teste straordinariamente scaltre e politiche – trovano subito certamente giusto e indubitabile che queste erano delle pure “associazioni o leghe egoistiche”. – Ma un’associazione, in cui i più si lasciano defraudare dei loro interessi più naturali e più ovvi, è forse un’associazione di egoisti? Si riuniscono degli “egoisti” dove uno è schiavo o servo della gleba di un altro? Ci sono senz’altro degli egoisti in una tale compagnia, e pertanto essa potrebbe esser detta con qualche verosimiglianza un’“associazione egoistica”. Ma in verità gli schiavi non hanno cercato questa compagnia per egoismo e anzi nei loro cuori egoistici essi sono contro quelle belle “associazioni”, come le chiama Hess. – Società, in cui i bisogni degli uni vengono soddisfatti a spese degli altri; in cui, per esempio, gli uni possono soddisfare il bisogno di riposo per il fatto che gli altri sono costretti a lavorare fino alla prostrazione, oppure gli uni menano una vita agiata per il fatto che altri vivono di stenti o addirittura muoiono di fame, oppure gli uni crapulano perché gli altri sono così stupidi da mancare del necessario, ecc. Tali società Hess chiama associazioni egoistiche; anzi, siccome egli è libero “dalla polizia segreta della sua coscienza critica”, egli identifica disinvoltamente e antipoliziescamente queste sue associazioni egoistiche con l’associazione degli egoisti di Stirner. È vero che anche Stirner usa l’espressione “associazione egoistica”; ma, in primo luogo, egli è esplicito con l’espressione “associazione degli egoisti” e, in secondo luogo, è corretto, mentre ciò che Hess chiama a questo modo è piuttosto una società religiosa, una comunità tenuta in sacro rispetto attraverso il diritto, la legge e tutte le formalità o cerimonie della giustizia.

Sarebbe certamente un’altra cosa, se Hess volesse vedere delle associazioni egoistiche non sulla carta ma nella vita. Faust si trova nel bel mezzo di queste associazioni quando esclama: qui sono un uomo, qui posso esserlo. Goethe dice proprio questo. Se Hess considerasse attentamente la vita reale, alla quale pur tanto tiene, avrebbe davanti agli occhi centinaia di simili associazioni, che in parte passano alla svelta, in parte durano a lungo. Forse in questo momento davanti alla sua finestra dei bambini si riuniscono a gruppi per giocare. Li guardi, e vedrà allegre associazioni egoistiche. Forse Hess ha un amico, una donna amata: allora potrà sapere come si trovi un cuore con un altro cuore, come ambedue si uniscano egoisticamente per trovare piacere vicendevolmente e come in ciò nessuno dei due “ci scapiti”. Forse incontrerà in strada un paio di conoscenti di vecchia data, che lo inviteranno a bere con loro un bicchiere di vino: andrà forse con loro per rendere loro un servizio d’amore o si “unirà” a loro, perché se ne ripromette un certo piacere? E quelli lo ringrazieranno tanto per l’“abnegazione”, o saranno persuasi di aver formato insieme un’“associazione egoistica” per un’oretta?

Senza dubbio da questi esempi banali Hess non capirà quanto essi siano di profondo contenuto e toto coelo diversi dalle sacre società, anzi dalla “fraterna, umana società” dei sacri socialisti.

Di Stirner Hess dice che “egli sta continuamente sotto la polizia segreta della sua coscienza critica”. Ma questo che cosa vuol dire, se non che quando egli fa della critica, non vuole criticare a vanvera o chiacchierare a vuoto, ma proprio criticare realmente? Ma Hess con ciò vorrebbe anche far vedere quanto egli abbia ragione quando non sa trovare alcuna vera differenza tra Stirner e Bruno Bauer. Ma è stato egli mai capace di trovare un’altra differenza da quella tra i sacri socialisti e i “trafficanti egoisti”? E poi questa stessa differenza è qualcosa di più che una differenza patetica? A che pro deve cercare dunque una differenza tra Bruno Bauer e Stirner, dato che la critica è pur sempre critica? Ci si potrebbe chiedere a che pro Hess debba occuparsi di tipi così strani, nei quali egli difficilmente troverebbe un senso se non attribuendo loro – come ha fatto nel suo opuscolo – il suo senso: essi dunque – come egli dice nella prefazione – dovevano per forza “andare a finire nell’assurdità”. A che pro, dato che egli ha pur davanti a sé un così vasto campo dell’umano operare?


Infine potrebbe essere conveniente richiamare i recensori alla critica di Feuerbach dell’Anti-Hegel, p. 4.



[“Wigand’s Vierteljahrschritft”, vol. III, 1845, pp. 147-194]

2) I reazionari filosofici. Risposta a I sofisti moderni di Kuno Fischer

Nota di J.H. Mackay

Kuno Fischer aveva consegnato il suo saggio I sofisti moderni, che è rivolto sostanzialmente contro Stirner, dapprima alla “Leipziger Revue”, la quale subito dopo cessò le pubblicazioni. Lo fece ristampare nel V volume degli “Epigonen” di Otto Wigand del 1848 alle pp. 277-316, provvedendolo della seguente nota a piè di pagina: «Questo saggio, che ha condiviso la sorte di una rivista naufragata, consegno ora agli “Epigonen” secondo il desiderio del signor Otto Wigand, loro editore. Lo faccio stampare inalterato per mantenerlo così come è stato attaccato e l’ho difeso. Sono debitore di questo rispetto ai critici di questo mio scritto, che ne hanno fatto un corpus delicti. Se non avessi questo rispetto, tratterei ora la stessa materia più brevemente e giudicherei come senza valore degli oggetti per il fatto solo di non giudicarli. Riferisco queste osservazioni soprattutto alle ultime parti della mia esposizione, in cui viene prodigato un interesse ingiustificato a I piccoli dei miei. Del resto gli equivoci, che possono forse sorgere dal mio tipo di mentalità, sono stati rettificati nella risposta alla polemica del signor Edward nell’ultimo volume degli “Epigonen”. Prego il lettore di tenerla presente”.

Come appare evidente da questa osservazione, c’era stata intanto una replica. La troviamo nel precedente IV volume degli “Epigonen” del 1847, pp. 141-151, col titolo: I reazionari filosofici. I sofisti moderni di Kuno Fischer. Essa è firmata col nome G. Edward. Se essa provenga dalla penna di Stirner, non si può dire con assoluta certezza; è però probabile. In ogni modo è sorta sotto il suo influsso diretto. Kuno Fischer prende senz’altro G. Edward per Stirner; e questi non ha mai contraddetto tale supposizione.

La risposta di Stirner fa seguito direttamente alla replica; col sottotitolo: Un apologeta della sofistica e un “reazionario filosofico”, essa arriva fino a p. 165.

Si è dovuto omettere di riprodurre gli scritti di Kuno Fischer soprattutto per il fatto che è possibile trovare ancora gli “Epigonen” e l’autore probabilmente non ne avrebbe permesso la pubblicazione.

* * *

Un fecondo pittore, che stava nel suo atelier, fu chiamato dalla moglie per il pranzo. Egli rispose: “Aspetta ancora un momento: devo soltanto dipingere ancora i dodici apostoli in grandezza naturale, un Cristo e una Madonna”. Questo è pure il modo di fare del reazionario filosofico Kuno Fischer. Scelgo questa frase, perché senza il frac di una frase filosofica non è lecito comparire nel salotto della filosofia. Egli liquida a grossi tratti di pennello il faticoso e titanico lavoro della critica moderna, la quale doveva dar l’assalto al cielo filosofico, all’ultimo cielo dei cieli. Un filosofo è modellato sull’altro. È una gioia lo stare a vedere come Strauss, Feuerbach, Bruno Bauer, Stirner, i sofisti greci, i gesuiti, i sofisti del romanticismo, tutti vengano costruiti con lo stesso stampo.

Il brav’uomo dà la caccia ai sofisti, come i nostri illuministi e i nostri cattolici tedeschi danno la caccia ai gesuiti. Appendetegli un biglietto spregiativo con scritto “sofista”: ogni filosofo rispettabile si farà il segno della croce davanti a lui. Già Hegel ha attirato l’attenzione sul fatto che quel poco che ci resta dei sofisti greci dimostra quanto essi siano stati superiori all’idealismo greco, il cui intero splendore ci è conservato nelle opere di Platone. In fondo anche Hegel è un “sofista”. Ma sentiamo quel che dice il nostro illustre cacciatore di sofisti. “La sofistica è l’immagine specchiata della filosofia: ne è la verità rovesciata”. Dunque, proprio la verità stessa, però in posizione contraria? Eh! la posizione non ci importa. Abbiamo contemplato l’immagine dall’alto e la chiamiamo un “sofista”; l’abbiamo contemplata dal basso e la chiamiamo un “filosofo”: tel est notre plaisir.

“Il soggetto sofistico, che si fa padrone e despota del pensiero e quindi abbandona al tel est mon plaisir tutte le potenze oggettive del mondo, non può essere la soggettività pensante”. “Padrone e despota del pensiero”: del pensiero di chi? del mio pensiero? del tuo pensiero? o del pensiero in sé? Se il “soggetto sofistico” si fa padrone del mio pensiero o del pensiero in sé, di una cosa che non ha nessun senso, allora è abbastanza potente ed è autorizzato a farlo. Infatti può impadronirsi del pensiero soltanto pensando: e questa è senz’altro un’arma onorevole, da gentleman. Ma se è padrone del suo proprio pensiero, non c’è niente di speciale. Se tu non lo sei, sei un pazzo, sei lo zimbello della tua fissazione. Ma, calma! Ecco che arrivano le “potenze oggettive del mondo”, una compagnia sublime. Chi siete? Siete la luce, “che irrompe attraverso le vetrate dipinte” e mi dipinge, mio malgrado, il naso di blu, mentre mi trovo in una chiesa gotica? Persino il mio vicino, che sta pregando tutto compenetrato dall’oggettività della presenza di Dio, deve per forza ridere del mio naso blu. Oppure siete la potenza distruttrice di un corpo che cade, dell’elettricità che si scarica, della repentina espansione di una materia che esplode?

No! Niente di tutto questo. Vedo sorridere il filosofo. La natura priva di spirito può essere una potenza oggettiva del mondo? La natura, che non esiste se non la “penso”, che è soltanto un “oggetto del pensiero”? No! Infatti questa è finora più potente del filosofo; e per questo egli non la riconosce. Ma il suo Dio, ornato di frasi, l’inghirlandato vitello d’oro è una “potenza oggettiva del mondo”. La storia passata è nulla, nella misura in cui essa non mostra il processo dialettico del pensiero particolare di lui; e il futuro egli lo ha già “costruito”. Quindi “il soggetto sofistico”, “il despota del pensiero” “non può essere la soggettività pensante”. “La soggettività pensante”! Se ancor si dicesse: “il soggetto pensante”, in questa frase ci sarebbe soltanto la semplice assurdità che “il soggetto sofistico non è soggetto pensante per il fatto che è padrone del pensiero, e cioè pensa; ma per il fatto che – per così dire – esso è pensato da un pensiero, che esso è organo involontario dello spirito assoluto o come altrimenti suonano queste sapienti definizioni”. Ma a questo modo la pretesa “soggettività pensante” è diventata un’idra dell’assurdità dalle molte teste.

“Il soggetto, che si distingue come indipendente dal suo pensiero, è piuttosto il soggetto particolare, casuale, che nel pensiero non vede null’altro che un mezzo plausibile per i suoi scopi, e concepisce il mondo naturale e morale soltanto sotto questa categoria”.

Dal mio pensiero mi distinguo e non mi distinguo. Qui i miei pensieri mi riempiono in modo tale che nessun sentimento, nessuna percezione può produrre una differenza tra me e i miei pensieri. – Ma mi servo del linguaggio maldestro del mio avversario: posso allora parlare di “pensiero”? Un “pensiero” è qualcosa di finito, di pensato, e da questo mi distinguo sempre come il creatore dalla creatura, come il padre dal figlio. Certamente mi distinguo dai miei pensieri, che ho pensato o penserò: gli uni sono per me oggetto, gli altri sono soltanto nell’aria. Perciò sono soltanto “il soggetto particolare, casuale”. Chi però presume di essere “soggetto necessario”, si legittima in quanto tale. Può cavare la sua legittimazione dal mondo dei sogni. È questione assurda se un oggetto sia casuale o necessario, se sia un soggetto o il soggetto. È necessario, perché esiste, e se si rende necessario; è casuale, perché nessuno se ne curerebbe, se non esistesse. La più grande necessità immaginabile di un conquistatore del mondo, di uno scienziato che domina il suo tempo o di uno statista, è pur sempre illusoria. Per interessi “particolari”, in quanto “mezzi plausibili per i loro scopi” tutti questi personaggi legano le passioni e le idee del loro tempo al loro carro trionfale. Il loro scopo può essere reale oppure un’idea: ma l’idea, che essi hanno a cuore, è sempre un’idea “particolare”, e per essa scagliano l’anatema su colui, dalla cui caparbietà e indomita personalità capiscono chiaramente di essere soltanto “soggetti casuali, particolari”. Per quel che riguarda la concezione “del mondo naturale e morale”, confesso di non capire come si possa concepire il mondo naturale altrimenti che come soggetto naturale “particolare”. Il vostro “mondo morale” ve lo lascio volentieri: ab immemorabili esso è esistito soltanto sulla carta; è l’eterna menzogna della società e si infrangerà sempre contro la ricca varietà e inconciliabilità dei singoli uomini di forte volontà. Lasciamo ai poeti questo “paradiso perduto”.

Ora il nostro eroe in un battibaleno fa una cavalcata attraverso la storia. “Hurrah! i morti cavalcano veloci”.

“L’idealismo teorico degli Eleati suscitò la sofistica greca”. Ah! questa è una grande gloria degli Eleati. Come se l’“idealismo teorico” dei matti non suscitasse altrettanto la necessità di uno psichiatra, tanto più se “c’è un sistema nella loro pazzia”.

“La sofistica del cattolicesimo fu il gesuitismo. La dogmatica cattolica, che si pone esteriormente di fronte al soggetto credente, si è impadronita di lui altrettanto esteriormente”. Esteriormente, va bene; ma anche di fatto? O non hanno, per esempio, i discepoli di Loyola dominato ab immemorabili il Vaticano? In Austria e in Baviera i legittimisti, in Belgio i sanculotti, in Francia i comunisti: quelli che sono molto abili con un’idea popolare trascinano sempre con sé la massa, menandola per il naso. Coi loro passi intrepidi costoro sono penetrati persino nel cuore dell’Asia, là dove la fame del deserto e lo strapotere dei nomadi selvaggi hanno fatto fallire tutte le spedizioni. Oggi un allievo dei gesuiti siede sul trono papale e governa nella linea di un liberalismo religioso e politico; e così lo applaudono cattolici e protestanti.

“Nella sofistica del romanticismo il soggetto particolare ha dato l’assalto all’io assoluto di Fichte”. Udite, udite! Voi romantici, voi Schlegel e Tieck, entusiasti dell’arte; tu Novalis, teosofo ingegnoso, ascolta nella tomba: anche voi non siete che comunissimi soggetti “particolari”. È vero, con delle frasi si può far tutto. “La sofistica emancipa il soggetto dal potere del pensiero: dunque il soggetto sofistico è il soggetto particolare, rozzo, senza pensiero, che si nasconde dietro al pensiero per tenere così a distanza il suo potere”. Quindi, poiché ho dei pensieri ma questi non hanno me; poiché penso liberamente e non sono la scimmia di un pensiero pensato, sarei un soggetto “particolare”, “senza pensiero”, addirittura “rozzo”? Ma no! I sofisti non sono proprio “senza pensiero”, anzi sono “filosofi” e forse “l’immagine specchiata, e quindi a rovescio, della filosofia”; ma in che modo? “Il soggetto volgare respira aria filosofica; ciò gli dà un ossigeno strano, che lo entusiasma a una volubilità vera e propria sul piano dialettico”. Voi filosofi avete davvero un sospetto che siete colpiti con le vostre stesse armi? Almeno un sospetto! Che cosa potete rispondere di sano, se ridissolvessi dialetticamente ciò che voi avete posto soltanto dialetticamente? Voi mi avete mostrato con quale “volubilità” si può rendere il nulla tutto e il tutto nulla, nero il bianco e bianco il nero. Che cosa avete in contrario, se vi restituisco la vostra bella arte? Ma con la gherminella dialettica di una filosofia della natura né voi né io dissolveremo i grandi fatti della ricerca moderna della natura, proprio come non l’hanno fatto né Schelling né Hegel. Proprio qui il filosofo si è mostrato un soggetto “volgare”. Infatti egli è caduto da ignorante in una sfera, nella quale egli non aveva alcun potere, un Gulliver senza acutezza di mente fra i giganti.

Il “sofista” è il soggetto “stabile”, “casuale”; appartiene “al punto di vista reazionario”, “già superato in filosofia”; e per di più è “costruito” ancora una volta da Kuno Fischer. Probabilmente quel soggetto “stabile”, “casuale” non ha capito i filosofi. Infatti “l’uomo naturale non capisce nulla dello Spirito di Dio”. Se noi però vogliamo vedere come il signor Fischer ha capito quelli che egli ha costruito filosoficamente, possiamo ammirare almeno la sua “volubilità”. “In questo processo della ‘critica pura’ il soggetto non arriva ad una reale percezione della sua sovranità; rimane riferito criticamente a quelle illusioni, che egli combatte”. Ciò muove alla “critica pura” soltanto l’assurdo rimprovero che essa è appunto “critica”. Infatti come potrebbe qualcuno voler criticare una cosa senza “riferirsi criticamente ad essa”? Ci si chiede poi soltanto però a vantaggio di chi torna questo riferimento: cioè, se il critico superi criticamente o meno la cosa. “Questo riferimento critico demolisce il soggetto; decisamente è il nulla di tutti i pensieri che muovono il mondo; essi sono diventati preda dell’egoismo assoluto dell’unico. Peter Schlemihl ha perduto la sua ombra”.

Che disgrazia se uno sceglie un’immagine, che poi si ripercuote contro di lui in modo molto evidente. L’ombra di Peter Schlemihl è proprio l’immagine della sua unicità, il suo profilo individuale, in senso figurato la nozione e il sentimento del suo io. Proprio quando ha perduto quest’immagine, egli diventa l’infelice preda dell’oro, nel quale egli ha trasferito il suo essere; preda dell’opinione del popolino, che egli non sa disprezzare; preda dell’amore di una ragazza stolta, alla quale egli non sa rinunciare; diventa lo zimbello di un demone, il quale resta per lui così terribile fin quando ne ha paura, fin quando sta in un rapporto di contratto con lui. Egli avrebbe altrettanto potuto diventar preda della filosofia.

Ma lasciamo stare le immagini. Allo stesso modo che si è espresso sopra il signor Fischer, si esprime la “Allgemeine Literaturzeitung”.

“Che rozzezza e frivolezza voler risolvere i problemi più difficili e liquidare i compiti più complessi, demolendoli”. Al che Stirner risponde: “Ma tu hai dei compiti, se non te li poni? Fin quando te li poni, non li abbandonerai; e non ho nulla in contrario a che tu pensi e, pensando, tu ti crei mille pensieri”.

Forse qui l’unico interrompe “il processo del pensiero”? No! Gli lascia tranquillamente il suo decorso; ma non si lascia neppure demolire nella sua “unicità” e ride della critica, quando essa vuol costringerlo a contribuire a risolvere un problema che egli non ha posto; ride dei vostri “pensieri che muovono il mondo”. Il mondo ha fin troppo languito sotto la tirannia del pensiero, sotto il terrorismo dell’idea. Esso si sveglia da un sogno greve e segue il lieto interesse del giorno. Esso si vergogna della contraddizione, in cui l’hanno tenuto prigioniero la Chiesa, lo Stato e i filosofi; della contraddizione, che questi hanno messo in mezzo tra l’interesse e i princìpi. Come se si potesse avere un principio, per il quale non si ha alcun interesse: un interesse, che non diventi subito un principio. Ma tu devi, sei costretto ad avere un principio “puro”; l’interesse è qualcosa di “sporco”. Tu devi comportarti solamente in modo “filosofico” o “critico”; altrimenti sei un soggetto “volgare”, “rozzo”, “casuale”, “particolare”.

Ascolta queste cose, o ricercatore della natura, che osservi con soddisfazione il divenire del pulcino nell’uovo covato e non pensi di criticarlo. Ascolta queste cose, o Alessandro, che hai tagliato il nodo gordiano, che non hai stretto. Devi morire giovane a Sais per mano dei sacerdoti, perché hai osato sollevare senza serietà il velo della sacra serietà; e i sacerdoti hanno ancora la faccia tosta di dire che “lo sguardo del dio ti ha ucciso”.

Questa è pur una prova del contegno ideale, etereo della lingua, che adopera un soggetto non “volgare”, “necessario”, “che muove il mondo”.

“II soggetto sofistico, che si vede sempre abbassato dalla sua dispotica presunzione al rango di eunuco, si ritira infine dietro al prepuzio della sua individualità”, ecc.

Kuno Fischer, dopo aver degnato di un’ampia esposizione “le premesse filosofiche della sofistica moderna”, che sono Hegel, Strauss, Bruno Bauer, Feuerbach – un processo della filosofia già passato alla storia, ma che tuttavia è ancora troppo vicino per essere ripresentato in modo così banale come una novità –, viene a parlare proprio di Max Stirner. Per quanto concerne l’inclusione di Stirner tra i sofisti – una qualifica per la quale egli non si riterrà né oltraggiato né lusingato –, potrà bastare il contrapporle un giudizio dello stesso Stirner sui sofisti greci. “Certamente il principio della sofistica doveva condurre a che lo schiavo più cieco e più vincolato alle proprie brame potesse pur essere un eccellente sofista e potesse con ingegnosità tutto esporre e aggiustare a vantaggio del suo rozzo cuore. Infatti per che cosa non si può trovare un ‘buon motivo’, e che cosa non si può combattere fino in fondo?”.

Ho già fatto spesso osservare che quei critici, che con grande talento e acume d’ingegno hanno vagliato e analizzato gli oggetti della loro critica, si sono certamente sbagliati nei riguardi di Stirner, e che ognuno di essi fu trascinato alle conseguenze più diverse del suo abbaglio e spesso a vere e proprie sciocchezze.

Così Kuno Fischer si dà l’inutile pena di sviluppare l’egoismo e l’unico di Stirner come conseguenza dell’auto-coscienza di Bauer e della “critica pura”. Il soggetto, che “nel processo della critica pura non arriva alla percezione reale della sua sovranità”, in Stirner diventa “decisamente il nulla di tutti i pensieri che muovono il mondo”. E questa gherminella viene compiuta attraverso la “demolizione del riferimento critico alle illusioni, che esso combatte”.

Ma questa gherminella è soltanto una gherminella di Kuno Fischer. Nel libro di Stirner non si trova nulla di tutto questo. Anzi il libro di Stirner era già terminato, prima che Bruno Bauer voltasse le spalle alla sua critica teologica come a cosa liquidata; e a quella proclamazione della “critica assoluta” nella “Allgemeine Literaturzeitung” Stirner accenna solo in un’appendice, che non appartiene necessariamente alla struttura dell’intera opera. L’“umanesimo” di Feuerbach, che si era universalmente imposto fra i comunisti e i socialisti tedeschi, era molto più vicino ad una realizzazione, che aveva messo abbastanza chiaramente in luce l’“inumano” dell’“umanesimo”, la contraddizione insita nel sistema. Perciò Stirner ha dedicato la più grande cura a combattere l’umanesimo. Feuerbach gli ha risposto nella “Wigand’s Vierteljahrschrift”, vol. III, 1845; e Stirner ha confutato questa risposta. Di tutto ciò Kuno Fischer non sembra sapere nulla, altrimenti si sarebbe risparmiato la fatica di fare la seguente ingegnosa trovata.

“L’egoismo dell’unico non è un’idea qualsiasi; è invece oggettivo; esercita una violenza dogmatica; è una mania, uno spettro, un pensiero gerarchico, e Max Stirner è il suo sacerdote”. “Stirner è il dogmatico dell’egoismo”. “Nell’oggettività, che Stirner attribuisce all’egoismo assoluto (dell’egoismo ‘assoluto’ non c’è traccia nel libro di Stirner), l’egoismo è diventato un’entità teoretica, un dogma”.

Se il signor Fischer avesse letto quel saggio, non sarebbe arrivato al comico abbaglio di trovare nell’“egoismo” di Stirner un “dogma”, un “imperativo categorico” strettamente inteso, un “dovere” strettamente inteso, come lo suscita l’umanesimo dicendo: “Tu devi essere ‘uomo’ e non ‘non-uomo’”, costruendo secondo questo principio il catechismo morale dell’umanità. Lo stesso Stirner ha definito “l’egoismo” come una “espressione”; ma come un’ultima “espressione” possibile, che è adatta a mettere fine al dominio delle espressioni.

Se noi eliminiamo da L’essenza del cristianesimo e dagli scritti minori di Feuerbach o in genere dalla sua “filosofia dell’umanità” l’imperativo categorico, e quindi ciò che è voluto positivamente; cioè, se noi pensiamo il suo “ideale della specie” con le sue “potenze” misteriose (“ragione”, “volontà”, “cuore”) e la loro attuazione (“conoscenza”, “carattere”, “amore”) come una presentazione psicologica delle capacità e delle proprietà caratteristiche, che sono immanenti nella specie umana reale in quanto tale, nell’organizzazione umana – a prescindere dalle trasformazioni e complicazioni storiche –, si dà già un poderoso progresso in Feuerbach. Risalendo ai semplici grandi caratteri della nostra organizzazione, egli mostra già abbastanza quanto è assurdo attribuire una tale superiorità ad un aspetto, ad una caratteristica, come quella dell’intelligenza o del pensiero, per cui essa superiorità minacci di inghiottire le altre caratteristiche. In breve, egli vuole l’uomo intero nell’equiparazione di tutte le sue proprietà, e quindi anche dei sensi e della forza di volontà. Ma, giunto a questo punto, egli dimentica che “l’uomo” non esiste, che è un’astrazione arbitraria. Ma egli lo pone come ideale. Perché meravigliarsi dunque, se l’uomo diventa un misterioso generico essere impersonale, dotato di “potenze” misteriose, che si comportano in modo politeistico, cioè come gli dèi greci con Giove. Conseguentemente compare un dovere: tu devi essere l’uomo. All’“uomo” si contrappone il “non-uomo”. Ora nessuno riterrà che “non-animale” = nessun animale. Altrettanto difficile potrebbe essere per Feuerbach dimostrare che un “non-uomo” = nessun “uomo” reale. Un “non-uomo” è e rimane un “uomo” reale, carico di un anatema morale, di un senso di esecrazione, escluso dalla comunità umana da chi lo chiama “non-uomo”.

A questa espressione dell’“umanesimo” Stirner oppone l’espressione dell’“egoismo”. Come? Tu esigi da me che io sia “uomo”, più precisamente che io sia “maschio”? Ohibò! “Uomo”, “nudo omino” e “maschio” ero già nella culla. Lo sono senz’altro, ma sono anche di più: sono quello che sono diventato per opera mia, sviluppandomi, appropriandomi del mondo esterno, della storia, ecc., Io sono “unico”. Ma questo tu non lo vuoi proprio. Tu non vuoi che io sia un uomo reale; alla mia unicità tu non dai alcun valore. Tu vuoi che io sia “l’uomo” come tu l’hai costruito, quale modello per tutti. Tu vuoi rendere norma della mia vita il “plebeo principio dell’uguaglianza”. Principio per principio! Esigenza per esigenza! Ti oppongo il principio dell’egoismo. Io voglio essere soltanto io. Disprezzo la natura, gli uomini e le loro leggi, la società umana e il suo amore; e tronco ogni rapporto obbligatorio con essa, perfino quello del linguaggio. A tutte le pretese del vostro dovere, a tutte le indicazioni del vostro giudizio categorico oppongo l’“atarassia” del mio Io. Sono già arrendevole, se mi servo della lingua. Sono l’“indicibile”, “semplicemente mi mostro”. Con il terrorismo del mio Io, che respinge tutto ciò che è umano, non ho altrettanta ragione quanta ne avete voi col vostro terrorismo dell’umanità che subito mi qualifica come “non-uomo”, se pecco contro il vostro catechismo, se non voglio che mi si disturbi nel godimento di me stesso?

Con ciò si dice forse che Stirner col suo “egoismo” vuol negare tutto ciò che è universale, presentarlo come inesistente, spazzar via semplicemente tutte le proprietà o caratteristiche della nostra organizzazione, alla quale nessun singolo individuo può sottrarsi? Si dice forse che egli vuol rinunciare ad ogni comunione con gli uomini, che vuol chiudersi in se stesso come una crisalide in modo suicida? Invero questo abbaglio non è meno grossolano di quello dei liberali e conservatori tedeschi, che ancor oggi si inalberano davanti al detto di Ludwig Börne: “Se non vi piace il naso del vostro re, cacciatelo via”: come se Börne avesse inteso fare del naso del re un delitto contro la democrazia. Ci si deve veramente vergognare di spiegare cose simili a questi signori confusionari.

Ma nel libro di Stirner c’è un importante “perché”, una poderosa conseguenza, che certo deve essere spesso letta fra le righe, ma che è del tutto sfuggita ai filosofi perché essi non conoscono gli uomini reali, e nemmeno se stessi come uomini reali: e invece hanno sempre a che fare soltanto con l’“uomo”, “lo spirito” in sé, a priori, sempre soltanto con nomi e mai con la cosa e la persona. Stirner esprime ciò in modo negativo con la sua acuta critica irresistibile, con la quale egli analizza tutte le illusioni dell’idealismo, e mette a nudo tutte le menzogne della dedizione e abnegazione altruistiche. Il che i suoi illustri critici hanno capito un’altra volta senza dubbio come un’apoteosi dell’egoismo cieco, “defraudato”, che si priva del possesso di un uomo intero per ottenere da lui un paio di spiccioli. Stirner stesso ha definito il suo libro come un’espressione in parte “maldestra” di ciò che voleva. Esso è l’opera faticosa degli anni migliori della sua vita; eppure lo chiama in parte “maldestra”. Tanto egli dovette lottare con una lingua, che era stata corrotta dai filosofi, maltrattata dai devoti dello Stato, della religione e di altre fedi, e resa capace di un’immensa confusione di concetti.

Ma torniamo al nostro critico. Quando Stirner dice: “L’amore è il mio sentimento, la mia proprietà, ecc.”; oppure: “L’amore è proprio mio solo se esso consiste completamente in un interesse egoistico, e di conseguenza l’oggetto del mio amore è realmente il mio oggetto o la mia proprietà”; e quando dice la stessa cosa, – mettiamo – nel caso di un rapporto d’amore, dell’oggetto amato e che riama, allora il nostro idealista si leva trionfante: “Ma questo è dunque il culto del Dalai Lama! Questo vuol dire mangiarsi due volte. Io divoro il mio essere divorato”. “Nella storia naturale dell’amore Max e Maria appartengono così ai ruminanti”.

Siccome però il signor Kuno Fischer diventa così personale e pittoresco, noi vogliamo capovolgere la cosa. Kuno ama Cunegonda e Cunegonda ama Kuno. Ma Kuno non ama Cunegonda perché trova piacere in questo amore; egli gusta l’amata non per la sua gioia personale ma per pura abnegazione, perché lei vuole essere amata; egli sopporta anche alcune sofferenze, causate dall’amore di lei, non perché l’amore verso di lei lo compensi sufficientemente – dunque non per questo motivo egoistico –, ma tutto sopporta per puro disinteresse, senza alcun riguardo per sé. Cunegonda fa altrettanto con Kuno. Avremmo così la coppia ideale di un matrimonio di matti: di due persone cioè, che si sono messe in testa di amarsi l’un l’altro per pura abnegazione senza godere personalmente dell’altro. Un tal sublime amore filosofico Kuno Fischer può tenerselo per sé o cercarsi un pendant in manicomio. Noi altri soggetti “rozzi”, “particolari” vogliamo amare perché sentiamo amore, perché l’amore è gradito al nostro cuore e ai nostri sensi e nell’amore per l’altra persona noi proviamo un più alto godimento di noi stessi.

Il nostro critico si avviluppa anche in seguito nelle sue contraddizioni. L’“egoismo dell’unico, che dissolve lo Stato” è nello stesso tempo “la lega più solida della moderazione”, “in verità la motivazione del dispotismo più spudorato”, la cui “fatale tintinnante sciabola” il critico già ode. Da un pezzo la “sciabola tintinnante” non sarebbe più “fatale” per noi, se noi non l’avessimo fatta diventare il nostro fato e con stolta mossa iniziale non avessimo inciso sul suo acciaio delle parole d’ordine, che danno alla sciabola il potere di renderci schiavi per amore dell’“idea”.

Non possiamo continuare oltre. Speriamo che si sarà tanto onesti da non pretendere da noi che leggiamo più di una pagina di un libro come Intelligenza e individuo; e tanto meno che ne stiamo ad ascoltare una critica. Vogliamo tuttavia segnalare al signor Kuno Fischer, pregandolo di prenderne nota, che l’autore di Intelligenza e individuo ha scritto una critica contro se stesso nella “Evangelische Kircken-Zeitung”. Forse però è meglio noto al signor Kuno Fischer che a noi questo farsesco modo di agire di un uomo, che vuole essere celebre ad ogni costo.



[“Epigonen”, vol. IV, 1847, pp. 141-151]

VII
Scritti su Bruno Bauer

1) A proposito de Die Posaune des jüngsten Gerichts über Hegel, des Atheisten und Antichristen [1841] [La tromba del giudizio universale contro Hegel, ateo e anticristo] di Bruno Bauer

Quali sono le cose che non devono accordarsi, unirsi, trovare una conciliazione? Per questa unione, per questa indulgenza abbiamo sofferto molto immaginando che in fondo, non siamo così disuniti e abbiamo soltanto bisogno di capirci. Per questo abbiamo trascorso tempo prezioso nella ricerca di unità e di accordi reciproci. Il fanatico ha ragione: – “Come si può conciliare Belial con Cristo”? – Nemmeno per un momento il pio diffusore di devozioni rallenta la terribile lotta contro il tempestoso senso del tempo nuovo, anzi, non conosce altra ragione se non quella del suo sterminio. Come l’imperatore del celeste impero pensa soltanto a distruggere gli Inglesi, suoi nemici, così egli volle conoscere soltanto una battaglia purché decisiva; per la vita o per la morte. Noi lo lasciamo gridare e arrabbiare poiché in lui non vediamo altro se non un ridicolo fanatico. Facciamo bene? Poiché il lagnoso perde sempre la sua causa davanti al sano senso del popolo, anche senza l’aiuto di uomini ragionevoli, avremmo potuto affidarci al senso del popolo lasciando a questo la formulazione di un giudizio e così abbiamo fatto. Tuttavia la nostra benevolenza ci fece dormire un sonno pericoloso. Le lagnanze non ci fecero niente, ma dietro il lagnoso c’era chi credeva e tutta la schiera dei timorati di Dio e c’eravamo anche noi (cosa mirabile anche se peggiore). Per la verità eravamo filosofi liberali e difendevamo la causa del pensiero, pensiero come tutto in tutto. Ma, qual era il nostro rapporto con la fede? Doveva essa cedere al pensiero? Attenzione! Considerando nella giusta misura la libertà del pensiero e della scienza, non si poteva ammettere una discordia tra fede e scienza! Hanno uno stesso e unico contenuto e chi offende la fede non comprende se stesso e non è un filosofo! Non fu Hegel che indicò come fine delle sue letture filosofico-religiose la conciliazione tra ragione e religione? E noi, suoi discepoli, vorremmo forse sottrarre qualcosa alla fede? Questa tentazione sia lontana da noi! Sappiate, credenti, che noi siamo totalmente d’accordo con voi sul contenuto della fede, ci siamo tuttavia imposti il compito di difendere la vostra fede tanto poco conosciuta e combattuta. Avete qualche dubbio? Vedete come ci giustifichiamo, leggete i nostri scritti che conciliano la fede e la scienza e che sostengono la riverenza della filosofia verso la religione cristiana e altre cose del genere e non penserete più male dei vostri migliori amici!

Così il buon filosofo si è gettato tra le braccia della fede. Chi è totalmente immune da questo peccato, da poter gettare la prima pietra contro i poveri peccatori filosofici? Il sonnambolico periodo dormitorio, pregno di illusioni e di inganni fu avvertito da tutti. Si diffusero gli elementi di impulso e spinta verso la conciliazione tanto che, i pochi, forse senza un vero diritto, ne rimasero intonsi. Quello fu il tempo della pace della diplomazia. In nessun caso vi era inimicizia ma, ovunque, un raspare, sfruttare, eccitare, riaccomodare, dissuadere e persuadere, un dolce senso di pace e una amichevole diffidenza. La diplomazia di questa epoca (arte sensata di alterare la serietà della volontà facendo cose folli con giochi superficiali) ha imparato ad attuare in tutti i campi tali fenomeni di inganno e di illusione. “Pace a ogni costo”, meglio ancora “accordi e conciliazioni a ogni costo” tali furono i miseri bisogni del cuore di questi diplomatici. Se non ci fosse proibito di cantare, questo sarebbe il posto più adatto per intonare una canzoncina a questa diplomazia la quale ha tolto dalla nostra vita ogni energia da farci brancolare con una automatica fiducia tra quegli abili magnetizzatori che vanno cullando la nostra e la loro ragione.

Qui ci importa soltanto quella diplomazia alla quale pare destinato a dare l’ultimo colpo un libro, alla cui recensione potrebbero servire, come introduzione, le considerazioni sopra esposte.

La tromba del giudizio universale sopra Hegel. Ultimatum agli atei e agli anticristiani.

Con questo titolo è apparso presso Wigand un libretto di undici fogli, il cui autore può essere facilmente identificato da chi conosce gli ultimi lavori letterari e quindi il suo punto di vista scientifico. (Così egli motiva nella allocuzione Ai suoi fratelli in Cristo: “Resteremo ancora nelle tenebre onde non sembri che aspiriamo ad altro onore che alla corona celeste. Quando la lotta che speriamo termini presto e la menzogna avrà avuto la sua punizione, allora la saluteremo personalmente e l’abbracceremo nella piazza dove si svolgono le elezioni”). Questo libro è una deliziosa mistificazione. Un uomo, un credente timorato di Dio, il cui cuore è pieno di rabbia contro la nefanda genia dei giovani hegeliani, risale all’origine di questa, a Hegel stesso e alla sua dottrina e trova – cosa ignobile – tutta la cattiveria rivoluzionaria che ora esce fuori dai suoi discepoli viziosi in quell’ipocrita peccatore che fu invece ritenuto come roccaforte della fede. Pieno di rabbia giusta egli strappa dalla persona gli abiti sacerdotali finora indossati, gli mette sulla testa, come i preti di Costanza a Huss, un berretto di carta dipinto di diavoli e di fiamme e così comincia la caccia all’eresiarca per le strade del mondo sbalordito. Fino a questo momento, nessuno mise a nudo così completamente il filosofo giacobino. Avere attaccato Hegel tramite un servitore di Dio, è senza dubbio un colpo maestro dell’autore.

Tali servitori hanno il merito di non essersi mai lasciati accecare in quanto, sia pure istintivamente, hanno considerato Hegel il loro massimo nemico e l’Anticristo del loro Cristo.

Non si sono abbandonati fiduciosi come quei benpensanti che non vollero litigare né con la fede né con la scienza ma, con severità, tennero sempre davanti agli occhi l’eretico. Non si sono lasciati ingannare – di solito i più sciocchi sono i più scaltri – e quindi possono essere considerati i migliori conoscitori dei lati pericolosi del sistema hegeliano. Tu conosci il cacciatore, non cercare altro! L’animale selvaggio sa benissimo che deve aver paura soprattutto dell’uomo.

Hegel che voleva rendere onnipossente lo spirito umano e tale lo ha reso, ha inculcato nei suoi discepoli la dottrina che nessuno deve cercare la salvezza al di fuori e al di sopra di sé. Ognuno deve essere l’artefice della propria salute e redenzione. Hegel non scacciò dalle sue trincee l’egoismo che, in molteplici forme, si oppone alla liberazione del singolo, né condusse una piccola guerra contro di esso. Tale omissione gli fu rinfacciata in quanto ci si era convinti che il suo sistema mancava di ogni morale. Con altre parole si volle affermare che al sistema mancava quel carattere pedagogico paternalistico, indispensabile ai fini della formazione di puri eroi della virtù. L’uomo al quale è toccato il compito di demolire il mondo per fondarne un altro nuovo dovrebbe, come un maestro di scuola, correre dietro ai giovani per tutte le strade segrete delle loro cattiverie e predicare la morale, oppure scrollare furiosamente le capanne fradice e i palazzi i quali, anche senza questo, devono crollare, fino a quando abbia rovesciato sopra di essi tutto il cielo insieme con tutti i grassi dèi dell’Olimpo.

Tutto questo può essere desiderato soltanto da una creatura paurosa, poiché essa stessa manca del coraggio di togliersi di dosso lo sporco della vita, ma non può essere voluto dall’uomo desideroso che vuole soltanto una parola, il “logos” e in essa ha tutto e da essa crea ogni cosa. Perché il potente creatore della parola, il maestro, soltanto qualche volta si è espresso sulle particolarità di quel mondo di cui ha demolito la struttura, perché nella sua rabbia divina contro tutto, abbattuto Dio dal suo trono, non ha tenuto conto che con questa azione tutta la schiera degli angeli trombettieri si sarebbe dispersa nel nulla. Per questo motivo, le particolarità e tutte le cose si sono levate nuovamente mentre gli angeli trascurati soffiano con tutta la forza nella tromba del Giudizio universale. Dopo la morte del “re” cominciò un affaccendarsi tra i “carrettieri”. Non erano forse sopravissuti i cari angioletti? “Anche i bricconcelli sono molto appetitosi!”. Sarebbe una cosa meravigliosa potersi accordare con questi. Se diventassero un po’ più mondani, se si lasciassero convincere della nostra idea!

Voi vi librate ovunque scendendo fino a noi,
muovete le graziose membra in modo più mondano,
davvero, la serietà vi sta molto bene!
Comunque, vorrei vedervi sorridere una sola volta,
sarebbe per me un piacere immenso.
Voglio riferirmi a un piccolo tratto nella bocca,
come fanno gli innamorati quando si guardano.
Te, ragazzo altissimo, guardami dunque in maniera lasciva!
Potreste andare decentemente nudi,
la lunga camicia a pieghe è troppo pudica!
Gli angioletti si girano, – si può guardarli di dietro,
i bricconcelli sono veramente appetitosi!

Il desiderio voglioso del Positivo si impadronì di quelli ai quali lo spirito del secolo comandò di continuare l’opera di Hegel. A tale compito, lo stesso Hegel li esortò, alla fine della sua storia della filosofia. “Io desidero che questa storia della filosofia sia un invito a comprendere lo spirito del tempo che si trova in noi e a tirarlo alla luce da quella che è la sua natura, cioè dalla oscurità in cui giace privo di vita, e metterlo in evidenza lavorando con coscienza ciascuno al suo posto”. Per proprio conto, invece, il filosofo rifiutò di soccorrere il mondo nella sua temporale miseria. “In qual modo il presente, mondano ed empirico, si liberi dal dissidio che gli è proprio, come si foggi, dobbiamo lasciare al presente stesso di trovare, e non è argomento ed affare immediatamente pratico della filosofia”. Dispiegò sul presente il cielo della libertà e quindi poté lasciare a quello la decisione di guardare in alto e compiere il proprio dovere. Con i suoi discepoli, si comportò in maniera diversa. Questi appartenevano a quel “presente empirico che deve trovare la via d’uscita dal dissidio che lo lacera”, e dovevano aiutarlo a trovarlo gli stessi che, per prima, erano stati illuminati. Essi “piagnucolavano” diventando mediatori di pace e diplomatici. Ciò che Hegel aveva demolito nella sua totalità, pensarono di ricostruirlo nelle sue singole parti poiché Hegel stesso non si era mai spiegato abbastanza circa la particolarità e, nei dettagli, era oscuro come Cristo. Al buio è bello sussurrare: si possono interpretare molte cose.

Meglio per noi. Il tenebroso decennio della barbarie diplomatica è passato.

Ebbe del buono e fu inevitabile. Noi, invece, illuminammo prima noi stessi e poi accogliemmo la debolezza del vecchio per imparare energicamente a disprezzarla come nostra qualità, come cosa identificantesi con noi stessi. Dal bagno di fango dell’umiliazione, in cui siamo insudiciati dalla sporcizia della stabilità di tutti i generi, balziamo fuori rafforzati e gridiamo risorti: – Sia stracciato il vincolo tra voi e noi! Guerra per la vita e la morte! – Chi ora vuole ancora fare diplomaticamente da mediatore, chi vuole la pace ad ogni costo stia in guardia dal non cedere sotto le spade dei combattenti e dal non diventare vittima sanguinosa della sua benpensante mediocrità. Passato è il tempo della riconciliazione e della chiacchiera con gli altri e con noi stessi.

Il trombettiere soffia il grido di battaglia nella sua tromba del giudizio universale. Questo grido colpirà ancora molte orecchie assonnate ove rimbomberà senza svegliare. Molti altri penseranno che possono restare dietro il fronte di battaglia; altri si illuderanno che si fa soltanto un chiasso inutile e che si spaccia per grido di guerra quella che è in realtà una parola di pace; ma è fatica perduta. Quando il mondo sta in armi contro Dio, e scoppia il tuono fragoroso della lotta contro l’Olimpo stesso e le sue schiere, allora soltanto i morti possono dormire: i vivi prendono partito. Non vogliamo nessuna mediazione, nessun accordo, non più legnosità diplomatiche. Vogliamo stare gli uni davanti agli altri, senza Dio, vogliamo stare faccia a faccia coi timorati di Dio, vogliamo far sapere a chi spetta il turno. Qui lo ripeto; in questa risolutezza della inimicizia la precedenza spetta ai fanatici timorati di Dio. Questi per un giusto istinto non hanno mai stretto amicizia. Così la scoperta della grande eresia di Hegel non poteva venir fatta in maniera più abile e nello stesso tempo più giusta di quella usata dall’autore del testo, quando nel suo credulo fanatismo suona la tromba del giudizio finale. Essi non vogliono un accordo giusto ma una guerra di annientamento. Tale diritto sarà realizzato.

Ma (con questa domanda pensiamo di entrare nel merito del libro stesso) che cosa di male possono trovare in Hegel i timorati di Dio? E chi minaccia loro il tramonto più di chi annientò la paura? Sicuro, Hegel è il vero ambasciatore, creatore esso stesso di una forma di coraggio per cui tremano anche i cuori più deboli. “Senza paura contro gli uomini, senza paura contro gli dèi”. Così Tacito descrive gli antichi Germani. Ma la sicurezza contro Dio venne perduta quando persero se stessi e il timore di Dio diventò alimento degli animi contriti. Essi hanno finalmente ritrovato se stessi e dominato il brivido della paura perché hanno trovato la parola che non si può distruggere, perché è eterna per quanto vogliamo ancora combatterla.

Un uomo veramente tedesco – senza paura verso Dio – l’ha pronunziata, la parola liberatrice, il “bastare a se stesso”, l’“autarchia” dell’uomo libero. Da molte forme di paura e di rispetto siamo già stati liberati dai Francesi i quali per primi ci hanno indicato l’idea di libertà. Ora le abbiamo viste sprofondare nel nulla del ridicolo. Ma non sono venute a galla nuovamente con le loro orribili teste di serpi mentre una paura di cento forme non abbuia ancora la fiducia in se stessi? La salvezza che i Francesi ci hanno portato fu così poco fondamentale come quella che un tempo, venendo dalla Boemia nella tempesta hussita, diede i primi segni fiammanti della futura riforma tedesca. Il tedesco solo riconosce la missione storico-mondiale del radicalismo; egli solo è radicale, lo è senza torto. Nessuno è così inesorabile e privo di attenzioni come lui. Non si limita a demolire il mondo esistente per restare in piedi egli stesso: demolisce se stesso. Dove un tedesco colpisce, un Dio muore e un mondo perisce. Per il tedesco annientare significa creare e lo stritolare le cose temporali è la sua eternità. Soltanto qui non c’è più spazio per paure e per scoraggiamenti. Egli straccia la paura dagli spettri estirpando qualsiasi timore, il rispetto di se stesso e il timore di Dio. Rifugiatevi, anime angosciate dalla paura di Dio nell’amore di Dio per il quale non avete un termine appropriato nella vostra lingua e per conseguenza anche nella vostra coscienza nazionale. Il tedesco non soffre più per vostra preghiera perché fa del vostro Dio un cadavere e quindi trasforma il vostro amore in orrore.

In questo senso squilla anche la “tromba” e contiene, sotto formule del Vecchio Testamento e con profondi sospiri, la vera tendenza del sistema hegeliano a “mettere fine alle considerazioni ora di moda, alle transazioni e vie traverse, fondate tuttora sulla premessa che si può esercitare una mediazione tra l’errore e la verità”. Il trombettiere contro ogni attesa pieno di rabbia grida: “Smettiamola con questo furore di mediazione, con queste gelatine sentimentali, con questo mondo di bugie, una sola cosa è vera e se questa e le altre cose che non sono vere vengono confrontate, le altre cose cadono da sè nel nulla. Non venite a noi con quell’angosciosa bugiarda timidezza della scuola di Schleiermacher e della filosofia positiva: finiamola con questa debolezza che vuol fare da mediatrice soltanto perché ama ancora l’errore e non ha il coraggio di strapparselo dal cuore. Strappatela da voi e gettatela lontano, questa bifida, vibrante, lusingatrice e mediatrice lingua di serpente, sinceri e puri e una cosa sola siano la vostra bocca, il vostro cuore e il vostro spirito, ecc.”. Basta quindi con la diplomazia avara e priva di spirito benché piena di spirito!

Il trombettiere, vero servo di Dio come deve essere, così sicuro del suo immobile Dio come il turco del suo Allah, sdegna ogni aiuto contro il bestemmiatore di Dio: Hegel, fuorché l’aiuto degli uomini pii. A questa strana decisione è dedicata la Prefazione (pp. 5-42) nella quale anzitutto i “vecchi hegeliani” vengono salutati con queste parole: “Essi ebbero sempre sulla bocca la parola della conciliazione, ma sotto le loro labbra stava il veleno della vipera”. Quindi si deve loro presentare lo specchio del sistema e così Göschel, L. von Henning, Georg Andreas Gabler, Rosenkranz, ecc., saranno obbligati a rispondere perché chiamati dal governo del loro paese. “È arrivato il tempo in cui tacere significa delitto”.

Inoltre si è formata una “scuola filosofica” che vuole creare una filosofia “cristiana e positiva” e confutare filosoficamente Hegel, ma essa ha amato soltanto il proprio Io, ha offeso i princìpi fondamentali della verità cristiana e in più ha uno scarno seguito e influenza fra i credenti come fra gli increduli. Quando noi ci lamentiamo e i governi si guardano intorno cercando un medico, si è forse trovato come medico alcuno dei positivisti? Hanno i governi affidato la cura a uno di questi? No! C’era bisogno di altri uomini: Krummacher, Hävernick, Hengstenberg, Harless dovettero pagare di persona! Una terza classe di avversari della filosofia hegeliana, gli schleiermacheriani, viene da ultimo ugualmente sconfessata. “Essi sono ancora esposti alle tentazioni del male, e amano darsi l’apparenza di essere essi stessi filosofi. Tuttavia non possono offrire ai profani invidiosi prove di una cultura filosofica. Per loro vale la parola: ‘conosco le tue opere, tu non sei né caldo né freddo. Ah, se fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido e non caldo né freddo, ti sputacchierò con la mia bocca’”.

Il loro zelo per “la vita ecclesiastica” viene riconosciuto dal trombettiere, ma per questi, non è “abbastanza serio, fondamentale, comprensivo e zelante”, e inoltre essi non si sono opposti a Bruno Bauer (la Chiesa nazionale evangelica di Prussia e la scienza) obbligandolo a demolire le sue asserzioni bestemmiatrici (p. 30). Alla fine si parla di Heinrich Leo, dell’uomo “che per primo ebbe il coraggio di levarsi contro questa filosofia senza Dio, di accusarla formalmente e di richiamare l’attenzione dei governi di sentimenti cristiani sul pericolo imminente che da questa filosofia sono minacciati lo Stato, la Chiesa e ogni morale”. Ma egli viene anche biasimato perché non ha proceduto con rigore e perché le sue opere sono pregne di lievito mondano come gli viene dimostrato con tante chiacchiere. Formano la conclusione, com’è giusto, anatemi salmodici contro gli atei.

Per la verità, l’esordio ci svela il vero proposito del rabbioso uomo. “È suonata l’ora in cui sarà gettato a terra il più tristo, il più fiero, il supremo nemico del Signore. Ma questo nemico è anche il più pericoloso. I Francesi – questo popolo dell’anticristo – avevano con svergognata pubblicità, alla luce del giorno, in piazza, sotto gli occhi del sole che non vide mai simile sacrilegio e davanti agli occhi dell’Europa cristiana, precipitato nel nulla il Signore dell’eternità così come avevano ucciso l’Unto del Signore; essi avevano intrecciato un idolatrico adulterio con quella puttana che è la Ragione; ma l’Europa, piena di santo zelo, strozzò il mostro e si unì in una santa Lega per mettere in catene l’anticristo e nuovamente alzare gli altari eterni al vero Signore. Allora venne, no!, allora si chiamò, si curò, si custodì, si protesse, si onorò, si stipendiò il nemico che, esteriormente, si era vinto, in un uomo che fu più forte del popolo francese, in un uomo che diede nuova forza di legge ai decreti della diabolica Convenzione nazionale, li fornì di nuove e più salde basi e li introdusse sotto il titolo ambiguo e seducente per la gioventù tedesca di: filosofia. Si chiamò Hegel e di questi si fece il centro dell’università di Berlino. Non si creda comunque che la masnada con cui ai nostri giorni deve lottare lo Stato cristiano persegua un altro principio e conosca altra dottrina che quella edificata dal maestro dell’inganno. È vero, la nuova scuola è notevolmente diversa dall’antica, raccolta dal maestro, essa ha cacciato via la vergogna e ogni contenuto divino, combatte apertamente e senza ritegno Stato e Chiesa, rovescia il segno della Croce, così come vuole abbattere il trono, idee e atti diabolici di cui la vecchia scuola non pareva fosse capace. Ma questa è soltanto apparenza o forse fu soltanto per imbarazzo casuale che i vecchi discepoli non avvertirono questa diabolica energia. In sostanza, quando si torna al principio e alla vera dottrina del maestro, si trova che i nuovi venuti non hanno creato niente di nuovo. Piuttosto, hanno soltanto strappato il velo trasparente in cui talvolta il maestro avvolgeva le sue affermazioni e hanno messo a nudo il sistema con un atto sufficientemente osceno!”.

Ci resterebbe ora di passare all’accusa del sistema hegeliano che è il vero contenuto del libro. Invece quest’accusa è formulata in maniera tale che deve apparire al lettore impregiudicata e non diluita in una recensione. Inoltre noi non sappiamo a tale proposito dire altro che questo: pare che non tutti i passi utilizzabili delle opere di Hegel siano stati presenti nel pensiero dell’autore.

Frattanto poiché, come è annunciato a p. 163, a questo scritto segue una seconda parte che mostrerà come Hegel faccia a priori sorgere la religione come un particolare fenomeno della dialettica interiore e dello sviluppo della coscienza di sé, e nella quale sarà indicato l’odio di Hegel contro l’arte religiosa e cristiana e come egli dissolva tutte le leggi positive dello Stato, ci sarà data occasione di parlare su ciò che ora abbiamo trascurato. Si contenti il lettore – chi si interessa ai problemi dell’epoca non può trascurare questo libro – di un sommario dei 13 capitoli. 1) Il rapporto religioso come rapporto di sostanzialità. Il trombettiere sostiene in modo particolare che Hegel “ha tirato un doppio velo sulla sua opera di distruzione”. Di questi, uno consiste nel parlare molte volte di Dio e nel fatto che sembra quasi sempre che egli intenda per Dio, quel Dio vivente che esisteva prima dell’esistenza del mondo, ecc. I vecchi hegeliani, con Göschel in testa, si sono fermati a questa concezione. Col secondo velo egli tenta di dimostrare in apparenza che la religione viene compresa nella forma del rapporto di sostanzialità e che la dialettica, in cui lo spirito individuale si abbandona, si sacrifica all’Universale che lo domina come sostanza o (come spesso è detto) come Idea assoluta, rinunciando alla propria individualità e unificandosi con esso. A questa pericolosa apparenza, gli spiriti più forti (Strauss, ecc.) si sono arresi. Ma, il trombettiere conclude: “più pericolosa di questa apparenza è la cosa stessa che a ogni occhio pratico e aperto, se ci si affatica anche poco a scoprirla, si presenta così: quella concezione della religione, secondo la quale il rapporto religioso non è altro che un rapporto interiore della coscienza di sé con se stessa e tutte quelle forze che sembrano ancora indistinte come sostanza o come Idea assoluta della coscienza di sé non sono altro che i momenti propri di quella, obiettivati nella rappresentazione religiosa”. Da ciò è evidente il contenuto del primo capitolo. 2) Lo spettro dello spirito mondano. 3) Odio contro Dio. 4) Odio contro ciò che esiste. 5) Ammirazione per i Francesi e odio per i Tedeschi. Ciò non contraddice la lode che, avanti, abbiamo fatto ai Tedeschi, né contraddice il contenuto dei passi trascurati dall’autore. 6) Distruzione della religione. 7) Odio contro il giudaismo. 8) Predilezione per i Greci. 9) Odio contro la Chiesa. 10) Disprezzo per la Sacra scrittura e per la Storia sacra. 11) La religione come prodotto della coscienza di sé. 12) Dissoluzione del cristianesimo. 13) Odio contro l’erudizione fondamentale e la lingua latina (è questo, a parere del trombettiere, un colmo veramente comico).

La seconda parte annunciata, per la quale si deve fare l’augurio all’autore di servirsi di un pensiero più comprensivo, poiché le altre qualità non gli mancano, sarà oggetto di recensione appena apparirà. Allora, forse, verrà fatta qualche aggiunta a quanto abbiamo detto.

In conclusione possiamo chiederci: perché consideriamo questo libro come una mascherata, un travestimento? Perché un uomo timorato di Dio non può essere libero e intelligente come lo è l’autore? “Chi non sa prendere in giro se stesso non è in realtà uno dei migliori!”.



[“Telegraph für Deutschland”, Hamburg, nn. 6-8, gennaio 1842, pp. 22-31]

2) Sull’impiego dei teologi nelle università tedesche. Voto teologico

Presso di noi due cose sembrano volersi elevare e allargare a vista d’occhio: le pubblicazioni del gabinetto berlinese di lettura e i permessi di stampa (parola forse più adeguata per indicare la nostra attuale libertà di stampa). Il gabinetto offre rapidamente l’uno dopo l’altro opuscoli che secondo ogni apparenza si vendono molto bene, e il permesso di stampa ha già fatto spuntare nella primavera di questo anno molte buone gemme che, se il tempo non diventerà bruscamente cattivo, potranno portare dolci frutti. Una di queste gemme è appunto ora sbocciata dalla stamperia del gabinetto berlinese di lettura e porta il titolo: Über die Anstellung der Theologen an den deutschen Universitäten. Theologisches Votum [Sull’impiego dei teologi nelle università tedesche. Voto teologico]. Quale che sia l’evento a cui l’opuscolo deve la sua origine, nessuno che segua e partecipi agli avvenimenti presenti, specialmente a quelli della nostra patria, e che inoltre alle cose menzionate nell’opuscolo abbia fatto considerazioni in merito alla esclusione di Bruno Bauer dalla Facoltà universitaria, può dubitare che un vero patriota si faccia riconoscere appunto da questo, che le manifestazioni di vita dello Stato cui appartiene eccitano la sua attenzione e, dove è possibile, la sua collaborazione; e chi fa tali considerazioni deve anche essere indotto a pensieri analoghi a quelli che l’autore del menzionato voto sviluppò per esteso. Volentieri riprodurremo qui brevemente le sue opportune riflessioni, se così facendo non recassimo danno all’opuscolo stesso e se (ed è questo, per parlare onestamente, il motivo principale dell’omissione) il favore delle circostanze lo permettesse. Qui c’è soltanto posto per esporre come l’autore faccia una severa distinzione fra istituti scientifici e istituti ecclesiastici, così che “da una parte si lascia intatto alle università il loro valore di sede della libera scienza, e dall’altra parte la Chiesa conserva istituti suoi propri, in cui i suoi ministri vengono educati”. Nella seconda parte del suo voto l’autore si scaglia contro la uscita dalla Chiesa e fra molteplici motivi avanza anche il seguente: “C’è cosa tanto inaudita, quanto l’appartenere esteriormente alla Chiesa e tuttavia litigare con essa? Nella realtà è cessata da molto tempo quella situazione in cui la professione esterna di fede era immediatamente anche quella dello spirito; una quantità di diversissime tendenze che non hanno più nessun indizio di religiosità si è insinuata nell’unica Chiesa”.

Sicuro, da varie parti si inalbera la pretesa di uscire dalla Chiesa. Poiché qui non è il caso di mettere in rilievo i punti in cui consentiamo con l’autore, non è anche, onestamente, il caso di contraddirlo. Perciò basti la breve notizia che abbiamo dato e che conviene dare in un giornale tedesco perché è prova della diminuita durezza della censura, per volontà del sovrano.



[“Rheinische Zeitung”, n. 135, 15 maggio 1842]

3) [Il voto di Philipp Konrand Marheineke]

Il “voto” di Marheineke non è ancora comparso; Marheineke vuol far pubblicare contemporaneamente le tre prime letture tenute nel suo collegio sull’importanza della filosofia nella teologia, perché in quelle egli si spiega tanto in merito a Schelling quanto a Strauss, Feuerbach e Bauer.

Le Glossen und Randzeichnungen zu Texten aus unserer Zeit [Glosse e note marginali a testi del nostro tempo] di Ludwig Reinhold Welesrode, hanno raggiunto la seconda edizione già ora, nel primo mese della loro pubblicazione.

Hoffmann von Fallersleben pubblicherà presto canzoni slesiane. Quando egli poco tempo fa si fermò di passaggio a Berlino un paio di giorni, non si fece notare e accolse soltanto un invito amichevole a una colazione nella quale, in un circolo di forse venti studenti, passò alcune ore liete in un vivace scambio di pensieri e di versi.



[“Rheinische Zeitung”, n. 150, 30 maggio 1842]

4) [Dalla Francia]

“Le Semeur”, giornale parigino per gli interessi religiosi, politici, filosofici e letterari, nel suo numero del 4 maggio dà una relazione fedele dell’affare Bruno Bauer, e all’assicurazione data dalla Facoltà di Bonn di non voler pregiudicare la libertà delle ricerche filologiche, critiche e storiche nella teologia, fa seguire il seguente giudizio: “Nonostante tutte queste proteste non si può riconoscere che, dovunque sia il punto in cui si tira genericamente un confine, la scienza non ha più libero il percorso. Le si fissa in precedenza il cammino; quindi è naturale che anche i risultati liberamente ottenuti sveglino la diffidenza. Questo affare Bauer condurrà, non ne dubitiamo, a molte vivaci discussioni nei giornali tedeschi. Si conosce un solo esempio di una simile destituzione; quello del famoso filosofo Christian Wolff nell’anno 1723”.



[“Rheinische Zeitung”, n. 164, 13 giugno 1842]

5) [Nell’università di Copenhagen]

È necessario comunicare un fatto accaduto nell’università di Copenhagen del quale, come di un “eloquente segno del tempo”, dà notizia la “Jenaische Literatur-Zeitung”.

Bröchner, studente di teologia, giovane di 21 anni, chiede di fare l’esame ufficiale di teologia, e nella sua petizione si dichiara (senza che tale dichiarazione fosse necessaria) come seguace di Strauss. La Facoltà teologica, che esamina alla presenza di censori ecclesiastici, dopo che Bröchner, a successiva domanda ebbe affermato che egli non cercava un ufficio ecclesiastico, al quale del resto non si può nemmeno accedere immediatamente per mezzo dell’esame ma “voleva dedicarsi esclusivamente alle scienze, onde perfezionarsi per esercitare una attività accademica, in cui non è presa in considerazione la convinzione religiosa”, rispose come segue:

“Poiché, con la fondazione di una Facoltà teologica si deve considerare come inammissibile nella Chiesa e nello Stato, il far sostenere l’istituito esame ufficiale di teologia a studenti che dichiarino alla Facoltà di essere stati allontanati dalla fede cristiana dalle loro convinzioni, e di non poter accogliere senza mancare altamente di coscienza, data la loro convinzione, un ufficio ecclesiastico; la Facoltà si vede posta, dalla tesi presentata da Bröchner e dalle successive dichiarazioni, nella dolorosa necessità di negare il richiesto accesso all’esame”.

Bröchner ricorse contro questa decisione alla regia direzione della Università, (dopo avere espressamente fornito una rinuncia a un ufficio ecclesiastico e domandato soltanto che gli fosse aperta la carriera accademica), perciò domandò una decisione legale per casi futuri del medesimo genere. La direzione rispose semplicemente: “che essa era pienamente d’accordo con la Facoltà e non era il caso di prendere in ulteriore considerazione la proposta presentata”.



[“Rheinische Zeitung”, n. 171, 20 giugno 1842]

6) [Un voto teologico riguardo l’impiego dei teologi nelle università tedesche]

Un noto recente avvenimento, la decisione della Facoltà evangelico-teologica di Bonn contro il candidato alla licenza di Bruno Bauer, fu già spesso scelto come oggetto di discussione da organi giornalistici, perché con la sua complessa importanza solleva problemi che dopo un sonno di molti anni, finalmente si destano e, con occhi ancora torpidi, salutano il chiaro mattino di un giorno futuro.

Così in questo momento appare un Theologisches Votum über die Anstellung der Theologen an den deutschen Universitäten [Voto teologico riguardo l’impiego dei teologi nelle università tedesche], al quale, presumibilmente, seguiranno molti altri e metteranno in luce sempre più propizia la questione e la sua intima sostanza. Ma c’è molto da dubitare che tale questione, anche nel caso che si trovi la miglior luce per guardarla sotto il miglior punto di vista, possa sperare un apprezzamento generale del suo vero valore, perché anche per giudicare un quadro occorre, più che una buona luce, un gusto sano. Per quanto riguarda il voto sopra citato, è anzitutto cosa assai rallegrante che esso sia comparso sotto la censura berlinese, perché così resta provato che noi cerchiamo di avvicinarci a una coraggiosa sincerità; faccenda che è in se stessa importante e significativa.

Due cose stanno particolarmente a cuore all’autore dell’opuscolo, benché egli in conclusione si abbandoni alla rassegnata disperazione di un uomo reso accorto dalle disillusioni: “Abbiamo parlato, ma è facile prevedere quale sarà il seguito di queste parole. La cosa che abbiamo in primo luogo discusso, non si avvererà, per quanto sia chiara agli occhi di ognuno ciò che vi è di innaturale e di ingiusto nelle condizioni presenti; un’altra cosa invece avrebbe cessato di esistere, anche se non l’avessimo combattuta”. Con tali parole egli intende accennare alla sua prima “proposta di separare anche esteriormente, così come sono intimamente disgiunti, gli interessi della Chiesa da quelli della scienza, e da un lato lasciar intatta alle università la loro importanza, consistente nell’essere sede della libera scienza, e dall’altro lato, dare alla Chiesa gli istituti suoi propri, in cui i suoi ministri vengono educati”. Questo mezzo di uscita che l’autore raccomanda allo Stato allo scopo di rendere giustizia tanto alla scienza quanto alla Chiesa, è da lui motivato nel modo più convincente, pur partendo sempre dalla premessa che la Chiesa abbia dall’assistenza dello Stato un titolo così valido come lo ha la scienza; e che la Chiesa non debba essere abbandonata a se stessa, come per esempio nell’America del Nord è devoluta alle cure dei privati, o come fra noi in gran parte gli affari religiosi degli ebrei non godono nessuna cura speciale da parte dello Stato. Questo problema, se realmente importi allo Stato che i suoi membri siano iscritti a una determinata confessione cattolica o protestante e quindi esso debba prestare la sua assistenza e il suo appoggio per il mantenimento di questa confessione, fu lasciato non chiarito dall’autore, il quale soltanto nelle seguenti parole fece in qualche modo trapelare la sua opinione in merito: “Soltanto quando la tendenza moderna fosse diventata dominante e avesse riportato una evidente vittoria, quando la Chiesa non potesse più mantenersi di fronte alla scienza, soltanto allora si potrebbe pensare a introdurre la scienza immediatamente anche nella Chiesa; per ora la scienza deve continuare tranquilla la sua strada in una salutare separazione dalla Chiesa. Quando giunge il tempo in cui un nuovo principio deve aprirsi il cammino, esso irresistibilmente tutto penetrando come l’atmosfera in cui viviamo, si diffonderà attraverso la società”. Molte cose giuste sono state esposte succintamente in questo passo, e se anche esse non appaiono proprio nuove a un uomo esperto, tanto maggior valore hanno per il grosso pubblico, al cui tribunale si presenta l’opuscolo. Il secondo punto che interessa l’autore riguarda l’“uscita dalla Chiesa”, a cui, come è noto, fu alluso negli “Deutsche Jahrbücher” in uno scritto rapidamente sfruttato da amici e nemici. In questa parte, l’esposizione soffre di molti tentennamenti, e l’autore vi vede troppo una “questione puramente pratica”, come se fosse più pratica della prima. Ma, i suoi argomenti portano almeno l’apparenza di aspetti mondani, quando per esempio egli condanna l’uscita dalla Chiesa perché “con ciò viene infranta la fiducia; perché quella forma di pensiero che in una scienza non conforme alla sua fede individua non soltanto l’errore, ma anche il delitto; quel fanatismo che non si contenta di combattere i suoi avversari con argomenti scientifici ma attacca anzitutto il santuario delle loro persone, per ridurlo implacabilmente in polvere; è soltanto l’ultima conseguenza di quella reazione che si è introdotta nello spirito del tempo, ha soltanto il torto di essere interamente e compiutamente ciò che è, reazione che utilizza una maniera di pensare soltanto a metà, maniera che negli ultimi tempi si è più diffusa”. Si deve però confessare che simile gente non deve essere risparmiata e invano si spera di “non infrangere la loro fiducia”, e che quindi contro l’uscita dalla Chiesa non si devono esporre precisamente simili ragioni. Ma l’autore non si accontenta di questo e aggiunge altri motivi. Per questo si può rimandare il lettore a quell’opuscolo molto intonato al nostro tempo.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 126, 6 maggio 1842]

7) [Le mura di Gerico]

Poiché dunque da tutte le parti soffia la tempesta e le mura di Gerico del passato devono crollare davanti agli squilli di tromba del Nuovo, vogliamo a bella posta non nascondere che nelle più alte regioni della bufera del Giudizio universale la furia della tempesta è più spaventosa. In Inghilterra, in Francia, l’iniziale corpulenza dei problemi si va sempre più affilando, tanto che questi finiscono per scivolare dalla stretta porta dei Cieli nel regno dell’Ultrasensibile, della religione, e così si agitano qui e là con fresche forze sopra un nuovo piano di battaglia; e come potrebbe essere diversamente in Germania, il vero campo di combattimento per le lotte religiose e filosofiche? Dopo che Strauss con la sua Das Leben Jesu kritisch bearbeitet [1835-1836] [La vita di Gesù criticamente elaborata] ha raccolto il guanto di sfida, le sfide si succedono rapidamente l’una dopo l’altra. Dopo Feuerbach, Bruno Bauer attirò a sé particolarmente negli ultimi tempi l’attenzione; il suo allontanamento dalla Facoltà teologica gli diede una importanza politica, oltre che scientifica. Bruno Bauer ha propriamente assunto su di sé la lotta contro la teologia e così è necessario ricordarsi di lui quando si getta un’occhiata sul libro Hegels Lehre von der Religion und Kunst. Von dem Standpunkte des Glaubens aus beurteilt [Insegnamenti di Hegel sulla religione e sull’arte giudicate dal punto di vista della fede].

Chiunque sia l’anonimo autore, Bruno Bauer potrebbe essere lui. Così come prima almeno secondo lo spirito poteva essere considerato autore della Tromba del giudizio universale. Ma che cosa si deve dire del contenuto e della forma del libro? Noi vogliamo lasciare la risposta a coloro la cui natura viene svelata in quel libro con umore sereno e tuttavia corrosivo. Poiché molti si possono menzionare, che vengono trattati con poca dolcezza: Karl Ludwig Michelet, “il cui sistema è un giusto mezzo, che non può contentare né i vecchi né i giovani e deve venir ripudiato dalla fede”; Immanuel Hermann Fichte junior col suo “Di qua e di là”, August Sack, “esempio di un vero credente, poiché egli non è altro che decisione e bisogno”. Karl Immanuel Nitzsch, definito come “Isashar, l’asino ossuto”, Julius Müller e Heinrich Leo. È vero che il “credente” autore pronuncia il più violento anatema anche contro lo stesso Bruno Bauer; ma in pari tempo ci accontenta, mettendo il sistema di quest’ultimo nella più chiara luce. Ma tutto questo è soltanto il contenuto della Prefazione; nel testo viene spietatamente svelato “l’odio di Hegel contro la storia sacra e contro l’arte divina degli scrittori di storia sacra”. Chi conosce la Tromba, sa che qui succede la stessa cosa, soltanto in forma ancora più precisa, più aperta, meno riguardosa. Poco o nulla è adatto a una citazione. Cose di questo genere si debbono leggere, e leggere nel contesto. Lo si definirà un libro pericoloso ma definendolo così si è generosi, e quanto meno si dice con tale definizione, tanto più si vuole attribuirle energia. “Pericoloso” è un concetto relativo, e se i treni sono pericolosi per i vetturini, tanto più giovano al pubblico, e se talvolta i ministri sono minacciati di pericolo dalle Camere, questa minaccia può essere la salvezza per il paese. Quando la gente viene fuori col suo “pericoloso”, non ci si deve lasciar subito intimorire; generalmente sono soltanto i pusillanimi, che fiutano un pericolo per loro; perché è certo che per i pusillanimi tutto è “pericoloso” e ogni emozione scuote i loro deboli nervi. Noi non vogliamo sperare che simili codardi in occasione di questo libro vogliano di nuovo fare onta alla Germania.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 149, 29 maggio 1842]

8) Il voto separato di Marheineke

È finalmente comparso il molto annunciato Theologische Separatvotum [Voto separato teologico] di Marheineke in merito a Bruno Bauer, sebbene soltanto come appendice di una Einleitung in die öffentlichen Vorlesungen über die Bedeutung der Hegel’schen Philosophie in der christlichen Theologie [Introduzione alle lezioni pubbliche sull’importanza della filosofia di Hegel nella teologia cristiana]. Sorpassiamo momentaneamente su quest’ultima per venir subito all’essenziale, al voto. Se si considera esattamente la cosa, grandi aspettative verrebbero anche stavolta deluse, e Bruno Bauer non potrà astenersi dal prorompere nelle note parole: “O Signore, guardami dagli amici; dai nemici mi guarderò io!”. E il Signore, contro il quale Bruno Bauer s’è caricato di tanti peccati, non ha voluto favorirlo. Ma sino a qual punto Marheineke si interessa di Bruno Bauer? Egli lo sostiene contro tutti coloro che riconosce pure come avversari suoi propri, ma gli nega appoggio contro il suo ultimo nemico, il teologo Marheineke stesso. In realtà però gli altri furono altrettanto prudenti su quel punto, e dal loro modo di vedere altrettanto tolleranti, o, per pronunziare un mite giudizio sull’amico Bruno Bauer quasi altrettanto tolleranti poiché essi riconobbero volentieri come intangibile tanta libertà critica filologica e storica quanta ritenevano di poterne pigliare per sé ogni giorno, e ripudiarono soltanto quella libertà di cui il loro cuore non nutriva nessun desiderio. Dovevano essi permettere che il nemico si avanzasse tanto, da diventar pericoloso persino per un Marheineke? Ognuno deve difendere la propria pelle e perciò essi, per un giusto istinto, scavarono una trincea davanti agli avamposti.

Seguiamo la difesa, quale Marheineke la svolge, per vedere se l’opinione che ce ne formammo si confermi. Delle due questioni presentate nell’ordinanza ministeriale: “1) Quale posizione in rapporto al cristianesimo assume l’autore della critica della storia evangelica; 2) se, secondo la missione propria delle università e specialmente delle Facoltà di teologia, si possa dare all’autore licenza di insegnare”, alla prima si risponde dall’autore con queste parole: “Io non penso di sostenere che, se si tiene presente soltanto il nocciolo del libro, questo tenda alla glorificazione del cristianesimo e che questa sia la vera cosa positiva che già ora (cioè prima che compaia il secondo volume) si fa luce in questo libro attraverso tutte le negazioni. Soltanto spiriti ansiosi, che separano ed escludono il pensiero della fede, lo spirito dalla lettera, possono dubitare della forza del principio cristiano sia in genere sia in rapporto a questo libro, e sostenere che il pensiero capitale di esso sia inassociabile con una deferente concezione della personalità di Cristo”. Su questo non c’è contestazione; inoltre non è necessario contestare, perché la terza parte, come si può sperare, darà abbastanza presto ragione o torto all’uno o all’altro di noi. Ma sarebbe difficile dimostrare che Marheineke non appartenga agli spiriti ansiosi benché assai meno ansiosi. Perché se la “deferente nozione della personalità di Cristo” fosse compromessa dal “pensiero e dallo spirito” di Bruno Bauer, Marheineke avrebbe pure paura di qualche cosa, e se egli ritiene ancora che tutto va bene, ciò non gli attribuisce nessun merito di fronte ai timorosi, i quali, per motivi altrettanto plausibili, non si ripromettono tutto questo bene. Tutti costoro sono in ansia riguardo la “deferente nozione della personalità di Cristo”, e sebbene Marheineke dica: “Ciò di cui ha bisogno il mondo, e con cui si serve anche la Chiesa, è il disinteressato e spregiudicato riconoscimento della verità”, tuttavia egli verosimilmente tremerebbe se Bruno Bauer osasse dire: “Altra cosa è Cristo, e altra la verità”.

A quello che Marheineke, da pagina 64 alla 79, dice per giustificare la fiducia sopra espressa per quanto contenga cose giuste si potrebbero sollevare molte obiezioni, ma a ciò si troverà posto in altra occasione. Qui basti dire che nel libro si difende dappertutto lo spirito cristiano di Bruno Bauer, benché il modo e la forma con cui ciò vien fatto possa definirsi erronea.

Quindi ci volgiamo subito alla seconda domanda. Anzitutto si legge qui quanto segue: “Il governo dello Stato, ponendo alle Facoltà teologiche questa seconda domanda, ha mostrato di essere lontanissimo dal determinare esso medesimo che cosa sia vero e debba valer per vero nella scienza. Con ciò fu di nuovo proclamato dal governo la libertà d’insegnamento, e non fu posto alcun ostacolo sulla strada di quella. Sicuro, nutro tanta incondizionata fiducia nello spirito e nella saggezza di questo Stato, che anche se (cosa che ritengo impossibile) tutte le Facoltà, decidessero in senso contrario a Bauer e ne proponessero la rimozione, credo che lo Stato sarebbe più saggio di tutte le Facoltà e non si presterebbe a essere un mezzo per raggiungere un simile fine”. Quale groviglio di contraddizioni! Il governo dello Stato proclama la libertà d’insegnamento, col presentare alle Facoltà teologiche la domanda sopra riferita! Non proclamerebbe piuttosto la libertà di insegnamento con l’astenersi dal presentare quella domanda? Ma inoltre lo Stato deve comportarsi come se non l’avesse presentata: esso non deve “prestarsi a essere un mezzo per raggiungere un simile fine!”. A quale scopo dunque interroga, se non vuole tenere nessun conto della risposta? Forse che s’interrogano le Facoltà sul da farsi quando si sa quello che si vuol fare? Il fatto che il governo interroga dimostra appunto che esso vuol far dipendere la liberta d’insegnamento dalla decisione delle Facoltà, e che questa è realmente la sua intenzione è provato da quello che è accaduto, e che fece crollare l’“incondizionata fiducia” di Marheineke. Chiudiamo degnamente la vera difesa di Bruno Bauer (perché fin qui Marheineke si occupa della propria difesa contro tutti i contraddittori) con le parole così nere: “Riesce facile condannare con parole generali, così in blocco, una forma di pensiero come quella di Bauer e dichiararla inutile, anzi dannosa in rapporto alla Chiesa cristiana; ma se essa fosse priva di qualsiasi nesso con la verità, crollerebbe in se stessa per opera propria, si confuterebbe da sé, sarebbe il nulla e quindi non occorrerebbe prendere grandi provvedimenti per salvare contro di essa la Chiesa cristiana. Una simile confutazione dell’errore è essa medesima un errore”. Fin qui e non oltre! Marheineke non è un soprannaturalista, né un razionalista, né un pietista, ecc.; ma è teologo. Contro tutta questa gente Bruno Bauer rappresenta la stessa causa che egli difende; fin qui percorrono entrambi la stessa via, e Bruno Bauer gode la protezione dell’amico anziano. Ma davanti al teologo le vie si separano, e sebbene Marheineke si comporti in modo più amichevole, fraterno, amabile che coloro i quali già in una fase anteriore dovettero separarsi da Bruno Bauer, in realtà però non è punto più arrendevole degli altri: attaccato nella sua essenza, egli agisce esattamente così come agirono quelli quando la loro essenza fu ferita. Egli respinge da sé il nemico. Per quanto ciò avvenga in forma benigna, quasi inavvertibile, tuttavia si tratta di un ripudio e di una esclusione decisiva. Perché Bruno Bauer ha offeso il teologo! “La disistima della teologia è così grande in lui, che egli sembra quasi vergognarsi di essere ancora o di venir definito teologo. Egli li chiama brevemente teologi, come se fosse proposito della teologia il mettersi contro la verità, e perché egli vede dai teologi disprezzata la filosofia, la filosofia deve essere tutto in tutto”. Bruno Bauer non ha mai desiderato appartenere ad altra Facoltà che a quella di teologia; ma egli vuole purificare il teologo partendo dal centro stesso della teologia. E che gli rispondono i teologi? “Voler purificare un teologo significa imbiancare un muro!”. Chi non prende il teologo qual è deve abbandonare la teologia e diventare filosofo. Lo ripeto, Bruno Bauer non ha mai manifestato il desiderio di uscire dalla teologia. Tuttavia Marheineke dice: “Poiché egli stesso ha volontariamente rinunciato al suo carattere di teologo, il governo non può più imporre tale carattere. Ma ciò ch’esso può fare, e realmente fare con onore, è assegnargli un posto di professore nella Facoltà di filosofia con adeguato stipendio”. Dunque, Baeur ha “involontariamente rinunciato”! E questa volontà consiste in ciò che egli ha detto del teologo, dell’odierno teologo! Fanno gli altri avversari di Bauer alcunché di più cattivo di quel che fa Marheineke? Non deducono essi pure da una simile volontarietà “la necessità della sua uscita”? Se i soldati cinesi sono tutti codardi, e perciò il titolo di “soldato cinese” viene, come è giusto, affibbiato come ingiuria, deve dunque un cinese, che tuttavia è dotato di vero coraggio, grazie a questo coraggio venir considerato come se avesse “volontariamente rinunciato” a fare il soldato in Cina? Eppure nel nostro caso si tratta di alcunché di simile. Marheineke, il teologo dice: “La coscienza di Dio è la verità della coscienza di sé”. Bruno Bauer imputa anche questa sublime elevatezza di conoscenza teologica al caos non riformato dalla teologia, poiché: il sé è Dio, e il sapere se stessi, l’aver coscienza di sé, questo appunto è la verità, in cui tramonta la coscienza di Dio; e quindi viceversa; la coscienza di sé è la verità della coscienza di Dio. Ma questa non è una cognizione che appartiene a tutto il mondo e quindi deve essere in primo luogo e principalmente posseduta e predicata dagli stipendiati maestri del popolo, dai teologi. Col sostenere che “il sé è Dio”, nessuno esce dalla “scienza di Dio”, dalla teologia.

Dobbiamo dire che Marheineke, il teologo, dopo aver respinto l’altro teologo aspirante alla Facoltà di filosofia, per castigo di questa sua intolleranza cade nel meschino? Siccome egli non comprende Bruno Bauer, così lo spiega con paterna dolcezza e in modo così umano, che ci si deve vergognare di una simile umanità: “L’asprezza dello sdegno e l’amarezza, di cui sono tracce chiare nell’ultimo scritto di Bruno Bauer, sono da imputarsi alla debolezza umana, in quanto un uomo del suo spirito, ingegno e ricchezza di conoscenza fa la dolorosa esperienza di vedersi sempre e senza tregua respinto, mentre egli deve constatare che la più netta mediocrità acquista vantaggi sopra di lui”. Sicuro, poiché egli non capisce più Bruno Bauer dal punto in cui questi si differenzia da lui nei princìpi, non si vergogna di ricorrere alla compassione per il suo discepolo, e di pronunziare a tal fine le cose più infamanti che si possano dire di uno scrittore: “Certamente Bauer, se vivesse in una situazione priva di fastidi, rinuncierebbe volentieri a scrivere molto, e se il governo gli assegnasse una cattedra di filosofia, questa generosità lo indurrebbe (anche senza che ciò gli venisse imposto come patto) a dare ai suoi studi un indirizzo del tutto diverso, farebbe di lui un utile strumento della scienza e certamente lo obbligherebbe per sempre a una vivace riconoscenza”. Si definisce scrivere molto il mandare per il mondo alcuni volumi dopo avere sul loro contenuto da sei a otto anni tenuto lezioni? Il priore dei domenicani Prierio scrisse a Lutero: “Se tu, mio caro Lutero, ricevessi da nostro signore il Papa un grasso vescovato, scriveresti pagine più blande, e anche esalteresti l’Indulgenza che ora censuri così severamente”. Lutero gli rispose: “Se aspirassi a un vescovato, certamente non direi cose che ti suonano così male all’orecchio; pensi che non sappia come si ottengano a Roma i vescovati e le prelature?”. Ho scritto questo duro biasimo dopo avere spesso deposto la penna e non senza mestizia, perché Marheineke è l’unico che con così paterno fervore si è interessato a Bruno Bauer, e appunto lui si deve compensare con simile ingratitudine. Mi sembrò spesso, mentre scrivevo, di dovere una sorta di misericordia, di rispettare una così profonda benevolenza; perché anch’io fui un tempo discepolo di Marheineke. Ma potevo agire diversamente in nome della verità?



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 151, supplemento, 31 maggio 1842]

9) [Il Sinodo]

Negli immediati dintorni di Berlino poco tempo fa un soprintendente (il nome può essere qui taciuto, poiché egli stesso forse si sentirà indotto a farsi avanti con la sua onesta convinzione) di un cosiddetto Sinodo propose ai suoi ecclesiastici la questione, se i predicatori debbano occuparsi della lettura di scritti critici, quali appresta la teologia moderna, e se in genere debbano prendere notizia di tale scritti. La grande maggioranza degli ecclesiastici rispose alla questione presentatale con un candido no, e soltanto uno di essi dichiarò che, essendo la sua opinione opposta a quella dei suoi colleghi, voleva leggere una dissertazione sul modo di comprendere i famosi Sinottici [Kritik der evangelischen Geschichte der Synoptiker] di Bruno Bauer. Se si riflette, quanto pericolosa minacci di essere nel tempo nostro per la teologia tradizionale la scienza, e questa in senso più alto come filosofia, e come già si sia udita poco fa la proposta di educare gli allievi di teologia alla loro futura vocazione in speciali seminari di predicatori, e anche come Marheineke stesso nel suo “voto teologico” accenni con orrore a questo orribile evento – se si riflette a tutto questo – non si troverà nulla di impressionante in quella confessione che la scienza riesce soltanto a disturbare il disinvolto esercizio dell’ufficio ecclesiastico, ma si sarà costretti ad ammettere la franchezza di quel candore che non si dissimula l’inevitabile. Finora si rappresentava soltanto teoricamente e timidamente il magnifico vantaggio che derivava dalla completa rinuncia alla scienza tanto pericolosa; la questione posta dal soprintendente e il consenso dei suoi colleghi formano il primo lieto passo avanti verso una pratica opera e il coraggioso apprezzamento di ciò che è necessario. Di fronte a questa chiara coscienza della vocazione di un odierno ecclesiastico, di fronte all’opinione che il predicatore può esercitare le sue funzioni con serenità e con tranquillità soltanto quando si tiene lontano da tutte le pericolose investigazioni dell’implacabile critica e non lascia turbare la sicurezza della sua fede da riflessioni scientifiche o da dubbi, di fronte a questa semplice ed elevata stima di sé, il citato oppositore col suo esordio sui Sinottici deve trovarsi in brutta posizione e in ogni caso soccombere per questo motivo, che soltanto il modo di vedere del sopraintendente è coerente e vero, mentre il suo è manierato e artificioso. Secondo il proverbio: è sempre lodevole che il calzolaio si contenti di occuparsi delle sue tomaie.

La “Professione di fede dei Liberi” riferita nel nostro giornale (n. 194), e presa dal “Frankfurter Journal”, è in realtà il più risibile prodotto di questo mondo. Coloro che conoscono il tempo presente avevano appena bisogno di venire assicurati che simili rozzezze non vengono in mente – ai “Liberi” neppure in sogno. Ma ai creduloni voglio dare qui l’assicurazione che ho udito una quantità di Liberi ridere di cuore in gioconda compagnia di questa mistificazione; essi erano tutti completamente tranquilli sul fatto che qualcuno potesse ritenere come cosa sensata la stupidaggine del corrispondente del “Frankfurter Journal”, il quale pretende di essersi “trovato per caso in possesso della cosiddetta professione di fede dei settari”; e ritenevano che sia fuori luogo parlare anche in genere di una “professione di fede” dei “Liberi”, e che si riconoscerebbe che tutto ciò era una favola. Li avrei volentieri avvisati in segreto che non dovevano riporre una così cieca fiducia nella disinteressata opinione di tutti i lettori, ma non mi si sarebbe creduto. Qui però voglio dirlo.

La nostra piazza dell’Opera ha ricevuto un grazioso abbellimento con la costruzione di molte casette collegate tra loro per il tetto e piene di gusto, innalzate lungo il muro del giardino del palazzo là situato della principessa Leignitz. In quelle casette da alcuni giorni i fiori e i frutti collocati, gli oggetti finissimi di porcellana, di chincaglieria e i gingilli apprestano un colpo d’occhio affascinante, Prima, il vecchio muro offriva allo sguardo soltanto i manifesti appiccicati e molte cose poco pulite; il signor Faust, al quale appartengono queste casette, ce ne ha liberato meritandosi la nostra gratitudine. Ora sarebbe desiderabile soltanto che si prendesse a cuore di provvedere in molti luoghi a un bisogno al quale questo muro e altri simili dovettero finora servire in maniera poco piacevole. Le grandi città hanno bisogno di simili stabilimenti, e per entrambi i sessi.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 208, 27 luglio 1842]

10) I felici di vivere

“La vita non è il più alto dei beni!”. C’è una certa grandezza in un uomo che sa morire. D’altra parte, c’è una certa grandezza in un principio che volontariamente accetta il colpo mortale da un principio più elevato: la vita si spegne ma l’onore rimane. E una certa grandezza ci sarebbe anche in una Facoltà di teologia che avesse il coraggio di morire. Ma sommamente ripugnante è un uomo che giunto alla fine della vita trema davanti al passo estremo; un principio antico che seduce cuori deboli assicurando loro la vita; una Facoltà di teologia che dimentica il detto biblico: “Colui che vuol conservare la sua vita la perderà”. Chi lotta per l’onore, non guarda la vita; ma chi lotta per la sua vita non ha riguardi per l’onore. Perduto l’onore tutto è perduto! Povero diavolo tu che non possiedi nulla di più degno per cui sacrificarti, che la tua piccola vita! Affronterai l’avversario a petto nudo in un duello onorevole? No, ti coprirai con una semplice corazza e metterai gli sbirri alle spalle dell’avversario perché trattengano i suoi colpi. Tu non metterai in gioco la tua vita per l’onore, ma l’onore per la vita.

Ma chiudiamo il catechismo dell’onore e passiamo a un altro libro che sostiene il tenace amore per la vita. Contemporaneamente al terzo volume dei Sinottici di Bruno Bauer sono ora apparsi i Gutachten der evangelisch-theologischen Fakultäten der königl. preussischen Universitäten über den Lizentiaten Bruno Bauer [Pareri della Facoltà di Teologia evangelica delle regie università prussiane sul licenziato Bruno Bauer], in rapporto alla critica di costui sulla storia evangelica dei Sinottici, editi per incarico del superiore alto ministero della Facoltà di Teologia evangelica dell’università renana “Friedrich Wilhelm”. Vi si trovano i pareri di tre Facoltà che votarono all’unanimità, di una che si divise in parti eguali e di due che si sono pronunciate con voti separati. Cioè a Bonn, Halle e Königsberg i membri della Facoltà si manifestarono unanimi, e precisamente quelli di Bonn per l’allontanamento di Bruno Bauer, quelli di Halle e Königsberg contro l’allontanamento. A Greifswald due membri furono contro e due a favore. A Berlino, Marheineke diede un voto separato contro il resto della Facoltà ostile a Bauer e così fece Mitteldorpf a Breslavia.

Ora, qual è l’elemento essenziale comune di queste sei corporazioni e delle loro votazioni separate? Sembrerebbe che gli ostili a Bauer siano molto lontani dai favorevoli. Nulla di meno esatto. Gli avversari stanno male in piedi, ma i favorevoli non possono addirittura reggersi sulle gambe. Comune a tutti è invece la tenace gioia di vivere, l’istinto di conservazione, la paura della morte. “Purché si viva, tutto il resto può andare come vuole; vivere e lasciar vivere, questo è il motto. Soltanto che non si muoia, non si muoia! Chi pensa alla propria morte? Noi viviamo in uno Stato ordinato, dove è sancita la sicurezza della vita e della proprietà; lo Stato ci protegge! La nostra vita e la nostra proprietà sono per esso sacre!”.

Analizziamo questo tipico carattere dei pareri. La domanda è: potete voi, Facoltà, “esistere” se Bruno Bauer è fra di voi? La maggioranza grida: no! gli si dia un altro posto. Gli altri dicono: sì, noi possiamo ancora esistere. Così gli uni e gli altri vogliono esistere; nessuno pensa di dubitare della necessità della sua esistenza. Voltaire a un povero poeta che diceva “io devo pur vivere” tranquillamente rispose “io non ne vedo la necessità”. Il poeta che crede di dover vivere, non esaminerà se ciò sia necessario; ma il fatto che non si ponga mai questa domanda, dimostra appunto la sua miseria. Un uomo valente mette invece costantemente in dubbio la necessità della sua esistenza, e, per esempio preferirà la fame alla lettura di povere poesie; neppure la miseria più tormentosa avrebbe potuto indurre Schiller a strappare al prossimo il suo mantenimento con opere non meditate e buone a niente. È semplicemente ingenuo che sei Facoltà di teologia evangelica e i tanti teologi che ne fanno parte non soltanto non si pongano una minima domanda sulla necessità della loro esistenza ma addirittura pretendano che anche il mondo non se la ponga, e anzi, che ogni sensato ed equo giudice sia d’accordo con le loro parole e le loro azioni. Bruno Bauer nei Sinottici [Kritik der evangelischen Geschichte der Synoptiker] contesta espressamente quel diritto dei teologi a esistere, (togliti dai miei piedi, teologo!), attraverso due volumi annienta quel diritto, giudica i teologi, e poi (fatto umoristico e piacevole!) i giudicati sorgono a giudicare il giudice. Con l’occasione, essi ringraziano il ministro di aver loro permesso di diventare giudici di se stessi. Ma la cosa non sarebbe del tutto amena se questi giudici analizzassero il problema astraendolo da se stessi. Per carità! I giudici “sensati ed equi” non si chiedono: “Abbiamo il diritto di esistere oppure ha ragione Bauer nel dire che noi teologi, tutti insieme e distintamente, dobbiamo rinunciare alla vita, se vogliamo guadagnarci la vita?”. Si chiedono invece questo: “Danneggia Bauer, con la sua condotta, il nostro innegabile e sacro diritto all’esistenza, e perciò deve essere licenziato?”. A tale proposito essi sono di diverse opinioni e nel loro “parere” ci offrono uno spettacolo allegro ma davvero noioso per la scrupolosità teologica. Codesto è dunque il carattere che hanno in comune, e cioè che essi, come quel poetastro, non dubitano della necessità della loro esistenza. “Noi dobbiamo vivere!”. Ecco che cosa pensa il più debole egoismo; perché in quale altra maniera potremmo definire l’egoista se non come colui per il quale la vita è il più alto dei beni? L’egoista desidererà e vorrà la morte solo quando la vita gli sarà resa penosa. Perché meravigliarsi se talvolta capita di vedere nell’egoista la tremante smorfia della paura di morire?

Per quanto riguarda i singoli pareri, non val molto la pena di raggrupparli separatamente. Tre si fanno coraggio e negano esattamente che la morte abiti nel loro campo e voglia la sua preda; due trattengono il fiato di fronte alla falciatrice e ritengono che si tratti davvero della morte, ma non della loro morte; uno, infine, lusinga per un’ora la morte e per un’altra la nega. I signori che diedero voto separato appartengono alla seconda classe. Ma tutti hanno il terrore della morte; nessuno di loro pensa di essere superfluo. Fiutano nell’aria mattutina “le doglie di una nuova età”, ma non una rinascita.

Studiamoli dunque, secondo l’ordine alfabetico, che piacque loro assegnare al decano della Facoltà di Bonn; ma solo per incollare a ciascuno la piccola etichetta che secondo noi si adatta. Si potrebbero scrivere in merito grossi volumi, se non fosse sconveniente sprecare parole su tali argomenti. Il parere “più arrogante e saputello” apre la fila. Il signor censore vorrà non cancellarmi queste parole perché non mi appartengono. Anzi le prendo esattamente dallo stesso parere della Facoltà di Berlino. Eccone una sintesi: “La fede cristiana si basa su fatti storici e dunque dipende dal riconoscimento della realtà di tali fatti. Sulla premessa della credibilità della testimonianza che la Sacra scrittura offre sulle opere e sull’insegnamento di Cristo e della rivelazione divina manifestataci per suo mezzo, sul rispetto con il quale nella scrittura apprendiamo la parola di Dio, si basa non solo la teologia evangelica, ma anche l’uso della Sacra scrittura nella comunità dei fedeli. Ma Bruno Bauer al posto del cristianesimo storico pone un cristianesimo ideale, quello stesso che è nato dalle sue sfrenate e fantasiose speculazioni”. Quindi Bruno Bauer non è in grado di educare dei teologi e degli ecclesiastici e se si considera inoltre che egli giudica le opinioni scientifiche degli uomini più saggi e nobili quali i sottoscritti Neander, Twesten, Strauss e Henghtenberg, è chiaro che bisogna togliergli la libertà di insegnare.

Come si vede, i suddetti membri della Facoltà sono brevi e chiari.

Abbiamo già discusso (nel n. 151) del voto separato del Marheineke.

Dopo che Bruno Bauer ebbe scritto la sua Kritik der evangelischen Geschichte des Johannes [1840] [Critica della storia evangelica di Giovanni], rimase ancora “il conforto e la speranza che l’autore nei Vangeli sinottici riconoscesse e facesse valere il carattere essenzialmente storico del Vangelo anche nelle singole parti, e così lasciasse e rivendicasse alla fede cristiana almeno una parte importante della storia evangelica del Nuovo testamento come veritiera e degna di essere creduta. Ma che amara delusione per chi legge la sua critica dei Sinottici!”. E qui si mostra nei particolari come questo conforto e questa speranza siano falliti, e quindi Bruno Bauer non sia un cristiano. Ma poiché la Facoltà non è del parere che si debba concedere agli insegnanti della Chiesa evangelica o almeno agli accademici la totale libertà di insegnamento, si deve negare l’insegnamento a Bauer, ma non si devono “lasciar mancare i mezzi di sussistenza a un uomo provvisto di così notevoli pregi intellettuali” o “almeno gli si deve garantire l’assenza di preoccupazioni quotidiane mediante la clemente corresponsione di un sussidio”. Perché la loro filantropia fosse stata senza macchia, i membri della Facoltà probabilmente avrebbero potuto regalare a Bruno Bauer una parte del loro stipendio; che egli forse per i suoi notevoli pregi merita più di loro e potrebbe meglio utilizzare.

Numero 3, Breslavia: Bruno Bauer è peggio di Strauss; cacciamolo via!; il “Regolamento della Facoltà” lo scorti oltre i confini! Così pensano Hahn e Böhmer; perché Schulz, malato d’occhi, si astiene dal voto, e il dottor Mitteldorpf dà un voto separato nel senso che, anche se la Facoltà giustamente trovasse pericolose le opinioni di Bruno Bauer, tuttavia costui, visto che la sua opera in mano ai giudici è ancora incompleta, visto l’acume scientifico in essa contenuto, e visto che una teologia deve procedere dubitando, e visto che “la vera scienza della Teologia non ha che da guadagnarci dalle lotte dei partiti in campo, con finale salvezza della religione”, deve essere incoraggiato nel suo insegnamento. Che cosa c’è alla base di questo voto? La paterna credenza in una “Scienza della teologia”, il non rendersi conto del pericolo che la scienza rappresenta per la teologia, e cioè una totale incomprensione di quanto concerne Bruno Bauer.

Il teologo deve vivere, e dunque pensa che Bruno Bauer sia utile a rendergli bella la vita.

Numero 4: Greifswald. I dottori Schirmer e Finelius scoprono acutamente che la concezione religiosa e morale del mondo di Bruno Bauer è in generale cristiana, ed egli nelle sue linee essenziali si trova su terreno cristiano. Gli si rimproverano però le sue idee preconcette nel modo seguente: “Se ritengo che un uomo sia pazzo a priori e a posteriori lo dimostro, la mia idea preconcetta non ha alterato nessun giudizio”, e Bruno Bauer deve esser graziato, non foss’altro che per il motivo: “Le misure severe indurrebbero a dare agli scritti di Bruno Bauer un peso maggiore dell’effettivo”.

Il voto dei dottori Vogt e Kosegarten è il migliore di tutti. Essi notano “nella filosofia della coscienza di sé cioè nella filosofia di Bruno Bauer soltanto il tentativo di divinizzare totalmente la coscienza umana di se stessi”. Certamente, divinizzare non è la espressione esatta, ma successivamente essa è sviluppata. Ma poiché il compito di una Facoltà di teologia è scientifico e religioso, non solo di scienza in generale, ma di educazione scientifica alla conoscenza al consolidamento ed alla diffusione della fede (quindi scienza come mezzo al servizio di Dio), Bruno Bauer può “cercare di formare una comunità di dotti, come è stato già proposto da altri; ma non lo faccia sotto l’egida della Facoltà evangelica di teologia!”. Poiché “la Chiesa evangelica non può rinunciare al principio di giustificare concretamente la fede solo con la credenza in Cristo e di ammettere formalmente l’autorità della Sacra scrittura come norma delle azioni, senza rinunciare alla sua propria vita ed esistenza”. Qui è evidente, e i sottoscritti lo sanno e lo confessano, che essi si preoccupano soltanto della loro vita ed esistenza.

Dobbiamo ancora parlare della Facoltà di Halle e di quella di Königsberg? Entrambe vogliono conservare il licenziato Bruno Bauer, ma per motivi che non sono degni nemmeno di essere espressi. Quale effetto avrebbe lo scandalo suscitato con l’allontanamento di Bruno Bauer? “Il giornalismo liberale indubbiamente lo esalterebbe come un martire del protestantesimo e della libertà di credenza e lo piangerebbe come vittima della reazione; comunque ciò provocherebbe uno sdegno generale nel mondo protestante”, ecc. Nel parere di Halle troviamo solo la notizia molto interessante che il ministro Eichhorn per esprimere un giudizio non ha atteso quello delle Facoltà “competenti”, e ha detto che “le opinioni risultanti dallo scritto attaccano la sostanza e l’essenza della verità cristiana nelle sue radici, e con ciò quindi la Facoltà non poteva che aderire a questo giudizio”.

Fortunatamente siamo alla fine. Solo due sguardi indietro per concludere.

La “limitata libertà di insegnamento” sta confusamente ricamata su tutta la bandiera teologica, che ci hanno sventolato sugli occhi. Il senso di questa figura mistica è il seguente: l’indagine scientifica è “libera” fino a quando è “non libera”. Esempio: se Galileo avesse indagato soltanto “come” faccia il sole a girare attorno alla terra, avrebbe potuto continuare in eterno la sua innocua “libera” indagine, a maggior utilità dei cristiani ortodossi. Ma poiché tale indagine lo condusse a chiedersi “se” il sole girava attorno alla terra, il fatto diventò pericoloso e l’indagine divenne “temeraria, sfrontata, scettica, pseudocritica, morbosamente esaltata”, ecc. Si trattò di alto tradimento nei confronti della fede: si dispone della proposizione: il sole si muove attorno alla terra, come “il principio immutabile dei credenti in Cristo”. In questa arena si può fare qualsiasi tipo di salto o capriola. Al di fuori di essa c’è l’abisso, il diavolo; essa è “base immutabile”. Analogamente, i libri simbolici non devono essere stimati invariabili però devono essere ritenuti tali perché è “invariabile il loro principio”. Ciò lo si deve intendere così: come un uomo non rimane un fanciullo ma si sviluppa, allo stesso modo la nostra “conoscenza” si deve evolvere. Ma questo fiore non deve mai appassire, anzi deve restare inalterato. Resta dunque il medesimo, l’uomo? Egli va verso la morte; e ci va tanto più coraggiosamente quanto più è nobile. Ma i teologi insistono sulla “indefinita perfettibilità” perché atterriti dalla morte. Ovunque immagini di vita gioiosa e di paura di morire. E tuttavia si riferiscono dappertutto a Lutero. Trecento anni fa Lutero fu il bambino che sboccia. Il teologo adesso è vecchio di trecento anni e crede ancora d’essere un giovane e fresco Lutero.

Un’ultima oziosa domanda.

Avrebbero potuto le Facolta giudicare diversamente? No! Così poco come uno, che crede la Chiesa cattolica essere la sola a condurre alla beatitudine, può ammettere che anche la Chiesa protestante faccia beati. Ma avrebbero le Facoltà potuto superare se stesse e compiere un atto di rinuncia? Quesito assurdo, come chiedersi se un delinquente incallito possa convertirsi. I fatti lo dicono. È noto che anche la nobiltà francese ha “niente dimenticato e niente imparato”. E avrebbe potuto dimenticare e imparare? Ha dimostrato di non aver “potuto”.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 309, supplemento, 5 novembre 1842]

11) Arte e scienza

Ha mai mandato la stampa berlinese in giro un libro come quello recentemente apparso: Bruno Bauer und seine Gegner [Bruno Bauer e i suoi avversari], di Edgar Bauer? Che mi resta da dire su questo libro? Nulla. E sui suoi lettori? È lo stesso autore a definirli nella piccola Prefazione: “Questo libro non vuole essere bello ma chiaro, non tortuoso ma dritto, non per una aristocratica casta di dotti ma per chiunque sappia leggere”.

Curiosamente un corrispondente della “Vossische Zeitung” [“Rivista di Voss”] lo raccomanda. I lettori non dovranno necessariamente conoscere le opere di Bruno Bauer; basterà che sappiano leggere; ciò significa che Bruno Bauer rappresenta solo un punto di partenza per trattare le varie questioni del giorno (le vere questioni del giorno sono sempre le idee eterne) e noi le tratteremo con qualche smorfia o digressione ma sempre coraggiosamente.

Ma a che serve una descrizione? Bisognerebbe leggere il libro; comunque, visto che un giornale universale ha l’obbligo di fornire ai suoi lettori i pensieri più freschi di uno scrittore sulla situazione mondiale, per stimolare la lettura, riprodurremo di seguito alcuni frammenti.

“Un conquistatore arabo che fece bruciare la biblioteca di Alessandria perché ogni sapienza del passato per lui era nulla a confronto del Corano, agì come agisce un principe nuovo quando vuole dominare distruggendo. E più distrugge più dimostra la sua forza come il cristianesimo che fu solo una formidabile lotta di distruzione. La storia non conosce altri simili scosse per rinnovare l’umanità. È davvero così: ogni principio che sorge nella storia del mondo è vandalico; ed è tale per attuarsi non potendo sviluppare interamente la sua verità in altro modo né indicare dove vuol condurre l’umanità. In questa avanzata tempestosa esso si rafforza incontrando resistenze; anzi queste resistenze sono necessarie per renderlo cosciente di tutta la sua forza. Nel suo cammino necessario il principio calpesta chi gli si oppone e lo distrugge senza riguardi; e non si ferma finché esisterà anche un solo nemico. Nessuna costrizione e nessuna legge può ostacolarlo: esso penetra implacabile perché è la sua norma a prescrivergli il cammino. E invece quanto diversa è la rivoluzione del nostro tempo!

“Che significano le vostre domande su ciò che noi arrechiamo di nuovo? Noi non vi portiamo né nuove categorie né un nuovo Corano: vi portiamo voi stessi. La rivoluzione non vuole né legare di nuovo l’umanità né costringerla con violenza a una nuova regola di sviluppo. Infatti non si tratta di una rivoluzione islamica o cristiana, ma di una rivoluzione dell’umanità che vuole trovare in se stessa la regola per nuovi sviluppi, che sia essa stessa a intraprendere la nuova costruzione con fiera coscienza della propria forza; una costruzione più grandiosa di tutte quelle finora compiute: perché sarà la ragione stessa a guidarla...

“Quel che ci viene spesso rimproverato è vero: il nuovo principio è sanculotto, cioè la sua verità si presenta nuda e senza veli e per questo crede di poter vincere più presto. La verità è sanculotta anche perché non desidera isolarsi né essere uno stuolo d’idee; anzi desidera scendere, fin nelle regioni più basse e con la chiara nozione dell’umanità distruggere ogni differenza, santificare il più nobile. Soltanto sotto questa bandiera umana riesce a suscitare sacrifici nei suoi combattenti e entusiasmo e fanatismo incapaci di indietreggiare. Anche piccolo il partito dell’umanità è potente e incoercibile perché combatte per un concetto eterno. Anzi, ha appena bisogno di combattere perché i nemici non avendo la ragione dalla loro parte, non hanno anima, e come un caos senza legge, pieno di egoismo, odio e pregiudizio, crolleranno in se stessi distruggendosi...

“Ciò che è vecchio non ha forza; si tentò quindi di rinvigorirlo col nuovo, cercando di conciliarli. Ma se la forza vitale risiede soltanto nel nuovo perché non rivolgersi direttamente a esso? Perché hanno snaturato il nuovo miscelandolo all’antico? Voi cristiani, non sapete che anche il cristianesimo non avrebbe potuto essere contemporaneamente cristiano ed ebreo o pagano? No, ogni principio, specialmente appena nato, deve fuggire ogni conciliazione o mescolanza”.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 318, supplemento, 14 novembre 1842]

VIII
Risposta di un membro della comunità berlinese alla lettera dei cinquantasette ecclesiastici intitolata La festività domenicale. Parola d’amore ai nostri parrocchiani

Cari Fratelli e Sorelle!

Ci fu rivolta una parola d’amore, alla quale non possiamo chiudere le nostre orecchie. Il primo giorno dell’anno corrente fu consegnato ai frequentatori delle chiese, in Berlino, nella casa di Dio, un opuscolo intitolato: Die christliche Sonntagsfeier. Ein Wort der Liebe an unsere Gemeinen [La festività domenicale cristiana. Parola d’amore ai nostri parrocchiani], e questa è cosa che ci tocca molto da vicino. Riassumiamo il contenuto, prima di occuparci delle sue singole parti, con le poche caratteristiche parole della pagina seconda: “Essendo innegabile che la decadenza della Chiesa si manifesta esteriormente nel modo più forte mediante la profanazione delle feste ecclesiastiche, e che i membri di altre comunità religiose molto si scandalizzano del modo con cui fra noi si passano i giorni festivi, ecc., offriamo anzitutto ai nostri parrocchiani questo libro sulle festività cristiane, non già perché riteniamo che questa cosa sia la più importante nella pietà cristiana, ma perché crediamo che per la cosa più importante, cioè per la verità cristiana e per l’amore cristiano, si acquisterà maggiore predisposizione e attività se si restituiranno i giorni festivi alla loro destinazione originaria, cioè all’astensione del lavoro, al serio rientramento in se stessi, all’attenzione della parola divina”. Così cinquantasette dei nostri ecclesiastici evangelici, i cui nomi sono apposti alla fine dell’opuscolo, ci fanno sapere esplicitamente che la Chiesa è in decadenza e ci accusano di mentalità e di azioni contrarie alla Chiesa. Chi finora non volle credere che i devoti diminuiscono sempre e le chiese cristiane si fanno sempre più deserte, apprende ora questo fatto incontestabile da coloro che indubbiamente sono in grado di dare a tal proposito le migliori informazioni. Essi ci richiamano ai posti abbandonati, facendo amichevoli cenni con paterna amorevolezza ai figli degenerati; ma noi abbiamo inconsapevolmente oltrepassato i sacri ambienti della chiesa e i limiti della fede devota, e soltanto ora ci accorgiamo, mediante l’appello, della nostra involontaria fuga. Permetteteci dunque di darci ragione esattamente del nostro stato presente, e di ponderare a fondo da tutte le parti la dura parola che ci “manifesta la decadenza della Chiesa”, senza tremare di quanto essa confessa.

Nulla ci giova tanto quanto la sincerità verso noi stessi, e nulla ci danneggia più che il nascondere per paura un fatto incontestabile e il non voler sapere nulla di ciò che non possiamo negare o cambiare. Raccogliete, o diletti, il vostro spirito e soprattutto il vostro coraggio!

Quelli che ci eccitano a convertirci ci ricordano anzitutto che noi in realtà siamo già fautori della vecchia patria e in terra straniera. Ringraziamo dunque quelli che indicano in fondo il nostro progresso, alla cui realtà non credevamo ancora. Costoro ci gridano: voi non pensate più come vuole la Chiesa! Se non coltiviamo più i sentimenti cristiani (se non ci lasciamo influenzare dalla ipocrisia e da paure vili, non possiamo più nascondere sotto certi aspetti che quell’accusa ci colpisce in pieno), ci chiediamo involontariamente: che cosa siamo? Siamo diventati peggiori per il fatto che non siamo più religiosi all’antica maniera?

Certamente, il rimprovero scagliato alla nostra coscienza in un’ora in cui può impressionarla, ha la forza di terrorizzarci sia pure momentaneamente e di generare un pentimento che provoca per qualche tempo il proposito di frequentare in avvenire coscienziosamente la chiesa. Ma per quanto ciò possa durare, ritorneremo a essere i vecchi peccatori perché il pentimento ci spinge all’espiazione, e la noia dell’espiazione ci spinge di nuovo al peccato. Pietoso destino di coloro che, scontenti del loro operato, benché in questo non facciano altro che seguire la tendenza del loro tempo, non possono tuttavia correggersi. Essi non hanno la forza di assumere una posizione contraria, non hanno il coraggio, il senso di libertà necessario per lasciar trasportare se stessi e la loro coscienza tranquilla nella dimensione del momento. Vorrebbero essere buoni cristiani, se ciò fosse ancora di moda, e amerebbero anche camminare col loro tempo e con l’evidente indifferenza del loro tempo verso il cristianesimo o forse soltanto verso certe esteriorità del cristianesimo, se non fosse per riguardo alla vecchia fede e alla vecchia paura. E così ondeggiano fra cielo e terra, troppo pesanti per salire, troppo leggeri per scendere: situazione disperata! Per conquistare simili anime si adoperano coloro che hanno cura delle anime, e certamente ne acchiapperanno molte. Anche noi tuttavia, abbiamo il dovere di salvare.

Guarda là un capriolo che trema dal freddo,
fugge attraverso la neve davanti ai lupi!
Lascialo entrare, così potrà salvarsi!

Che cosa dunque nel vecchio mondo ci rende così freddi e indifferenti, che cosa ci manca? Manca un entusiasmo che infiammi gli uomini, che consumi nella pura sua fiamma i dubbi del pensiero e le deviazioni dei sensi, che faccia della morte una resurrezione! Noi siamo bramosi di tale entusiasmo!

Sappiamo forse entusiasmarci così per la Chiesa? Forse la predica dei pastori eccita in noi l’entusiasmo che conduce gioiosamente al campo di battaglia mortale; predicano costoro un nuovo vangelo, come quello con cui un giorno Lutero rapì gli animi generosi e scosse dall’inerzia il mondo sonnolente? O forse l’animo nostro non ha bisogno di alcuna nuova rivelazione della verità? Siamo, per non ricordare che una cosa sola, contenti di quel fatalistico abbandono che preferisce soffrire in silenzio che cercare di farsi le proprie ragioni e non tenere mai abbastanza conto dei propri diritti? Vogliamo continuare a obbedire in terra ed essere liberi soltanto in cielo? Non facciamo credere a noi stessi che sia così: agiamo più ragionevolmente. Tuttavia nel nostro agire non siamo sempre coerenti, appunto perché ancora in molte maniere abbindolati dalla vecchia fede e dalle sue paure. In nessun altro caso tolleriamo la violenza fuorché quando abbiamo paura di sostenere il nostro diritto; purtroppo questa paura l’abbiamo spesso e rinneghiamo il nostro diritto e quindi anche Dio, semplicemente perché prendiamo alla lettera la sentenza che si deve presentare l’altra guancia quando la prima è percossa. Ciò sta bene, quando perdoniamo un’offesa fatta alla nostra persona; ma fondandoci su quella sentenza noi alieniamo anche i nostri inalienabili diritti e ci lasciamo trattare come bambini, là dove dovremmo salvaguardare l’incancellabile diritto dell’uomo, ci lasciamo mettere sotto tutela, quando è torto disonorante il non avere una bocca propria e un discorso proprio, strisciamo quando dovremmo pagar di persona, siamo macchine quando dovremmo essere spiriti liberatori di noi stessi e di altri.

Se fossimo in generale così indifferenti alle cose di questo mondo e soltanto desiderosi del cielo, come vedremmo volentieri i vostri pastori? Siamo forse insensibili ai beni della terra, per possedere di più in cielo? Vogliamo, soltanto, ascoltare dai nostri predicatori a che cosa dobbiamo rinunciare qui per ricevere molto lassù; come dobbiamo mortificarci e rinunciare alle gioie mondane per essere assunti in cielo? Siamo, in una parola, futuri cittadini del cielo e non cittadini della terra? Ma se siamo anche cittadini della terra, non vogliamo lasciarci ammaestrare su ciò che conviene ai cittadini della terra? A questi ultimi si conviene soltanto la paziente dolcezza, oppure devono essere anche uomini che hanno coscienza di sé e non vogliono essere guidati con le bretelle, poiché sanno seguire da soli la propria via?

Facciamo in modo che quei maestri che si chiamano predicatori ci possano dire che cos’è che determina il valore dell’uomo, senza sentirsi vincolati essi stessi a esporci nella vecchia forma tradizionale che cosa forma l’ornamento dei cristiani, e frequenteremo con zelo e gioia le loro chiese. Sia enunciato il principio della libertà d’insegnamento, e ciascun libero maestro raccoglierà intorno a sé volonterosi e instancabili uditori! Non siamo uomini prima di essere cristiani, e non restiamo uomini anche dopo essere diventati cristiani? Perché dunque vogliamo sapere soltanto in che consiste la destinazione e la vocazione del cristiano, e non apprendere prima di tutto quali cose sono degne dell’uomo? Perché pensiamo che, se siamo cristiani, siamo veri uomini! Concedo di considerare il vero cristiano come equivalente del vero uomo. Anche così comunque rimane nostro unico compito il chiederci che cosa sia veramente umano. Che cosa avverrà, se ciò che è cristiano (almeno nel senso in cui oggi si intende e si insegna ciò che è cristiano) non coincide con quanto è puramente umano? Devo tacere quanto sia tale il caso presente, perché non godo della libertà d’insegnamento. Ma voglio rimandarvi a Lutero. Ciò che al suo tempo era ritenuto cristiano, era antiumano e cattivo. Non si prese egli la libertà del pensiero, benché vietata, di mostrare quanto fosse miserabile quello che allora era considerato come cristiano? Egli pose a sé e al mondo la domanda, che cosa sia ciò che è puramente cristiano. Liberamente indagò su tale argomento, e poiché riconobbe per cristiano quello che è nella Bibbia, lo predicò senza timore. Se tre secoli d’instancabile ricerca nelle profondità del divino ci hanno rilevato che anche ciò che si definisce conforme alla Bibbia non è la verità, dobbiamo insistere nell’errore, anche se ne soffre ciò che è umano? Dobbiamo attenerci a ciò che è cristiano, anche con sacrificio di ciò che è umano? Vorremo essere cristiani a ogni costo, e particolarmente a questo prezzo? Il vero uomo è il vero cristiano! Insegnateci dunque che cosa è il vero uomo, e noi impareremo a essere veri cristiani. Non vogliamo sapere nulla di cristiano, se ciò non è l’umano. Insegnateci la religione dell’umanità! Ma – questa domanda sorge qui subito – i predicatori di questa illustre religione, dovranno essere astratti in un simbolo come gli odierni predicatori delle confessioni cristiane? Dovranno venire costretti in un regolamento? Che cosa avremmo guadagnato, se anche questa religione ci ingannasse in fatto di liberi maestri? No, l’umano non è ciò che altri hanno riconosciuto per tale e che devo credere sulla loro parola, ma ciò che comprendo con tutta la mia anima e chiamo mio proprio. Non sono un uomo completo se credo soltanto quello che gli altri mi raccontano e mi assicurano intorno alla mia propria intima natura, alla mia vocazione e al Dio che abita in me stesso. Sono un uomo completo soltanto se riconosco da me quelle cose, se ne sono compenetrato e persuaso. Lasciate ora che il maestro stia di fronte a me e mi rivolga le sue ponderate parole; le seguirò e le farò mie proprie in quanto esse mi persuadono. Ma in quanto non mi persuadono, non saranno per me un articolo di fede. Non mi renderò dipendente da nulla che non sia me stesso o da cui non sia fin nell’intimo convinto. Ma è invece tenuto il predicatore a inculcarmi articoli di fede, oppure è sua missione il convincermi, l’ammaestrarmi in merito a me stesso, in merito allo spirito che abita in me ed è di origine divina, di cui ho bisogno di diventare consapevole soltanto a me stesso? Questo è il prete, che esige imperiosamente la mia fede, quello è il confratello e l’uomo che mi conduce unicamente a me stesso, sicuro di ciò, che non rinuncierò mai più a me stesso una volta che abbia acquistato e posseduto me stesso. Quegli soltanto è “umano” che è completamente in se stesso, e il vero uomo mira continuamente a diventare simile allo spirito esterno, a Dio stesso; Dio è appunto la mia parte migliore, la mia profonda natura, il migliore o piuttosto l’ottimo e vero me stesso. Dio è l’uomo, tale è la dottrina di Cristo; chi possiede completamente se stesso, chi è peraltro nel santuario del suo proprio essere, chi abita presso di sé, abita presso il padre. Così ci insegna Cristo che noi dobbiamo essere cristiani, e quando Cristo si rifarà vivente nei cristiani, questo sarà il suo vero ritorno, allora Cristo ricomparirà sulla terra. Pensate che ciò che vi dico sia bestemmia? O no: il Dio, che la parola profetica di Cristo ci annuncia, il Cristo ritornante, sarà celebrato in quel modo. Fate che i maestri ci conducano a voi stessi, e divezzateli dalle frasi di cui abusano come se volessero condurci a Dio, e li ascolteremo con amore. D’altronde, essi ci conducono a Dio se ci conducono a noi stessi, e questa espressione non è falsa; ma quale abuso se ne fa, e come vengono ingannati i credenti! Dio, insegnano costoro, è fuori di noi, un’altra persona: noi non possiamo fondargli un tempio in noi stessi. Sono cose diverse il servire nel miglior modo noi stessi oppure il cercare di piacere a lui, al Signore estraneo a noi. Da servitori siamo diventati figli, ma non uomini liberi ed emancipati. Non abbiamo fatto altro che cambiare un cupo Signore con un Padre amoroso, ma non siamo spiriti che per libero impulso si facciano servitori di Dio. “Però voi dovete essere perfetti, come è perfetto il Padre nostro nei cieli”.

Noi riteniamo di poter avere una religione accanto alle nostre rimanenti convinzioni. Conoscendo noi stessi riconosciamo Dio e il mondo, amando noi stessi amiamo tutti, cercando noi stessi cerchiamo Dio, possedendo noi stessi possediamo tutto, miriamo nel senso più elevato anzitutto a noi stessi, così ci sarà attribuito anche tutto il resto. Nulla ci è così nascosto, come noi siamo nascosti a noi stessi; ma nulla anche può diventare così manifesto come il nostro io; e anche in ciò Dio si rivela al nostro spirito che lo cerca.

Indaghiamo noi stessi se realmente siamo soddisfatti quando i nostri predicatori continuamente ci indirizzano a Dio, a un Dio che non è il nostro stesso io. Potremo mai diventare con lui una cosa sola? Soltanto con noi stessi possiamo diventare una sola e unica cosa, non con un altro che sempre, anche nella più intima unione, deve restare a noi estraneo, un Signore e Padre in inaccessibile maestà. Cacciamo da noi l’umiltà, la quale ha bisogno di un padrone, e siamo noi stessi. Confessiamo a noi stessi che vogliamo questo, abbiamo soltanto il coraggio di non nascondercelo più a lungo, non abbiamo più paura di pensare quelle cose che pur facciamo inconsapevolmente; perché da lungo tempo non siamo più timorati di Dio alla vecchia maniera, e i nostri pastori ci dicono che abbiamo perduto la mentalità religiosa. Ci aggiriamo ancora così nelle vecchie usanze e crediamo di essere buoni cristiani; ma prendiamo a cuore la parola dei nostri pastori e non lasciamola risuonare inascoltata e inosservata; essi, che hanno per missione di essere nostri maestri, ci annunciano che siamo cattivi cristiani. Sì, arriviamo così alla conoscenza e ammettiamolo francamente: noi non siamo più credenti! Non crediamo più seriamente al vecchio Signore Iddio, e se soltanto sapessimo in qual modo senza di lui il mondo poté formarsi e sussistere, non avremmo più bisogno di questa ipotesi completamente infondata, cioè del Signore Iddio. Quando con questa conoscenza di noi stessi avremo gettato via il peso dell’inganno, e ci saremo detti apertamente come ci troviamo nei confronti di noi stessi e della nostra fede, allora pretenderemo per i nostri maestri la libertà di parola, la inalienabile libertà d’insegnamento. Perderemo difficilmente cose che vorremmo continuare a possedere, ma guadagneremo molte cose che non avremmo mai osato sognare nel nostro trasognato attaccamento alla vecchia fede.

Osserviamo ora un po’ più da vicino la presente parola d’amore ai nostri parrocchiani. I nostri ecclesiastici ai quali è affidata la cura della parola divina, vogliono rivolgerci una parola di serietà e d’amore circa la celebrazione dei nostri giorni cristiani domenicali e festivi. Fermiamoci un momento su questa “cura a loro affidata della parola divina”. Si deve intendere con ciò la cura di insegnarci tutto quanto essi riconoscono, sentono e ritengono per vero, di manifestarci i loro animi e quelle verità che essi hanno trovato nel loro più serio sforzo verso l’eterna verità, oppure si deve intendere la cura di spiegarci letteralmente la Bibbia, fedelmente e senza introdurre nella spiegazione alcun giudizio, e di venerare la parola della Bibbia come parola di Dio? Nessuno può dubitare di questo, che un predicatore cristiano si fonda unicamente sulla seconda di queste due interpretazioni. Ma dev’essere anche difficile trovare uno il cui spirito devoto non sia stato già profondamente offeso da molte prediche in cui un servile ministro della parola divina abbia con tutte le immaginabili abilità della sottigliezza girato e sofisticato intorno alla parola della Bibbia tanto a lungo, finché ne uscì un senso per lui accettabile. Oh, è ripugnante questo sofisticare ciò che sta scritto, ciò a cui non ci si deve accostare, appunto perché sta scritto che l’ecclesiastico deve soltanto lodarlo, non biasimarlo. Egli deve, come si legge nell’opuscolo, “instillare ai nostri figli il terzo comandamento”; egli deve! Chiediamoci se siamo contenti che ci si dica: così è scritto! Siamo tranquilli riguardo i nostri dubbi, non appena sapremo che la Bibbia dice così e così? Una cosa ha per noi valore di verità, perché la leggiamo nel Testamento? Vogliamo soltanto udire esporre la Scrittura o aspirare alla eterna verità? E se a questa aspiriamo, ci basta un “ministro della parola divina” che giurò sulla Bibbia di impartirci unicamente insegnamenti biblici, che giurò di tacerci le sue idee eterodosse e i suoi dubbi, o non cerchiamo piuttosto un libero maestro? In verità è più augusto e divino intendere un uomo libero che ascoltare come un servitore della parola intoni i suoi canti obbligati e zelanti. Ascolto più volentieri un peccatore che si è smarrito nella lotta dei pensieri che novantanove simili giusti.

Ma per ora dobbiamo tener dietro ancora con attenzione alle parole di costoro.

Noi potremo sentirci lusingati dall’esordio del discorso, perché ci si dice che “una parte notevole degli abitanti evangelici di Berlino si distingue vantaggiosamente dagli abitanti di altre località della nostra patria nella celebrazione della festività domenicale”; se non dovessimo dubitare seriamente dell’esattezza di questo dato e se d’altronde non risonasse subito dopo il grido di lamento sulle “chiese deserte”. Innanzitutto però si legge nell’Introduzione: “Fu un frutto benedetto delle dure calamità che più di trent’anni fa colpirono la nostra patria che tanti cuori si rivolgessero a quel Dio che ci aveva percossi, onde egli volesse ancora salvarci”. Il Dio che ci aveva colpiti era il nostro miglior Io, che indietreggiò dal Reno e infranse il nostro fiacco egoismo; e noi ci rivolgemmo di nuovo a lui, dapprima certamente con vacillante religiosità ma da ultimo (e questo è il frutto benedetto dei trent’anni, anzi quello veramente benedetto!) con cosciente e virile coraggio. E ora appunto, che non lo cerchiamo più soltanto nelle chiese, abbiamo fatto di lui ancora più la nostra gioia.

Più avanti ci viene detto: “In questo sono senza dubbio d’accordo con noi tutti i seri e coscienziosi abitanti della nostra città e del nostro popolo, che un popolo, il quale perde il timor di Dio e si scosta da ciò che di più alto e di più santo esista per gli uomini, e sulla strada di riperdere anche le benedizioni terrestri di cui ancora gode”. Noi, amici miei, siamo pure senza dubbio persone serie e coscienziose, e molti di noi sono anche abitanti di questa città e di questa patria; ma forse siamo per questo d’accordo, che il timore di Dio sia la cosa più alta e più santa? Può temere chi striscia nella polvere davanti a un essere terribile? Deve temere di fronte a un potente solo chi non ha in se stesso ogni dominio sopra sé? Noi abbiamo così poca paura come i nostri antenati, dei quali già un prode romano disse che si sentivano sicuri contro gli dèi e gli uomini. Come cristiani noi dovremmo già aver imparato non a temere Dio ma ad amarlo. Ma coloro vogliono che Dio troneggi fuori e sopra di noi, rivestito di tutta la forza e maestà, e davanti a lui il nostro animo devoto, assetato dalla grazia, preghi sempre in ginocchio e non per mezzo di azioni degne di uomini; il non temere un signore e padrone. Questo significa chiedere l’impossibile. Ma essi fanno bene a temerlo, essi che sono timorati di Dio. Nel Signore vive il loro proprio spirito già in questo, che è un puro spirito, quantunque essi lo cerchino ancora nell’altro mondo poiché è loro tuttora nascosto; finché coloro non arrivino a trovare se stessi, non possono altro che temere e amare Dio. Quindi possiamo anche concedere loro che tutti quelli i quali hanno gettato nell’al di là in forma di Dio la parte migliore di se stessi, cadono in un “angusto egoismo”, non appena depongono il timore di Dio. Può cessare di temere solo chi non ha più fuori di sé ma dentro di sé l’Onnipotente. Sicuro, noi non contestiamo loro nemmeno questo, che col timore di Dio vien meno anche il rispetto e che “al posto dell’obbedienza alle autorità poste da Dio e ai loro salutari ordinamenti, al posto della mite e seria decenza e moralità della casa e della famiglia, subentra un arbitrio sfrenato, una perenne ribellione contro i limiti che circoscrivono ogni uomo nel suo mestiere, un malcontento, un’inquietudine, un mormorare contro il proprio destino”; noi contestiamo loro ciò tanto meno, in quanto che i servitori della parola divina, che giurano sulla parola letterale della Bibbia, hanno precisamente il permesso di dire cose simili, mentre noi che vorremmo parlare come il cuore ci detta e come il cuore dovrebbe dettare a tutti, abbiamo soltanto l’ordine di tacere. Ma senza dubbio è vero che l’egoismo sale nella misura in cui il timor di Dio decade; perché sempre gli estremi si toccano e si eliminano a vicenda, poiché essi, sebbene fratelli nemici, sono appunto per questo strettissimi parenti.

Veniamo ora alla descrizione del nostro abbandono di Dio, e dobbiamo riferirla testualmente come chiara prova di quanto lucidamente i nostri ecclesiastici vedano la decadenza della Chiesa: “Noi notiamo con dolore come molti privino se stessi della grande benedizione che ci procura il vero riposo, la liberazione dalle cure e dalle pene della terra, l’elevazione dell’anima a Dio in un giorno determinato, a ciò stabilito da Dio. Senza voler qui offendere particolarmente singole classi sociali, lasciateci soltanto ricordare come i ricchi e i potenti si diano ora di preferenza nella sera del sabato ai loro divertimenti che spesso durano fino alla mattina della domenica, e con ciò si rendono inetti a qualsiasi seria sacra occupazione nella mattinata della domenica, come molti impiegati sbrighino con particolare piacere una parte dei loro affari nelle ore antimeridiane della domenica; come tanti industriali e commercianti lavorino apertamente almeno la metà della domenica nelle loro aziende e soltanto nel pomeriggio riposino, come in tutti i rami di mestieri e di industrie si compiano volentieri la domenica almeno lavori accessori come infine le compre e le vendite continuino di domenica in tutte le ore, fuorché là dove sono veramente punite dall’autorità. Quale triste esempio dà in ciò Berlino ai villaggi vicini e alle minori città, i cui abitanti sapendo che qui di domenica si compiono senza vergogna commerci e traffici d’ogni genere, appunto in quel giorno affluiscono così numerosi di buon mattino nella capitale, mentre nelle località circostanti le case di Dio restano vuote! Quale scandalo danno i nostri cristiani agli ebrei che abitano fra noi, i quali, fin quando rimane in loro una traccia di timor di Dio, non profanano mai in tal modo il loro sabato! E quale profondo dolore è specialmente per noi, vostri pastori, ai quali voi affidate i vostri figli per la cresima, doverli istruire, inculcare loro il terzo comandamento, mentre voi fornite loro spesso in casa l’esempio della trasgressione di quel comandamento da parte dei genitori e di coloro che li circondano più da vicino, o il vedere come garzoni e apprendisti di ogni sorta debbano lavorare quasi dappertutto la mattina della domenica, anzi fino alle più tarde ore del pomeriggio, per cui non possono più frequentare la casa di Dio e sono esposti alle peggiori tentazioni! Quante botteghe e officine ci sono ancora nella nostra capitale, che siano chiuse tutte le domeniche mattina? Quante casse che non vengano aperte durante l’intera giornata? Quante macchine, quanti telai che restino silenziosi tutta la domenica? Padri e madri, tutori e curanti dei giovani, quanti dei vostri figli frequentano ancora regolarmente al vostro fianco la casa di Dio? Quanti di essi, proprio negli anni più pericolosi, in cui si decide la direzione di tutta la loro vita, ascoltano ancora la parola della vita eterna, che li distolga dalla via del peccato e li renda qui e nell’altra vita beati e graditi a Dio?”. E considerando questo quadro spaventevole voi, o pastori, non scendete ancora in voi stessi, e non vi chiedete se la colpa non sia vostra? Interrogate i vostri cuori e riconoscete che nessun uomo libero può sedersi alla tavola dei servi!

Molte cose avremmo da dire su ciò che ci sta davanti, poiché certamente quasi in ogni parola dell’opuscolo troviamo ricca materia a considerazioni; per la brevità che ci siamo imposti può bastare il richiamare l’attenzione sopra un punto. Quale mirabile testimonianza della loro cultura danno i nostri pastori quando ci gridano: vergognatevi davanti agli ebrei e siate come gli ebrei! Ogni brillante argomento può servire quando vale a persuadere i fedeli cristiani. Se gli ebrei “non profanano mai in tal maniera il loro sabato”, noi dovremmo ritenere ciò come una prova che i loro bisogni ricevono nelle sinagoghe una soddisfazione maggiore di quella che i nostri pastori sanno o osano apprestare ai nostri bisogni. Fate che i pastori invece di una litania mandata a memoria offrano ai fedeli una libera parola, quale sgorga da un’anima fresca e da uno spirito vivente, e vedrete questo miracolo, che a dispetto delle sinagoghe le loro chiese si riempiranno. Essi sbagliano molto quando credono che noi abbiamo cacciato da noi la nostra parte più santa e che aspiriamo soltanto a frivolezze passeggere; noi non vogliamo soltanto più i loro discorsi incatenati alla lettura della Bibbia, e fuggiamo la tonaca sotto la quale non batte che un cuore fiacco, privo di coraggio, e l’untuoso sussurro che non si eleva mai fino ad un suono pieno di anima, fino all’aperta parola di uno spirito intrepido.

In seguito vengono esposte le ragioni per cui il giorno festivo deve essere celebrato; e poiché le ragioni già note non vengono aumentate da alcuna ragione nuova, non meritano particolare menzione e si rivelano notevoli soltanto per questo, che non vengono colorate con l’odiosa interpretazione con cui è colorato il resto.

Si devono pure respingere i sotterfugi dei tenaci frequentatori di chiese; e che questo avviene con alquanta prolissità, ma anche purtroppo con gran lusso di sottigliezze per niente persuasive. Nondimeno sono giusti gli ammonimenti rivolti ai cristiani dimentichi di Dio, i quali ne vengono colpiti in pieno. Essi non si devono scusare dicendo che servono Dio in “silenzio a modo loro”, poiché “la giusta benedizione può loro venire soltanto dalla comunione con altri nel servizio di Dio per mezzo del canto, della preghiera e della devota osservanza della parola divina”; e nemmeno devono dire che “essi compiono più volentieri il servizio di Dio nella libera natura”, perché “la natura e soltanto l’abito di Dio e i segreti dell’amore divino sono inclusi unicamente nella parola di Dio”; né devono protestare mancanza di tempo per frequentare le chiese, perché “con queste scuse essi possono caso mai scolparsi davanti a certi uomini, ma non davanti all’Onnisciente, al quale è manifesto tutto il cuore e la loro vita”. Ma infine “sbagliano soprattutto coloro che dicono che anche senza frequentare le chiese si può essere un brav’uomo, un buon cittadino, e perfino, come alcuni aggiungono, un buon cristiano; il celebrare le feste è un comandamento di Dio, e chi osserva tutta la legge ma pecca in un solo punto, è interamente colpevole”. Tutto ciò è molto buono, e contro simili argomenti i timorati di Dio non devono trovar risposta; chi teme Dio e tuttavia scansa il servizio Divino, come potrà insistere in quelle scuse? Ma noi, che non temiamo Dio, non cerchiamo nessuna scappatoia e non abbiamo bisogno di scuse, perché non siamo nella colpa ma nel giusto. Noi evitiamo la casa di Dio fin quando la parola di Dio è incatenata nella lettera e fin quando coloro che la divulgano non possono parlare come liberi spiriti.

Alle esortazioni di osservare la festa del sabato, e alla denuncia delle solite scuse come semplici raggiri, si aggiunge in fondo “il ricordo di quello che è necessario per celebrare felicemente il nostro giorno cristiano di riposo”. Con efficace calore si fa prendere a cuore il loro errore a coloro particolarmente che disturbano il riposo domenicale ai loro servitori e dipendenti. Noi, che per l’elevazione e la salvezza del genere umano nutriamo certamente altrettanto zelo quanto i pastori evangelici che hanno firmato l’opuscolo, siamo lontani dal contrastare un’esortazione tanto giustificata. Ma perché mai i nostri pastori non vogliono accorgersi che i loro veri avversari non sono “lo spirito mondano e la cinica indifferenza?”. Con questi non fu molto difficile agli uomini veramente pii il lottare. Ma di fronte a costoro si leva oggi un diverso nemico, di fronte al quale devono passare se non vogliono cedergli il campo; perché nel campo di battaglia entra il Cristo ritornato!

A che giova il guardarsi indietro con desiderio e l’auspicare il risveglio del buon tempo antico, in cui “al sabato il lavoro terminava un po’ prima degli altri giorni, e si tornava a casa e si mettevano in ordine le camere, affinché di domenica anche le prime ore della mattinata fossero libere da ogni disturbo. Allora la santificazione della giornata cominciava sin dal mattino, messe da parte tutte le occupazioni non strettamente necessarie, pace e silenzio regnavano nella casa. E come nella casa, così regnavano anche nelle piazze e nelle strade della città. Di rado si sentivano allora passare dei carri; gli uffici restavano chiusi; cessava il pubblico commercio; nulla interrompeva il sacro e severo silenzio del sabato. Allora il padre di famiglia, la madre, i padroni pensavano a raccogliere la loro gente intorno a sé per dire le devozioni. Si leggeva un passo della Bibbia, di preferenza il Vangelo e l’epistola della domenica, si intonava un cantico in lode in Dio. Poi tutti quelli la cui presenza non era assolutamente necessaria nella casa si recavano al pubblico servizio divino, e per quelli ch’eran rimasti a casa si aveva cura di fissare anticipatamente un’altra ora in cui potessero anche dal canto loro prendere parte al servizio divino e al riposo di quel giorno. Oh se tornassero a generalizzarsi fra noi gli antichi pii costumi!”. Sì, ma si sbaglia quando, dopo averci già presentati come modelli gli ebrei, ci vantano ora, perché li imitiamo, anche gli “Inglesi, Scozzesi e Americani del nord”, “presso i quali la domenica è strettamente osservata, e quelli sono popoli ricchi e fiorenti”. E perché mai sono ricchi e fiorenti? “Perché, si risponde, la devozione è utile a tutte le cose, ha le promesse di questa vita e della futura, e perché a coloro che aspirano soprattutto al regno di Dio ogni altra cosa è donata”. Oh disonesto paragone fra Tedeschi e Inglesi! Che si direbbe se si obiettasse che gli Inglesi sono ricchi e fiorenti perché sono liberi, e sono liberi a dispetto della tirannia della loro Chiesa? Se voi Tedeschi volete procurarvi un timor di Dio inglese e americano, non dimenticate anzitutto di portare di qua dall’oceano e di qua dalla Manica la libertà inglese e americana! L’uomo libero può sopportare perfino il peso straziante di un’altra Chiesa, fino al giorno in cui lo scarterà da sé; ma voi vorreste fare vostra anche la tirannia dei vincoli che gli Inglesi impongono alla coscienza, e ciò per un cieco e servile bigottismo.

No, indicateci la salute davanti, non dietro di noi: o forse possiamo tornare nel corpo delle nostre madri? La risurrezione è oggi ancora compresa come l’intendeva una volta Nicodemo, o la si trova, come lui, non contraria alla ragione? Se i nostri antenati erano felici con la loro pietà, a noi non è concesso conseguire con lo stesso mezzo la stessa fortuna. Ciò sarebbe all’incirca come se un uomo di quarant’anni volesse ancora trovare la sua gioia nel giuoco e nel ballo per la sola ragione che questi lo divertivano vent’anni prima. No, i tempi della devozione sono passati, e ciò che si definisce pio ai giorni nostri non può in realtà essere paragonato con la schietta devozione dei nostri antenati. Essa era allora uno stato d’animo sano, naturale, oggi è una morbosa sovreccitazione o un inganno di se stessi e di altri, una menzogna che abbiamo paura di confessare a noi medesimi. Il tempo presente esige il puramente umano, che del resto è il veramente divino. Non esige devozioni ma moralità e ragionevolezza; spirito maschio ed emancipato, non una infantilità sotto tutela; entusiasmo per il mondo sempre presente della volontà e dell’azione, non aspirazione all’al di là ciecamente devota. Tutto ciò potremmo sapere se soltanto volessimo riflettere bene su quali siano già ora i nostri sentimenti. Chiediamo forse ai nostri poeti, che onoriamo così profondamente, se sono devoti cristiani? Amiamo Schiller meno di Klopstock, perché questi ha cantato un Messia nel tono del nostro contorto pietismo mentre quello non ha composto nessuna ode cristianamente pia? Stimiamo di più l’uomo di Stato che fa sorvegliare e sopprimere le manifestazioni del pensiero, onde esse siano ortodosse in argomento di Stato e di Chiesa, oppure l’uomo di Stato che impone catene ortodosse al pensiero e alle aspirazioni degli uomini? Anzi, condanniamo uno solo dei nostri simili che ci sembra agire in modo morale e nobile, pensare in modo libero e intrepido, soltanto perché non pratica la devozione tradizionale? E se qualcuno di noi fa questo, non lo indichiamo forse come un cieco inquisitore che fa compassione? Non facciamo nemmeno accenno alla pretesa che un uomo sia devoto; quando egli è un libero pensatore come Schiller, ci vergogneremo di gemere su di lui e di abbandonarlo a Satana. Eppure Schiller non è un cristiano nel senso corrente e non è devoto! Ponderiamo nel nostro cuore questi giudizi che involontariamente esercitiamo, e scopriremo quanto i nostri pensieri rimangono indietro all’inconscia libertà delle nostre azioni. Ma, in verità, dove mai avremmo trovato occasione di educare il pensiero, dal momento che gli stessi pastori, chiamati a elevare e illuminare il nostro spirito, vogliono ricondurvi al buon tempo antico e dentro il corpo materno, e invece di rendere più forte la nostra coscienza la riempiono di paura e di tremore, affinché essa ci accusi e ci tormenti perché abbiamo perduto la devozione! La vita ci mostra, come l’ottimo fra i maestri, da lungo tempo ci insegna che la moralità e la libertà valgono più di una formale e morta devozione. Affrettateci a riconoscere quello che andiamo facendo, a far seguire l’esame e la consapevolezza dei fatti che si svolgono davanti a noi e della cultura che ci siamo involontariamente formata, affinché non continuiamo a dannare noi stessi e a ritornare bambini per timore di coscienza. Possiamo contribuire a far sì che il vicino sorvegli la frequenza alla chiesa e la devozione del suo vicino, l’amico incolpi l’amico, il fratello sgridi la sorella e la sorella il fratello perché non è abbastanza cristiano, e ciascuno denigri e perseguiti gli altri per causa della religione? E, se fossimo proprio così deboli da ritenere come una sventura la perdita dell’antica devozione, non si giungerebbe forse a questo; che gli ipocriti andrebbero in folla nelle chiese per conservare le loro cariche e la loro dignità, se sono funzionari, e se invece sono cittadini indipendenti, per non perdere la buona reputazione? Siamo forti, siamo abbastanza coraggiosi per cacciare da voi il Tentatore e dire apertamente: noi, che vogliamo ascoltare soltanto liberi maestri, siamo nella ragione con la nostra irreligiosità!

Se ora veniamo alla fine dell’opuscolo, apprendiamo come i singoli membri della comunità sopra i quali “questa parola d’amore non passa senza lasciare traccia” vengano richiesti di “formare intorno ai loro predicatori leghe di cristiani lietamente e seriamente risoluti non soltanto a prendere a cuore la celebrazione delle feste per proprio conto, ma anche a promuoverla dappertutto secondo le proprie forze”. È molto verosimile che andrà male per chiunque non si vergogni a non affiliarsi a quelle leghe, e che il nome di costui, mancando nelle liste di associazione, verrà prescritto.

E ora da ultimo la conclusione: “Da voi dipende che i santuari della vostra religione, che la maggior benedizione compartitaci da Dio, vengano tramandati intatti ai nostri discendenti, oppure che noi e costoro scendiamo sempre più in basso e prendiamo quanto ancora rimane fra noi di vera e schietta devozione, di senso filiale, di amore, di decenza e di buon costume. Voglia Iddio aprire ai vostri occhi e ai vostri cuori, onde riconosciate e scegliate il bene”! Sì, voglia egli rivelarsi a noi stessi! Perché dipende realmente da noi, che d’ora in poi regni la devota sottomissione o la morale e coraggiosa libertà. E se questa regnerà, non perciò periranno il senso filiale, l’amore, la decenza e il buon costume, ma anzi risorgeranno più nobili e più belli. Ci fu un tempo, in cui i sacerdoti pagani di Roma gemevano sul popolo, i cui templi restavano vuoti; ma fu il tempo in cui le chiese dei cristiani a mala pena potevano contenere i fedeli che vi affluivano. I templi vuoti, erano il segno esatto della pienezza dei tempi!

Oggi, quando la Chiesa, come altamente si proclama, decade, i nostri pastori vogliono ricondurci nei templi con brillanti parole. Essi, che come ecclesiastici cristiani devono sapere che non si imbotta il mosto in vecchi otri; altrimenti il mosto rompe gli otri e si versa, e gli otri restano vuoti. Si deve invece mettere il mosto in otri nuovi, così questi e quello si conserveranno. Essi potrebbero empire di nuovo le loro chiese, sebbene la decadenza della vecchia Chiesa, come essi stessi rabbrividendo prevedono, debba irresistibilmente progredire, se al posto del fuscello negli occhi del prossimo volessero vedere la trave negli occhi propri. Essi invece rimproverano il loro prossimo per la ragione che esso non vuole ascoltare predicatori sotto tutela e vincolati da obblighi perché questi non possono indicare che cosa lo spirito eternamente libero scruti nel profondo del divino. Questi invece suggeriscono parole che, per quanto elevate e sante, non suonano in una bocca non libera come parole umane, come parole prorompenti dalla profondità del cuore di un uomo sincero, ma come una verità priva di vita e pietrificata. Conquistatevi, o predicatori della parola divina, la libertà del parlare, e noi ci troveremo con gioia presso di voi; prima di tutto deponete la vostra mentalità servile, e allora potrete invitare a voi gli uomini liberi! Sacrificate sull’altare dell’eroismo la paura miserabile e voi sarete le nostre dilette guide; celebrate la festa della conquistata libertà d’insegnamento, e noi tutti festeggeremo volentieri la domenica con voi. Allora le vostre chiese saranno piene, e intorno a ciascun eroe della libera parola si raccoglieranno schiere avide di vita. Ma la Chiesa – voi stessi avete pronunziato l’irrevocabile parola – la Chiesa però perirà, se voi la cercherete soltanto nella forma e non nello spirito, e nella verità! Fiorirà una generazione di liberi uomini e, se così si vuole, un nuovo cristianesimo, ma in spirito e in verità che svilupperà sino a farne la religione del mondo la vecchia parola che si legge nella Bibbia: “Fra tutti gli uomini, chi teme Dio e fa il bene è gradito a Dio!”.

Io ho potuto presentare qui piuttosto con tagliente arditezza che con riflessiva profondità molto dei nostri più nobili e importanti argomenti, molti problemi di vasta importanza, – e come sarebbe stato possibile fare diversamente nel breve spazio di questi pochi fogli? –; ma voi procuratevi dei liberi maestri, dei predicatori della verità che non siano inceppati né guidati con le dande, e subito riceverete dai pulpiti quel più aperto e dettagliato insegnamento che voi desiderate. Così prendo congedo da voi e spero nel vostro risveglio. Non soltanto ai laici ho indirizzato le mie parole, ma anche a voi, ecclesiastici. Fate che, dovunque ci si veda, possiamo guardarci negli occhi come uomini liberi!



[Pubblicato col titolo: Gegenwort eines Mitglieds der Berliner Gemeinde wider die Schrift der siebenundfünfzig Berliner Geistlichen Die christliche Sonntagsfeier. Ein Wort der Liebe an unsere Gemeinen, in opuscolo nel gennaio del 1842 a Lipsia, edito da Robert Binder; ristampato a cura di Gustav Mayer nel 1913 nel quaderno I del vol. VI della “Zeitschrift für Politik”.]

IX
Il problema ebraico

1) [La corporazione degli Iloti]

Un corrispondente da Berlino della “Leipziger Allgemeine Zeitung” definisce “liberale” una legge che “concede i diritti corporativi alle comunità israelitiche”. Secondo una simile logica anche la legge spartana in base alla quale i Messeni spogliati della libertà e dell’onore vennero raccolti nella “corporazione degli Iloti”, poteva definirsi liberale, e la clausura medievale degli Ebrei nel quartiere ebraico (ghetto) sarebbe certamente una istituzione liberale, perché quei rinchiusi avevano dei diritti di corporazione loro propri, per i quali indubbiamente nessun cristiano li invidiava.



[“Rheinische Zeitung”, n. 131, 11 maggio 1842]

2) [Sulla questione degli Ebrei]

Quando, nell’opuscolo del consigliere di Stato Hoffmann, Zur Judenfrage [Sulla questione degli Ebrei], lessi il passo seguente: “All’ebreo nella sua posizione attuale le prescrizioni e gli usi della sua confessione religiosa rendono difficili compiere lavori manovali in comunione con i cristiani. I cristiani di ogni setta religiosa celebrano in comune le domeniche e in maggior numero delle feste della Chiesa. Gli Ebrei, essendo minoranza, non possono affacciare nessuna pretesa di ottenere un permesso di disturbare con l’esercizio pubblico del loro affare, le feste dei cristiani in questi giorni domenicali e festivi, i quali, presi insieme, formano quasi una sesta parte dell’anno”, mi prese un accesso di esagerato spirito cristiano di equità. Che cosa, pensai, ha a che fare qui la “minoranza”! Se i cristiani possono esigere che le loro feste non vengano disturbate dall’esercizio di affari, perché non possono esigerlo anche gli Ebrei? Se Dio non ha piacere che una devozione cristiana venga interrotta dal fracasso, egli sarà anche poco amico di quei cristiani che disturbano con strepiti di martelli e di asce una devozione ebraica. Quale distinzione è questa? Se Dio stesso esige riposo per i devoti, tutti devono riposare tanto il sabato quanto la domenica, questo è un privilegio del tutto esclusivo e ognuno intende quanto ciò sia giusto ed equo. L’autore dell’opuscolo Sulla questione degli Ebrei però lo intende diversamente, e con lui intendono, ne sono certo, milioni di buoni cristiani, che non trovino mal fatto che il giusto e la equità vengano pesati col criterio della “minoranza”. Costoro trovano perfettamente regolare il tenere proprio di sabato i loro rumorosi mercati e fare un pandemonio spazzando e ripulendo le loro immondizie della settimana in prossimità delle botteghe, case e sinagoghe degli Ebrei in preghiera, pandemonio che viene loro contraccambiato il giorno dopo dagli Ebrei con la chiusura delle botteghe ebraiche e la sospensione di ogni ebraico commercio. Quando l’ebreo prega, il cristiano traffica e fa pulizia e, quando il cristiano prega l’ebreo deve stare in ozio.

Simili curiosi grilli mi passavano per la testa leggendo quel passo di Hoffmann. Ma quando ebbi recuperata la mia coscienza cristiana e il mio elevato sentire, risi sulla mia puerile bonarietà. È passato l’eccesso di umana debolezza.



[“Rheinische Zeitung”, n. 184, 3 luglio 1842]

3) [Il rafforzamento della morale]

Si procede in parte con molta vivacità e agitazione nelle presenti nostre elezioni comunali. Così in un distretto un elettore sorse a spiegare fra grandi applausi davanti al consigliere di Stato che presiedeva, che d’ora in poi si deve sostituire la pubblicità al posto della segretezza. Si sentì perfino la dichiarazione che non si voterebbe per niente ma si tornerebbe a casa se tale condizione non fosse stabilita. Seguirono trattazioni di ogni genere, e il consigliere di Stato opinò che bastasse che quella proposta fosse messa a protocollo. Il risultato fu che l’autore della proposta fu eletto consigliere comunale e costui allora manifestò la sua decisione di spingere alla pubblicità nella carica affidatagli dalla cittadinanza. All’osservazione che il desiderio di un solo distretto non può essere decisivo, fu tempestosamente risposto che senza dubbio gli altri distretti prenderebbero una decisione analoga.

Agli Ebrei di qui giunse uno scritto del ministro Eichhorn, col quale si chiede loro di frequentare di più le scuole al rafforzamento della morale, poiché da comunicazioni statistiche risulta che fra gli Ebrei viene commesso un maggior numero di reati che fra i cristiani. Uno dei più ricchi fra gli Ebrei si recò allora in persona dal ministro, gli dimostrò la falsità della tabella statistica e invocò una pubblica rettifica. Egli dichiarò di non accontentarsi della concessione che una notizia occasionale nella “Staatszeitung” contenesse questa rettifica, ma di ritenere che soltanto una espressa rettifica fosse sufficiente e adeguata. Non si sa ancora, se la rettifica si farà.

Alla Facoltà teologica berlinese giunse uno scritto del ministro Eichhorn, il cui contenuto è questo, che la Facoltà deve esaminare se il professore Marheineke non ha meritato una punizione per aver reso pubblico il suo voto diverso da quello dei suoi colleghi nell’affare Bruno Bauer, avendo violato il prescritto segreto d’ufficio. Marheineke stesso dovette, come Decano della Facoltà, presentare la lettera al ministro. La Facoltà decise che, almeno nel caso presente, non fosse necessario un castigo. In pari tempo fu fatta da parte del ministero alla Facoltà la richiesta di pubblicare il suo voto su Bruno Bauer. Essa non ricusò formalmente di farlo, ma opinò che la pubblicazione del voto nelle circostanze presenti poteva farsi solo nel caso in cui quel voto venisse modificato oppure gli si apponesse un’aggiunta.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 169, 18 giugno 1842]

4) [Le leggi contro gli Ebrei e la sventura]

Alla nuova legge progettata sugli Ebrei fu opposta una obiezione molta inattesa, avanzata da un ricorrente. Al consigliere di gabinetto Müller giunse cioè uno scritto che, come risultò dopo che fu aperto, era diretto al re e conteneva la prova redatta con cabalistica dottrina, che da duecento anni ogni legge emanata contro gli Ebrei ebbe immediatamente per conseguenza una sventura. Mediante un gran numero di dati, che si smarriscono nei minimi dettagli della storia, il fatto era constatato. Il nome scritto in calce al documento era in caratteri chiarissimi e tuttavia indecifrabili. Il re desiderò conosce l’autore di questa lettera, e il signor von Rochow ricevette l’incarico di scoprirlo ove fosse possibile, però con l’espressa osservazione del re che egli ammirava l’autore di uno scritto così profondo e desiderava conoscerne il nome soltanto perché lo stimava. Un anziano degli Ebrei, interrogato a tal proposito, non seppe dare alcuna spiegazione, e l’autore stesso non si è ancora rivelato. Per quanto il fatto sembri una favola, tuttavia il mio informatore, avendo egli stesso una parte nella faccenda, è abbastanza degno di fiducia, per cui si deve attribuire al racconto il carattere di genuina verità, e quindi non esitare a riportarlo.

Recentemente si lesse quanto segue in uno dei nostri giornali sotto il titolo: Lehrfreiheit [Libertà d’insegnamento] (sopra era raffigurata l’immagine di un angelo che sta sopra una fossa da cui esce un putrido vapore). “Il diritto di sorveglianza dei teorici dell’Amministrazione statale sulla libertà d’insegnamento nelle università, o piuttosto sui limiti della libertà d’insegnamento, viene messo in discussione. Il punto di vista pratico considera la cosa come certa. A quel diritto si contrappone un dovere. A chi con la carica d’insegnante viene affidato il diritto di istruire la gioventù in una determinata scienza, assume anche il dovere di condurla fuori della via di uomini morali e di sudditi fedeli”. Non suonano queste parole come interessanti e irrefutabili? Questo è il vero tono della nostra buona società. Quando lessi ciò mi sembrò di sentire parlare con soddisfazione questo o quel consigliere segreto, quel consigliere di Corte e altri consiglieri a me noti. Soltanto chi possiede maniere fini, spirito e patriottismo è capace di parlare con tanto spirito. Di certo però nessun altro parla così stupidamente. “A ogni diritto si contrappone un dovere”. Oh incontestabile filosofema! Oh pratica tesi di un grande spirito, quanto sei ottima a usare. Colui al quale, con l’impiego di guardia notturna, è trasmesso il diritto di annunziare con un fischio le ore, riceve con ciò anche il dovere di non deviare dagli obblighi di un pio padre di famiglia e di un galantuomo cristiano, colui al quale con la carica di poliziotto è attribuito il diritto di tenere a freno i vagabondi, riceve con ciò anche il dovere di non mostrarsi negligente nella devota lettura del catechismo o irregolare nel frequentare la domenica in chiesa. Di fronte al diritto della guardia notturna sta l’obbligo di essere un pio padre di famiglia e un galantuomo cristiano; di fronte al diritto del poliziotto sta l’obbligo di leggere attentamente il catechismo e di frequentare coscienziosamente la chiesa. Di fronte al diritto di insegnare “una determinata scienza” sta il dovere di conservare i giovani “nella morale e nella fedeltà di sudditi”. “Quanto ciò è acuto!”, grida il club del tè nella sua completa esclusività. Ma da parte sua un “unfashonable” brontolone mormora: “Quale curiosa logica è questa! Presso questa gente le cose vanno d’accordo come i cavoli e le rape. Se volessi sistemare in modo da renderla adatta a un uso conveniente questa bella tesi morale, direi: colui al quale è affidato il diritto di istruire i giovani in una determina scienza, assume con ciò anche il dovere di dire senza riserva tutto quello che esige lo spirito di questa scienza determinata e, quindi, di comportarsi così intrepidamente da poter venire chiamato ad agire come un vero e schietto apostolo di questa scienza. Al diritto di insegnare una scienza corrisponde sempre il dovere di rivelarne con incrollabile coraggio lo spirito, quale l’insegnante lo scopre, senza usare riguardi e senza sofisticarlo, quando anche questo spirito fosse così violento da fare crollare, come fece il cristianesimo, un mondo vecchio di migliaia di anni. Così proporrei la tesi. Ma ciò non si conviene nella società elegante, è meglio tacere”.

La “Vossische Zeitung” [“Rivista di Voss”] pubblicò un annuncio raccomandante la “Rheinische Zeitung”, che molti lettori di quest’ultima le mandarono. Invece il giornale di Spener rifiutò di accoglierlo, benché l’articolo fosse pagato. E il motivo? Senza dubbio, un motivo molto edificante!



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 174, 23 giugno 1842]

X
Scritti sulla censura

1) [Una legge sulla stampa]

Secondo assicurazioni molto degne di fede e ripetute, dobbiamo aspettarci per la fine dell’anno una legge sulla stampa con la quale a tutti coloro che posseggono un grado accademico verrà assicurata la libertà di stampa sotto riserva di severissime misure repressive, in forza delle quali non i giurati ma i regi tribunali giudicheranno su ciò che costituisce colpa; mentre gli altri sono autorizzati a scegliersi come censori un qualsiasi funzionario governativo o professore, e quindi vengono liberati da ogni responsabilità. I primi dovranno sempre fare il loro nome, agli altri è permesso conservare l’anonimo. Ma come mai in un’epoca di istruzione generale chi possiede un grado accademico può avere il privilegio della libertà di stampa? Gli Stati della Prussia orientale rinunciarono convenientemente alla pretesa di conservare i loro privilegi; avranno i laureati minore spirito di corpo? Secondo quella legge i professori e gli accademici, certi funzionari e coloro che hanno un grado, formerebbero tutti insieme la “Lega dei Liberi”: il resto del popolo formerebbe la “gran massa” tenuta in tutela dai “Liberi”. Il magistrato di Königsberg ha rifiutato di occupare con dei pietisti i posti resi vacanti dall’allontanamento dei predicatori Ebel e Distel. Questa cosa seppe un predicatore di Nassan Garden, sobborgo di Königsberg, rappresentare ai suoi fedeli in modo che costoro vi ravvisassero un torto fatto a lui. Quindi le erbivendole, da cui quella contrada è principalmente abitata, andarono in processione dal nuovo Alto Presidente, signor Bötticher, e gli esposero come il loro signor predicatore avesse detto che non si voleva lasciarlo predicare, lui così pio, e come esse fossero ora venute a riferire la cosa al signor Alto Presidente e a pregarlo di prendersi a cuore la salute della Chiesa. Fu questo senza dubbio un singolare saluto popolare che il nuovo capo sperimentò, e non può averlo ricevuto e respinto senza qualche imbarazzo.

Sono stati da poco pubblicati a Königsberg due poemi, ciascuno in un quaderno a parte, cioè: Stimme aus Zion [Voci da Sionne] e Ostdeutschlands Glocke und Kanone [Campane e cannoni della Germania Orientale], entrambi appartenenti alla tendenza liberale che là regna. Specialmente il secondo energico al più alto grado. Lieder der Gegenwart [I Canti del presente], che pure ci giungono in questi giorni da là, faranno sensazione.



[“Rheinische Zeitung”, n. 207, 26 luglio 1842]

2) La libertà di udire

Della libertà di stampa si mette in rilievo soltanto un lato, quello che essa è la libertà di parola, e si trascura completamente l’altro, quello cioè che per mezzo di tale libertà viene assicurata la altrettanto inalienabile libertà di ascoltare. La censura non si limita a imporre il giogo alla libertà di parlare, ma sopprime anche la libertà di udire. Sicuro, essa mentre sopprimendo la libertà di parola non toglie la loro libertà a tutti i parlatori, ma specialmente ai governanti permette di dire ciò che essi vogliono dire, invece come padrona della libertà di udire esercita una inesorabile violenza contro i principi stessi. Il principe non ha la libertà di udire quello che vuole, ma solo quel poco che il censore e i suoi superiori consentono.

Forse però si obietterà che il principe vuole appunto non udire la tal cosa e la tal altra, che è sua volontà che certe cose non giungano al suo orecchio. Benissimo! Così per esempio egli vieta tutte le cose “indecenti” e impone al censore di cancellarle. La volontà del principe consiste nel voler udire cose “decenti”. Ma un censore cancella mille cose decenti, perché a lui non sembrano decenti. Il censore decide la quantità di cose decenti che il principe deve ammettere ogni anno. In compenso, il principe non vuol udire nulla di “malevole”; il suo orecchio è aperto a tutte le cose lusinghiere. Ma egli può lasciare il suo orecchio aperto quanto vuole, tutte le parole benevole e bene intenzionate che il Censore non vuol lasciar entrare in quell’orecchio aperto non vi entreranno. Forse una parola benevola offende l’orecchio del censore, o quello di una rispettabile persona degna di riguardo: motivo sufficiente per sottrarla anche all’orecchio del principe. Egli, il censore, l’ha udita; che bisogno c’è che la odano anche gli altri? Quindi un principe per mezzo della censura può bensì far in modo di non udire quello che egli non vuol udire; almeno lo può nel maggior numero dei casi; ma non ottiene mai dal censore il permesso di udire tutto ciò che vorrebbe udire. No, l’uditore è sotto tutela del censore tanto quanto il parlatore, ad entrambi il censore paga ogni anno del loro immenso capitale, gli interessi soltanto in quella misura in cui non preferisce serbarli per sé. Perciò non si andrà meglio in fatto di libertà di stampa fin quando soltanto i parlatori avvertiranno il disdoro di quella tutela. Soltanto quando anche gli uditori acquisteranno il senso del loro onore, quando anch’essi non vorranno sopportare ancora che un altro li privi della loro libertà di udire, soltanto allora la libertà di stampa, che è libertà così di parlare come di udire, riporterà la vittoria sopra la censura.



[“Rheinische Zeitung”, n. 263, 20 settembre 1842]

3) [La missione della stampa]

Il fatto che l’opuscolo: Der Beruf der preussischen Presse [La missione della stampa] di Ludwig Buhl, non appena uscito per il mondo possa sperare di essere indicato come benvenuto da molti, si spiega nel modo più semplice con le sue parole finali: “Cose simili furono già spesso dette e forse saranno ancora dette!”. È appunto la natura di tutti i problemi dell’epoca che questi vengano instancabilmente agitati fin quando dura il loro tempo, e il loro tempo dura finché non appare la soluzione di quei problemi: la loro unica soluzione consiste nel realizzarli. Se un mugnaio dopo un certo tempo pensasse di aver macinato abbastanza a lungo, e l’eterna uniformità della medesima occupazione gli diventasse faticosa e noiosa, egli avrebbe ogni ragione per la sua persona; ma che dovrebbero fare i poveri affamati! Egli deve macinare finché c’è gente che ne ha bisogno, e se di costoro oggi egli ne ha contentati dieci, deve domani saziarne dieci altri. Così, se con uno scritto oggi comparso dieci o venti persone si sono persuase che la stampa deve fare qualcosa di più che limitarsi alle “ardenti polemiche sui colatoi, sulla pulizia delle strade, sui pericoli dei veicoli troppi veloci, ecc.”, tuttavia troppe centinaia di persone continuano a girare soffrendo la fame perché un mugnaio di coscienza non debba cercare di sfamarli lavorando domani e dopodomani. Ciò ha fatto esattamente anche l’autore, e così per esempio si esprime la “Staatszeitungen”: “All’ignoto autore dello, per dir poco, stranissimo articolo che la “Staatszeitungen” pubblicò a proposito degli effetti dell’ordinamento sulla censura, importa prima di tutto dimostrare la prestabilita e predestinata impotenza della stampa prussiana. Nel Consiglio degli dèi è deciso che i giornali prussiani debbano essere in eterno colpiti con la verga della sterilità. A tale scopo l’autore deve non soltanto negare il poco che quei giornali hanno fin ora fornito, ma anche tentar d’inculcare la convinzione che essi per la loro natura non possono conseguire alcuna importanza politica, per gettar loro dietro l’osso rosicchiato della statistica”. Fra molti altri fatti l’autore narra anche che gli articoli sopra avvenimenti interni pubblicati quotidianamente dalla umanamente censurata “Königsberger Zeitung” sono realmente letti anche dai lettori di altre gazzette con piacere e con utilità, ma i giornali di Berlino non possono riprodurli. “Così un censore può censurare un altro censore, e ciò che l’uno ha considerato come non insidioso, l’altro può dichiararlo pericoloso e malevolo. Le trentuno pagine dell’opuscolo sono scritte con esemplare chiarezza e in molti punti feriranno i nostri indifferentisti ed egoisti. È vero però che nessun Dio riempie di coraggio i poltroni; essi trovano ovunque un nascondiglio in cui ritirarsi ‘per buoni motivi’”.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 150, 30 maggio 1842]

4) Il processo del dottor Jacoby

Tutta la Germania prende la più viva parte al processo contro il dottor Jacoby, che si svolge a Königsberg, e anche l’estero lo segue con attenzione. È noto che con ordinanza del Senato criminale del regio Tribunale camerale fu emanata la seguente condanna: “Circa l’istanza penale introdotta dal giudice criminale Richter contro il dottore in medicina dottor Johannes Jacoby di Königsberg in Prussia, il Senato criminale del regio Tribunale camerale, allo stato degli atti, riconosce come giusto: che l’accusato dottor Johann Jacoby sia pienamente assolto dall’accusa di alto tradimento; che invece, per delitto di lesa Maestà e per audace irriverente biasimo e scherno delle leggi nazionali e per eccitamento al malcontento egli sia punito con due anni e mezzo di arresto ordinario in una fortezza e dichiarato privo del diritto di portare la coccarda nazionale prussiana, e obbligato a pagare le spese del processo, le quali, nel caso in cui non possa pagare, saranno ridotte al semplice esborso in contanti da togliersi dal fondo per i delitti”. Contro questo giudizio di prima istanza, il dottor Jacoby ricorrerà in appello. Ma poiché la cosa, con la pubblicazione di quella ordinanza, è giunta a una conclusione, dobbiamo gettare indietro uno sguardo su di essa, come su di un avvenimento storico la cui importanza per il tempo presente non può sfuggire a nessuno, e ciò tanto più, in quanto lo stesso dott. Jacoby ha pubblicato per mezzo della stampa la sua “giustificazione”. In quella egli narra così le fasi del suo processo: “In ultimo mi sia ancora permesso un breve sguardo sull’istruttoria che ormai dura da quasi un anno. L’inchiesta che in conformità agli ordini ricevuti l’alto Tribunale regionale di Königsberg iniziò contro di me, ebbe fin dal principio il doppio carattere di un processo di accusa e di inquisizione. Il tribunale non fu incaricato di constatare l’innocuità o la colpa del mio scritto, ma di prendere come base dell’inchiesta un’accusa precisa, formulata dal Ministero dell’Interno e dalla polizia. In venti penosi interrogatori dovetti non tanto spiegare le espressioni del mio scritto quanto piuttosto lottare contro l’insidia dei significati che attribuiva loro l’accusatore. Poi la istruttoria, in principio condotta con tanto zelo, fu bruscamente interrotta, gli atti non ancora chiusi furono mandati a Berlino e per cinque mesi si trovò opportuno sospendere gli interrogatori; la mia rimostranza presentata all’Alto tribunale regionale, come pure un reclamo indirizzato al ministro della giustizia, non soltanto non vennero presi in considerazione, ma non ricevettero risposta, e soltanto in conseguenza di uno scritto direttamente rivolto a sua maestà il re fu raccomandato alla Corte del tribunale di affrettare il disbrigo dell’affare. Come l’indipendenza del giudice è strettamente connessa con la incontestabilità della sua competenza, così è anche obbligo di ogni uomo onesto tenersi fermo alle forme consacrate dalla legge. Quindi ho, fondandomi sulla legge del 25 aprile 1835, protestato contro la facoltà di giudicarmi attribuita alla giurisdizione che si occupava di me, e perciò rinunciavo anche al privilegio forse non privo di valore di venir giudicato dai miei concittadini, i quali conoscono la mia vita. Dopo che il ministro della giustizia ebbe rimandato indietro il processo, a questo conflitto sopraggiunse un rimedio grazie alla grazia reale emanata nel frattempo. E così dunque io, per libera elezione rinunciando a ogni eccezione consentitami dalla legge, sto davanti a giudici che non mi conoscono, e poiché in Prussia il processo si svolge segretamente, anche in seguito non mi conosceranno. Il buon diritto è la migliore difesa. Non era nello spirito del mio scritto schernire le leggi nazionali, è lontana da quello ogni offesa sia del re come dello Stato. Senza vergogna direi ancora adesso apertamente, che l’onnipotenza della burocrazia e la nullità politica dei cittadini indipendenti sono una magagna della patria; che la pubblicità e una vera rappresentanza sono i rimedi contro questo male; che il popolo prussiano può essere indirizzato da una educazione intellettuale a partecipare maggiormente alla formazione delle leggi e all’Amministrazione dello Stato quanto autorizzato a ciò dalla storia e dalla legge; che un intimo vincolo fra le diverse parti del paese, venga esso annodato dal Parlamento promesso alla nazione o dalle decisioni riunite delle Diete di tutte le province, è necessario al bene dell’intero Stato; che soltanto una simile unione può dare al popolo la cultura politica e la forza morale per mezzo delle quali unicamente esso sarà in grado di sostenere, se non felicemente almeno decorosamente, la lotta con le tempeste che si avvicinano.

“Queste sono le linee fondamentali di uno scritto che non mi pento di avere io stesso deposto ai piedi del trono. Gli avvenimenti della storia patria sono per me sacri; non li ho travisati, né ho potuto da questi derivare audacemente nuovi diritti. Nella tranquillità della sua consacrazione, Federico Guglielmo III impartì al suo popolo quelle leggi organiche e quei diritti, a cui la Prussia deve il suo risorgimento: il 22 maggio 1815, quando la gioventù prussiana si affrettava di nuovo ai campi di battaglia, indirizzò a essa la più stupenda benedizione. Questa manifestazione di promessa fu fatta volontariamente, e fu un avvenimento di necessità morale. Chi vede in essa soltanto la legge passeggera di una necessità superata, misconosce la grandezza di quel tempo, la devozione del popolo e la nobiltà di quel principe ancora oggi compianto. Diversamente opera il nostro re e signore! Egli non ha accolto graziosamente gli ammonimenti, ma in pari tempo ha riconosciuto il loro fondato diritto. Per lui saranno sacre le promesse di suo padre! Qui è la mia professione di fede; non ho nulla taciuto e non ho nulla da ritrattare. Liberamente parlano le mie convinzioni e la mia coscienza, e sto al cospetto di giudici da me scelti e coscienziosi”.

Poiché il tribunale penale stesso si vide costretto a respingere l’accusa di alto tradimento, la parte della giustificazione che si riferisce a quest’accusa non ha più alcun interesse attuale. I due altri punti dell’accusa, lesa maestà e audace irriverente biasimo delle leggi nazionali, furono confermati dal Senato. Come si difenda il dott. Jacoby dalle sue accuse, non è possibile riferire qui esattamente: in tal caso bisognerebbe trascrivere 1’intera giustificazione. Basterà che trovino posto qui alcuni passi, i quali già per sé richiedono uno spazio alquanto vasto.

Anzitutto, per ciò che riguarda l’accusa di lesa maestà, si legge nell’articolo relativo della giustificazione: “L’imperatore Tiberio fu il primo che istituì giudizi per delitti contro il sovrano (Tacito, Annali, I, 72); questa origine basta già a indicare il valore di questo provvedimento e dovrebbe per lo meno raccomandare prudenza nell’impiegarlo. Per il diritto della libertà di giudizio sulle azioni del governo si dichiararono d’allora poi i più distinti giuristi. La domanda: chi ha dato allo scrittore il diritto di pronunziare giudizi su questo o su quello affare dello Stato? – tradisce sempre o il poco senno dell’interrogante o il suo cattivo modo di pensare. Il poco senno, se egli realmente crede che a ciò si richieda alcun permesso; il cattivo modo di pensare, se a modo di schiavo e di rettile vuole siano ritenute come infallibili decreti divini tutte le opere del re e dei ministri, perché egli nella sua qualità di adulatore si trova personalmente bene in quell’opinione. È cosa ridicola (se pure si può ridere di argomenti così importanti) che la domanda, chi abbia dato al biasimatore o al censore la facoltà di far ciò sia comunemente presentata da persone che a pieni polmoni lodano e pregiano tutto ciò che hanno deciso, ordinato e fatto sua Maestà, sua Altezza e sua Eccellenza. Chi dunque ha dato loro la facoltà di lodare? O la lode non è forse un giudizio? Se si devono venerare una volta per tutte le istituzioni statali come infallibili disposizioni di Dio, non si devono né lodare né biasimare, ma adorare e tacere. Il biasimo in sé non è mai dannoso, è spesso salutare; ma la lode il più spesso e dannosa e raramente salutare. (Cfr. Weber, Über Injurien [Delle ingiurie], II, 215). In Prussia la libertà di giudizio dello scrittore è sanzionata dalla tradizione e dalla legge; e fu sempre riconosciuta, se non dai censori, almeno dai tribunali. Se c’è bisogno di prove, ricorderò i molti scritti che attaccarono nel modo più aspro il contegno del governo contro l’arcivescovo di Colonia, senza essere eseguiti da istruttorie penali... Ammettendo che un pubblicista, appoggiandosi sui fatti così chiari, definisca il governo attuale meno liberale del precedente, si può, domando io, dare a questo giudizio storico un valore di offesa meritevole di castigo? Già in tempi passati gli amministratori dello Stato fecero il tentativo di proteggersi per mezzo della legge sulla lesa maestà dagli attacchi contro la loro amministrazione, ma con ciò si tirarono addosso il biasimo perfino degli storici e dei giuristi. Moralmente come legalmente, il giudizio sull’opinione politica di un uomo deve essere separato bene dal giudizio sui sentimenti di quel medesimo uomo. È libertà di tutti combattere apertamente l’opinione politica e non solo dell’uomo più altolocato; mentre si incorre nella colpa di diffamazione soltanto se si offende il modo di sentire di questo. Ognuno può considerare il ritorno a princìpi da lungo tempo morti come il colmo della felicità di un popolo, e tuttavia essere un perfetto galantuomo; da ciò segue che la espressione, che taluno sia reazionario o antiliberale, non è un’ingiuria già per la ragione che le manca la condizione essenziale di ogni ingiuria, l’offesa dell’onore degli altri. Se molti servitori dello Stato si fanno un merito nel giudicare severamente in pubblico il liberalismo dell’epoca presente, non per questo possono sentirsi feriti da un’espressione come quella sopra citata, e tanto meno indursi a fondare su di quella un’accusa davanti al tribunale. La maestà è il supremo onore civico spettante all’alto capo dello Stato. L’offesa di questo onore, la lesa maestà, comprende quindi tutte quelle azioni che, se fossero dirette contro una persona privata, sarebbero ritenute ingiurie. Ciò concorda completamente con la definizione del Diritto civile e generale (Titolo 20, parte II, par. 196): “Chi offende la persona dell’alto capo dello Stato nel suo decoro, commette il delitto di lesa maestà. Conseguenze necessarie di questa nozione sono: 1) che le offese volontarie e reali all’onore sono condizione necessaria della lesa maestà, come di ogni ingiuria; 2) che soltanto l’alto capo dello Stato, e quindi non anche le persone della sua famiglia, e tanto meno i suoi defunti predecessori, possono essere oggetto del reato di lesa maestà; 3) che un attacco diretto non contro la persona del re, ma contro una cosa stabilita da lui o dai suoi consiglieri, come leggi, ordinamenti, scioglimento di una Dieta, ecc., non giustifica l’accusa di lesa maestà”.

Contro la seconda denuncia, quella in merito al biasimo sfacciato e irriverente delle leggi nazionali, qui riferiremo soltanto queste frasi generali, prescindendo dalle rettifiche dei singoli punti: “Sotto il regno di Tiberio era scoppiato un furore universale di accuse che devastava lo Stato in pace più di tutte le anteriori guerre civili. Nessuno era sicuro. Ogni occasione era colta e perfino parole dette scherzosamente nell’ebbrezza erano raccolte zelantemente per soddisfare quel furore. Non c’era da stare in ansia sul destino degli accusati, perché l’esito era sempre il medesimo. In quell’epoca, che ci fu così descritta da Seneca, era ritenuta suprema audacia ricoprirsi davanti alla statua dell’imperatore, punire un servo che portava su di sé una moneta con l’effige di Tiberio, correggere un’immagine dell’imperatore deteriorata dal tempo, o vendere insieme con un giardino anche la statua dell’imperatore che si trovava in quello. Oggi simili cose sono considerate da tutti come azioni perfettamente innocue, e i nostri giuristi annoverano fra le curiosità storiche i castighi applicati in passato. Da ciò si apprende quanto sia indeterminata la mozione di audacia, e quanto essa dipenda dalle idee di ogni epoca. Quando la legge sul Diritto civile generale (Titolo 20, parte II, par. 151) fu redatta, e ciò avvenne negli anni 1780-1784, fra regnante e sudditi esisteva ancora un abisso così grande, che dal basso ci si curava assai poco degli affari di Stato, e dall’alto si riteneva che una cieca e muta obbedienza fosse la più alta virtù di un buon cittadino. Il popolo, convenientemente organizzato in arti e in corporazioni per mancanza di cultura politica era allora così poco idoneo a fare indagini proprie che poteva facilmente da biasimi di pubblicisti all’Amministrazione statale, anche privi di ogni fondamento, venire svegliato dalla sua ottusità e diventare pericoloso ai dominanti; quindi si considerò necessario reprimere ogni giudizio pubblico e dichiarare arroganza meritevole di castigo qualsiasi biasimo delle istituzioni vigenti. Ma quanto, da allora, è mutata la situazione sociale e soprattutto, l’idea del rapporto morale fra governo e cittadini! È un anacronismo isolato il tentativo fatto ancora qua e là da taluno, di dar valore alle nozioni militari nell’Amministrazione dello Stato e di comandare i cittadini come soldati. Il tempo presente non esige una tollerante obbedienza ma libero giudizio, attivo senso comune; principe e popolo non stanno più come nemici l’uno di fronte all’altro, tristi esperienze li hanno avvicinati. Specialmente il popolo prussiano ha provato da allora in poi la sua fedeltà nella sventura, il suo valore in guerra e nella pace la sua maturità a distinguere il vero dal falso. Stando così le cose, il governo ha qualcosa da temere dal biasimo infondato di uno scritto, oppure il biasimo, anche se fondato, può non riuscirgli gradito? Il re non ha forse detto che in avvenire nessuno più gli sottrarrà la fiducia del suo popolo? E tuttavia dovrebbe sempre avere bisogno delle sue prigioni e delle sue fortezze per difendersi dagli attacchi puramente spirituali? Avrebbe così poca fiducia nella sua intima intelligenza e nell’intima sua forza che ogni dubbio sulla infallibilità dei governanti debba essere perseguito come sfacciato e irriverente biasimo, e ogni opposizione di scrittore come alto tradimento? Sarebbe meglio abolire quella legge di guerra del secolo scorso, che fare risuscitare lo spettro della paura demagogica già scacciato dall’amnistia reale”.

Lo sviluppo della Prussia nell’epoca impiegata dall’inchiesta giudiziaria ha giustificato lo scritto di Jacoby più di quanto potrebbe fare un avvocato. Quindi anche il dottor Jacoby conclude aggiungendo alcuni fatti noti sino alla fine del 1841, giustificanti la sua asserzione; fatti la cui enumerazione sarà gradita a tutti:

“1. Mi fu fatto dall’accusatore il rimprovero d’ignorare malignamente la costituzione – per quanto riguarda le cose della censura, perché ho definito la censura il peggior nemico della stampa e il modo in cui la censura viene esercitata nella nostra patria una tutela e oppressione dell’opinione pubblica. Rispondono a questo punto non soltanto le numerose petizioni da Colonia, da Saarbrüker, da Coblenza, ecc., ma anche le discussioni della Dieta prussiana e renana, in cui la censura esistente presso di noi è descritta con colori molto più crudi di quelli usati nel mio scritto. Sebbene (così è detto nel rapporto della Giunta degli Stati renani), nell’articolo 2 dell’editto sulla censura del 18 ottobre 1819 sia espressamente detto che la censura non deve ostacolare una seria e discreta ricerca della verità, né applicare agli scrittori una costrizione indebita, tuttavia il medesimo articolo sottopone tanti oggetti alla severa sorveglianza della censura, che a questa è quasi fatto dovere e in ogni caso è rimesso al suo giudizio il reprimere qualsiasi pur modesta discussione di affari politici ed esteri. E la Dieta prussiana: la situazione cui soggiace la stampa attualmente nello Stato prussiano agisce in modo molto svantaggioso sullo spirito e sul cuore del popolo. Contrariamente alle parole dell’ordinanza del 18 ottobre 1819, la censura ha preso da lungo tempo un indirizzo che mette capo a sorvegliare duramente o piuttosto a impedire qualsiasi libera menzione (se anche decorosa e motivata) o illustrazione degli affari interni dello Stato, ecc. Non voglio fare altre citazioni; qualsiasi passo del mio scritto sulle cose della censura si possa incriminare, mi impegno a mettergliene accanto uno più violento tolto dai documenti sopra enunciati. Per togliere ogni dubbio, indichiamo la nota testimonianza reale, la lettera al signor Brünneck, che porta la data dell’11 giugno 1841.

“2. Le mie espressioni sulla impopolarità e la poca influenza degli Stati provinciali mi sono rinfacciate come biasimo audace. Non ho nemmeno bisogno di ricordare la Dieta di Westfalia del 1830, in cui si udirono lagnanze sulla insufficienza degli Stati provinciali e sulla mancanza di fiducia, che quegli Stati risentono dolorosamente; più recenti passi paralleli offrono i verbali dell’ultima assemblea degli Stati slesiani. Così vi si legge: ‘Nella discussione sulle proposte sovrane fu espressa da molte parti l’opinione che, se spesso la Dieta manca della desiderabile popolarità, ciò è dovuto soprattutto alla mancanza della pubblicità dei suoi sforzi’; e oltre: ‘Quando fu ricordato che gli Stati provinciali trovano ora troppo piccola eco, fu risposto che questo è avvenuto soltanto perché non si vede nessun risultato, ma ché ora le cose andrebbero diversamente. Lo voglia Iddio!’.

“3. Quello che ho detto riferendomi alla nota frase del ministro von Stein sulla grande potenza dei funzionari e la nullità politica degli altri cittadini, fu confermato con parole anche assai più risolute dalla Dieta di Danzica dell’anno corrente: ‘La burocrazia prussiana (si legge nella relazione stampata), che è forse la più distinta per cultura e carattere, è come separata dal popolo da una barriera, manca in maggioranza di una reciproca azione del popolo che vivifichi l’uno e l’altra, e quindi forma in certo modo, con le sue opinioni e idee come uno Stato nello Stato. Il danno che questa situazione rappresentava per i funzionari rispetto a una giusta concezione della loro missione, è tanto grande quanto quello che per ciò viene recato all’esatto giudizio delle misure burocratiche da parte del popolo’; è appena lecito dubitare che in ciò concordino tutte le persone colte, amiche della patria.

“4. Nel mio scritto si parla della destituibilità amministrativa dei commissari di giustizia, i quali come difensori degli accusatori dovrebbero appunto occupare una posizione liberissima e indipendente. Si sono udite da allora molte voci sulla sfavorevole e dipendente situazione degli avvocati prussiani. Si confronti la Reform des Advokatenwesens [Riforma dell’avvocatura], Berlin 1840, del dottor Strauss, e il Nachtrag zum Konversationslexikon der Gegenwart [Supplemento al Lessico di conversazione del tempo presente] (quaderno 36, articolo: Riforma della procedura), dove un uomo che lavorò per oltre quarant’anni come giudice in alti tribunali, si esprime con disapprovazione sul fatto che si cerchi di ridurre l’avvocatura ad una funzione subordinata ai tribunali, la quale diventerebbe una vera soggezione. Anche in alto sembra ci sia attenzione su questo inconveniente, perché recentemente, in seguito all’ordine di gabinetto del 12 luglio 1841, fu emanato un invito agli alti tribunali provinciali e attraverso questi agli avvocati, di presentare dopo una consultazione in comune, proposte circa un’opportuna modificazione della loro posizione.

“5. Le considerazioni sull’amministrazione sono definite nell’accusa come sfacciate invettive, specialmente le espressioni imperfezione e superficialità dello stato delle finanze quale fu pubblicato (cioè del preventivo delle entrate e spese per l’anno prossimo; ma non si fa conoscere quanto esso in realtà potrà risultare esatto). Ho risposto a questo rimprovero negli interrogatori, e qui mi limito a rimandare ad uno scritto comparso dopo da allora a Breslavia circa lo stato principale delle finanze prussiane per il 1814, il quale offre altre prove della verità di quanto ho detto. Finora il contenuto di quello scritto non fu contestato né ufficialmente né da privati. Ora si sarebbe anche potuto particolarmente citare lo scritto del signor von Bülow-Cammeron.

“6. La grande influenza che i ministri esercitano come dappertutto così anche sull’esercizio della giustizia (l’accusatore erroneamente definisce ciò: arbitrio ministeriale) sembra non aver colpito soltanto me. I giornali annunziano da Berlino che ora si ha il proponimento di trasferire all’alto tribunale segreto o ad una sezione speciale di questo la decisione delle querele giudiziarie, mentre finora, in forza dell’ordinanza del 6 settembre 1815, i tribunali in tutte le cose formali o materiali dell’Amministrazione giudiziaria che non erano propriamente sentenze devono dare incondizionatamente seguito agli ordini del ministro della Giustizia. Una proposta simile fu pure fatta dalla Dieta provvisoria di Berlino.

“7. A pagina 17 del mio scritto si trovano queste parole: ‘Fino all’anno 1832 nessun funzionario giudiziario poteva essere trasferito contro la sua volontà. Ma dopo d’allora nelle patenti di nomina non viene più, come prima, nominato il luogo della loro futura attività, ma l’impiego è concesso per la monarchia prussiana; così essi non sono più protetti contro un arbitrario trasferimento. Come riferiscono i fogli pubblici, poco fa fu disposto che in avvenire il trasloco dei giudici contro la loro volontà non possa avvenire se non per mezzo di un giudizio e a norma di una legge, onde non venga messa in pericolo l’indipendenza ad essi tanto necessaria’.

“8. A pagina 18 del mio scritto si trovano queste parole: ‘Tutte le sentenze in istruttoria per alto tradimento, lesa maestà, ecc., sono soggette alla conferma ministeriale e prima di questa si devono considerare soltanto come pareri, non idonei alla pubblicazione’. Un ordine di gabinetto pubblicato pochi mesi fa (del 12 settembre 1841) suona così: la disposizione prescritta nel par. 508 dell’ordinamento penale è ripetuta nell’ordine di gabinetto del 4 dicembre, secondo la quale tutte le sentenze nelle istruttorie svolte per delitti di lesa maestà devono essere mandate al ministro della giustizia per la conferma, viene con la presente ordinanza abolita.

“9. Ho parlato nel mio scritto della procedura clandestina tuttora in vigore presso di noi e ho manifestato il desiderio che venga concessa al popolo una maggior cognizione nell’attività statale dei giudizi. Si confronti soltanto un rapporto generale del ministro della giustizia Mühler, presentato al re. I giornali hanno erroneamente riportato questa relazione come una novità; poiché essa fu presentata già 3 anni fa, e la ordinanza di gabinetto del 3 agosto dell’anno corrente che ordina indagine e pronto rimedio, deriva non dal re attuale ma da quello defunto. Ma con ciò non si è recato nessun pregiudizio alla cosa; essa è ancora oggi così vera come nel 1839. L’ultima Dieta renana ha di nuovo proposto il ristabilimento della procedura pubblica e orale, e in una festa data all’alto consigliere segreto di giustizia prussiano, Ruppenthal, si udirono queste notevoli parole: ‘Per sincero amore della mia patria non desidero nulla più ardentemente che la risurrezione, conforme allo spirito del nostro tempo e alla costituzione dello Stato, dell’antica procedura giudiziaria tedesca, fondata sul principio della pubblicità e dell’oralità. Io desidero ed ognuno che voglia il bene deve desiderare con me, che le altre province dello Stato diventino esse pure partecipi di ciò che i paesi del Reno posseggono’. Anche Ruppenthal, accolto dovunque con giubilo dalle province renane nel suo viaggio, riconobbe la pubblicità e l’oralità come il più alto palladio della libertà civica, apprezzò altamente i vantaggi di questa istituzione prettamente germanica ed espresse la speranza di vederla presto accolta in tutta la Germania. Dopo tutto questo il mio accusatore potrebbe trovarsi in errore, quando annovera l’aspirazione alla pubblicità della procedura frai i risultati di una superficiale saggezza giornalistica”.

Ora alcuni punti della voluminosa sentenza della Corte penale, emanata contro il dottor Jacoby, in merito ai due capi d’accusa (si può passare oltre a quella di alto tradimento) devono essere confrontati con quanto è detto sopra. Ma anzitutto due parole sulla persona del dottor Jacoby. L’accusato Johannes Jacoby, figlio del defunto commerciante Jersohn Jacoby e della ancor viva vedova di costui, nata Tonas, all’età di 37 anni professa la religione ebraica, non prestò mai servizio militare e prima d’ora non fu mai processato. Dopo aver ricevuto l’istruzione scolastica nel Collegio friedericiano in Königsberg studiò medicina per quattro anni nella università di Königsberg e quindi nell’anno 1828 superò in Berlino l’esame di Stato. Poi si esercitò per qualche tempo nell’ostetricia in Heidelberg, e in seguito si stabili in Königsberg come medico pratico. Casualmente si apprende dalle parole dell’imputato che egli fu temporaneamente redattore della “Königsberger Zeitung”; inoltre, in una lettera sequestrata nella perquisizione che accadde in casa di Jacoby, firmata Nitzki Hellsberg, 2 febbraio 1840, si riferisce che l’incolpato si trovava da anni alla presidenza di un circolo di lettura, al quale per mano sua arrivarono specialmente opere di contenuto politico e in uno scritto pure trovato in casa sua, firmato: Sachs, 16 gennaio 1841, si nota che l’incolpato raccoglieva sottoscrizioni per partecipare a un pubblico attestato d’onore da offrire al ministro von Schön. Circa la partecipazione alla diffusione del suo libello, l’accusato durante tutta l’istruttoria conservò un ostinato silenzio, onde impedire (così volle far credere) che, come egli era tratto innocente davanti alla giustizia penale, così anche altri innocenti fossero colpiti dalla stessa sorte.

Sul rigetto, da parte dell’accusato, della causa di lesa maestà, la sentenza obietta dopo una prolissa motivazione: “Quando anche si dovesse, nel delitto in parola, considerare la malizia come un requisito da dimostrarsi a parte, questa si rileva in modo indubbio dai passi del libello riportati. L’asserzione che sapienza e azione siano esclusivo monopolio dei ministri; il rimprovero che il congedo della Dieta da parte del re contenesse parole vaghe e vuote, onde acquistare temporaneamente gli Stati; la frase: non sussiste la cattiva interpretazione di cui fa menzione il decreto reale; l’osservazione: non è in potere d’un uomo solo prescrivere il loro futuro sviluppo a istituzione ormai superati; tutte queste citazioni provano abbastanza la malizia con cui l’accusato ha messo da parte la reverenza dovuta al sovrano”.

Per quanto riguarda l’imputazione di sfacciato e irriverente biasimo delle leggi nazionali, così anzitutto si dice in merito al biasimo rivolto alla censura: “In tal modo non è lecito al suddito di esprimersi sulle leggi e sugli ordinamenti dello Stato; le affermazioni, che ogni accenno toccante anche lontanamente l’interesse pubblico debba, per manifestarsi pubblicamente rifugiarsi fuori dei confini della Prussia, e che la censura, come viene esercitata in Prussia, comporti una arrogante tutela, una vera oppressione della opinione pubblica, contengono per la sostanza e per le loro parole uno sfacciato biasimo e offendono la reverenza dovuta allo Stato. Ma la frase, che con la censura viene attribuita ai funzionari una potenza altamente delicata, pericolosa tanto al popolo quanto al re, rivela chiaramente la tendenza a provocare malcontento e agitazione verso le istituzioni così descritte”.

Quanto al biasimo che l’autore motiva con la revisione degli ordinamenti comunali, sono rimproverate al medesimo inesattezza e falsità, con queste parole: “I torbidi sensi e la riprorevole tendenza del suo scritto si manifestano in modo particolare con gli esempi che l’accusato fa seguire a dimostrazione di quei paralleli da lui istituiti, in quanto che in essi egli riporta in parte inesattamente e in parte incompletamente e travisate le disposizioni da lui allegate di entrambe le ordinanze comunali”.

Circa un altro passo dello scritto di Jacoby si legge: “A chi sta a cuore soltanto di essere utile alla sua patria, non tenterà di dimostrare che prima si seguiva una tendenza più vantaggiosa per il popolo, ora sempre più abbandonata e sostituita con una tendenza dannosa al pubblico bene. Un simile paragone della situazione anteriore, asserita migliore, con quella presente, è totalmente superfluo per mettere in luce i pretesi difetti della costituzione vigente, quindi non può avere altro scopo che di provocare l’opinione che oggi le cose non vadano così bene come prima per la prosperità della nazione, onde così creare malcontento e agitazione”. Da ultimo, un altro passo del libro dà occasione a queste parole della sentenza: “Il sentimento di ogni patriota deve sentirsi estremamente ferito da simili frasi. Se veramente le cose andassero così male per quanto riguarda la costituzione e la prosperità della patria prussiana, ciascun prussiano dovrebbe sentirsi pervaso da estremo malcontento per il fatto che il governo non utilizzi quel rimedio che l’accusato indica come l’unico e così facile, e conduca lo Stato ad una rovina sicura e ormai non più lontana. È chiara per se stessa la sfacciataggine e l’irriverenza che un simile biasimo contiene”. Se in breve si sintetizza il significato di quel biasimo, si trova che in esso si trova la seguente tesi: “La costituzione vigente porta in sé il germe che necessariamente deve svilupparsi nella rovina dello Stato per mezzo di crollo interno e di soggezione allo straniero”. Simile colpa è già riconosciuta da tutti, soltanto il governo la misconosce e non vuole riconoscerla. Quel germe è ormai cresciuto fino a diventare un pericolo. Nessun dubbio esiste sul rimedio di ovviare a questo pericolo, ma poiché il governo non riconosce la malattia non fa nulla per stornare il danno che si avvicina; tutto il suo sforzo è piuttosto diretto ad aumentare il male e a crescere il pericolo. L’accusato nella sua difesa ha particolarmente insistito nel mostrare quanto siano pericolosi quei casi in cui la decisione del giudice si fonda principalmente sul sentimento. Certamente, il giudizio su ciò che è sfacciato e irriverente deve ricavarsi non soltanto dall’indagine dell’intelletto ma anche dall’avviso del sentimento. È impossibile una fissazione astratta delle nozioni di sfacciato e irriverente, perché la diversa condizione delle persone, la varietà delle circostanze e dei rapporti esercita su quelle nozioni un’influenza essenziale. Perfino nel caso singolo, la decisione se una cosa sia sfacciata e irriverente non può essere esclusivamente determinata da una motivazione logica, così come il giudizio se una cosa costituisca ingiuria e se in quella sia contenuta un’offesa grave oppure leggera. La norma per la decisione si fonda piuttosto, in rapporti di quel genere, sul modo d’intendere la convenienza e la morale; ma non per ciò appare malsicura, perché non può esistere dubbio su ciò che in circostanze concrete debba essere considerato come un’offesa della convenienza e della morale. Inoltre nel caso presente la sfacciataggine e l’irriverenza con cui l’accusato attaccò la costituzione vigente è così evidente che in realtà l’appello al sentimento della delicatezza per condannare la sua colpa appare superfluo. Sfacciato è chi si arroga di insegnare senza essere nemmeno convenientemente istruito, perché si colloca arbitrariamente in un terreno che non gli appartiene; sfacciato è chi afferma senza sapere, perché la sua affermazione deve necessariamente contenere una bugia; la sua sfacciataggine è tanto più grande, quanto più apertamente egli diffonde i suoi insegnamenti, quanto più apertamente presenta le sue affermazioni, ma ancor più sfacciato è chi mente appositamente e travisa a bella posta la verità, in quanto la sfacciataggine si trova nella cosa stessa. Perciò, quanto più si agisce senza riguardo alle parole, alle persone e alle circostanze, tanto maggiore è la sfacciataggine per quanto concerne la forma. Sotto tutti questi aspetti, il rimprovero di sfacciataggine, colpisce giustamente l’accusato. Egli ha intrapreso di ammaestrare il popolo sopra una delle più gravi questioni riguardanti il paese, e di rivelare al popolo i difetti della costituzione vigente, senza prima essersi fondamentalmente convinto dell’esattezza delle cose da cui egli deduce il suo biasimo, essendosi contentato di attingere da giornali e da libri senza rivedere egli stesso quello che le leggi dispongono. Egli, per ignoranza o di proposito, ha avanzato, a confronto del suo biasimo, asserzioni che non concordano con la verità, ha disgiunto in parti le leggi dal loro contesto e la ha esposte infedelmente, e la varietà delle inesattezze da lui presentate conducono alla convinzione che l’autore qui abbia intenzionalmente travisato o taciuto la verità. Egli non cerca di motivare il suo giudizio con un tono di tranquilla spiegazione ma si abbandona a declamazioni violente, piene di scherno e di amarezza, non dimostrando ma deridendo. Egli mostra allo sguardo del popolo il crollo interno e la soggezione allo straniero come conseguenze inevitabili e già vicine degli ordinamenti vigenti, e come unico mezzo di salvezza indica l’organizzazione di istituzioni parlamentari già rifiutate dalla maestà del re. Non fermandosi agli asseriti difetti delle istituzioni presenti, egli pensa continuamente a rappresentare come più favorevole per il popolo la precedente tendenza del governo, a suscitare nel popolo la sensazione che prima c’erano tempi migliori, e in tal modo a diffondere malcontento e agitazione.

Con queste poche ed essenziali cose abbiamo perlomeno consentito di dare, nell’importante affare giudiziario del dottor Jacoby, un’occhiata così completa come può permettere lo spazio di un giornale.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, nn. 209-210-211, 28, 29 e 30 luglio 1842]

5) [Diana di Efeso]

Dovete rimediare a una ingiustizia in cui incorse un corrispondente del vostro giornale (n. 262). Egli temette che a causa della recente caricatura che rappresenta il crollo della croce potessero soffrire anche altre caricature innocenti. Egli la trovò cattiva perché abbandona allo scherno una cosa sacra, da cui milioni di cuori pendono con fervore.

Certamente, la legge vieta simili attacchi, ma la ragione non può giustificare tale divieto. Se una cosa è sacra nel senso che è razionale, essa sa sopportare lo scherno, e deve soffrirlo, perché questa cosa si difende appunto col finire di guadagnare con l’energia della sua conveniente verità i malevoli che la scherniscono. Sarebbe per me un bel santo quello che, contro coloro che lo dileggiano, chiamasse in aiuto la polizia.

Ma il vostro corrispondente vuole lasciare alla “scienza” gli attacchi alle cose sacre, perché “il popolo non le derida”. Dunque ciò che si chiama sacro esiste soltanto per il fiore della società? Per chi dunque fu sacra la Diana di Efeso? Demetrio si lagna di Paolo, che “il tempio della grande Diana non sia stimato per niente e la maestà di quello sparisca, alla quale tuttavia l’Asia intera e l’universo rende culto”. Essa è “sacra” per tutta l’Asia e per l’universo, e Paolo, per dimostrare che questa santità era inesistente, avrebbe dovuto discutere la questione soltanto fra i dotti? Quindi il corrispondente trova del tutto naturale che una simile caricatura d’una cosa sacra sia priva di ogni umorismo. Se per umorismo s’intende una innocua ingenuità, il rimprovero è giusto; ma l’umorismo della storia mondiale è anche un umorismo di indignazione.

Il professor Kähler dell’università di Königsberg chiese il suo congedo in una causa di grave malattia. Non glielo si accordò, ma lo si indusse e conservare le sue cariche. Ricuperate le sue forze, egli dichiarò di voler conservare il suo posto di professore, ma di desiderare di venir esonerato dal suo ufficio di predicatore. Su questa preghiera, ricevette il congedo dai suoi uffici di predicatore e di professore.

La lega per candidati religiosi si dà la più zelante briga per collocare i suoi protetti nei ginnasi, ma trova finora presso la maggior parte dei direttori una resistenza tenace e irriverente.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 270, 27 settembre 1842]

6) Difesa del dottor Jacoby

Poiché nei numeri 209 e seguenti abbiamo indicato il contenuto essenziale dello scritto in sua difesa pubblicato dal dottor Jacoby in Königsberg e della sentenza del Senato criminale che, nonostante quello scritto, condanna Jacoby; non possiamo tralasciare di comunicare al lettore tedesco le ulteriori fasi di questo fatale processo, e particolarmente di presentargli ora un giudizio sulla successiva difesa che il dottor Jacoby ha, per mezzo della stampa, elevato fino alla dignità di parola storica, difesa contro “l’accusa mossagli di lesa maestà e di audace irriverente biasimo delle leggi nazionali”.

Se noi possedessimo una di quelle elefantiache gazzette americane che in un solo numero pubblicano un intero romanzo in tre volumi, non ne potremmo impiegare più utilmente le colonne anziché raccogliere in quelle tutte le ottanta pagine di questa “successiva difesa”; perché noi abbiamo molto bisogno di ammaestramento politico e non lo potremmo ricevere da mani migliori di quelle dell’“accusato, il quale ha in misura non comune la capacità di esprimersi in modo chiaro e preciso”. Ciò dovette riconoscere anche il giudice, il quale in altri casi si attribuì la qualità di “critico letterario”, e il buon senso del lettore ci garantisce che egli, a differenza di quanto è avvenuto nella sentenza del Senato, da questa virtù dello scrittore non ricaverà un motivo per aggravare il castigo. “Devono avvenire scandali; ma guai all’uomo, per colpa del quale lo scandalo avviene! Per questi sarebbe più vantaggioso che qualcuno gli attaccasse una pietra da mulino al collo e lo gettasse in mare, anziché provocare il più piccolo scandalo”. Sia prodotto lo scandalo da Cristo o dai farisei, da Lutero o dal papa, dai rivoluzionari o del re assoluto Luigi XVI, dai Cartisti o dagli aristocratici, da... ma a qual fine continuare le domande? Chi sa rispondere a questa “domanda politica”, è anche in grado di continuare le domande. Ma nessuno si lascerà prima del tempo legare al collo una pietra da mulino. Per quanto riguarda il processo del dottor Jacoby, che da un anno e mezzo si trascina, apprendiamo da esso che l’uomo singolo è un uomo universale. Chi nel lontano Oriente conosce Jacoby, un numero fra milioni di uomini? Eppure voi vi interessate a questa mingherlina creatura, vi informate del suo destino, di quello che fa e pensa. Questa creatura non è il “Dottore” che ha guarito tanti uomini e altri ha condotto alla tomba; essa è l’uomo che in sé ha personificato un’idea e ora deve portare nel proprio corpo le temporanee sofferenze dell’idea; è l’“uomo” che anche voi siete o vorreste diventare. E chi si informa del giudice del Senato criminale, quando questi non ha così un processo? Voi però v’informate di lui; perché in lui forse vedete meglio che non veda egli stesso.

Ora considerate bene a riflettere oltre: questo “vedere di più che la cosa singola” è il principio di una “coscienza politica”. Volgiamoci invece al processo. La prima giustificazione del dottor Jacoby ebbe per conseguenza che il Senato criminale del regio tribunale camerale lo condannò per “lesa maestà nonché per audace e irriverente biasimo delle leggi nazionali, a due anni e mezzo di arresto e fortezza e alla perdita della cittadinanza prussiana”. In seguito Jacoby si appella e rivolge la presente “successiva difesa” ai suoi giudici di secondo grado, mettendo come introduzione queste parole: “Io tenterò in seguito di dimostrare l’ingiustizia di questa sentenza”. Poiché nella sentenza egli fu assolto dall’accusa di alto tradimento, avrebbe potuto tacere su questo punto dell’accusa. Ma l’assoluzione mise in luce l’irritazione del giudice assolvente in quanto nella redazione della sentenza lasciò in cattiva luce il carattere dell’imputato.

Perciò Jacoby ritorna su questa accusa, e si diffonde dettagliatamente sul secondo punto: quello del biasimo audace e irriverente, per dimostrare da ultimo ingiusta l’accusa di lesa maestà.

Di queste tre parti della difesa riferiamo quanto segue.

Nel capitolo che tratta dell’alto tradimento si leggono fra altro queste parole della sentenza: “È difficilmente credibile che l’accusato abbia realmente voluto soltanto invitare gli Stati del regno a ripetere ciò che hanno già fatto, e quindi a stabilire che le leggi possono unicamente venire abolite nella forma ordinata dal Diritto civile comune, e che quindi l’editto del 22 maggio 1815 non essendo stato revocato, in tale forma, ancor oggi ha forza di legge. Si è involontariamente portati a supporre che l’accusato abbia voluto indicare più di quanto esprimono le parole nel loro senso letterale i pensieri dell’autore, nel loro necessario sviluppo. Che cosa deve succedere secondo l’accusato se la proposta degli Stati del regno viene respinta?”.

Jacoby risponde: “A questa domanda si replica semplicemente: l’accusato desidera che, se la proposta sarà respinta gli Stati possano sempre ritornare nuovamente su di essa; egli augura agli Stati prussiani la nobile tenacia di Wilberforce, che il 19 maggio ripeté nel Parlamento inglese la sua proposta per l’emancipazione degli schiavi e – per piccola che fosse all’inizio la speranza di un buon successo – finì per riportare la più brillante vittoria.

“Questo esempio insegna già che le mie parole, comprese nel loro arido significato, non esprimono un’idea così insignificante come sembra credere il giudice. ‘I pensieri del lettore’ possono anzi, è quelli del giudice penale devono trovare in questa idea ‘il loro limite’. Il giudice sentenziante investiga nello sviluppo dei miei pensieri un altro significato di quelle parole. Egli si serve a tal fine del motto biblico citato alla fine dello scritto, motto che (come egli stesso indica) tenta di interpretare ‘nello spirito di una colpevole tendenza’. Quindi, invece di concludere dalle parole dello scrittore sulla tendenza del medesimo, qui il giudice conclude da una presupposta sentenza sul senso delle parole. Dice il passo incriminato, che la Prussia orientale ha già detto che cosa abbisogni al paese, e le altre province faranno altrettanto. Unite nello sforzo verso la vera rappresentanza popolare, esse si terranno insieme tutte concordi; perché, se l’intera nazione starà così di fronte al regnante, allora si adempia la promessa: ‘Essere destino della Prussia di appropriarsi per vie pacifiche dei frutti della rivoluzione francese’. Dichiara il giudice che indubbiamente un pensiero simile si trova nello spirito dell’accusato.

“Dalle parole qui citate sul destino della Prussia – queste, sia detto di passaggio, sono parole di Karl August von Hardenberg – il giudice arguisce che a me (e quindi anche Hardenberg) sia balenata ‘l’illusione di una rivoluzione pacifica’; e quindi così continua: ‘Ma il pensiero di una rivoluzione pacifica chiude necessariamente in sé l’idea di un duplice esito. O il regnante si arrende alla volontà comune o non si conforma a quella, e nel secondo caso la nazione lo abbandona e muta senza, il suo consenso la costituzione. Provocare uno stato di cose tale, che il suo esito, ecc.’. Anche ammettendo la frase: rivoluzione pacifica (che è propriamente una contraddizione in termini), non è però possibile assumere come una pacifica trasformazione della situazione il caso in cui ‘una nazione abbandoni il suo monarca’. Provocare uno stato di cose che possa condurre il popolo all’infedeltà verso il principe, sarebbe cosa certamente idonea a ‘destare sospetti’; ma come ha potuto il giudice far sembrare visibile la sua asserzione, che ‘occupi i miei pensieri con simili eventualità?’. Dalla deduzione qui messa in luce, tanto arbitraria quanto illogica, ciò che segue certamente, e nemmeno dalla forzata interpretazione del passo biblico, è che la sentenza stessa viene designata come ‘artificiosa’. Che cosa dunque autorizzò il giudice a dire: ‘Per quanto riprovevole sia l’opinione dell’accusa sotto l’aspetto politico, tuttavia la sua colpa restò nel campo del pensiero?’. In che cosa consiste il lato riprovevole del mio pensiero politico, e in che la colpa delle mie idee? (e nessuna persona imparziale troverà di più nel mio scritto). Ho soltanto manifestato la patriottica preoccupazione che la formazione unilaterale degli statuti provinciali, senza concorso del Parlamento, potesse costituire un pericolo per l’avvenire. Che cosa è che determina il giudice ad attribuirmi invece di questo l’idea di una minaccia antipatriottica? Sulla base di quella mia preoccupazione ho espresso il desiderio che gli Stati provinciali di Prussia ripetessero la loro proposta per l’applicazione della legge del 22 maggio 1815, e che gli Stati delle altre parti del paese ne seguissero l’esempio. Un simile accordo, che sarebbe la prova di un bisogno generale e profondamente sentito, procurerebbe al principe la lieta convinzione che i suoi fedeli sudditi sono maturati al grado di uomini, i quali anche nei maggior affari dello Stato meriterebbero di stargli accanto consigliando una maggiore partecipazione del popolo alla vita dello Stato, una più intima unione organica delle diverse province. Un morale rafforzamento della Prussia e di tutta la patria tedesca sarebbero state le conseguenze inevitabili e inestimabili di questa convinzione del re. Come qui, così nello scritto incriminato, ho espresso senza veli la mia opinione politica. Se perciò si dichiara che nutro sentimenti riprovevoli, condivido questa sorte coi migliori uomini del nostro tempo; se io, giudicando così, ho commesso un ‘reato di pensiero’, in tal caso i più fedeli servitori dello Stato, Heinrich Friedrich von Stein e Hardenberg, sono colpevoli del medesimo reato. ‘Nessuno, dice un proverbio latino, deve essere punito per aver pensato!’. Ora, soltanto sulla base di questo detto giuridico la sentenza mi assolve dal delitto di alto tradimento. Ma il medesimo detto avrebbe anche dovuto proteggermi da qualsiasi inquisizione di pensiero, mentre esso (dopo il tentativo di rendermi quanto più è possibile sospetto) resta là soltanto come segno ammonitore di una ironica generosità.

“Il giudice che mi assolse non si limitò a provare che nel mio scritto non è contenuto nessun eccitamento ad un’azione sovvertitrice della costituzione; egli cerca anche di provare che non furono i miei leali sentimenti a tenermi lontano dalla colpa, ma unicamente la prudente considerazione che quei miei sentimenti non sono realizzabili. ‘Un invito (così suonano le sue parole), a tutto il popolo prussiano di rinnegare il governo, è un’impresa così assurda ché non si può considerarla come realmente provocata se non la si è enunciata in modo chiaro ed indubbio. Chi si propone seriamente di fare una cosa e non è malato di mente, non sceglierà per i suoi fini un mezzo che, nelle circostanze presenti, non può raggiungere il fine proposto’. Mentre, già l’infermità di mente rende irresponsabili, sono assolto, perché non sono malato di mente. Soltanto perché non ho ‘espresso in modo chiaro e indubbio’, le idee di alto tradimento che ‘incontestabilmente covano nella mia anima’, la sentenza trova che il sospetto sorto contro di me circa l’alto tradimento non è abbastanza consistente ‘per fondare su di esso anche solo l’assoluzione dell’istanza del giudice’; e unicamente perché nessun’altra azione incriminabile è combinata con le ‘tendenze rivelatesi nel libello’ e anche perché nello scritto ricorrono alcune ‘espressioni di lealismo’, mi viene concessa l’assoluzione plenaria, sebbene non sia dubbia la distinzione tra l’assoluzione plenaria e quella provvisoria. Devo respingere nel modo più assoluto il sospetto che trapela da tutta questa locuzione del giudice. Chi ha coscienza della purezza delle sue intenzioni, non può tollerare che lo si mandi libero dalla pena e in pari tempo si rappresentino i suoi sentimenti come così colpevoli e riprovevoli che (come si esprime la sentenza) ‘possano avviare misure di polizia’”.

Il secondo capitolo deve occuparsi delle singole accuse, e deve specialmente dimostrare che le “inesattezze” di cui il giudice fa colpa, in realtà non esistono, eccettuate due piccolezze. A tal fine Jacoby dovette mettere in luce particolarmente i singoli soggetti, come: censura, stati comunali, stati provinciali, Amministrazione della giustizia, Amministrazione generale. Qui basterà riferire alcune cose dette dall’autore. A pagina 8 dello scritto incolpato si legge: “E quale parte ha nel governo questo popolo di intelligenza e di costumi tanto elevati? Arrossendo dobbiamo confessarlo: appena la più piccola immaginabile”. “Il giudizio impugnato mi rimprovera di preparare con queste parole l’animo del lettore ai miei fini, poiché provoco con ciò nel lettore quel sentimento che in un uomo libero sia eccitato da una eccessiva restrizione della libertà. ‘Arrossire’ è il modo con cui si manifesta il sentimento della vergogna. Ma il sentimento che è svegliato in un uomo libero da una eccessiva restrizione, è piuttosto collera che vergogna. Dal resto del discorso e dalla domanda con cui si inizia, si evidenzia chiaramente il senso delle mie parole: il popolo prussiano, così progredito nel senso morale e intellettuale, è rimasto molto addietro alle altre nazioni (dobbiamo confessarlo arrossendo) in cultura politica. La ragione di questo fatto giace in parte in circostanze esterne e in parte nel popolo stesso. Se è vero che finora le nostre istituzioni concedettero solo un piccolo campo all’attività dei cittadini, non è meno vero che il popolo (parlo dell’epoca in cui il mio scritto apparve) ha dimostrato soltanto un piccolo interesse agli affari pubblici. Se i cittadini non avessero considerato lo Stato come giacente fuori del loro campo d’azione, e avessero manifestato con le parole e coi fatti un più vivo spirito pubblico, è certo che un governo saggio avrebbe fatto loro più spazio alla vita dello Stato. Soltanto di queste cause, che giacciono in lui stesso il popolo prussiano può sentir vergogna, soltanto di queste ha motivo di ‘arrossire’. Provocare nel lettore un simile stato d’animo dovrebbe ridonare piuttosto a lode che a biasimo del pubblicista. Circa la censura seguente: ‘In tal forma (dice la sentenza) non è lecito al suddito esprimersi circa le leggi e gli ordinamenti dello Stato; l’asserzione che ogni accenno toccante anche da lontano l’interesse pubblico, debba venir manifestato apertamente, rifugiarsi fuori dai confini prussiani e che la censura, come viene applicata in Prussia, comporti un’arrogante tutela e una vera repressione dell’opinione pubblica; contengono effettivamente e letteralmente, uno sfacciato biasimo e offendono la reverenza dovuta allo Stato. Ma la affermazione che con ciò viene concesso ai funzionari un arbitrario potere egualmente pericoloso al popolo e al re, rivela chiaramente la tendenza a creare malcontento e agitazione contro le istituzioni descritte in quella forma’. Qui il giudice si è permesso una leggera alterazione delle mie parole. Non ho detto: ‘il genere della nostra censura concede ai funzionari un pericoloso potere arbitrario’, (ciò indicherebbe che tale potere arbitrario esiste), ma ho detto soltanto: ‘la censura finirebbe per condurre a un pericoloso potere arbitrario’, ecc. L’origine di questa frase depone in favore della sua innocuità: è tolta da un ordine di Gabinetto di Federico Guglielmo III (del 20 febbraio 1804), in cui dice: ‘La pubblicità è per il governo e per i sudditi la più sicura garanzia contro la trascuratezza e la cattiva volontà dei funzionari, i quali senza di essa riceverebbero pericolosi poteri arbitrari’. La tendenza a ‘creare malcontento e agitazione contro la censura così rappresentata’ non è ancora punibile per se stessa. Né il paragrafo 151 del Codice penale, né la dichiarazione del 18 ottobre 1819 parlano di ‘malcontento verso le istituzioni biasimate’, ma (come già esigeva la rubrica: ‘delitti contro la tranquillità interna e la sicurezza dello Stato’) unicamente del ‘malcontento dei cittadini contro il governo’. Questo scambio non privo di importanza colpisce di più perché la sentenza impugnata anche nel citare il paragrafo 151 ha omesso le parole ‘dei cittadini contro il governo’. Nessuna conseguenza è più ingiusta di questa, che chi biasima un Istituto (la censura) offende il creatore di tale Istituto (cioè il governo). Chiunque biasimi, ecciterà il malcontento contro la cosa biasimata; se quindi il paragrafo citato dovesse punire il fatto di eccitare tale malcontento, ogni biasimo, anche il più giusto, dovrebbe essere punibile.

“Nei verbali, che è necessario produrre, in maggiore quantità quanto meno il giudice ne tenne conto, così mi espressi in merito alle parole incriminate: ‘Non si vorrà già negare che ogni censura è una tutela; e così pure la nozione di arroganza in genere non si può separare da quella di censura, poiché spesso lo scrittore censurato sta più in alto, sotto ogni aspetto, del suo censore. Se volessi raggruppare le lamentele dei nostri più illustri pensatori contro la costituzione della censura, non finirei così presto. I migliori scritti di Kant non si sarebbero mai pubblicati, se egli non li avesse fatti stampare all’estero. Herder si lagna amaramente di ciò, che le attenzioni per il governo gli furono sempre di ostacolo nei suoi scritti storici, ecc. La censura diventa più o meno un’‘arrogante tutela’, una ‘repressione dell’opinione pubblica’ (in quanto questa si manifesta per mezzo della stampa), secondo che viene maneggiata con maggiore o minore severità; ma è universalmente ammesso che essa in Prussia viene esercitata con maggior severità che negli altri paesi i quali, in fatto di civiltà, non sono inferiori a noi. È questo un fatto di cui nessuno ha bisogno di dare prove, eccetto me, che per avere enunciato tale fatto sono stato condannato a un processo penale.

“Le prove da me adottate della mia affermazione, cioè molti esemplari censurati della ‘Königsberger Zeitung’, in cui furono cancellati articoli innocui sulla politica interna; la discussione degli affari dell’Hannover vietata da un alto rescritto ministeriale; decisioni delle altre autorità censorie, seguite soltanto e fino a sei mesi dopo l’istanza, ecc., la fondatezza di tutte queste prove non fu negata; ma si osservò soltanto a tal proposito che ‘singoli esempi non provano generalmente nulla sul valore o sul non valore di un’istituzione statale’. Ma se si trattasse di aumentare il numero di queste prove, non riuscirebbe difficile trovare contributi a bizzeffe ricavandoli da ogni luogo della Prussia dove vi sia un giornale. Ma non ce n’è bisogno, poiché già l’istruzione sulla censura del 24 dicembre dell’anno scorso, nota anche al giudice, contiene l’ammissione ufficiale che a causa del gretto e angosciante esercizio della censura ‘la nostra stampa fu sottoposta a limitazioni inammissibili, non volute dal re’. Ma ammessa la fondatezza di quanto dico, tuttavia la ‘forma’ della mia esposizione deve lasciar sussistere il rimprovero di sfacciataggine e irriverenza. ‘Io non giudico (così dice la sentenza) come una forma di tranquilla discussione un biasimo con espressioni tali che, se fossero state dirette contro individui, indubbiamente sarebbero state ritenute come ingiurie, quindi offendo il rispetto che devo alle leggi e agli ordinamenti dello Stato’. La prova giuridica di questa affermazione doveva riuscir difficile al giudice, ma sembra che egli non se ne sia curato; a lui basta far appello al sentimento. Ma egli dovrebbe chiedere al suo sentimento se ulteriori parole stampate sotto la censura prussiana portino in sé il carattere di una maggiore moderazione”.

E qui Jacoby cita esempi impressionanti tolti da altri scritti sottoposti dopo il suo alla censura prussiana. Tutto ciò che Jacoby esprime nel suo scritto per confrontare i vecchi ordinamenti comunali con quelli riformati, è già detto nel modo più franco nell’opera del signor von Rönne sugli ordinamenti comunali, raccomandata vivamente da un rescritto del signor von Rochow; per esempio: “Nell’abbozzare una revisione degli ordinamenti comunali si partì essenzialmente dal punto di vista che il diritto di sopraintendenza dello Stato venga maggiormente esteso, che il diritto di cittadinanza venga connesso alle condizioni di reddito escludendo da esso i nullatenenti e la capacità elettorale venga limitata, onde tenere di regola lontano dalle magistrature e dalle assemblee rappresentative dei comuni la classe povera e ignorante della popolazione”. Ecco ora un esempio del modo con cui viene spacciato il giudice che si è posto sul campo a lui estraneo della critica letteraria (poiché i tentativi di imputare al dott Jacoby delle inesattezze portano via una gran parte della sentenza. – “Anzitutto, dice Jacoby nella parte del suo libro intitolata: Statuti comunali mi viene mosso il rimprovero di avere in merito all’esercizio del diritto civico e della eleggibilità ai consigli comunali, taciuto che secondo la riforma degli ordinamenti comunali anche coloro che non posseggono il reddito prescritto ma si mostrano meritevoli di ‘speciale fiducia’ possono, per unanime decisione del magistrato e dei consiglieri comunali, conseguire il diritto di cittadinanza, ed essere iscritti fra gli eleggibili. Non ho ‘taciuto’, ma soltanto omesso ciò che non ritenevo e ancor oggi non ritengo essenziale alla composizione del mio scritto. Qui si parla soltanto del diritto di diventare cittadini e di essere eletti, e i due ordinamenti comunali vengono paragonati soltanto in rapporto a tale diritto. Ma secondo gli ordinamenti comunali riveduti ha diritto di acquistare la cittadinanza soltanto chi possiede una proprietà fondiaria di 300-2000 talleri, oppure una professione stabile ricava un’entrata netta di 200-600 talleri, o da altre fonti un’entrata di almeno 400-2000 talleri; e ha il diritto elettorale secondo gli ordinamenti comunali riveduti soltanto quel cittadino che possiede una proprietà fondiaria di 1000-12000 talleri oppure può dimostrare un’entrata annua di 200-1200. Invece, secondo i vecchi ordinamenti comunali, ogni onesto abitante della città “senza riguardo alla sua situazione è ‘personale’ era autorizzato all’acquisto della cittadinanza, e ogni cittadino elettore (cioè chi possiede un pezzo di terra, quale che sia il valore di questa, oppure un reddito di 150-200 talleri) era eleggibile alla carica di consigliere comunale. Il fatto che per i singoli casi il nuovo ordinamento comunale permetta un’eccezione in favore di abitanti meno abbienti, non è essenziale, perché, anche facendo a meno dalla rarità di simili esempi, questi meno abbienti non posseggono il diritto di cittadinanza e quello dell’eleggibilità, ma dipendono per tale riguardo interamente da una decisione unanime del magistrato e dei consiglieri comunali. In un altro punto la sentenza dice: ‘Chi tenta soltanto di essere utile alla sua patria non si sforzerà di provare che prima si seguiva una tendenza più vantaggiosa per il popolo, ora sempre più abbandonata e mutata con un’altra dannosa al bene pubblico. Un simile confronto tra la situazione di prima, pretesa migliore, e quella di adesso è completamente superfluo per svelare i pretesi difetti della costituzione vigente, quindi non può avere alcun altro scopo che quello di creare l’opinione che ora non si vada così bene come prima per quanto riguarda il bene della nazione, e così suscitare malcontento e agitazione’”. A ciò Jacoby osserva: “Io ho qui riferito fedelmente le parole della sentenza; ma non posso intendere il loro nesso logico. Forse che giova alla sua patria soltanto chi considera buona la situazione vigente? E un confronto tra il passato e il presente sarebbe dunque così completamente superfluo per rivelare i difetti esistenti? È un paragone di tale genere se è superfluo non può avere nessun altro scopo che uno scopo delittuoso verso lo Stato? Con argomenti come quelli che la sentenza non esita ad addurre, si potrebbe condannare alla pena prescritta dal paragrafo 151 ogni lodatore del tempo passato, e perfino Schiller a causa della sua canzone: Amici, ci furono tempi migliori! Non ho fatto nessun mistero di questo, che ritengo il sistema amministrativo dominante in Prussia dal 1819 come meno liberale che il regime degli anni precedenti, e nel mio scritto come nella giustificazione di quello che ho corroborato la verità di tale opinione con fatti incontestabili. Nella manifestazione di quest’opinione universale diffusa si riscontra un’imprudenza meritevole di castigo? Può questa manifestazione non avere altro scopo che quello delittuoso di eccitare il malcontento e l’agitazione? Non è forse più ovvio descrivere il bene del passato per far sì che anche il presente se lo appropri? E questo non è forse un essere utili alla propria patria? In verità! a chi simili cose si devono ancora dimostrare non lo si potranno mai”.

In rapporto agli Stati provinciali la sentenza contiene questo rimprovero: “È evidentemente un biasimo sfacciato e irriverente quello con cui l’accusato definisce completamente nullo per il bene comune l’Istituto degli attuali Stati provinciali, poiché il benessere delle singole province e il benessere generale del paese esercitano fra di loro una reciproca influenza, e quindi l’accusato non può far valere a sua scusa di aver usato l’espressione benessere generale, come contrasto all’interesse particolare delle singole province”. A ciò Jacoby risponde: “Diritto e legge sono le parole d’ordine del giudice; egli non dovrebbe né difendere né condannare le opinioni politiche. Il giudice sostiene che ‘il benessere delle singole province e il benessere generale del benessere esercitano fra loro una reciproca influenza’. Ha torto! Il benessere delle singole provincie può essere molto grande, e tuttavia il benessere generale del paese correre grande pericolo, se manca il legame spirituale che allaccia le singole parti del paese. Come in una società per azioni non crea sicurezza la ricchezza dei singoli membri ma la misura della loro partecipazione all’impresa comune, così non dal benessere delle singole province ma dalla loro intima coesione è condizionato il benessere del paese. ‘Soltanto per mezzo di una rappresentanza popolare può uno spirito nazionale, un interesse nazionale sostituirsi alle vedute provinciali che per loro natura sono sempre unilaterali’. Così dice Handerberg nel passo da me citato. Già grazie a un simile garante, il giudice non avrebbe dovuto disapprovare la mia affermazione, e tanto meno incolparmi di ‘biasimo sfacciato e irriverente’. Non ho definito ‘nullo’ sotto ogni rapporto l’Istituto degli Stati provinciali, ma soltanto ‘in rapporto al benessere generale’, cioè in rapporto agli affari generali del paese, dei quali è loro vietato per legge discutere”.

Dalla parte intitolata: Amministrazione della giustizia togliamo il passo seguente: “Alla tesi, che la procedura giudiziaria in Prussia sia dal principio alla fine clandestina e unicamente nelle mani di funzionari pagati, istituiti dal Gabinetto, la sentenza impugnata oppone la seguente considerazione: ‘Già questo modo di esprimersi, e particolarmente lo sconveniente epiteto: clandestina usato al posto di non pubblica o segreta, rivela la tendenza al disprezzo e con le parole: funzionari assoldati e istituti dal Gabinetto l’accusato vuole evidentemente riferirsi alla giustizia di Gabinetto’. ‘Clandestino’ e ‘segreto’ sono quasi sinonimi. Con la nostra giustizia, che non ha nulla a che vedere nell’esecuzione della sentenza, l’epiteto non può avere nessun significato accessorio; esso accenna soltanto a quello che si esprime chiaramente parlando di segretezza ufficiale spesso inasprita, la quale vieta di prendere conoscenza perfino di atti relativi a vertenze già sepolte. Secondo l’uso della lingua, segretezza e segreto formano l’opposto di franchezza e chiaro; clandestinità e clandestino l’opposto di pubblicità e pubblico. Noi parliamo di clandestinità del procedimento giudiziario opponendola alla pubblicità, non della segretezza di quel procedimento; e altrettanto dovrebbe convenire meglio di parlare di una procedura ‘clandestina’ che di una segreta. Se il giudice mi vuole far carico di ciò, mi appello all’Eberhards Synonymik [Dizionario Eberhard dei sinonimi]”.

“Non meno incosciente è il secondo rimprovero. ‘La giustizia di Gabinetto’ (il giudice mi perdoni se, come profano sbaglio) fu da me sinora ritenuta come una forma di giustizia esercitata per semplice comando del re senza osservanza delle forme legali. Di ciò nulla ‘evidentemente’ è detto nel passo incriminato; bastava una piccola riflessione per riconoscere che là si parlava della nostra consueta procedura giudiziaria in contrasto, non con la giustizia di Gabinetto ma con l’uso prettamente tedesco dei tribunali composti di giurati. In questi, il giudizio è dato da uomini non stipendiati e indipendenti, mentre presso di noi il giudizio è dato da ‘funzionari stipendiati, istituiti dal Gabinetto’. Non sarebbe qui il posto per difendere i vantaggi della giuria; mi si permetta di addurre una sola importante testimonianza: ‘La peggiore eventualità (così scriveva Johann Jacob Moser settant’anni fa) che noi dobbiamo temere è questa, che a non popolari (cioè a dotti giudici istituti dallo Stato) venga attribuito il medesimo potere che finora ebbero i popolari (cioè i giurati)’”. Qui merita anche di essere notato che il dottor Jacoby nella sentenza emanata contro di lui il 5 aprile 1842 fu giudicato in conformità a un’ordinanza che già il 12 settembre 1841 era stata abolita da un ordine di Gabinetto.

Altrove Jacoby dimostra due volte che il medesimo giudice il quale gli rimprovera spesso delle reticenze, nelle sue citazioni “omette appunto le parole più importanti, dalle quali viene contraddetta tutta la deduzione del giudice”. La difesa contro l’accusa di sfacciato irriverente biasimo alle leggi nazionali chiude con queste parole: “Fin qui la mia anticritica! Quali sono dunque gli errori che il giudice mi ha dimostrato? Che dopo il 1820 il bilancio fu pubblicato non tre volte ma cinque, e che già prima del 1836 i commissari di giustizia potevano venir licenziati in via amministrativa. E per questo mi si rimprovera di ‘falsità’, di ‘inganno intenzionale’, di ‘tendenza delittuosa’, di ‘sentimenti torbidi’, di ‘ignoranza’ e ‘sfacciataggine’! Le altre accuse e declamazioni non abbisognano di particolare confutazione. Esse si fondano in parte sulla falsa premessa che mi sia permesso di travisare la verità, e in parte sull’idea completamente oscura che il giudice collega alle parole ‘sfacciato’ e ‘irriverente’. Se (come accade nella sentenza) si confonde “‘sfacciataggine’ con errore, avventatezza, ecc., se si dà a questa nozione un’estensione così ampia che ogni biasimo non ‘cosparso di zucchero’ contro il governo, ogni espressione non sommessa circa i difetti attuali può venire comodamente inclusa in quella nozione, e se, partendo dalla supposizione di una tendenza delittuosa, si accettano scrupolosamente le parole di uno scrittore e si vuole ad ogni costo spiegare in questo senso dei passi staccati dal contesto; allora certamente il paragrafo 151 del Codice penale diventa una raccapricciante arma d’attacco contro chiunque osi esprimere un libero giudizio sugli affari pubblici. Allora la censura servirà soltanto a riempire le carceri e (come inevitabile conseguenza) presto regnerà in tutto il paese un silenzio che sarà in avvenire per i governanti più pericoloso del biasimo più aperto. Non può essere permesso al giudice di elevare a legge penale la sua opinione politica. Quand’anche il giudice che mi giudica ritenga come ottime le presenti istituzioni statali, e creda che la Prussia non ha bisogno di una rappresentanza popolare e può far fronte a qualsiasi futuro nemico senza una più stretta unione delle province, questa convinzione non gli dà il diritto di accusare me di torbidi, riprovevoli, antipatriottici sentimenti perché rappresento l’opinione opposta. Respingo con sdegno queste accuse di un avversario politico”.

Dal terzo capitolo: Lesa maestà, togliamo soltanto quanto segue: “Sarebbero, secondo il giudice, ‘malvagi’ e ‘irrispettosi’, i seguenti passi della terza parte dello scritto in cui si parla: 1) Pagina 37: ‘Quale risposta toccò agli Stati? Riconoscimento della fedeltà dei loro sentimenti respinta delle proposte presentate e consolante accenno a futuri indeterminati surrogati’. 2) Nella stessa pagina: ‘In quanto gli avvenimenti testè verificatesi, in conformità all’ordinanza del 22 maggio 1815, relativamente al congedo della Dieta non furono sin ora particolarmente spiegati, ogni giudizio sulla loro importanza dovrebbe sembrare qui inammissibile’. 3) A pagina 32: ‘Nulla dice degli Stati generali del regno il decreto di congedo della Dieta, ma per esso si promette un più conveniente sviluppo della costituzione provinciale. Certamente, regna la più incondizionata fiducia sulla saggezza del nuovo reggente, ma non è in potere di un solo uomo trascrivere il loro futuro sviluppo a istituzioni già superate’. 4) A pagina 43: ‘L’indeterminatezza della risposta del re doveva necessariamente produrre diverse interpretazioni’. I passi qui citati furono così esposti dal giudice: ‘Gli Stati del regno furono pasciuti di belle parole dalla maestà del re’. ‘La maestà del re ha tenuto a bada per ora gli Stati con vaghe parole, circa il fatto che per il momento ne allontanava la convocazione’. ‘Il congedo dalla Dieta da parte del re contiene parole vaghe e vuote, allo scopo di acquietare gli Stati’. Ha facoltà il giudice di commentare queste convenienti parole di uno scrittore con espressioni sconvenienti e irrispettose? E se non ha tale facoltà, con quali parole si deve qualificare il fatto che egli, sulla base di un simile commento travisante senso e parole, mi dichiari reo delle peggiori colpe? La sentenza ha condannato non me, ma un accusato che ha essa stessa creato! Nelle considerazioni sul congedo della Dieta non è contenuto né un errore logico né un errore storico; cose sconvenienti per la forma si trovano non nelle mie parole ma precisamente nel commento del giudice; quindi non resta alcun motivo per un giudizio penale, se pure non si vuole ritenere come possibile ogni pubblica discussione sul congedo della Dieta. E questa (per quanto sembri inverosimile) pare essere d’altronde l’opinione del giudice sentenziante. Quanto alle parole incriminate: ‘L’indeterminatezza della risposta del re doveva necessariamente produrre diverse interpretazioni’, avevo fatto la seguente osservazione nella mia prima difesa: ‘Indeterminatezza è forse una parola che nella vita comune ha un significato dispregiativo o irrispettoso? Quanto spesso la stessa parola è usata in dichiarazioni ministeriali a proposito di leggi ratificate dal sovrano, e a chi in tutto il mondo viene in mente di pensare al reato di lesa maestà?’. La sentenza emanata risponde: ‘L’accusato non può far valere il fatto che spesso, sia da autorità sia da altri singoli scrittori certe disposizioni di leggi furono definite non chiare e indeterminate. Perché anzitutto esiste una notevolissima differenza tra una legge e una speciale manifestazione della volontà reale espressa in una particolare occasione. Una seconda importante differenza separa poi anche un’autorità che si esprime nell’esercizio delle sue funzioni, oppure un autore corredato di speciale esperienza e dottrina e pieno di onesto zelo, da uno scrittore che, pervaso di amarezza e di malcontento, combatte le istituzioni dello Stato senza osservare in ciò alcun riguardo di convenienza verso l’alto capo dello Stato e i funzionari da questo istituiti da uno scrittore che inoltre non sembra autorizzato a simile impresa né da una particolare missione né dalla sua cultura ed esperienza’. Certamente, vi è una notevole differenza fra una legge è una volontà del re. Alla legge è sottoposto ogni cittadino; mentre un atto della volontà reale, finché non è trasformato in legge nella forma prescritta, ha forza vincolativa soltanto per servitori del re. Se si comprende bene la differenza, ne risulta per il caso in questione il seguente principio: poiché si può usare la parola ‘indeterminato’ per le leggi, tanto più deve essere permesso designare con la stessa parola la speciale ‘volontà di sua maestà’ formulata in una occasione speciale. La sentenza impugnata sembra però non ammettere in valore questa differenza, anzi collocare la volontà del re più in alto che la legge: dottrina pericolosa, soprattutto per le cose della giustizia!

“Più avanti la sentenza distingue fra ‘un’autorità che si esprime nell’esercizio delle sue funzioni oppure un autore animato da giusto zelo e uno scrittore senza particolare missione e senza osservanza della convenienza attacca le istituzioni dello Stato’. Grazie a questa distinzione, mi viene mosso il doppio rimprovero di sconvenienza e di mancanza di vocazione. Ma la sconvenienza deve essere qui dimostrata precisamente dal giudice, e quindi non può per se stessa valere come argomento. Per il secondo rimprovero valga questa risposta: ‘Ho sentito in me la vocazione di dire pubblicamente ciò che ritengo come vero e come giusto; la decisione, se tale sentimento fosse buono, spetta non al singolo giudice ma soltanto alla voce pubblica’”.

La virile difesa è coronata da questa degna conclusione:

“Questi sono i motivi di diritto grazie ai quali si colpiscono i miei sentimenti con le più dure espressioni del linguaggio penale e mi si condanna al carcere per molti anni. Inoltre, devo (così termina la sentenza di condanna) in conformità all’ordinanza del 22 febbraio e alla dichiarazione del 30 settembre 1813 essere dichiarato privo del diritto di portare la coccarda nazionale prussiana. Una volta, la coccarda nazionale era il segno di riconoscimento di un entusiasmo che sollevava i cuori, la codardia e la mancanza di patriottismo escludevano con ragione il senso dell’onore generale. Ma l’alta intenzione del legislatore si sdegnerebbe se egli sapesse come le disposizioni della sua legge e il patriottismo vengono ormai interpretati. Nell’anno 1813 – subito dopo la vittoria di Katzbach, nei giorni di Kulm e di Dennewitz, – il monarca dovette emanare una dichiarazione, per inasprire le pene contro pretese offese al rispetto dovutogli! L’onore civico sta nell’opinione di una legge arbitrariamente travisata. Königsberg, 14 luglio 1842. Dottor Jacoby”.

E ora, quale sarà il giudizio di appello? Così si chiede la Prussia, la Germania, anzi tutta l’Europa politicamente colta! La risposta? Più d’uno deve averla già data!



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, nn. 282-283-284, 9, 10 e 11 ottobre 1842]

XI
“I Liberi”

1) [A proposito della lega dei “Liberi”]

Il corrispondente che firma * scrive quanto segue nel numero 184 del vostro giornale a proposito della lega dei “Liberi”: “Di una associazione di questo genere qui nulla si sa, come possiamo assicurarvi”. Non è questo un parlare presuntuosamente? Nessuno avrebbe alcunché da obiettare all’affermazione: “Io non ho udito nulla di ciò”, perché può essere ad ognuno indifferente che il corrispondente abbia o no udito questa e quella cosa. Ma dire che “qui (cioè in tutta Berlino) nulla si sa a tal proposito!” è un parlare non giustificabile. Senza contare che il corrispondente avrebbe potuto apprendere anche dal giornale di Spener che furono già fatti determinati nomi di soci. Ma posso anche contrapporre al corrispondente * l’assicurazione che ho avuto personalmente occasione di persuadermi dell’esistenza d’una lega di quel genere. Certamente però è una lega alla quale si può contestare questo nome nel suo senso materiale; è una lega costituita spiritualmente, non civicamente, non statutariamente, una lega di cui non si può dire se sia qui o là; i suoi membri sono di tutti i luoghi e non garantisco di non trovarmi in mezzo a membri della lega se mi reco nella prossima miglior società. Manca loro un appiglio per la polizia, e se venti di loro si radunassero e operassero insieme, svanirebbero come un fantasma fra le mani di quel poliziotto che credesse di trovare appiglio per scoprire la lega; e di nuovo in un altro posto, forse aumentati di qualche dozzina, si radunerebbero a bisbigliare fra loro e a chiacchierare ancora un’oretta in confidenza sull’autonomia dello spirito. Come dimostra l’articolo scritto a Königsberg, sembra che essi siano stati realmente prossimi a tentare di rivelare i loro nomi e con ciò a diventare trattabili. Ma dopo essere stati in vari modi avvisati di non farlo, e fra altro precisamente dal primo articolo del vostro giornale, è possibile che i “Liberi” abbiano rinunciato a quel progetto, per non paralizzare in anticipazione la loro attività con una costituzione formale e per salvare una forza spirituale dal pericolo di rovinare in una impotenza materiale grazie alla troppo fretta.

In modo ancora più temerario di quel corrispondente si comporta un altro che firma + nel numero 181 contro alcuni altri vostri informatori. Anzitutto egli nel numero citato, accusa un tale, che aveva parlato sulla disposizione circolare relativa ai giornali, senz’altro della colpa di essere a bella posta sospettoso, e non porta prova, o piuttosto la porta affermando una inesattezza, che salta agli occhi di chiunque legga più di una gazzetta. Perché non è proprio vero che i giornali tedeschi come quelli esteri riconoscono imparzialmente l’opportunità della circolazione sulla letteratura periodica, e ci si può facilmente convincere del contrario leggendo i numeri relativi. Il secondo rimprovero di quel corrispondente riguarda me stesso. “Si può assicurare che il vostro corrispondente non si trova in errore quando alla fine del suo rapporto osserva che il fatto ha un’apparenza di leggenda”. Si definisce questo contraddire? A un terzo corrispondente, che aveva riferito sull’asprezza della censura königsberghese, dice che ciò non è vero, poiché egli lo sa. Col sofisma a cui si abbandona, egli trascura il fatto che fra gli articoli stampati in un particolare fascicolo della “Königsberger Zeitung” il medesimo censore che aveva lasciato passare quegli articoli ne aveva cancellati molti passi, e che inoltre tutti gli articoli relativi al trattato con la Russia dovettero venire soppressi. Nessun corrispondente dovrebbe trattare il pubblico con simile disprezzo. “Io assicuro che questo e quello non è vero!”. Ma quale garanzia ci offrite di dire la verità?



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 190, 9 luglio 1842]

2) I “Liberi”

La lega dei “Liberi”, della cui esistenza la “Königsberger Zeitung” diede il primo annuncio, con rapida successione servì da oggetto di discussione a quasi tutti i giornali e dovette in parte subire attacchi di genere così violento e fanatico che anche un oppositore, se non vuol fare della balordaggine una virtù, deve restare colpito e chiedersi se la lega sia veramente senza ragioni di fronte a simili nemici. La lega merita incontestabilmente di essere considerata come un importante avvenimento del nostro tempo, cui non può negare la propria attenzione chiunque sappia apprezzare gli sforzi spirituali; quale in ultimo debba risultare il giudizio sulla lega, lo si deve in ogni caso esaminare con calma e supporre il meglio, perché in ogni tribunale e in ogni critica si deve partire da questa supposizione. Il maggiore numero dei giornali proruppe con furiosa collera contro tutti i “Liberi” e alla testa di tutti il giornale di Spener col grido di terrore: “L’autonomia dello spirito è il frutto di una infantile presunzione e di un peccaminoso misconoscimento dei limiti della coscienza umana, e la comunità cristiana nel cui grembo si potesse generare una simile propaganda dell’incredulità pronunzierebbe contro se stessa il giudizio di una profonda decadenza”, quel giornale suona a stormo contro gli eretici, e accenna abbastanza chiaramente al randello dei berlinesi, cercando con ciò di provocare anche sulla nostra piazza la bella scenata volgare degli zurighesi contro Strauss: “Certamente chi nella nostra città volesse apertamente professare una dottrina proclamante il culto dello spirito umano al posto del servizio di Dio, si tirerebbe addosso il profondo disprezzo dei suoi concittadini, i quali non tollererebbero nel loro seno l’azione di una società le cui vedute potrebbero soltanto servire a seppellire ogni fondamento morale della società borghese, ad aprire e spalancare le porte al più illegale arbitrio e a permettere l’ingresso a princìpi che avrebbero per conseguenza di consigliare la demolizione della casa e della famiglia”. Ciò che il giornale di Spener rivestì con queste indecorose parole, la “Kölnische Zeitung” parafrasò in tre grandi colonne, e con ciò fece ogni onore al suo confratello, ma non fece onore a se stessa e al mondo colto e cristiano che si dà tuttavia l’aria di rappresentare. No, chi crede di potersi permettere una aperta parola sulla vita e perfino sul valore dei movimenti spirituali del suo tempo, dovrebbe per lo meno rivelare nel suo contegno una giusta dose di cultura, nelle sue espressioni la dignità di un pensiero maturo, nella sua critica le tracce di una penetrazione, almeno tentata dell’argomento. Il pubblico non legge i giornali per avere pietà delle tremolanti grida di una disumana paura, ma per sentire un linguaggio degno di stima. Quanto più degnamente seppe a questo proposito comportarsi la “Aachener Zeitung” la quale sebbene sia pure un’avversaria dei “Liberi”, si leva con incensurabile franchezza e si oppone a ogni intervento da parte del governo!

Ma anche il vostro giornale ha discusso in prima linea l’argomento mostrando nella discussione quella giustizia che non condanna mai per cieco pregiudizio. In realtà la questione, nel nostro tempo agitato da tendenze liberali di ogni genere, è così grave di contenuto e così importante, che si deve cercare di esaminarla a fondo quanto più è possibile indagarne i motivi, assicurarne l’eventuale diritto contro tenaci riprovazioni e il tono che più può essere adatto è quello da voi di già adottato dell’esame tranquillo e fecondo. Chi guarda negli occhi il pericolo, lo supera, o almeno non lo teme più. Già qualche tempo fa voi avete annunciato che realmente esiste, e in quale forma, una Lega di “Liberi”, e me ne persuado sempre più di giorno in giorno e qui voglio soltanto aggiungere che la maggioranza del pubblico e, come accade, anche gli organi dell’opinione si formano di quella lega le immagini più insensate, e temono che l’esistenza della medesima debba privarli di quanto hanno di più caro. Qualche colpa di ciò porta certamente l’esposizione sommaria e frettolosa che la “Königsberger Zeitung” fa delle aspirazioni della lega. Vediamo che cosa vogliono secondo questo giornale propriamente i “Liberi”. “Far valere esteriormente i loro princìpi”. Anzitutto, in che consistono questi princìpi? Nel “levare come bandiera l’autonomia dello spirito, introdurre anche nei più vasti circoli della vita, e mettere ivi in valore le verità fondamentali della filosofia moderna, facendole uscire dalla limitata sfera della scienza”. Non è qui certamente il posto per esaminare queste verità fondamentali, e di ammetterli o ripudiarle senz’altro. Esse si trovano nelle opere scientifiche dei filosofi moderni e in questo campo troveranno i loro avversari e vinceranno o soccomberanno. Soprattutto sono convinzioni di professare le quali non si può contestare a nessuno il diritto, e se i “Liberi” si impegnano a rappresentarle non li si condannerà o biasimerà per questo, ma si lotterà con essi unicamente con le armi della persuasione. Ma essi vogliono introdurre queste verità anche nei “più vasti circoli della vita”, e questo pare sia il senso più esatto della frase “metterle esteriormente in valore”. In cambio non si può individuare che cosa ci sarebbe da obiettare nel caso che persone le quali hanno acquistato una determinata convinzione volessero instillarne la fiducia ad altri, e possibilmente comunicarla a tutti e non sostenere convinzioni opposte mancanti della forza di sostenersi. Il reciproco scambio di convinzioni deve essere libero e se anche la censura della stampa momentaneamente lo ostacola invece di favorirlo, restano però aperte le non limitabili vie del commercio orale, le quali sono frequentate più intensamente quanto più diligentemente le strade maestre della letteratura vengono sorvegliate contro il contrabbando. È difficile pensare, per il desiderio di riempire completamente gli spiriti di questa o quella convinzione proibita e infiammarli, una circostanza più favorevole che quella di una temporanea censura della stampa: allora un solo partito, quello privilegiato, può parlare, e appunto grazie al suo parlare perde ogni credito, e le cose che esso difende e pregia diventano a poco a poco spregevoli e ripugnanti per i lettori. Sicuro, ogni grammo di libertà che si toglie a un’idea che vuol manifestarsi, il pubblico lo pone come una libbra di buona fiducia sulla bilancia di questa persuasione e aggiunge anche, com’è naturale, un quintale di grave sfiducia verso coloro che posero la limitazione. Se quindi i “Liberi” volessero diffondere le loro convinzioni, chi potrebbe impedirlo? Chi tentasse ciò, favorirebbe la diffusione, ed ecciterebbe la fame di quelle convinzioni: il frutto proibito ha il più dolce sapore. Se però i “Liberi” abbiano convenienza o necessità di formare una Lega a questo fine, è un’altra questione. Essi hanno già potuto abbastanza persuadersi del terrore con cui vennero accolti, chi dunque si levasse con questo nome, si chiuderebbe, almeno per il momento, ogni ambito e verrebbe respinto per paura degli spettri. Considerata da questo lato, che cosa sarebbe una Lega? Non sarebbe illegale, ma imprudente.

Frattanto sembra che i “Liberi” siano portati da un secondo motivo ad associarsi in una lega. “La lega vuol tentare di dichiarare apertamente, e con la firma dei nomi di tutti i suoi membri, la sua uscita dalla Chiesa”. Qui deve esserci un malinteso. La Chiesa, almeno quella protestante presso di noi, non è una forza che imponga ai singoli una costrizione. La Chiesa non obbliga al battesimo, alla Cresima, alla benedizione nuziale, ecc. Se costringesse, la sua coazione consisterebbe in pene ecclesiastiche. Però chi, per esempio, non fa la cresima, deve soltanto aspettarsi la punizione civica di perdere ogni diritto civico. Là dove lo Stato non induce i singoli, per mezzo della forza di polizia, alle operazioni della Chiesa, la Chiesa si vede abbandonata, e se taluno fuorché per il battesimo e la cresima, non mette piede in chiesa per tutta la vita, la Chiesa non gli può infliggere nessuna ammenda, anzi, le persone che vivono in modo così difforme dalla Chiesa non per questo sono meno stimate, come prova fra gli altri Johann Paul Friedrich Richter, il quale, come assicurano i suoi concittadini di Baireuth, non si curava di frequentare le chiese e fare la comunione. La Chiesa protestante, non esercitando più nessuna forza sui singoli, si è trasformata in una Chiesa invisibile e interiore, ciò che non era stato al tempo del suo pieno fiore, quando erano in voga le penitenze imposte dalla Chiesa. Che cosa significa dunque un’uscita visibile ed esteriore da una Chiesa invisibile ed interiore? Chi non vuole ascoltare la predica o fare la comunione può tralasciarle; la Chiesa non gli fa alcuna violenza. Migliaia agiscono così fino alla morte e nessuno se ne cura; se d’altronde essi sono persone degne di stima, non viene meno loro il rispetto dei loro concittadini e si giunge perfino a collocarli, come Richter, fra i geni immortali del genere umano. Si sente che le cose della Chiesa sono cose intime dell’uomo, che ciascuno deve sbrigare con se stesso e di cui non deve rispondere davanti a nessuno. Contro un istituto così innocuo e libero da coazione quale è la Chiesa, voler scendere in campo armati sarebbe inutile e giustamente odioso. Poiché mi sono ora proposto di andare in traccia, presso i “Liberi”, della verità che per avventura giace alla base della loro tendenza, e quindi parto dalla supposizione che essi non vogliono soltanto sfogare un “fanciullesco orgoglio”, come pretendono i loro rabbiosi nemici, ammetto che “uscita dalla Chiesa”, sia soltanto un’espressione male scelta per significare ciò che essi realmente si propongono. Questa ammissione non urta contro nessuna contraddizione nell’articolo della “Königsberger Zeitung”. Eppure precisamente questa disgraziata parola ha attirato loro tanto odio e inimicizia. Si ritiene che con la loro uscita vogliano diventare nemici di tutti coloro che conservano un senso chiesatico e credono di dover tenere un contegno cristiano; si ritiene che vogliano distruggere la Chiesa di cui ogni credente in Cristo ha bisogno, che vogliano rapire ai cristiani ciò che è loro indispensabile. Ciò per lo meno non si trova nelle loro parole, e mi sembra si debba avere un cuore pauroso e pusillanime per attribuire loro in genere tali propositi. Essi vogliono diffondere una convinzione, la “convinzione fondamentale della filosofia moderna sull’autonomia dello spirito”. È possibile che tra le conseguenze di questa convinzione si trovi anche il principio che chi professa l’autonomia dello spirito non ha più bisogno della Chiesa cristiana. Chi essi guadagnano a questa convinzione, farà appunto ciò che molti fecero e fanno ancora ogni giorno: non avrà più bisogno della Chiesa, e la trascurerà. Che segue da ciò, per coloro che non vengono toccati da quella convinzione fondamentale? Forse che si deve egualmente abbattere la Chiesa e rapire il cristianesimo a coloro che vivono con una convinzione diversa? Dove è detto questo, e con qual diritto si fa ai “Liberi” il barbaro rimprovero di essere iconoclasti? Essi vogliono introdurre nella vita una “convinzione” e uscendo dalla Chiesa credono di addurre già una parte della dimostrazione che la Chiesa non sia incondizionatamente necessaria; significa forse questo manifestare anche il proposito di far violenza a coloro che non ne sono convinti e abbattere il cristianesimo per tutti coloro che realmente aderiscono ancora a questo? No, ciò non significa altro che esprimere virilmente una convinzione e virilmente rappresentarla. Significa, in una parola, camminare per la via della “persuasione”, non per quella della turbolenza e della sovversione. Quindi si deve pensare al pericolo che chi usa violenza o divieto contro i “Liberi” sia un rivoluzionario peggiore di coloro che in realtà non sono rivoluzionari. In pari tempo però “l’uscita dalla Chiesa” non ha alcun senso, e si potrebbe benissimo evitare ciò che vi è di odioso nella sua apparenza. L’uscita deve essere interiore, non esteriore. Se esaminiamo più esattamente, anche la dichiarazione non fu diretta contro la Chiesa, ma piuttosto contro lo Stato, non contro l’onnipotenza della Chiesa ma contro la violenza dello Stato. La dichiarazione dei Filaleti che “essi si sottomettono forzatamente alle formalità della Chiesa sul cui adempimento si fonda lo Stato, come nozze e battesimo”, può benissimo venir posta in bocca ai “Liberi”. Questo “forzatamente” designa appunto il male che deve essere eliminato per mezzo di una Lega. Poiché vediamo i deboli insorgere contro i forti, un piccolo gruppo contro l’enorme maggioranza. Chi corre maggior pericolo? Non coloro che essendo materialmente impotenti tentano di formare un’opposizione, ma gli altri che devono accogliere il cattivo consiglio del demonio, di far valere il “diritto del più forte”.

Io sento spesso dire non doversi desiderare che lo Stato, per amore di pochi, cambi una legge o un’istituzione. All’opposto, anche per amore di un solo uomo esso dovrebbe riformare anche una legge millenaria, se questa legge fosse ingiusta. Già da lungo tempo certe vecchie leggi, la cui applicazione costituisce un’ingiustizia, vengono interpretate con larghezza dagli Inglesi, e questi farebbero ancor meglio se le sopprimessero del tutto. Per ciò che riguarda la richiesta dei “Liberi”, che lo Stato non avvinca oltre la cittadinanza statale ad una confessione religiosa, questa non è più la voce di pochi. Gli Ebrei, quando riconducono al suo ultimo fondamento il loro desiderio di emancipazione, non possono chiedere altro che appunto questa separazione fra la confessione religiosa e la cittadinanza statale. Convergono in generale in questo punto apertamente fissato dai “Liberi” i più importanti problemi della presente vita statale, e in ultima istanza tutto si muove all’interno dell’alternativa se il moderno Stato europeo sia cristiano o umano. Si dice: “Tutti i nostri Stati europei hanno il cristianesimo per fondamento”. E la prova? “Di prova non c’è bisogno questo è un assioma inconfutabile”. Benissimo, un assioma matematico non ha bisogno di prova, ma un’ipotesi tarlata non può passare per un assioma. L’asserzione sopra citata che il cristianesimo sia alla base degli Stati è completamente falsa, ed è segno di grande ignoranza della storia e della ancor maggiore inettitudine ad un pensiero spregiudicato. Dimostrare che i nostri Stati non sono cristiani non è un compito difficile ma un compito vasto, che si deve assolvere per demolire quel pregiudizio; ed è facile individuare che non è semplice essere cristiani. Qui, dove non ci è permesso di abusare dello spazio, daremo soltanto alcuni brevi chiarimenti. Sembra essere chiaro, che, poiché noi siamo cristiani, il nostro Stato è opera del cristianesimo, eppure è tanto poco cristiano quanto la scienza naturale creata dai cristiani è una scienza naturale cristiana, oppure quanto la filosofia così riccamente sviluppata dai tedeschi cristiani è una filosofia cristiana. Lo Stato si fonda piuttosto sul principio della cultura, della civiltà. Lo Stato si fonda sul principio della mondanità, il cristianesimo su quello del “regno dei cieli” (“il mio regno non è di questo mondo”). Il cristianesimo si comporta con perfetta indifferenza verso tutto ciò che nello Stato è di grande importanza; tutto gli sembra non essenziale, perfino la libertà. Dall’alto della “libertà dei figli di Dio” Cristo guarda con compassione sopra ogni altra libertà, come sopra una libertà “esteriore”. Che si sia principe o canaglia, signore o servo, libero o schiavo, povero o ricco, rozzo o istruito, ecc., è cosa che non tocca Cristo. Uno schiaffo non viene punito come ingiuria diversa secondo che è dato a un conte o a un mendicante: ognuno deve offrire l’altra guancia. Le cose del mondo non devono dar fastidio al cristiano, egli se ne deve occupare solo tanto quanto è costretto da inevitabile necessità. Ma tutti i nostri presenti rapporti, tutta la nostra vita statale sono fondati sulla cultura, sulla scuola, e quel falso assioma si può trasformare nel seguente: “I nostri Stati europei hanno tutti la cultura come fondamento”. Ma (benché non sia facile che tutti lo comprendano esattamente senza più ampie delucidazioni che qui non posson trovar posto) si deve ammettere che la “cultura in divenire” si avviticchia al suo integrante sostegno, alla fede; anzi finché “diviene”, le restano sempre alcune cose che essa deve limitarsi a credere. Al contrario, la cultura schietta, completa, consiste in un più libero sapere e volere, e l’uomo veramente colto è uno spirito libero, uno spirito forte nel più puro significato della parola. Concludendo per quanto riguarda i “Liberi”, essi hanno una reale importanza non di fronte alla Chiesa ma di fronte allo Stato e la loro opposizione contro una delle istituzioni statali è leale, così leale per esempio come l’opposizione di coloro che parlano contro la Censura e cercano di far valere questa loro convinzione: è una “opposizione legale”.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 195, 14 luglio 1842]

XII
Scritti vari

1) [Cambiamenti nel Ministero]

Sono ormai sicuri i seguenti cambiamenti nel Ministero. Il Conte Alvensleben diventerà primo ministro, il generale von Thiele secondo ministro del tesoro; il primo presidente von Bodelschwingh diventerà ministro delle finanze, e il primo presidente Flottwell andrà a Königsberg. È verosimile che il conte Kanitz assuma il posto di Maltzahn come ministro degli esteri. Da poco tempo deve essere sorto un istituto, come già da lungo tempo ne esistono di molto solidi in Russia e in Austria. Non si può pretendere che si dica pubblicamente in un giornale il nome di un istituto che deve restare segreto. Passo piuttosto ad altro argomento, e manifesto la mia meraviglia per un passo d’un catechismo che si trova nel Christliches Religionsbuch für mündige Christen-und die es werden wollen [Libro della religione cristiana per cristiani emancipati e per quelli che vogliono emanciparsi], di Theodor Friedrich Kniewel, un libro che, essendo fervidamente raccomandato nelle scuole della nostra patria, nel giro di pochi anni ha avuto sei edizioni, e fra gli altri seppe far passare questo brano stupefacente: “Alla falsa testimonianza, vietata nell’ottavo comandamento, appartiene anche (come cosa che avviene dietro le spalle del prossimo) il tradire e divulgare segreti a noi confidati, il fare denunce. Dunque la polizia segreta è un peccato contro l’ottavo comandamento!”. (P. 50 della prima edizione).

L’autore del libro: Preussen, seine Verfassung etc. [La Prussia, la sua costituzione, ecc.], conte von Bülow-Cammeron, da quando fu mandata al re una copia di lusso di questa opera è invitato alla tavola reale e ricevuto con deferenza. Il dottor Häring (che scrive con lo pseudonimo di Willibald Alexis), allo scopo di unire una libreria al Gabinetto berlinese di lettura e di rialzare l’importanza di questo si è fatto libraio, e destina la libreria del gabinetto berlinese di lettura tanto all’edizione di nuove opere quanto al commercio di libri moderni.

Giovedì prossimo Liszt sarà condotto in brillante compagnia dagli studenti berlinesi nel vicino villaggio di Friedrichsfeld, e tra manifestazioni di giubilo uscirà da un ambiente dove ricevette le più distinte dimostrazioni d’onore.



[“Rheinische Zeitung”, n. 66, 7 marzo 1842]

2) [Calunnia]

La “Rheinische Zeitung” contiene nel numero 76 una corrispondenza da Berlino tolta dalla “Düsseldorf Zeitung”, recante l’informazione che “un letterato di qui molto amato (poiché il suo nome fu già enunciato in altre gazzette, non c’è motivo di tacerlo qui: egli è il dottor Mügge) deve aver sollecitato all’autorità un passaporto per emigrare, poiché le sue opinioni politiche non vanno d’accordo con quelle del nostro governo”.

Benché non abbia l’onore di essere uno scopritore ufficiale delle menzogne, colgo però volentieri l’occasione per rilevare d’ufficio la verità che la voce riferita è un veleno ufficiale, venduto in tutte le farmacie del mondo col nome di calunnia, e di solito prescritto in certi casi particolarmente acuti da medici che sanno apprezzare i più elevati riguardi. C’è del resto un certo grado d’ingenuità e di innocente mancanza di coscienza, come succede soltanto in un regime patriarcale, nel lasciarsi ingannare da simili voci. “Poiché le idee politiche di un privato non armonizzano con quelle del governo”, quel privato dovrebbe emigrare! Come se questa armonia fosse richiesta, e fosse del tutto necessaria, anzi come se non fosse invece dannosa. Perché uno Stato senza opposizione, senza liberi pensieri e libere opinioni dei privati sarebbe presto divorato dalla logorante aria del tempo. Ci sono certamente due sorti di strani originali che come estremi si toccano, e come tali si odiano e si disprezzano adeguatamente, in mancanza di nomi d’uso comune si può chiamarli emigranti e sedentari. Quelli, se una volta una cosa va loro di traverso, scappano subito lontano dal loro paese e ritengono di non poter vincere in altro modo che col far fagotto e darsela a gambe. Ma si può forse vincere senza combattere? Quanto felici sono invece coloro che sono attaccati al loro nido! A costoro nulla mai va di traverso. Perché essi stessi vanno sempre di traverso nella felice ebbrezza dell’ottimismo; inoltre, essi non urtano mai nella pietra dello scandalo, perché non ci sono blocchi di granito sui sentieri della banalità.

In grembo a donne senza figli e vecchie zitelle simili gattini ben nutriti sono creature invidiabili; sotto le cure materne fiorisce il benessere di questa razza. O voi, scoraggianti viaggiatori dell’Australia, voi mi siete mille volte più cari di questi ciechi pulcini!

Chi inventò quella voce era un pellegrino o un pulcino? Domanda per tutti i risolutori di inutili enigmi! Noi vogliamo mettere costoro sulla traccia mediante la seguente indicazione. Se egli era un pellegrino, cercava il letterato in un angolo della sua camera, là dove egli stesso si trova; caso per nulla inconsueto; se invece egli aveva la gioia di essere un pulcino, naturalmente non conosceva nessuna ingiuria più grande per gli altri uomini che proclamare ch’essi sono l’opposto di lui e ringraziare Dio di non essere come loro.

Il corrispondente della “Düsseldorf Zeitung” che crede alle voci correnti, aggiunge ancora che al dottor Mügge sarebbe stato risposto che nulla si oppone al suo espatriare, e anche alla sua sposa, ma non si sarebbe potuto pagare all’estero la pensione. Ciò deriva da questo, che la gente deve soltanto imparare le leggi; materia imparata è materia morta e non tutti hanno una buona memoria meccanica. Il corrispondente berlinese dusseldorferiano non l’ha, altrimenti saprebbe che con la perdita del dieci per cento si può consumare a piacimento all’estero la propria pensione.



[“Rheinische Zeitung”, nn. 87-88, 29 marzo 1842]

3) [La “Literarischen Zeitung”]

Dunker, l’editore della “Literarischen Zeitung”, annunciò l’anno scorso al redattore che avrebbe sospeso la pubblicazione della gazzetta perché rendeva troppo poco.

Il redattore aveva ricevuto 720 talleri, ma in compenso aveva dovuto pagare gli onorari. In dicembre egli fece improvvisamente all’editore la proposta che questi continuasse a lasciargli la redazione. In compenso si sarebbe accontentato di 200 talleri di meno, perché venisse abolita quella clausola che concede all’editore una voce nella scelta degli articoli. Ora l’editore, il quale non pensò come il redattore potesse vivere con un reddito così piccolo, e da ciò non si diede pensiero, vide con sorpresa che col principio dell’anno in corso, nuovi intellettuali anonimi venivano fuori nella sua gazzetta, e così si spiegò il disinteresse del redattore. Ma il giornale ci ha incontestabilmente guadagnato, perché adesso è l’organo di un partito.



[“Rheinische Zeitung”, nn. 87-88, 29 marzo 1842]

4) [La “Vossische Zeitung”]

Fra gli articoli della “Vossische Zeitung” che per lo più vengono saltati dai lettori forestieri, i quali non a torto suppongono che in quelli non ci sia nulla di pregevole, si trova tuttavia qualcosa di importante. Fra gli articoli interessanti può essere annoverato uno che è contenuto nel numero del 30 aprile, intitolato: “L’alta tassazione della vendita dei giornali, e la fissazione di tale imposta da parte delle autorità postali nei territori postali tedeschi”.

Vi si legge fra l’altro: “Dipende dall’autorità postale, invece di riscuotere con conti particolari il prezzo di porto dei giornali per la vendita dei medesimi, trasformarlo in una somma rotonda cioè secondo una valutazione in blocco. Si deve indubbiamente riconoscere che con simili concessioni di arrotondare la somma dovuta possono anche avverarsi dei favoreggiamenti di alcuni editori a danno di altri editori di gazzette analoghe e che quei redattori ed editori di giornali che godono di simili favori useranno e dovranno usare, nel loro proprio interesse, attenzioni di vario genere verso le competenti autorità statali nel redigere gli articoli dei giornali, e quindi non potranno comportarsi in modo libero ed indipendente, per assicurarsi una vendita maggiore e più facile delle loro gazzette: e così pure si deve ammettere che l’influenza politica di tali favoreggiamenti da parte delle autorità amministrative sul valore e sul contenuto dei periodici in genere è di grande importanza per il pubblico”.

Perciò l’autore dell’articolo chiede “l’istituzione di un prezzo unico per la vendita delle singole gazzette presso ogni ufficio postale tedesco, e precisamente secondo il costo di pubblicazione delle gazzette”. L’eguaglianza di trattamento allora consisterebbe in questo, che “l’ampiezza della vendita è regolata soltanto dall’intimo valore delle gazzette”. In tal modo “sarebbero evitate per legge tutti i fattori di speciali favoreggiamenti da parte dell’amministrazione per la vendita di fogli periodici. Favori o riduzioni di queste provvigioni o tasse di vendita dovrebbero essere concesse unicamente dall’alta maestà del re a titolo di particolari grazie, e queste regie concessioni di grazie dovrebbero essere rese pubbliche per impedire qualsiasi misconoscimento della fonte e del motivo”. Fra altri calcoli si indica che la “Staatszeitungen” prima doveva pagare alla posta un tallero e 15 grossi d’argento, ma le altre gazzette di Berlino due talleri, e che ora però la prima non paga niente, mentre alle ultime è stato fatto un aumento di 20 grossi d’argento.



[“Rheinische Zeitung”, n. 126, 6 maggio 1842]

5) [Il “Corriere tedesco”]

Nel “Deutschen Courier” (quale posto poco adatto!) il signor Fouquè pubblica un manifesto relativo alla “Adelzeitung” numero del 10 aprile in cui si invitano i ceti della borghesia e dei contadini ad adoperare tutte le loro forze per la conservazione della nobiltà, perché “tutti e tre i ceti o durano insieme o cadono insieme”. Giacché “chi vuole sostanzialmente rafforzare la classe dei nobili, concorre nello stesso tempo a rafforzare la classe dei borghesi e dei contadini”. Come se alle due ultime classi potesse venir in mente di conservare la rigidità delle differenze di classi, e consolidarsi stabilmente come ceti di contadini e di borghesi!



[“Rheinische Zeitung”, n. 128, 8 maggio 1842]

6) [La Russia]

Mentre Potemkin insisteva risolutamente perché la Prussia fosse uno Stato asiatico l’imperatrice Caterina II cominciò la sua istruzione per la commissione legislatrice con queste parole: “La Russia è una potenza europea”. Entrambi avevano ragione: la Russia è in senso asiatico uno Stato, ma per l’Europa è una Potenza.



[“Rheinische Zeitung”, n. 132, 12 maggio 1842]

7) [La “Foreign Quarterly Review”]

La “Foreign Quarterly Review” afferma che non è ancora comparsa nessuna trattazione veramente scientifica sopra la polizia, anzi che è noto che appunto per questo si è data la polizia come una nozione indefinibile; ma ciò per un onesto spirito tedesco è soltanto uno stimolo di più ad amare più di ogni altra cosa quella creatura misteriosa, la polizia. Noi crediamo in quello che non comprendiamo, e lo amiamo oltre misura. Un filisteo tedesco cade nella disperazione, se vede una guardia notturna dormire: la polizia deve vegliare, onde egli possa dormire.



[“Rheinische Zeitung”, n. 151, 31 maggio 1842]

8) Il costume è meglio della legge

Se, quando la Dieta si riunirà, come è annunciato, in settembre, alle sue commissioni verrà posta la domanda (e non è inverosimile che ciò avvenga) se non si manifesti il bisogno di una più severa legge sui divorzi, gli interrogati se non vogliono saltare oltre la linea esattamente tracciata del loro orizzonte e della loro cerchia professionale puramente provinciale, non potranno dare nessuna risposta derivante dall’essenza stessa della cosa e riferentesi all’intero Stato, ma dovranno limitarsi a comunicare informazioni sopra i desideri e certi bisogni delle loro rispettive province: essi formuleranno – poiché questo è il loro solo compito – un giudizio provinciale. Ciò richiede un completamento, e lo scrittore pubblicista che deve ascoltare le richieste dell’intero paese e prendere in esame la questione in se stessa, deve sentirsi in questo momento spinto ad operare quel completamento comunicando la propria opinione, formata da un punto di vista più libero e più generale. E in questi giorni un pubblicista ha intrapreso tale lavoro, provando pienamente, col trattare il problema in forma tanto pratica quanto razionale, la sua attitudine a mettere una parola di gran peso. Il titolo del suo opuscolo, pubblicato in edizione del Gabinetto berlinese di lettura, suona così: Die Sitte ist besser als das Gesetz. Eine Verwahrung gegen ein neues Ehescheidungsgesetz [Il costume è meglio della legge. Protesta contro una nuova legge sui divorzi]. Edizione del Gabinetto berlinese di lettura. Alcuni estratti da questo pregevole opuscolo serviranno a rendergli simpatico il pubblico. “È in preparazione una nuova legge sui divorzi. Il signor von Savigny si pronunziò già con la parola e con gli scritti contro i princìpi rilassati che il nostro Diritto civile porrebbe riguardo al matrimonio e specialmente al divorzio, e che la pratica dei nostri tribunali avrebbe consacrati. Gemendo egli gridò: i nostri costumi sono meglio delle nostre leggi! La volontà del re ha chiamato il signor von Savigny a un posto dove non ha più ragione di lagnarsi, dove acquistò la potenza di elevare all’altezza di un progetto di legge la sua migliore opinione. Un grande partito, i devoti, i pietisti, gli ortodossi, comunque costoro si chiamino o siano chiamati dai loro avversari, i quali da lungo tempo avevano idee uguali o simili e le predicavano e gemevano trovano nell’autorità di Savigny una rocca, e quello che prima era un tentativo impotente, soltanto un modesto picchiare alla porta della legislazione, potrebbe ora diventare un turbine davanti al quale si aprirebbero le ali di costoro.

“Certamente, la legge non è ancor matura, nemmeno come progetto. Ma quanto di essa è noto trapela basta per infondere timore nel pubblico. Perché ogni limitazione di una libertà, sia una libertà salutare o sia una perniciosa, angoscia gli animi di coloro che ne godevano. A ciò si aggiunge, che ogni passo indietro è considerato come l’anello di una catena come il tentativo di una reazione religiosa, che vuol privarci di una libertà conquistata e ricondurci in uno stato di tutela da parte della Chiesa e di limitazione, l’esserci liberati dalle quali noi apprezziamo come guadagno, come un tesoro. Comunque possano suonare le altre disposizioni della legge che ci minaccia, in questo concordano tutte le previsioni, che i motivi per i quali finora si può domandare ed ottenere il divorzio si vogliono restringere e determinare più severamente, e che, se anche non si vuole sottrarre al tribunale laico e mandare davanti ad un tribunale ecclesiastico l’intero processo di divorzio, si vuole però rafforzare l’influenza dei tribunali ecclesiastici nel tentativo di conciliazione e lasciar pronunciare il giudice soltanto in una seconda istanza oppure in quella giusta in cui egli emana la sentenza dopo il verdetto dei giurati; e che finalmente in molti casi in cui finora i tribunali sentenziavano sui divorzi, non accordino più se non delle separazioni di letto e comunque in questo caso, sia vietato ad entrambe le parti ogni successivo matrimonio, e dove il divorzio avviene in caso di un adulterio, il matrimonio col complice debba essere espressamente proibito.

“Si potrebbe raccomandare a priori la legge come benefica. Ma il fatto che nuove leggi possano promuovere la nostra salvezza e felicità è forse motivo per crearle? Appunto dalla parte da cui, come diciamo, ci minaccia la nuova legge, si combatte nel modo più risoluto contro simili princìpi. Dove non è in gioco l’arbitrio, nuove leggi dovrebbero venire emanate soltanto quando c’è la convinzione della loro necessità, del bisogno universalmente sentito e della completa insostenibilità delle circostanze presenti. E anche allora, secondo la severa teoria, queste nuove leggi non devono propriamente essere elargite, esse devono già vivere nel popolo nella coscienza generale nel comune consenso, e il legislatore si limita a sanzionare con la parola e con lo scritto ciò che già vale nel costume e nell’uso. Ma il compito della nuova legge sui divorzi è completamente riformatore; i divorzi erano facili e devono diventare difficili. Si vuole ostacolarli quanto più è possibile. Si vuole rovesciare la pratica ora esistente, che si fonda sulla legge in vigore. Quindi si vuol fare una legge nuova”.

La legge viene “richiesta per due motivi: per salvare la prosperità della religione e della Chiesa, e per salvare quella morale dello Stato. Si dichiara che entrambe sono attaccate”.

Di qui in avanti ci si conceda di citare ancora soltanto alcuni singoli passi nell’interesse del lettore, per non entrare nel ragionamento in modo da saccheggiarlo e da recargli pregiudizio.

“Gli accusatori considerano la situazione presente immorale, e dicono che non la si può tollerare più a lungo. Essa è un giocare leggermente col vincolo più santo, un trafficare col sacramento, una banca di cambio in cui leggi e tribunali facilitano il commercio di beni inalienabili. Ma le cose stanno così? No!”.

“Si ascoltino le lamentele di coloro che ebbero respinte dai tribunali le loro richieste di divorzio. Queste lamentele potrebbero formare un concerto spaventevole, angoscioso. Quella povera donna deve tornare tremando, con i suoi figli affamati, dal dissoluto marito che soddisfa le sue voglie sugli acerbi frutti della carne di lei e la tormenta con scoppi di ebro furore; che già nella sala del tribunale le mostra di nascosto il pugno chiuso e le fa cenno con diabolico ghigno che d’ora in poi sarà trattata ancor peggio e dovrà espiare la querela presentata. Quella donna non poté offrire la valida prova delle sevizie sofferte; oppure le conseguenze non furono di forma abbastanza conveniente per giustificare, secondo le parole della legge, il divorzio fra ‘gente di questa classe’. Quel disgraziato marito deve di nuovo trascinarsi a casa dalla sala del tribunale la sua insolente moglie, l’incubo e il vampiro della sua vita; alla sua casa donde pace e tranquillità sono fuggite per sempre; perché essa fu troppo furba, ed egli troppo focoso. Questi casi non sono eccezionali. La maggioranza preponderante è nelle basse classi sociali. Queste che facilmente andarono a nozze, altrettanto difficilmente possono uscire dal matrimonio, perché esse, lasciando al sentimento e alla passione il loro diritto, urtano contro la forma della legge e non comprendono che la legge non vuol cedere laddove è così chiaro il diritto naturale. Le classi superiori trovano la via d’uscita; con calma e accortezza sanno serpeggiare intorno alle forme della legge. La legge è diventata vecchia e rigida, non si è mossa e sviluppata insieme con la mobilissima vita, e i suoi ministri servendo rigorosamente il tempio, non devono che troppo spesso lasciar entrare gli indegni, e mandar via col cuore gonfio coloro che avrebbero bisogno di liberazione. Non è vero che legge e giudici agevolino il divorzio.

“Si devono immischiare nella cosa gli ecclesiastici? Poveri ecclesiastici! Per promuovere il sentimento religioso? Voi lo sveglierete così poco come col comandamento di celebrare rigorosamente la domenica. Coloro che ebbero respinta la loro richiesta, adesso inveiscono contro il giudice, allora inveiranno contro gli ecclesiastici. Se volete conservare e aumentare la deferenza verso gli ecclesiastici, non immischiateli in questo gioco. È passato il tempo in cui essi facevano da giudici; la scomunica e l’interdetto nelle loro mani non agiscono più.

“Ciò che la legge deve proporsi come proprio fine, esiste già, cioè attaccamento e fedeltà, morali rapporti familiari, orrore religioso di fronte alla rottura di tali rapporti.

“Nel medievo furono scissi più matrimoni (s’intende fra persone d’alto grado che potevano pagare a Roma) col pretesto di parentela troppo stretta fra gli sposi (mentre spesso era così lontana che noi avremmo vergogna di accampare pretesa in tali casi a rapporto di parentela) di quanti i nostri tribunali sciolgano per mutuo consenso. E ciò avviene ancora oggi. Gli esempi sono odiosi.

“Ogni cosa colpisce i poveri nel modo più duro, ogni cosa è resa loro difficile, essi devono pagare tutto più caro, fino alla morte. È così, e nessuna legislazione cambia questo stato di cose, nessun Parlamento e nessun re. Tutte le epoche si sforzano invano di migliorare la sorte di quelli; né i giubilei istituiti dagli Ebrei, né le leggi agrarie, né i giacobini ci riuscirono, e nessun secolo riuscirà a trovare leggi per i poveri, in forza delle quali il ricco non guadagni più facilmente e non comperi più a buon mercato che il povero. E anche una legge, quella sul divorzio, che deriva la sua origine dai comandamenti di Cristo (il quale predicò che il regno dei cieli è serbato ai poveri), anche questa legge deve a preferenza gravare sui poveri!

“Due correnti si incontrano al tempo nostro. Alla irresistibile corrente della intelligenza che spinge in avanti, e rompe tutte le barriere, sommerge tutte le tradizioni, getta da parte come illusione ciò che per noi era venerabile e sacro, si oppone una corrente religiosa retrograda. La lotta fra le due correnti è ancora molto lontana dalla decisione; e non lo sarà per mezzo di violenze esteriori. Chi ricorre alla violenza, riconosce davanti all’avversario la sua propria causa. La vecchia fede, la vecchia morale, si sentono già così deboli da dover dire alle leggi; salvateci! Evidentemente, il prestigio non le salva più. Voi credete far meglio rammentando rabberciando il passato tramontato, giocando con le vecchie forme, risuscitando vecchie leggi? Invano; il mondo si piega ancora soltanto davanti allo spirito”.

In questo estratto si sorvola appositamente sulla appropriata decisione di questo problema.



[“Rheinische Zeitung”, n. 164, 13 giugno 1842]

9) “Il patriota”. [Problemi interni]

Quando il sole ha per lungo tempo inaridito il suolo, questo, avido di acqua si screpola in mille luoghi. Il sole della tutela ha finito per renderci così secchi che noi, assetati dalla gocce di nettare di una libera emancipazione, cominciamo a scoppiare in tutti i punti. In verità si tenta ancora spesso di gettare sulle nostre fessure il cemento dell’arbitrio per nasconderle; ma a che servirà in ultimo tutto il cemento, se gli scoppi non finiscono? Però questa nostra metafora non durerà così a lungo come la siccità. Noi propriamente volevamo soltanto annunziare che qui a Berlino si è ora pubblicato il primo quaderno di una rivista mensile: “Der Patriot. Inländische Fragen”, di Ludwig Buhl, il quale ci rende testimone di un fenomeno attualmente non troppo raro in Russia, cioè del fenomeno di un figlio della scienza che, appena generato da questa madre (se in sette o nove mesi, rimane indeciso) leva il suo primo grido nel mondo della politica. Egli in tal modo si rende cittadino di questo mondo e non può più tornare nel corpo materno. La bella madre può di nuovo fiorire, se anche non più in forma femminile e casalinga nel muscoloso figlio, nella maschile immagine della tenera donna. Certo, frattanto abbiamo davanti a noi soltanto un bambino che strilla, dal quale in avvenire uscirà un uomo. “Der Patriot. Inländische Fragen” ha ancora un contegno impacciato e si difende genericamente contro l’influsso dell’indiscreto potere secolare; ma col tempo si conquisterà un posto suo proprio, e molte pietre sulle quali non scivola ancora saranno da esso usate come pietre da costruzione. Rallegriamoci un poco frattanto per la creaturina piena di speranze che fa già dei movimenti molto impazienti coi suoi piccoli avambracci e soltanto non sa ancora usare le braccia indipendentemente dal corpo.

Sembra che il piccolo patriota non sappia ancora esattamente chi siano gli uomini che lo circondano. Si esprime molto spesso con suoni ereditati da sua madre, la scienza, quasi giacesse ancora nel tacito grembo e non guardasse nelle facce abbrunite dal tempo che in vita loro poco hanno goduto dei fini profumi della filosofia e preferiscono turpemente all’ambra un odoroso ceppo da ardere. Che cosa possono pensare simili facce quando brillano loro davanti agli occhi figure come queste: “Necessaria missione della storia; prussianesimo astratto e germanesimo astratto; uno spirito che è l’agente; particolarità religiosa, particolarità che la commissione legislativa cercò di fondare; piena felicità del quietismo; identificare se stesso con lo Stato e i suoi fini; la religione non porta alla coscienza la sua verità nella nozione pura, ecc.”. Non sono queste parole di Cassandra?

Quindi il piccolo bravo patriota deve in avvenire guardarsi e imparare a conoscere la sua gente; allora si eserciterà certamente anche a battere con la clava dei fatti e a non contare i colpi. Meglio di tutti (il primo quaderno consta di quattro sezioni) gli è riuscita la sua prima parte “Il vecchio prussianesimo”. Per la seconda “La scuola popolare come Istituto statale” gli ha giovato un animoso aiuto che all’ora giusta gli recò un uomo del popolo; la terza, “Caricature religiose”, farebbe pur sempre onore a un figlio della scienza; ma nella quarta almeno una mezza pagina (p. 41) è vana chiacchiera.

Fra quattro settimane la creaturina sarà di un mese più vecchia. Sentirete allora come canterà in modo del tutto diverso e si pianterà fieramente di fianco e di fronte al pubblico.



[“Rheinische Zeitung”, n. 193, 12 luglio 1842]

10) [Problemi linguistici]

Dobbiamo molto desiderare che i giornali siano letti da tutti, affinché imparino sempre meglio a conoscere lo spirito dei tempi, il quale poi è lo spirito loro proprio. Ma non appartiene forse allo spirito dei tempi lo spirito della lingua, e devono le gazzette spingere a peccare contro tale spirito? Già abbastanza si deve soffrire per le confuse locuzioni nel cui groviglio si appiattano le aspre incomprensibili espressioni degli autori; perché deve ora piombare su di noi anche il più folle furore di costruzioni participiali? E quella costruzione participiale di cui Walesrode dice che “è diventata così gigantesca che tutti i professori ginnasiali di Germania impallidiscono, e gli allievi dei ginnasi saltano dai banchi scolastici e gridano giubilando: adesso abbiamo le ferie estive!”, quella costruzione era ancora splendida in confronto coi participi che dobbiamo leggere ogni giorno in fogli pubblici. Anche la “Rheinische Zeitung”, che spero vorrà accogliere questo ammonimento, può battersi il petto, affinché le sue molte sorelle non tralascino per falso pudore di vergognarsi.

Qui, per risparmiare spazio, diamo soltanto un paio di esempi tolti da gazzette tedesche: “L’occasione presentatasi”; “il denunciante che si trovò nella sua carica come governatore della provincia”, “le divergenze d’opinione manifestatesi nella discussione”; “lavorare il campo creato a se stesso”; “la crescente peste dell’alcolismo”, “la sventura incorsa”.

Ogni buona grammatica tedesca fornisce la ragione per cui non si deve scrivere così. Un errore più leggero consiste nell’usare spesso come aggettivi dei puri participi, per esempio: “il ladro accennato”. Si risparmino in una gazzetta queste parole che non hanno rapporto con la politica, e si faccia che in avvenire nessuno abbia bisogno di citarle.



[“Rheinische Zeitung”, n. 259, 16 settembre 1842]

11) [Il Michele tedesco]

In un giornale di qui [Berlino] (poiché non merita di venire nominato, non vogliamo importunare i lettori col suo nome), la caricatura da poco apparsa del Michele tedesco, la migliore fra le poche caricature tedesche, viene biasimata per il motivo che è turpe schernire noi stessi, il nostro popolo. Così, dice il giornale, non fanno gli Inglesi e i Francesi. Se ci offrono gli Inglesi e Francesi come modelli è sbagliato, essi fanno caricature su se medesimi, e in più forse non danno motivo per fare caricature? Ma anche prescindendo da questo, noi troviamo spesso presso quei popoli caricature molto taglienti su loro stessi, si ricordi soltanto John Bull! E quindi siano lecite anche al tedesco, il quale può elevare se stesso perché:

Chi non sa trattare se stesso molto bene,

non è veramente uno dei migliori!



[“Rheinische Zeitung”, n. 261, 18 settembre 1842]

12) [L’“Annunciatore della Borsa del Mar Baltico”]

“Die Börsen-Nachrichten der Ostsee weisen” nel numero 70, in un articolo intitolato: “I trattati commerciali tedeschi” riferisce che all’infuori della Germania ci sono ora particolarmente tre paesi sui quali la Lega doganale tedesca deve rivolgere lo sguardo e cioè l’America del Nord, il Brasile e la Spagna. Su tutti e tre gli Inglesi hanno a lungo esercitato il loro sistema ed entrerebbero con gioia in rapporti commerciali con la Germania.

Riguardo alla Spagna si richiama specialmente l’attenzione sul fatto che esso è pure di importanza politica come potenza utile a una diversione soprattutto contro la Francia, come non si potrà più trovare in seguito. Notoriamente, la nostra austera e riservata “Staatszeitung” non parla bene della Spagna; cosa che certamente fa molto dispiacere a questo paese e impedisce a ogni buon prussiano di sentire simpatia per un popolo così sleale; quindi i giornali baltici dedicano a quella gazzetta un ammonimento, invitandola a dissuadere il suo corrispondente da Madrid dalle sue opinioni incomprensibili e non conformi al tono di una gazzetta ufficiale. Ci sembra che non sia la giusta strada quella di colmare continuamente di invettive in una gazzetta ufficiale una nazione, che senza sua colpa dovette sopportare tante calamità.



[“Rheinische Zeitung”, n. 263, 20 settembre 1842]

13) [Letteratura nazionale dei Tedeschi]

Georg Gottfried Gervinus dice nel suo libro: Nationaliteratur der Deutschen [Letteratura nazionale dei Tedeschi]: “È una specie di legge storica che i tempi, i quali completano ed eliminano una certa civiltà, usano innalzare appunto a quella civiltà dei monumenti scientifici ed artistici. Non è forse questa la parola più giusta per il nostro tempo in fregola di monumenti? Le teorie di Dogmatica e di Diritto statale, le teorie ecclesiastiche e universali, i quadri religiosi e romantici, i templi del Walhalla e le chiese e tutte le simili nostre cose che non si finirebbe mai di enumerare, sono forse esenti della verità di quella legge storica?”.



[“Rheinische Zeitung”, n. 286, 13 ottobre 1842]

14) [I commercianti di Königsberg]

Il seguente scritto, firmato da un centinaio di commercianti di qui [Königsberg] fu fatto pervenire al re dal capo dei commercianti, con l’accompagnamento di parole che fortemente lo appoggiano:

“Alla presidenza dei commercianti.

“A quanto si dice, devono essere giunti a Berlino dei commissari russi, per concludere un nuovo trattato di commercio. Noi non possiamo ritenerci autorizzati a strane speranze, benché stavolta siamo stati sollecitati a farlo. La Russia ha davanti agli occhi piuttosto lo sbarramento dei suoi confini che il suo sistema proibitivo e se precisamente mediante il rinnovo del trattato per la consegna dei disertori le sono dati i mezzi per stabilire quello sbarramento, allora poi arriveranno nuove tariffe e disposizioni a rendere vane le concessioni fatte per necessità; mentre al contrario, deve stare a cuore a noi che venga soppresso lo sbarramento dei confini, la qualcosa trarrà con sé un libero scambio commerciale. Contro un sistema proibitivo esistono rappresaglie commerciali, anche fra nazioni che nel resto sono amiche, e la Russia potrebbe temerle perché noi possediamo le foci dei due principali fiumi di Polonia, ma non sono possibili rappresaglie contro lo sbarramento dei confini senza l’intenzione di venire in aiuto all’avversario. Noi diciamo, appunto all’avversario che lo sbarramento dei confini è incompatibile con una sincera alleanza, contraddice a ogni buon vicinato ed è solo adatto a generare odio. L’odio si manifesta principalmente contro misure che gravano entrambi i paesi confinanti, e per eludere le quali si associano gli abitanti delle frontiere per la maligna gioia di guadagnare. In ogni caso si forma con ciò una pericolosa demoralizzazione, che si diffonde specialmente fra i nostri abitanti ai confini. Adescati dai contrabbandieri russi, i nostri contadini esercitano il contrabbando in gruppi armati, per la qualcosa avvengono spesso sanguinosi conflitti coi militari dell’altra parte. A prima vista è vero, in ciò non vi è nulla da temere per la tranquillità dello Stato; ma la politica, che perdona soltanto fin quando le conviene, non dimentica nulla, quando può fissare il giorno della resa dei conti ed è noto quanto i governi siano sensibili all’onore e al benessere dei loro sudditi, quando si cercano apparenti motivi di diritto per una guerra desiderata. In ogni caso, gli inconvenienti qui descritti meritano tutta l’attenzione delle più alte autorità, perché il nostro più glorioso Istituto nazionale, l’onore della nostra generale attitudine alle armi, viene compromessa, sia pure da singoli grossolani individui. Fortunatamente il rimedio si trova ora nelle mani della Prussia. Senza un forte cordone militare la Russia non può svolgere il suo doppio sistema e senza una convenzione speciale con la Prussia un simile cordone è impossibile, come insegnano le recenti esperienze. Lo stesso giorno in cui venne a scadenza la vecchia convenzione, soldati russi cominciarono a disertare venendo da noi con armi e cavalli presso Oletzko, Lyck, ecc., e secondo voci degnissime di fede un intero reggimento si disciolse. Purtroppo in seguito al prolungamento provvisorio della convenzione, molti soldati vennero consegnati alla Russia, alcuni dei quali furono subito fucilati e altri morirono sotto i colpi di bastone. Dopo un simile contegno giustificabile soltanto in tempo di guerra, si può appena pretendere dalla coscienza dei nostri bravi e leali consiglieri provinciali che continuino ad adempiere le prescrizioni della convenzione, le cui sanguinose conseguenze hanno visto coi loro occhi, tanto meno, in quanto che essi devono essere convinti che i loro scrupoli fondati sulla religione concordano con la preclara umanità del nostro nobilissimo sovrano. Inoltre non si deve trascurare (e anche con ciò noi confessiamo come occulto peccato) che i nostri gendarmi e contadini ricevono premi per la cattura di tali disertori e quindi esercitano la caccia all’uomo come contro bestie selvagge. Profondamente colpiti e scossi da questo stato di cose, chiediamo alla direzione dei commercianti di qui di sottoporre sommessamente a sua maestà il nostro veneratissimo re, il cui nobile spirito è aperto a ogni moto veramente umano, il cui cuore pieno di Dio prende una parte commovente alle sofferenze degli altri, che anche le concessioni apparentemente vantaggiose del nuovo trattato di commercio ci riuscirebbero soltanto dolorose, se dovesse servir loro di base una convenzione per lo sbarramento dei confini. Noi saremmo piuttosto disposti a sopportare ancora per qualche tempo il sistema proibitivo russo che ci impoverisce, a tollerarlo con pura coscienza, che arricchirci col denaro insanguinato guadagnato con una simile convenzione. Inoltre non mancheranno i vantaggi materiali di una condotta formata sul morale. La Russia, trovandosi nell’impossibilità di conservare la chiusura dei confini, si vedrà rapidamente costretta a tornare a princìpi più giusti e a proporre condizioni concordanti col decoro e l’umanità Russia sia con l’interesse dei sudditi ”. (Seguono le firme).

Anche i giornali di Amburgo pubblicano questo scritto.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 173, 22 giugno 1842]

15) [Elezioni per la Dieta del distretto dell’Hanel occidentale]

Nelle recenti elezioni per la Dieta del distretto dell’Hanel occidentale non ci fu la prima volta alcuna elezione, e nella seconda votazione (quella effettiva) non fu eletto nessuno di quei candidati che si erano presentati e potevano appoggiarsi alle migliori raccomandazioni, ma invece fu eletto uno del tutto diverso. Il commissariato governativo disse in questa seconda Dieta che egli in nome del ministro (dell’interno) doveva manifestare il suo dispiacere perché la prima votazione non aveva avuto effetto. Contro queste parole sorse l’antico consigliere provinciale, signor von Hobe, il cui nome fu già molte volte citato in questa gazzetta, a dichiarare che i consiglieri non potevano ratificare il fatto che al ministro piacesse manifestare la sua disapprovazione nel caso presente, e che chiedeva venisse messo a verbale questo suo rifiuto di accogliere quella disapprovazione. Nonostante la replica del commissario governativo, la mozione del consigliere von Hobe passò poiché dapprima aderirono ad essa i deputati della città, e poi vi si accostò anche la maggioranza della nobiltà.

Circa il trasferimento dei nostri funzionari non c’è veramente da fidarsi di nessuna delle voci che corrono; perché se anche esso si avvera, spesso la notte porta la riflessione che mette in fuga quello che fu deciso di giorno. Così dapprima si diceva che il vice presidente del tribunale camerale, von Kleist, fratello di latte del re, andrebbe a Posen come alto presidente, adesso si assicura che egli conserva la vice-presidenza in Stettino, e al suo posto andrebbe il direttore del tribunale penale, Bonseri.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 180, 29 giugno 1842]

16) [I commercianti di Königsberg]

Secondo una lettera di Königsberg, i commercianti di questa città hanno già ricevuto una risposta allo scritto da essi indirizzato al re, che, come è noto, conteneva la preghiera di abolire il trattato di sbarramento dei confini (vedi il n. 173). Il tenore della risposta è questo, che userebbe realmente tutta la cura possibile agli interessi mercantili dei postulanti, ma che si dovrebbero respingere le loro considerazioni che si inseriscono nella politica, perché simili questioni stanno fuori dell’orizzonte dei sudditi.

Siccome si assicura, che il dottor Mundt riceverà presto un posto di professore lungamente desiderato, sembra essere certo che siano completamente abolite le misure da tempo esercitate contro la Jugend Deutschland.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 188, 7 luglio 1842]

17) [Sanssouci]

Il professor Jacoby sarà, a quanto si dice, trasferito da Königsberg a Berlino.

Kopisch lavora ad una storia di tutte le cose memorabili che si riferiscono a Sanssouci. Poiché il re prende l’opera nella sua protezione speciale, all’autore sarà accessibile tutto ciò di cui egli ha bisogno e non gli mancherà la comodità di avere tutto il tempo che vuole.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 193, supplemento, 12 luglio 1842]

18) [Importanza degli Stati provinciali in Prussia]

Ora, mentre si avvicina la riunione delle Giunte, non si può omettere di richiamare l’attenzione sopra uno scritto che tratta dell’istituzione degli Stati provinciali con una chiarezza e un acume che toccano solo sporadicamente questo soggetto. Nell’opuscolo intitolato: Bedeutung der Provinzialstände in Preussen [Importanza degli Stati provinciali in Prussia], Berlin 1842, di Ludwig Buhl, l’autore congiunge con uno sviluppo storico dell’Istituto in Prussia un ingegnoso apprezzamento della loro vera importanza per il tempo presente, e mostra nel modo più decisivo che gli Stati provinciali stessi, essendo aumentati d’importanza con la nomina delle Giunte, non sono altro che una rappresentanza nazionale, ma di una rappresentanza popolare non possono mostrare la più lieve traccia. Poiché in quella vengono rappresentati soltanto i corpi che sono attaccati alla gleba della patria, mentre nella rappresentanza popolare dovrebbero agire gli spiriti che si basano sulla libera volontà. In conseguenza del principio degli Stati provinciali, secondo il quale soltanto coloro che appartengono alla gleba, proprietari di terreni, possono esporre le loro opinioni e proposte, sono escluse le capacità, essendo cosa del tutto accidentale che un proprietario di terreni abbia in pari tempo anche una capacità.

E pure le capacità sono quelle che appartengono allo Stato, mentre gli altri appartengono soltanto alla “terra” dei padri, cioè alla patria; poiché lo Stato è uno spirito, e uno spirito è soltanto per intelletti, cioè per capacità. Un uomo che non possiede nulla, può essere uno spirito più elevato, più pertinente allo Stato ma non membro degli Stati, proprietario di una cospicua zolla di terra. Gli Stati provinciali sono al loro posto, se è la “terra” che deve venire rappresentata, la loro esistenza testimonia del materialismo dominante, a proposito del quale si lagnano la nobiltà di teneri sensi e tutta la reazione, mentre esse appunto lo rappresentano nel modo più sorprendente. Ma dove lo Stato, l’invisibile spirito che soltanto lo spirito può percepire, riesce a rappresentarsi a mezzo delle opere di uomini liberi, gli Stati provinciali sono allora privi di importanza come lo sarebbe la cattedrale di Colonia per esprimere architettonicamente lo spirito del nostro tempo, o la nobiltà per significare qualcosa di più di un residuo del passato.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 259, 16 settembre 1842]

19) [L’“Athenaeum”]

Secondo ogni apparenza, passerà ancora molto tempo prima che i nostri giornali quotidiani si sollevino dalla loro scarsa qualità e mancanza d’importanza.

Finora non abbiamo qui un solo periodico che si sforzi seriamente di essere specchio fedele della pubblica opinione. Sembra che Berlino sia un cattivo terreno per i giornali. Recentemente se n’è avuta una nuova prova. È noto che il periodico “Athenaeum” doveva cessare con la fine dell’anno scorso; ma la sua ombra non volle allontanarsi da Berlino.

Ora anche questa ha reso l’anima.

Il precedente editore della rivista aveva ottenuto il permesso di continuarla, appena avesse scelto un redattore qualificato sotto tutti gli aspetti. Il dottor Meyen, che aveva effettivamente redatto l’“Athenaeum” per tutto il tempo in cui visse e molti anni prima era stato redattore della “Literarischen Zeitung”, non fu gradito dalle autorità, per motivi a noi sconosciuti. Allora l’editore presentò un’altra istanza, perché il dottor Nauwerk, libero docente dell’università di Berlino, accettò di assumere la redazione. Costui formulò un’esposizione dei princìpi fondamentali sui quali si sarebbe in avvenire fondata la Rivista; esposizione che fu aggiunta all’istanza dell’editore in data 19 marzo. Cinque mesi più tardi l’editore ricevette un rescritto dell’Alto presidente della Provincia, il cui contenuto era questo, che, per decisione dei tre funzionari preposti alla censura, non gli si poteva concedere il permesso di continuare l’“Athenaeum” perché a lui mancava la idoneità scientifica a fare l’editore, mancanza che non poteva venire integrata mediante l’assunzione di un redattore diplomato. È vero che l’editore nella ultima sua istanza si era designato come editore; ma questa espressione doveva essere intesa semplicemente nel senso di imprenditore materiale e tecnico, dato che si era presentata la richiesta del gradimento di un nuovo redattore. L’editore, invece di limitarsi a ratificare questo malinteso, si trovò indotto a rinunciare del tutto alla continuazione dell’“Athenaeum”. Forse si stancò a seguito del fatto che i suoi sforzi duravano da nove mesi.

Vengono in luce cose meravigliose.

Un opuscolo di sei pagine, intitolato Aus den Papieren eines berliner Bürgers, die Judenfrage [Dalle carte di un cittadino berlinese, la questione ebraica], n. 1. Pare che l’autore sia un vecchio e onesto uomo che dice esattamente quello che pensa, distribuisce colpi da tutte le parti, brontola e strapazza, e, per quel che riguarda l’argomento principale, colpisce molto giusto. Dopo avere bravamente abbassato e preso a scapaccioni gli Ebrei, manifesta buone opinioni sul loro conto e li vuole rendere nostri fratelli e nostri parenti. “Nel modo più sicuro gli Ebrei troverebbero presso di noi una vera patria e noi acquisteremmo in essi dei veri confratelli se si permettesse loro di sposare i cristiani”. Costui parla con verità, partendo dal cuore.

Da lungo tempo fu annunciato che i voti dei teologi nell’affare di Bruno Bauer dovevano venire resi pubblici per ordine del ministero. Oggi è certo che di questa pubblicazione fu incaricata la Facoltà di Bonn.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 275, 2 ottobre 1842]

20) Arte e scienza

Si è ancora parlato poco della rivista: “Patrioten. Inländische Fragen”, di Ludwig Buhl, perché i primi due fascicoli non fecero molta impressione. Ma adesso ho davanti anche il terzo e quarto fascicolo, dei quali molte parti meritano una maggiore diffusione perché scavano acutamente nell’odierna situazione. Così il quarto fascicolo contiene articoli sul pauperismo berlinese, sullo stipendio e i proventi degli impiegati delle poste prussiane, un cenno sulle università, sul bilancio delle finanze prussiane per il 1841, e quella “piccola guerra” che si è protratta in tutti i fascicoli.

Nel secondo quaderno l’autore si era divertito a tentare una interpretazione dello spirito del giornale di Spener; laddove la copertina del quarto quaderno adorna o deforma le produzioni pubblicistiche della “Staatszeitungen”. Quest’ultima si è talmente offesa della poco simpatica ubicazione destinatale (è poco galante, liquidare la signora “Staatszeitungen” in anticamera o addirittura davanti alla porta), che vietò all’editore di citare il libro, se non pensava di rinunciare alle sue produzioni. Per questa volta tolgo alcune cose dal secondo articolo su quelli che sono gli “stipendi e i proventi” degli impiegati prussiani delle poste, perché i suoi effetti sono stati immediati. In realtà è già apparsa una dichiarazione della direzione delle poste che accusa di “grossolana falsità” quanto è stato pubblicato, senza però contraddire un solo punto. Per cui a noi conviene considerare l’argomento come ancora non contraddetto.

Le norme per lo stipendio delle varie categorie delle poste provinciali, approvate dal defunto re (1825) in relazione al volume di affari di quel tempo, avrebbero assicurato agli interessati un reddito sufficiente e riposante, purché, come sostiene il “Patrioten. Inländische Fragen”, l’autorità amministrativa fosse stata del parere di rispettare punto per punto quelle norme. Ma “un giusto miglioramento dei lavoratori più sfruttati contraddice il principio amministrativo adottato nel frattempo dalle autorità postali. Lo scopo unilaterale dell’amministrazione fu solo quello di ottenere di anno in anno un maggior utile netto, per essere in grado, coi mezzi avanzati, di sacrificarsi per l’eleganza esteriore dei mezzi di trasporto”. Cresciuto necessariamente il numero dei funzionari, l’autorità amministrativa volle “mantenerla con la stessa spesa totale finora sostenuta”. Quindi “il capo delle poste si fece autorizzare a derogare alle norme e di agire solo nei limiti dell’importo destinato agli stipendi”. Per cui furono abolite le alte remunerazioni delle cariche più importanti, non appena si rendevano vacanti per morte o trasloco dei funzionari, si dotarono con tali somme due o tre piccole cariche, e si proseguì finché non ci fu più nulla da smembrare. Certo si finì con l’incrementare gli stipendi; ma questo avvenne soltanto a Berlino e a vantaggio soltanto di funzionari particolarmente favoriti, e anche per dotare quegli impiegati che fino allora erano stati pagati col fondo delle Diete. E le cose stanno ancor oggi così.

“Un altro importante e incontestabile rimprovero (si legge più avanti) che riguarda l’amministrazione odierna è questo, essa disponeva oltre che di fondi normali per gli stipendi, anche di altri mezzi per migliorare lo stato degli impiegati, se non con assegni fissi, almeno con utili sussidi annuali, anzi ciò le era stato espressamente ingiunto dal defunto re, e tuttavia non lo fece, nemmeno nella misura voluta dal re o dai mezzi a disposizione”. Dopo alcune considerazioni speciali su questo punto, si dice più avanti: “Le gratifiche non corrisposte agli impiegati, furono cumulate per scopi misteriosi e versate nella banca d’Inghilterra invece di venire usate in paese per sollevare la miseria dei funzionari. Questo nuovo modo di collocare il denaro risparmiato dallo Stato fu finalmente condannato a ragione dall’Alta Corte dei conti, e su denuncia di questa al defunto re i capitali dovettero venire ritirati dalla Banca d’Inghilterra e messi a disposizione dei bisogni dello Stato”.

Da questa esposizione riprodotta soltanto per frammentariamente ciascuno può facilmente vedere come il “Patrioten. Inländische Fragen” possa giustamente pretendere l’attenta considerazione del pubblico.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 313, supplemento, 9 novembre 1842]

21) [Sul divorzio]

Fondamento della nuova legge sul divorzio è l’idea, presa come assioma e accettata senza riflettere, che il divorzio sia un male. Si vantano quindi le province renane, dove avvengono cinquanta o sessanta volte meno divorzi che nel dipartimento del tribunale camerale.

Forse questo prova che nelle province renane esistono meno cattivi matrimoni che nelle vecchie province? Al contrario ciò prova che là ci sono forse cinquanta o sessanta volte più coppie infelici che qui: perché qui i matrimoni infelici vengono dissolti, mentre là si conservano come sacre reliquie. Che cosa si vuole preservare ostacolando il divorzio? “La santità delle nozze”! Se esaminiamo anzitutto il valore dell’espressione “sante nozze”, vediamo subito che un matrimonio santo non ha bisogno di risoluzione. Quindi non è vero che si vogliono garantire i matrimoni “sacri”; al contrario si vogliono perpetuare quelli “non sacri”. Tale è del resto la maledizione di tutti coloro che si attaccano alle “cose sacre”: essi santificano ciò che non è sacro, cioè la loro maledizione consiste nella santità fondata sulle opere esterne. Finché non si intacca la “santità” del matrimonio, è solo una incoerenza l’adoperarsi con tanto zelo contro la legge sui divorzi; poiché, se il sacrilegio non deve essere punito severamente, quand’è che si dovrà ricorrere a severi castighi? Se si sostituisce il predicato “sacro” a quello “morale”, si merita a buon diritto, per offesa alla “santità”, non la reclusione, ma addirittura il rogo.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 335, 1 dicembre 1842]

22) [Elezione del rabbino capo]

Fra i molteplici sforzi che si compiono nella nostra città per riformare gli affari comunali e specialmente per eliminare abusi, vi è quello degli Ebrei di Berlino che hanno risolutamente deciso di trasformare lo statuto della loro comunità per adeguarlo ai tempi presenti. Nella recente elezione del rabbino si è visto quanto difettosa sia finora la composizione della presidenza e quanto lontano possa andare la violenza dei capi, liberati da qualsiasi responsabilità. Definisco eufemisticamente quell’atto “elezione”; ma un sunto di poche parole dei fatti svoltisi in quella circostanza, può mostrare se meriti questo nome. Ciò che non si è fatto, è quanto segue: non si chiese ai saggi quali candidati avrebbero dovuto comporre la lista elettorale; la comunità non venne informata dei nomi dei tre candidati arbitrariamente scelti; si rifiutò il parere dei membri della comunità e il loro voto; non si bandì nessun concorso e infine non si fecero tenere prediche di prova. Al contrario si è fatto quanto segue: i contribuenti della comunità, e solo i contribuenti, furono divisi in tre classi: 1) i grossi contribuenti, 2) i medi contribuenti, 3) i piccoli contribuenti. I nomi di ciascuna classe furono collocati in un’urna e quindi si sorteggiarono undici nomi di ciascuna delle due prime classi, e dieci della terza; e questi signori estratti, quali rappresentanti dell’intera comunità, nell’anno 1842 furono gli elettori del gran rabbino per Berlino!

Non occorrono altre parole per togliere a un tale comportamento l’onore del nome “elezione”. Ma dobbiamo riportare ancora un’altra strana circostanza. Fra gli uomini della prima classe si trovano nomi che difficilmente ci si sarebbe aspettati sulla lista, poiché nel giudaismo hanno solo le tombe dei loro antenati e nel cristianesimo le culle dei loro discendenti.

La ragione del rifiuto iniziale del dottor Frankel di accettare la nomina caduta sul suo nome, la si cercò in un fiero sentimento dell’onore o dell’alta coscienza di sé, la quale preferisce la voce del popolo al grido di pochi autorizzati.



[“Leipziger Allgemeine Zeitung”, n. 365, 31 dicembre 1842]

23) I Tedeschi della Germania orientale

Non c’é dubbio che in futuro la carta geografica dell’Europa avrà un aspetto diverso da quello che assunse dopo la spartizione di questo continente operata dalla diplomazia le cui creazioni volgono al tramonto. Ma quali saranno le nuove formazioni, o su quali princìpi si baseranno, per ora non si possono fare che profezie o presunzioni. Ma sono sempre gli uomini che preparano gli avvenimenti futuri sulla base delle loro idee e dei loro interessi, e si adoperano perché questi riescano vantaggiosi e desiderabili. Dai progetti e dalle speranze sull’avvenire scaturiscono gli sforzi degli uomini, e tali sforzi influenzano, più o meno notevolmente, le cose future. Oggi, per esempio, è in voga il progetto di una Germania unita e ciò riempie molte anime tedesche di dolci speranze, perché sognano una risurrezione dell’antico impero franco. Non si può più eludere la questione, ed è quindi importante considerare come gli uomini d’intelletto si esprimono sul probabile avvenire dell’Europa. Un simile contributo alla “riorganizzazione” dell’Europa, ce lo porge un piccolo scritto anonimo intitolato: Polen, Preussen und Deutschland [Polonia, Prussia e Germania], di cui credo interessante esporre i disegni.

Il federalismo è una forma di vita più elevata del centralismo. La federazione infatti può, quando è necessario, specialmente nei rapporti con l’estero, temporaneamente concentrarsi e diventare così un potere accentrato, mentre la centralizzazione non può assumere un aspetto federativo. Il federalismo è la forma costituzionale del nuovo mondo e dell’avvenire. Per ciò che riguarda in particolare l’Europa, la Russia deve essere esclusa: un paese esclusivamente pianeggiante, caratterizzato dal Volga che scorre verso le steppe asiatiche, non può propriamente appartenere all’Europa ma può considerarsi un paese intermedio fra l’Europa e l’Asia. In mezzo all’Europa propriamente detta, giace la Germania, e perciò incombe su questa anche l’ufficio di mediatrice, cioè non un compito egemonico, ma precisamente di mediatrice; tale compito deve formarsi con le idee di una coscienza più sviluppata e in relazione allo stato presente delle cose. Perché la Germania non è uno Stato nazionale e non potrà mai diventarlo. Uno sguardo sulla carta delle lingue mostra come da Oriente lo slavismo penetra profondamente fino ai monti Fichtel nell’elemento tedesco, mentre il germanesimo lungo la costa baltica si prolunga oltre la Polonia, per cui alla Germania orientale è essenziale associarsi con i popoli slavi. Non appartengono forse ora alla Germania, la Boemia, la Moravia, la Carinzia e l’Illiria, e non sono queste popolazioni prevalentemente slave? Ma politicamente appartengono all’impero, e non è pericoloso per la nazione tedesca vivere insieme con popoli slavi, come, non può né deve essere nostra intenzione, mettere a dura prova la nazionalità dei popoli slavi a noi associati.

Questa Germania si collega dalla parte di sud-est, lungo il corso del Danubio, con tutti i popoli e le razze che abitano il bacino di questo fiume, da Vienna fino al Mar Nero. Così l’Austria sta alla testa della grande confederazione dei popoli danubiani, i quali fanno capo all’Austria, perché nessuno di loro può da solo formare uno Stato e perché solo per mezzo all’Austria possono riallacciarsi alla civiltà occidentale. Essi resteranno fedeli all’Austria non appena queste limitate idee di dominio di un popolo sull’altro saranno eliminate, e ciascuna parte della Confederazione potrà liberamente svilupparsi a suo modo. A tale associazione dei popoli danubiani che tramite l’Austria si collegano con tutta la Germania, corrisponderà nel nord-est un fraterno Stato baltico. Perché, fin dove la costa baltica è tedesca (e a nord si stende fino alla Narva), anche i paesi dell’entroterra tendono a unirsi strettamente con la Germania nord-orientale, cioè con la Russia, tramite la quale possono allacciarsi con la civiltà occidentale. Fra la Dvina, il Niemen, la Vistola e 1’Oder, e i paesi dell’Elba media e inferiore, non esiste in alcun luogo un importante confine naturale. Le frontiere dei popoli e degli Stati in questo territorio si sono mutate senza tregua: i rapporti fra i popoli sono stati di volta in volta ostili o amichevoli e ogni cosa è stata messa sottosopra. Da ciò deve nascere uno Stato federale baltico composto da Prussia, Polonia, Lituania, Curlandia e Livonia, uno Stato federale che tramite la Prussia si collegherà all’intera Germania.

Così Austria e Prussia formeranno ciascuna un membro essenziale del corpo federativo tedesco, e il terzo membro principale risulterà composto da tutti gli altri Stati tedeschi presi insieme. E da questa mediazione tedesca rinascerà il sistema dei popoli occidentali, già tenuto insieme nel medioevo, secondo lo spirito di quei tempi, per mezzo della Chiesa e per mezzo dell’unità nella cultura e nella dottrina, e secondo lo spirito del tempo nostro tenuto insieme da una civiltà comune e da una comune missione mondiale. Da tale sistema è esclusa la Russia, che viene d’ora in poi privata di ogni influenza sulla sorte dei popoli europei; influenza che si dimostrò così dannosa e che poté prosperare solo in virtù delle nostre discordie e dell’assenza di idee del nostro tempo, il quale non seppe levarsi al di sopra di una stupida politica di gabinetti e di equilibrio. Solo così un impero barbarico poté pretendere di essere il guardiano della salvezza della civiltà e di pronunciare la parola decisiva tra le ambizioni dell’Europa.

Si tratta di vedere se l’Asia deve diventare europea o l’Europa asiatica. E perché quest’ultima cosa non avvenga, non ci deve essere un impero panslavista, ma i popoli slavi occidentali devono unirsi all’Europa dell’ovest. La Russia ha fatto suo il principio mongolico, asiatico; ma gli slavi del Danubio ed i Polacchi hanno conservato il tipo slavo originario, cioè il principio della libertà individuale, e perciò appartengono all’Europa propriamente detta. Devono perciò unirsi alla Germania, per creare un territorio di passaggio allo spirito europeo. A tale scopo deve essere formato lo Stato federale dei popoli danubiani e lo Stato federale baltico.

Lo Stato federale del sud-est inizialmente esiste già, mentre quello baltico deve ancora formarsi. Nel grande Stato federativo austriaco dei popoli danubiani, gli slavi del Danubio entreranno in blocco e con essi anche i Valacchi che appartengono anch’essi al sistema occidentale e non a quello russo o asiatico. Si dubita solamente se lo Stato danubiano abbia o meno tendenza verso il sud. In Italia si è grandemente sviluppato il principio di nazionalità che le ha permesso di sollevarsi. L’esito della grande lotta non si farà aspettare a lungo.

Per adesso si è troppo esposti alle forti impressioni del momento storico per poter fare un’indagine approfondita, ma molti considerano prossima una dissoluzione dell’intera monarchia austriaca che non è altro se non un aggregato esteriore e innaturale di paesi incompatibili tra loro. E, in realtà, gli avvenimenti sono intricati, l’agitazione è generale; ma l’Austria sosterrà vittoriosamente la prova. Per due volte i Turchi riuscirono ad accamparsi alle porte di Vienna, e per due volte Napoleone entrò nella città imperiale; ma l’Austria è riuscita sempre a sollevarsi; e poiché il vecchio impero ha sopportato simili tempeste, deve esserci un principio profondo a tenere insieme questa monarchia, la quale occupa un posto essenziale nell’odierno sistema degli Stati. L’Ungheria è legata indissolubilmente agli Stati ereditari tedeschi. Guardiamo la carta delle lingue. La popolazione slava entra con una larga striscia nell’Ungheria settentrionale attraverso la Boemia e la Moravia. La stessa cosa avviene nel sud, dove a partire dalla Carinzia, attraverso la Stiria meridionale e l’Illiria, l’elemento slavo si spande nell’Ungheria meridionale con la Croazia e la Slavonia. Così l’Ungheria è legata agli Stati ereditari tedeschi a doppio filo, e questi lo sono per mille vincoli con l’arciducato d’Austria. Come intorno alla vecchia Vienna si dispongono i sobborghi, così i paesi austriaci si dispongono intorno all’arciducato e tutti trovano nella città imperiale il loro punto di arrivo. L’Austria è in realtà uno Stato danubiano, perché formata da paesi danubiani; ma gli appartengono anche due ali laterali: la Boemia e una parte dell’alta Italia. La prima gli è indispensabile perché per suo mezzo tocca la Germania settentrionale, partecipa al bacino dell’Elba, tendendo verso il mondo atlantico, il quale non può mancargli. Ma come la Boemia è l’ala settentrionale, così la Lombardia è l’ala meridionale, e l’unione dell’Austria con l’Italia si fonda su profonde ragioni.

L’Austria, come l’impero tedesco, non ha mai potuto fare a meno dell’Italia. La prima storia dei Germani comincia con le loro invasioni dell’Italia, che si sono ripetute da due millenni, e che continueranno sempre, o comunque ci sarà sempre un collegamento tra essi e l’Italia. Il popolo tedesco, come popolo universale, deve toccare il sud dell’Europa, il suolo del vecchio mondo classico, il quale, a sua volta ha bisogno della Germania. Non ci si lasci accecare dal ribollire dello spirito nazionalistico. Questo popolo mobile che oggi giura morte ai Tedeschi, domani forse li richiamerà. Gli Italiani pensano che adesso sia il momento giusto per fondare un regno nazionale, ma Machiavelli, più di 300 anni fa, disse la stessa cosa: egli si ingannò allora e gli Italiani si ingannano adesso. Una repubblica italiana o uno Stato federale italiano non sarà mai durevole, anche se ci si arrivasse. L’Italia non è un paese politico. Lo stesso grande Dante ha detto ai suoi contemporanei che essi hanno bisogno della Germania, e gli Italiani di oggi sono gli stessi di allora.

Per cui lo Stato federativo austriaco vivrà e spariranno le velleità di separatismo. Perché non si deve scambiare l’Austria con la politica di Metternich, con l’immobilità ed il regime poliziesco del governo abbattuto che ha reso odiosa l’Austria.

Ma come è sicuro che vivrà lo Stato federale austriaco, così è certo che si formerà lo Stato federale baltico. La Polonia entrerà con la Prussia in una stessa unità e obbedirà a un medesimo re che risiederà alternativamente a Berlino e a Varsavia, perché la fondazione di un separato regno polacco è ostacolata da difficoltà insormontabili. Anzitutto i Polacchi, per formare un regno separato, dovrebbero guadagnare la costa, e per questo dovrebbero dichiarare guerra alla Prussia. Entrambe, separate, dovranno rovinarsi reciprocamente; invece il vero interesse della Polonia esige ch’essa viva d’accordo con la Prussia per potersi collegare con la civiltà occidentale. Se accadesse che si formasse un governo a Varsavia, ciò sarebbe considerato un’autorità puramente di fatto, pronta ad essere rovesciata in qualsiasi momento. Quindi l’interesse della Polonia è quello di legarsi a un governo già esistente e solido e solo l’unione con la Prussia può salvarla dalla guerra civile. Infine ai Polacchi manca l’elemento borghese per formare un regno separato sotto le forme della civiltà occidentale. Ma la loro tendenza alla civiltà occidentale è minima, per cui non riuscirebbero mai a farla loro se non mediocremente. Si consideri la situazione del popolo polacco e si vedrà che in Polonia tutte le forze devono essere indirizzate al regolamento dei rapporti agrari, allo sviluppo dell’agricoltura, al suo miglioramento: è questo il succo di tutta la cultura sociale morale e spirituale di quel popolo. Ma per procedere in questa direzione con sicurezza, la Polonia ha bisogno di una salda unione organica con la Prussia e, per mezzo di questa, con la Germania per scambiare i suoi prodotti naturali che ha in sovrabbondanza con i manufatti che le mancano. Collegata al sistema dei popoli occidentali industrializzati, in cui anche l’agricoltura è industrializzata, la Polonia sarà in quel sistema l’unico popolo essenzialmente agricolo. E non si potrà dire: la Prussia domina la Polonia, ma: la Polonia possiede insieme con la Prussia, un comune centro dell’ordinamento pubblico e dell’organizzazione.

La Polonia come Stato ebbe la sua importanza nella lotta contro i Tartari e i Turchi, e contro l’Islam fondò una barriera per la cristianità. Questa guerra ebbe importanza mondiale; dopo Sobieski, la Polonia non fece più guerra ai Turchi, la potenza turca decadde, e con essa decadde anche la potenza polacca. Ed esaurito il suo sviluppo politico, lo Stato come tale, è morto. Che cosa è rimasto? La nazione. Essa è un membro dell’organismo dei popoli; ha le sue basi proprie, che devono svilupparsi; ha la sua missione da adempiere, ma non può ricavare da sé un nuovo Stato, non può governarsi da sola. Infatti, chi deve governare? La nobiltà che si è dimostrata incapace, che ha logorato il suo diritto di governare? Rimane il ceto agricolo, poiché non esiste un ceto medio. Ma questo finora non è che una massa incolta, che fanatizzata, potrà distruggere la nobiltà o i Russi, i Tedeschi o gli Ebrei di Polonia, ma non potrà dirigere gli affari dello Stato. Per far ciò dovrebbe essere educata; ma per questo è necessaria una forza mediatrice straniera che dia misura e contenuto all’intero sviluppo della nazione. Sterminare la nobiltà, dicono gli aristocratici polacchi, significherebbe annientare la nazione, perché noi rappresentiamo le tradizioni storiche senza le quali una nazione non è niente. Ed hanno ragione. Ma questa nobiltà, dicono i democratici, non può governare, è il popolo che lo deve. Ed anche loro hanno ragione. Ma il popolo è una massa incapace di governare. Contro questo dilemma naufragano tutti i tentativi. Le insurrezioni aristocratiche sono fallite e il movimento democratico subirà la stessa sorte. Dunque è indispensabile una potenza mediatrice, la Prussia può e deve esercitare l’ufficio di intermediaria, per accordare le pretese dei nobili e dei contadini, conservare gli elementi della nazione e svilupparli in una nuova vita.

La Germania non può, per sua natura essere un puro Stato nazionale; essa deve unirsi ad Oriente con elementi stranieri. Tutti i nostri fiumi scorrono verso nord-est, fino al Danubio che ci guida verso l’Oriente. Soltanto a settentrione abbiamo una costa, e a mezzogiorno tocchiamo in un solo punto il mare Adriatico. Ci manca il territorio danubiano e il Mar Nero. Là giace la costa che corrisponde a quella baltica come costa opposta. La grande vallata del Danubio è la base della pianura nord-tedesca e sarmatica, che da per se stessa è incompleta. Già in passato il commercio si svolgeva dal Mar Nero al Baltico. Dobbiamo tentare di ristabilire ciò. Il Reno e il Danubio devono formare da foce a foce una via commerciale. Allora anche tutto il territorio che giace tra queste due grandi strade svilupperà la sua ricchezza naturale. La parte orientale di questo territorio è ricca di prodotti naturali, la parte occidentale è ricca di manufatti. Entrambe si completano. Nella situazione presente, le nostre fabbriche sono ferme e i nostri operai soffrono la fame; ma nei paesi danubiani e sarmatici, ci sono terre fertili incolte e gente lacera in sudice capanne. Così i nostri manufatti vestiranno questa gente, ed essa nutrirà i nostri operai. L’Ungheria produce i prodotti più fini, e potrebbe produrne il doppio, se potesse smerciarli. Uniamoci dunque, e oltre tutto eliminiamo inutili dogane. Anche la Polonia è ricca, ma non sa sfruttare le sue ricchezze, e la sua gente è povera e miserabile. Il suo sale potrebbe essere scavato in quantità triplice e sfruttato maggiormente per la industria e l’agricoltura; campi e boschi potrebbero fornire il doppio di quanto non forniscano adesso; il commercio della canapa, del lino, del cuoio, del sego e della cera potrebbe migliorare di molto. Le grandi oscillazioni nel prezzo dei cereali, le rovinose stagnazioni delle fabbriche diminuirebbero; su questo grande territorio tutto si compenserebbe, perché difficilmente ci sarebbe un cattivo raccolto in tutte le sue parti. E poiché nella parte orientale di questo territorio si produce per vendere, si avrebbero grandi magazzini per far fronte alle cattive annate. Se tuttavia aumentassero i prezzi dei cereali, si guadagnerebbe di più in Oriente, e quindi si consumerebbero più manufatti in Occidente che verrebbe così indennizzato. Ma oggi non succede così. Se salgono i prezzi dei cereali, nello stesso tempo soffrono le fabbriche; e ciò deriva dal non possedere un territorio di scambi come si deve.

Ma la Germania da sola non può fare tutto questo; ciò si può fare solo mediante una federazione: una grande Germania unita, legata all’Oriente per mezzo della Prussia, e quindi un grande territorio federale dalla Schelda alla Dvina, e dai monti della Svizzera al Mar Nero.



[“Journal des österreichischen Lloyd”, Trieste, n. 143, 24 giugno 1848]

24) La benedizione dei bambini

C’è chi ha provveduto perché gli alberi non crescano fino al cielo e c’é anche chi ha provveduto perché non ci siano più uomini di quanti possano trovare nutrimento; ma nessuno ha provveduto che non ne esistessero più di quanti la terra possa nutrire. Perciò gli uomini che avanzano sono destinati a morire, o come in Cina per infanticidio, o come in Europa di miseria e di stenti. Malthus ha fissato il famoso rapporto fra l’aumento delle nascite e l’aumento delle derrate alimentari, secondo cui le prime aumentano con progressione geometrica e le seconde con progressione aritmetica; con ciò ha fortemente messo in mostra il problema della sovrappopolazione, per cui dopo questo problema non poté più essere trascurato e torna continuamente sul tappeto. Si trovò intollerabile che la natura potesse aiutare se stessa condannando alla morte gli uomini superflui come fa per quei bachi da seta che escono dal guscio prima che il gelso abbia messo le foglie, e che non esista nessun mezzo per procurare alla natura, nel caso che la progressione delle nascite non si moderi, la necessaria abbondanza di alimenti. In tale frangente si ricorse alla moralità, alla restrizione, alla morale autolimitazione; si fece appello alla rinuncia.

Comunque si pensi sul valore della rinuncia, il successo ottenuto da questa teoria ha per lo meno mostrato che i teorici come sempre si erano fermati all’astrazione e avevano preso alla leggera la questione con le loro rigorose pretese. Ma a dispetto di tutti gli ammonimenti gli uomini non diventarono angeli e, come prima, misero al mondo bambini con grandissima leggerezza; bambini che, per mancanza di alimenti, sono condannati a morire di fame, cioè per “morte naturale”.

Quando si vide che la dottrina della rinuncia non attecchiva, e gli uomini mostravamo poca inclinazione a autolimitarsi, si pensò di costringerli; molti, come i soldati, i servitori, i garzoni, ecc., furono costretti a non ammogliarsi; per cui bastò provvedere che non avvenisse un aumento di popolazione a causa di nascite illegittime. Per questo i teorici aggiunsero alla “restrizione morale” di Malthus la costrizione fisica. C. A. Weinhold è il più noto di questi teorici. Egli si occupò con zelo straordinario negli ultimi venti anni dell’“eccesso di popolazione nell’Europa centrale”, e per la verità, abbastanza onestamente e risolutamente per parlar chiaro del suo spietato mezzo di cura radicale. Poiché questo metodo di salvezza, la infibulazione, è solo il completamento pratico della dottrina della rinuncia, non sarà senza interesse, il farne cenno così come Weinhold la immaginò e la raccomandò al mondo vivamente in molti scritti. Essa forma il secondo stadio della questione del sovrappopolamento. Weinhold, in una introduzione filosofico-popolare, lega il suo consiglio alla dottrina dello sviluppo dicendo: “È fine ultimo della creazione sottomettere ogni cosa alle leggi morali. Come l’individuo, così l’umanità, già elevata da saggi maestri e legislatori fino alla vera coscienza, deve cominciare la lotta contro i fenomeni della semplice necessità naturale che la rendono simile alle bestie; in special modo contro la funzione dei sessi: deve essere libera di usare la libertà morale, se vuol fondare durevolmente la sua felicità e quella delle future generazioni”. La differenza tra la prima e questa seconda dottrina della rinuncia sta nel fatto che nella prima l’individuo deve compiere la rinuncia con se stesso, mentre nella seconda è l’umanità il soggetto che esercita la rinuncia; ma ovviamente l’umanità deve coartare gli individui recalcitranti, se questi non vivono volontariamente secondo le leggi dell’umanità. Weinhold non devia dal principio morale; le potenze morali (Chiesa, Stato, comuni, ecc.), sottopongono continuamente a una implacabile costrizione, propinano carcere a vita, ecc., a coloro che non obbediscono volontariamente alle leggi morali. Quindi Weinhold, sicuro di essere moralmente giustificato, prosegue dicendo: “Io presento come misura urgente e necessaria una specie di infibulazione non scioglibile, con saldatura e suggello metallico, completamente appropriata ad impedire fino alle nozze l’accoppiamento”. Segue la descrizione della serratura, la cui manomissione deve essere punita con la frusta e col carcere duro. Tale infibulazione si deve applicare ai ragazzi dal quattordicesimo anno di vita in poi, e mantenuta fino al matrimonio, in coloro che non possono provare di possedere un patrimonio sufficiente per nutrire ed educare le creature nate fuori del matrimonio. “Ma l’infibulazione durerebbe per tutta la vita in coloro che non potranno mai nutrire ed educare una famiglia”. E si deve subito incominciare questo bel lavoro, seguendo le seguenti norme:

“1) Rendere impossibile la generazione a tutti i mendicanti e agli scapoli poveri che a mala pena possono nutrire se stessi, o al massimo un solo figlio.

“2) Vietare il matrimonio e applicare l’infibulazione a tutti gli inabili al lavoro, ai sofferenti di malattie croniche che già ricevono sussidi dai comuni.

“3) Si devono “infibulare” tutti i servitori maschi, garzoni e apprendisti nella città e nelle campagne finché non saranno capaci di nutrire se stessi e la loro famiglia; tenere costoro sotto stretta sorveglianza medico-poliziesca con frequenti e improvvise visite, per controllare il suggello metallico, e in caso di contravvenzione applicare le pene su indicate.

“4) – Tutti i militari non ammogliati di grado inferiore subiranno senza eccezione l’infibulazione.

“5) – Poiché negli Stati liberi tutti i cittadini devono essere eguali davanti alla legge, la nobile e infiacchita gioventù degli esentati quando varca i limiti della morale, dovrà essere sottoposta con alcune modificazioni alle stesse leggi”.

Quest’uomo si poté permettere simili consigli perché con essi non rafforzava se non il regno della morale e della ragione. Egli limita la libertà con il più fanatico moralismo, ma la limita perché nel mondo ogni sventura deriva dall’uso sregolato della libertà. Inoltre i suoi scritti non furono estranei allo spirito dell’epoca; infatti li dedicò al ministero di Stato prussiano, poi al ministro Altenstein e infine al re Federico Guglielmo III stesso, dal quale furono graziosamente accolti. E come non lo potevano se rappresentavano l’esatta conseguenza dello Stato poliziesco il quale a vantaggio dell’umanità già applicava l’infibulazione agli uomini vivi?

Però come ogni tirannia, quando si leva in forma troppo cruda e palpabile, sembra abominevole a quello stesso uomo che su altre questioni è molto sottomesso, così anche questa nuda tirannide morale sdegnò estremamente quegli stessi uomini i quali potevano vedere con tutta tranquillità il fatto che in parte espressi divieti limitassero il matrimonio, e in parte l’amara necessità di rendere impossibili le nozze a milioni di uomini, invece che milioni di bambini fossero pubblicamente condannati a morte dalla miseria dei loro genitori.

Weinhold – che del resto trovò nel mondo letterario non soltanto avversari ma anche amici – non attecchì con le sue misure poliziesche. E la sventura del sovrappopolamento continuò, non importa se la causa fosse perché non c’era lavoro per tutti o se realmente (come si sostiene da molte parti) si procreassero più bambini di quanto si potesse produrre in derrate alimentari anche con una perfetta coltivazione del suolo. Ma in quale altra maniera che non fosse la rinuncia morale o le misure poliziesche, si poteva evitare l’eccesso di popolazione?

Forse, si pensò, la prudenza potrà fare ciò che l’una e le altre non possono ottenere? Si pensò dunque a mezzi che rendessero facile agli uomini la limitazione della nascita dei bambini. Con ciò il problema abbandonò il punto di vista morale e poliziesco e divenne una questione di interesse individuale. Chi non vuole lasciar crescere, per sua rovina, il numero dei bambini in casa propria, cerchi di limitarlo con saggezza. Che sia nell’interesse dell’umanità o dello Stato, ciò è indifferente, per questo punto di vista; gli sposi si interessano solo ai bisogni della loro casa e decidono col criterio della loro economia privata.

Ma la società si è sempre opposta con tutte le sue forze a considerare puro problema privato un fatto in cui si è immischiata. In segreto i singoli possono trattare la questione dei bambini dal punto di vista della loro economia privata; ma pubblicamente la società non vuol dare a ciò il suo benestare. La cosa è delicata, ma tuttavia fu trattata in scritti sotto l’egida della scienza.

Già Charles Fourier dimostrò che una eccessiva nutrizione è causa di sterilità. Ma poiché la moltiplicazione delle derrate, che egli promise al mondo, riposava ancora nel seno del futuro, questo mezzo non poteva soccorrere le pene presenti. Charles Loudon, nel libro Solution du problème de la population et des subsistances [Soluzione del problema della popolazione e dei mezzi di sussistenza], Berlin 1844, tentò di dimostrare che tra l’attività dell’utero e quella del seno femminile, esiste un tale antagonismo che la donna durante l’allattamento non può concepire. Ma poiché l’allattamento secondo natura dovrebbe durare tre anni, la concezione resterebbe con ciò limitata. Theodor Ludwig Bischof (Beweis der von der Begattung unabhängigen periodischen Reifung und Lösung der Eier der Säugetiere und der Menschen [Dimostrazione della maturazione e dissoluzione periodica delle uova indipendenti dall’accoppiamento dei mammiferi e delle donne]; Giessen 1848), dice: “È un fatto conosciuto da molto tempo che le donne concepiscono con maggior facilità immediatamente dopo la mestruazione e non mancano esempi che la concezione presso certe donne avviene soltanto con la mestruazione”. Quindi se ne deduce che se sopravviene un’interruzione di otto o quindici giorni, l’atto sessuale è sterile, e usando questa attenzione la donna ha in suo potere la concezione. Pierre-Joseph Proudhon cita nella sua Filosofia della miseria il sistema del dottor G., “uomo del resto molto probo”, sistema che si basa sull’estrazione del feto, di cui a Parigi certi chirurghi fanno una speciale industria, insieme a vecchie donne e a medici. Il dottor G. cerca di difendere scientificamente l’aborto.

Finalmente oggi, che si odia ogni segreto e si grida in ogni dove: “tutto per il popolo”, il signor Held, redattore della “Lokomotive. Zeitung für die politische Bildung des Volkes”, ha ripreso la questione considerandola questione di libertà. Egli dice: “Noi riteniamo più conforme alla civiltà impedire la sovrappopolazione sottoponendo la concezione alla volontà degli sposi piuttosto che neutralizzarla con guerre ed epidemie. Perché nel primo caso ci si limita a non generare una vita, mentre nel secondo la si distrugge. Ora bisogna conoscere qual è il mezzo artificiale per raggiungere un tale scopo, e ovviamente dobbiamo cercare aiuto nella scienza: a nostra conoscenza, fra le forze medicali omeopatiche notoriamente innocue, ce ne sono alcune che, a seconda se impiegate o meno, pongono la concezione completamente in facoltà degli sposi. Uno Stato che non vede nell’uomo altro se non carne da cannone; non esiterà a dare l’autorizzazione necessaria. Perché con ciò non si dovrà temere lo spopolamento, per il semplice motivo che la natura ha posto nel cuore degli uomini il desiderio di avere figli”.

Proponendo apertamente una tesi del genere si doveva per forza provocare delle ostilità. La conseguenza fu che la tesi di Held si radicalizzò: “Non si può risolvere scientificamente un problema sociale per mezzo di una religione positiva, una legge o una morale. L’indagine scientifica deve essere libera da restrizioni, perché è appunto da queste che derivano le religioni, le leggi o la morale. Quindi tutte le obiezioni che si possono sollevare dal punto di vista religioso o morale cadono a priori. Ma c’è di più! Se prendiamo dal lato spirituale la nozione di morale, si scorge questa verità: la più elevata morale consiste nel legittimo esercizio della più alta libertà. Ma che cosa è più conforme alla morale e alla libertà, se non che l’uomo, nell’atto più importante della sua vita, agisca con libertà di volontà e di coscienza, oppure che agisca come schiavo della natura? La generazione senza volontà e coscienza colloca l’uomo tra gli animali irragionevoli; quella volontaria e consapevole gli lascia il suo inalienabile posto di creatura ragionevole sopra il mondo animale. Perciò è chiaro che la volontarietà della generazione, risponde al principio della morale, ed è conforme alla dignità dell’uomo”. Quanto ai mezzi, Held sostiene che la scienza sta per creare i mezzi opportuni alla volontaria eliminazione della concezione. Quindi egli invita gli uomini di scienza “a rivolgere tutta la loro attenzione a questa materia così importante per la soluzione della questione sociale, e pubblicare i risultati delle loro ricerche con lo stesso coraggio col quale egli ha sollevato la questione”.

Tale è lo stato presente del problema della generazione. Da quando esso dal punto di vista della “specie umana” fu trattato come “problema di sovrappopolamento” è diventato dal punto di vista degli individui, un “problema di concezione”. La questione della specie umana si trasformò in una questione di tenore di vita. Malthus pose l’uomo morale a guardia di questa materia; lo Stato e la polizia furono poi incaricati della sorveglianza; e infine, ciascuno provvede da sé, alla meglio. Con ciò naturalmente rimane inosservata l’obiezione come quella che contro l’eccesso di figli presenta Franz Baltisch, un seguace di Malthus, nel suo libro: Eigentum und Vielkinderei, Hauptquellen des Glücks und des Unglücks der Völker [Proprietà ed eccesso di figli, sorgenti principali della felicità e dell’infelicità dei popoli], Kiel 1846, dove è detto che l’eccessivo numero di figli è il male di cui soffre soprattutto la vecchia Europa, ed è la fonte della maggior parte dei mali che ci appaiono come iniquità nella storia dei popoli.

D’altra parte molti proclamano che il pericolo dell’eccesso di popolazione è una semplice chimera, e il già citato Proudhon, per esempio, contesta proprio il rapporto maltusiano fra l’aumento della popolazione e quello della produzione, sostenendo che la ricchezza cresce come il quadrato del numero dei lavoratori. Ma anzitutto questo significa giocare con le parole ricchezza e produzione, perché non si tratta dell’aumento dei prodotti del lavoro ma di quello delle derrate alimentari, quindi non della produzione in genere, ma di quella dei viveri, e in secondo luogo la questione se un giorno gli uomini saranno in numero eccessivo è una questione astratta del genere umano, la cui decisione non può aiutare il singolo nel suo reale bisogno. Anche se l’umanità non considerasse troppi una dozzina di figli per coppia, alcune coppie potrebbero sempre considerare troppi dodici figli, e di ciò ci si può rendere conto guardandosi attorno. Questa contraddizione tra ciò che l’umanità (o in piccolo uno Stato, una società) può sopportare e ciò che può sopportare un uomo in carne e ossa, ha condotto allo sviluppo di cui sopra del problema della generazione, il quale gradatamente da una questione dell’umanità è diventato un problema personale. In ogni caso, se l’umanità abbia guadagnato o perduto nel passaggio del problema della generazione dalla questione umana ad affare di interesse personale, ciò è una indagine oziosa di fronte al fatto compiuto, come del resto si mostrò sterile ogni moralizzazione delle cose di importanza storico-mondiale.



[“Journal des österreichischen Lloyd”, Trieste, n. 167, 22 giugno 1848]

25) La marina [tedesca]

Dominare i mari può essere necessario solo se il non farlo può causare pericolo e danno. Se ora i Tedeschi avessero nei mari del nord una piccola flotta da guerra, la piccola Danimarca non bloccherebbe le coste e non paralizzerebbe il commercio, e non si sarebbero ridotti a lottare con le semplici spade, come gli indiani sulle spiagge americane che si tuffano per attaccare il pescecane nel suo elemento, dove c’é più pericolo per l’uomo che non per il pescecane. E se ci fossero stati più Tedeschi negli equipaggi della flotta austriaca, oggi questa sarebbe come si deve. Una flotta tedesca oggi è necessaria, e se dovessimo litigare con l’Olanda o la Svezia, ciò che può sempre accadere, la sua esistenza sarebbe addirittura vitale. Forse allora i contingenti, che ora arrivano soltanto parcamente, affluirebbero assai più copiosi. Ma una marina da guerra efficiente, sembra possa crearsi solo se si offre la prospettiva di un ingente guadagno a uomini arditi. Comunque lasciamo agli esperti queste considerazioni; noi volevamo dire soltanto che oggi ai Tedeschi manca una vera idrografia nautica. A tale scopo può loro essere utile un’opera del capitano di fregata Karl Rudolf Brommy, di Lipsia. Il libro Die Marine [La Marina], del suddetto capitano, con dodici illustrazioni, una carta delle bandiere navali, e nove tabelle, Berlino, presso A. Dunker, 1848, tratta di tutto quello che è necessario per comprendere l’argomento, e in una forma così chiara che anche al più profano, offre un vivo quadro di tutta la materia. Il libro offre anche, ai lettori di romanzi marinari, come quelli di Cooper, la possibilità di raffigurarsi le cose descritte, per mezzo di un glossario del gergo marinaresco allegato. Il libro dunque è appropriato al nostro tempo.



[“Journal des österreichischen Lloyd”, Trieste, n. 177, 3 agosto 1848]

26) Il mandato revocabile

Quando, in un’epoca irrequieta, incline alle azioni violente, si raduna l’assemblea dei deputati del popolo, si teme che le masse possano turbare la calma delle deliberazioni, o magari mandare all’aria tutta quanta l’assemblea. Da dove nasce lo stimolo a tali atti violenti? Forse dal fatto che la via legale non è abbastanza aperta? Quando le masse popolari mandano all’aria un’assemblea, è perché manca loro il modo di scioglierla per vie legali. Il principe che può sciogliere un’assemblea non ha bisogno di mandarla all’aria: anche il popolo, se potesse, preferirebbe sciogliere un’assemblea invece di mandarla all’aria; ma esso non può farlo; e questo molte volte lo conduce a usare la violenza.

In realtà il popolo non dispone di quel mezzo che è dato al principe, cioè della facoltà di sciogliere un’assemblea che è diventata dispotica. Questa mancanza ha già ripetute volte condotto all’uso della violenza. Forse ci si potrebbe rimediare.

Il singolo deputato non è il rappresentante di tutto il popolo, ma solo dei suoi elettori, i quali mandandolo all’assemblea come loro rappresentante, confidano che lui sia in grado di agire nel senso da loro voluto e per il loro bene. Ma se egli si comporta in maniera che gli elettori non riconoscano in lui l’uomo di loro fiducia, questi si convincono di essersi ingannati sul suo conto, e quindi desiderando fare una scelta migliore si riuniscono per nominare un deputato a loro più accetto. Non si può pretendere che persistano in un errore che può essere corretto; essi riconoscono finalmente il loro errore, e non è ancora troppo tardi; o piuttosto non sarebbe ancora troppo tardi, se si stabilisse per legge la revocabilità degli eletti.

Quando questa revocabilità non è concessa, gli elettori devono per tutta la durata dell’assemblea, abbandonare i loro più cari interessi a un uomo che seppe carpire la loro fiducia e nel quale più tardi scoprirono un indegno; in tal modo la legge non ha disposto, come pretende, l’elezione di un rappresentante, ma di un despota. Perché un rappresentante può chiamarsi tale soltanto fin quando i suoi elettori lo considerano il loro rappresentante; per cui decade dalla sua funzione non appena i suoi elettori dichiarano di non aver più fiducia in lui e mettono un altro al suo posto. Invece, se non è revocabile, è un despota, poiché gli interessi dei suoi elettori sono del tutto in sua balia.

Ma questo è appunto ciò che non vogliono gli uomini in una libera comunità: che i loro affari siano dati a un uomo qualunque, nemmeno se questo agisse secondo la sua migliore convinzione. Se la legge non offre protezione contro il padrone ed essi debbono restar soggetti per sempre, non fa che offrire lo stimolo ad atti di violenza; perché dove la legge non aiuta contro la violenza, non c’é da stupirsi che la violenza venga scacciata con la violenza.

Quindi allo scioglimento della Camera affidato al principe, si deve accompagnare la revoca dei deputati, che gli elettori debbono poter fare in qualsiasi momento. Essa è l’inevitabile complemento di quel diritto del principe. Come il diritto del principe lo protegge contro il dispotismo della Camera, così la facoltà di revoca deve proteggere gli elettori contro il dispotismo dei deputati; e affinché la revoca non perda efficacia giungendo “troppo tardi”, il voto dei revocati deve essere sottratto da quelle decisioni della Camera che non vanno bene ai revocanti, per cui quelle stesse decisioni siano nulle quando vengano detratti dal totale tanti votanti che diventi minoranza il numero di coloro che votarono per le decisioni stesse.

Soltanto se si procederà così, si potrà dire che le risoluzioni della Camera sono prese secondo la volontà della maggioranza del popolo, mentre non essendoci revocabilità si deve dire che le risoluzioni sono prese semplicemente secondo l’opinione della maggioranza della Camera, cioè di inamovibili padroni.



[“Journal des österreichischen Lloyd”, Trieste, n. 187, 15 agosto 1848]

27) Impero e Stato

Le voci favorevoli alla fusione dei singoli Stati tedeschi in un impero tedesco non diventano più deboli, e non si possono considerare come una fantasticheria passeggera, anzi si fanno sentire sempre più forti di giorno in giorno e non ammutoliscono coloro che sono malcontenti dell’intera Assemblea nazionale tedesca. Che cosa c’è in fondo al desiderio di fondere in un unico impero tedesco i singoli Stati tedeschi?

La gente si immagina molto variamente ciò che deve essere l’impero tedesco. Alcuni intendono una lega di Stati, altri uno Stato federale, altri infine, un particolare Stato tedesco. Così avremmo, in scala maggiore, ciò che è ciascuno dei singoli Stati: uno Stato e non un impero. Poiché si avverte che impero e Stato non sono esattamente la stessa cosa, si vuole indicare con l’espressione “impero” la Germania unita; ma si è presa così poca coscienza dell’opposto, che si sente gridate nel medesimo tempo: “Vogliamo formare un unico Stato Tedesco!”.

Ma, sembra che l’aspirazione ad un impero sia nata proprio dal disgusto dello Stato, della sua vita e della sua cultura. Che cosa è l’impero se non una corporazione? I rapporti in un impero sono rapporti di associati. Il cittadino di Hannover quando va a Monaco non vuole trovare solo dei cittadini bavaresi ma anche dei connazionali, e viceversa. I cittadini di un impero rimangono connazionali fra di loro e possono avere le migliori relazioni corporative, anche senza avere nello stesso tempo eguali opinioni. Non così i cittadini di uno Stato, poiché il vincolo che li lega non è quello della eguale associazione, ma quello degli eguali sentimenti; lo Stato e la società statale, sono una società di sentimenti. In questo, come in quasi tutte le altre cose, lo Stato somiglia alla Chiesa, con la differenza che lo Stato è una comunione di sentimenti e la Chiesa è una comunanza di fede.

Così Stato e impero risultano distinti nella loro sostanza, poiché quello presuppone per esistere un’uguaglianza di sentimenti, questo niente di più che una pacifica socialità di rapporti, quale si convenga a dei confederati. Mentre lo Stato non può tollerare nei suoi cittadini tendenze opposte alle sue, le diversità di opinioni non intaccano l’impero; uno Stato monarchico, per esempio, in cui la maggioranza rivelasse tendenze repubblicane, avrebbe la sorte di una Chiesa in cui si diffondesse l’eresia: o dovrebbe espellere e sterminare chi la pensa diversamente come fa la Chiesa con gli eterodossi e gli eretici o dovrebbe esso stesso perire. Come la Chiesa sussiste con l’ortodossia, così lo Stato sussiste con una giusta opinione; e come la Chiesa per amor di se stessa non può tollerare l’eresia, così lo Stato si distruggerebbe se tollerasse le “storte opinioni”, o permettesse una “cattiva stampa”. Ma in una repubblica cattiva stampa è quella che manifesta opinioni monarchiche, così come in una chiesa luterana è cattivo predicatore chi falsifica la fede di Lutero, o in una chiesa cattolica, chi diffonde una fede opposta al cattolicesimo.

Invece l’impero su ciò è indifferente perché non chiede ai suoi cittadini opinioni di qualche tipo ma soltanto un pacifico contegno; ad esso importa tanto poco che i suoi cittadini siano monarchici o repubblicani, quanto allo Stato (e per esempio a Federico il Grande che fu un completo uomo di Stato) che i suoi cittadini abbiano questa o quella fede religiosa, cioè “in qual modo ciascuno voglia guadagnarsi il paradiso”. Se, per esempio, gli abitanti dell’Anhalt volessero fondare per loro stessi una repubblica, l’impero come tale non farebbe obiezione contro la fondazione di questa comunità repubblicana così come non protesterebbe se gli abitanti dell’Anhalt mutassero la loro religione e si facessero cattolici. Soltanto se negasse l’essenza dell’impero a differenza dello Stato, il reggente dell’impero potrebbe lasciarsi sedurre commettendo il medesimo errore in cui caddero quei prìncipi che sorvegliavano le credenze dei cittadini dello Stato opprimendo la libertà di fede. Se egli invece intende nella sua essenza che cosa significa impero, i prìncipi sono di fronte all’impero e al reggente dell’impero quello che i prelati della Chiesa sono di fronte allo Stato e al capo dello Stato: come questi prelati sono il centro di quei credenti che la loro fede raccoglie attorno a tali centri, così in quel caso i princìpi sono il centro di quegli uomini sentimentali che appunto grazie ai loro sentimenti necessitano di tali punti centrali.

Questa differenza essenziale tra impero e Stato sembra essere la ragione per la quale oggi si aspira alla fusione dei singoli Stati in un impero. È davvero una lotta per la libertà questo volere uscire impunemente dai vincoli e dalla cittadinanza dello Stato. In effetti, questo impulso non sarà soddisfatto neppure dall’impero; ma esso ritiene di trovare in quest’ultimo, almeno provvisoriamente, quella stessa salvezza dal dispotismo della cittadinanza statale, che lo Stato offre a coloro che non hanno religione di fronte al dispotismo di un clero intollerante.

Del resto, gli indirizzi che arrivano da tutte le parti in merito a questo argomento si esprimono assai imperfettamente e mostrano più zelo nel cercare di dissolvere lo Stato prussiano, che imparziale comprensione della questione; quindi si fanno allo Stato dei rimproveri del tutto ingiustificati. Così per esempio, in un disinvolto indirizzo, del distretto di Reichenbach in Slesia all’Assemblea nazionale prussiana, è detto: “Uno Stato prussiano è finora esistito unicamente come conglomerato di paesi arbitrariamente congiunti con contratti e conquiste, con sudditi asserviti alla gleba, come possedimento privato; dominio o fidecommesso di una famiglia, non come libera comunità di diritto di un popolo”. Ciò è altrettanto falso quanto sarebbe il dire che una comunità ecclesiastica o religiosa sia un semplice “conglomerato”. Lo Stato prussiano fu piuttosto formato da persone che prestarono tutte una medesima professione di fede, quella di fedeli sentimenti verso il loro principe. Fu un vincolo spirituale, sentimentale, contro il quale, per la prima volta nel marzo del corrente anno, si protestò apertamente da alcune parti. È inesatto anche quanto segue: “Non c’è mai stato un popolo prussiano; perché l’unione violenta di molte razze tedesche in una associazione di sudditi sotto la sovrana dinastia prussiana, non fa ancora un popolo”. In quanto si può intendere per popolo una parentela di razza, una nazione, è certo che non ci fu un popolo prussiano, come non ci fu un popolo britannico a causa degli Irlandesi, o un popolo francese a causa degli Alsaziani; ma è anche certo che ci fu popolo prussiano, ed è certo che la dinastia ne fa un’associazione statale, come il papa fa di tutti i cattolici un’unica grande comunità ecclesiastica. “Noi, dice l’indirizzo, non siamo più Prussiani, perché non siamo più sudditi del re assoluto prussiano e non possiamo più esserlo senza tutte le condizioni di una sorte ragionevole e solo perché la nostra dinastia continui a regnare. Il reggente dell’impero, eletto come responsabile o come irresponsabile, può avere accanto alla sua qualità principale di essere un personaggio di valore come uomo di fiducia di tutta la nazione tedesca, anche la qualità di essere per caso un principe austriaco. Ma egli non è eletto come tale: noi gli diamo omaggio solo come personaggio cospicuo e nobile; solo perché egli impersona l’unità tedesca ed è quindi il primo punto della nostra libertà collettiva”. Questo suona come se gli autori dell’indirizzo aspirassero soltanto a uno Stato più grande, ad uno Stato che comprendesse tutti i Tedeschi. Non si capisce però se ciò che li spinge a dichiarare decaduta la dinastia, cioè lo Stato, e a manifestare simpatia per l’impero sia, più che la “libertà collettiva”, la libertà di violentare le opinioni.



[“Journal des österreichischen Lloyd”, Trieste, n. 211, 12 settembre 1848]

28) Manchevolezze del sistema industriale

Quanto fu leggera la promessa del governo provvisorio di Francia che il 25 febbraio chiese solo “due giorni per restituire al popolo la tranquillità che genera il lavoro”, tanto numerosi sono i rimproveri che subito dopo si mossero a quel governo ed ancora oggi gli se ne fanno. Come colpa capitale gli si rinfacciano le fabbriche nazionali e l’abbreviazione dei tempi di lavoro. Ovviamente questi sono istituti che nelle presenti condizioni industriali non si possono difendere né conservare. Ma se ora i borghesi si lamentano di queste “effeminatezze degli operai” e incolpano il governo, agiscono troppo da innocenti. Subito dopo la rivoluzione di febbraio gli stessi borghesi si preoccupavano di alleviare le selvagge sofferenze degli operai ed erano disposti ad accettare sacrifici per “restituire al popolo la tranquillità che genera il lavoro”. E, temporaneamente, quelle “effeminatezze” tranquillizzarono e fecero guadagnare tempo. Per cui esse non ripugnavano a quei borghesi che oggi vi individuano un delitto di Stato, ma erano benvenute come espedienti contro le tempeste proletarie.

Ma in che consiste dunque la saggezza degli odierni censori? Essi dicono che le presenti condizioni dell’economia, non si accordano con l’Istituto dell’industria nazionalizzata e con la riduzione della giornata di lavoro. Nazionalizzando le fabbriche si rovina l’industria privata e si consuma enormemente il denaro dello Stato. Così si calcola, per esempio, che il metro quadrato di sterramento, che sarebbe dovuto costare 40 cent., veniva ad ammontare a 8 franchi, e che un salario giornaliero di 2 franchi forniva soltanto 10 cent. di lavoro; che i calzolai di queste fabbriche fornivano per 8 franchi scarpe che si vendevano a 4 o 6 franchi e così rovinavano il commercio, ecc. Tutto ciò è evidente e condanna le fabbriche nazionali.

Ma se non vanno bene i nuovi istituti coi quali il governo provvisorio pensò di eliminare i mali di prima, ciò non significa che si possa tornare al vecchio sistema industriale, quale dopo la prima rivoluzione si sviluppò fino a grande prosperità, perché, per quanto si lodi questo sistema, non si può negare almeno una grande manchevolezza nei suoi risultati. Una prodigiosa indigenza e una grande fame presso la maggioranza degli uomini. Un raffronto fra il 1805 e il 1848, eseguito nel n. 215 di questo stesso giornale, sotto il titolo Risultati industriali, dimostra che in tale spazio di tempo il consumo medio di cereali e di carne, in Prussia, non è aumentato, e troppi oggi devono ancora fare a meno della carne; quindi non si migliorò per la “sorprendente fioritura della industria”. Sta qui il marciume e la ragione per cui il governo provvisorio di Francia (dal momento che il sistema ebbe dappertutto gli stessi effetti, in Francia come in Prussia) ricorse alle sue false misure. Non è il governo che ha colpa, ma il sistema, il quale aveva creato fino da febbraio del 1848, lo stato di miseria che il governo provvisorio trovò e gli operai tentarono di distruggere quando sembrò loro che con la rivoluzione politica fosse giunto il momento favorevole. Se dunque gli attuali rappresentanti del popolo francese pensano di far marcia indietro, s’ingannano più del governo provvisorio, il quale almeno riconobbe lo stato di miseria. La Francia possiede risorse naturali che gli possono permettere di far vivere i suoi abitanti infinitamente meglio di adesso, e poiché i suoi abitanti sanno tutto ciò e vengono senza tregua illuminati dai loro socialisti, è vano cercare di ricondurli al passato. Essi vorranno sempre più che la Francia li nutrisca bene, perché può farlo se bene amministrata. Cioè: essi vorranno una nuova economia, basata soprattutto sulla trasformazione dell’agricoltura. La Francia può fornire di più per il benessere dei suoi figli, quindi deve fornire di più. A questa aspirazione, a quanto sembra, i figli della Francia non rinunceranno più.



[“Journal des österreichischen Lloyd”, Trieste, n. 219, 21 settembre 1848]

29) Marina da guerra tedesca

La nostra stampa sogna da anni una flotta da guerra tedesca; ora, finalmente, si fa un poco più sul serio delle utopie, non solo cominciano gli stanziamenti, ma anche uomini esperti si occupano teoricamente del progetto. Adalberto, principe di Prussia (un cugino del re), sviluppa tre possibilità in un Denkschrift über die Bildung einer deutschen Kriegsflotte [Memoria sulla formazione d’una flotta da guerra tedesca]. Si potrebbe creare: 1) Una flotta da guerra per la protezione delle coste puramente difensiva. 2) Una flotta da guerra per la protezione offensiva e la necessaria tutela del commercio. 3) Una forza navale autonoma. “Per ora”, il principe considera solo la Germania del nord, mentre per le coste adriatiche osserva che “per la Germania unita sarebbe molto importante ricevere l’ottimo porto da guerra austriaco di Pola, nella punta meridionale dell’Istria, perché il porto e la rada di Trieste potrebbero difficilmente supplire alla perdita di Pola, a parte il vantaggio mercantile di una forza navale tedesca. Il collegamento ferroviario tra l’Adriatico e il Baltico e il Mare del nord renderebbe facile lo spostamento di marinai, provviste, ecc., fatto importantissimo per una futura marina da guerra tedesca”. Per una marina da guerra nel nostro settentrione egli insiste in nome del pericolo russo. Le chiare parole di un principe prussiano contro la Russia, sono certamente degne di nota, anche se apparentemente vogliano essere soltanto strategiche. Adalberto dice: “Se ci domandiamo quale dovrebbe essere il minimo di vascelli di linea necessario per agire come flotta indipendente nelle acque europee, specialmente di fronte alla sempre pronta flotta russa del Baltico, crediamo di dovere ammettere venti vascelli di linea come minimo. Una squadra minore non basterebbe perché sarabbe troppo debole di fronte al nostro vicino più prossimo e pericoloso. Si obietterà: come è possibile che la Russia debba essere il nostro pericoloso vicino? Ma senza dubbio è così perché mentre l’Inghilterra non concentra mai una flotta così grande in tempo di pace, nemmeno nel Mediterraneo, come fa ogni anno la Russia nel Baltico, anche la stessa Inghilterra per la sua imperfetta legge di richiamo alle armi, ha bisogno di molti mesi per equipaggiare un numero di vascelli eguale a quello che la Russia può mettere in mare al primo cenno del suo imperatore. In realtà, 18 vascelli incrociano in estate nel Baltico, mentre altri nove (non considerandone un paio di riserva), sono sempre pronti ad essere armati in ogni momento. Però la flotta tedesca sarebbe in vantaggio, perché trovandosi già in mare da tre o quattro settimane, e meglio addestrata, potrebbe bloccare facilmente nei suoi porti la flotta nemica chiusa ancora dai ghiacci, o potrebbe gettarsi fra la squadra di Reval e la flotta di Kronstadt per separarle e forse batterle una per volta”.

Per quanto riguarda le tre diverse possibilità di una flotta tedesca da guerra, secondo Adalberto, per proteggere le coste, ci vorrebbe una flottiglia di 40 cannoniere almeno, di 80 navi armate di cannoni, con l’aggiunta secondo la situazione di numerosi altri battelli sempre forniti di cannoni. Anzitutto, dice, che queste navi devono essere messe in grado di dominare i canali interni per isolare la flotta russa dal suo esercito e impedire la loro collaborazione. “Chi può negare che la flotta russa sia in grado di mandarci addosso improvvisamente trentamila uomini sulla sua flotta baltica?”.

Se poi la flotta da guerra dovesse servire ad una protezione offensiva e alla necessaria tutela del commercio, la sua forza minima sarebbe: 6 fregate da 60 cannoni, 12 corvette o fregate a vapore di 850-1300 tonnellate e di 350-560 cavalli, 40 cannoniere, 80 navi armate di cannoni, un certo numero di bastimenti e rimorchi presi a prestito.

Con ciò però non si può pensare di svolgere una funzione autonoma sul mare; si potrebbero al massimo difendere le spiagge di fronte a una delle grandi potenze marinare. Il porto principale sarebbe ubicato sull’Elba o nei dintorni di Glückstadt o presso l’isola di Krautsand.

Il terzo caso infine è quello che permetterebbe alla Germania di essere una potenza marinara indipendente: 20 navi di linea, 10 fregate, 30 vapori, 40 cannoniere, 80 navi armate di cannoni, ecc.

La Germania sarebbe bene in grado di armare una simile flotta. In tal caso il principale porto di guerra dovrebbe essere Danzica come hanno già riconosciuto Napoleone e Pietro il grande; il primo vi voleva fondare un grande porto militare e il secondo si lamentava di non esserne in possesso per farvi stazionare la sua flotta. Danzica giace nel punto più largo del Baltico all’incrocio tra la costa meridionale e l’orientale; in più fiancheggia ogni movimento della flotta russa che si dirige dai mari finlandesi verso il sud e viceversa, controllando anche ogni colpo diretto contro Kronstadt da una flotta inglese nel Baltico, in questo modo coprendo i fianchi degli eserciti tedeschi e, per mezzo della sua capacità offensiva, proteggendo le stesse coste situate a ovest.

Le spese annuali complessive per una tale marina dovrebbero, ammortizzando in 10 anni il costo di costruzione della flotta e dei porti, valutarsi intorno agli 8 o 9 milioni di talleri.



[“Journal des österreichischen Lloyd”, Trieste, n. 220, 22 settembre 1848]

30) Borsa merci

L’industria, minacciata dalle circostanze presenti e dalla profonda caduta del credito, è stata aiutata dal governo prussiano con la creazione di casse di prestito. Fu emessa una moneta cartacea definita Buoni di Cassa e Prestiti, per 10 milioni di talleri, con cui si accordano prestiti contro pegno di merci e titoli fino alla metà del valore del pegno. Ma questo Istituto non ha risposto allo scopo per il quale è stato creato. Anzitutto il debitore dando in pegno la sua merce non può più disporne, ed è quindi logico che frattanto perda di valore; mentre lo Stato, creditore, rischia di non venire pagato, e dovendo vendere la merce all’asta, raramente ricupera tutto il suo credito; e finalmente è danneggiata la situazione commerciale, poiché la merce venduta all’incanto a prezzi molto bassi, influenza tutto il mercato.

Il commerciante Neuman, in uno scritto (Die Reorganisation des Handels durch die Erweiterung des Instituts der Darlehnskassen zu einem Zentral-Handels-Bazar [La riorganizzazione del commercio mediante l’allargamento dell’Istituto delle Casse di Prestito in una Borsa merci centrale del commercio], Berlino presso Reuter e Stargardt, 1848) ha proposto quindi di tramutarlo da una semplice agenzia di pegni in un deposito commerciale centrale. Le merci che giacciono inutilizzate, devono poter esser vendute sotto la guida dell’Istituto dei prestiti, nell’interesse del debitore, quando c’è l’occasione propizia. In tal modo si permette ai commercianti di ricevere denaro in cambio delle loro merci che non resterebbero più sottratte al mercato, e il credito se ne gioverebbe. Moltissimi commercianti utilizzeranno questo Istituto, e con tale movimento economico e finanziario, lo Stato avrà la possibilità di fruire di un importante reddito, permettendo nello stesso tempo all’Istituto di diventare veramente il centro del commercio di tutto lo Stato.

Non c’è dubbio che l’Istituto possa precisamente per mezzo della progettata formazione di una Borsa merci, che sarebbe una specie di esposizione industriale permanente, recare quelle utilità che è destinato a produrre. Indubbiamente il progetto di un bazar industriale di vendita all’ingrosso, converrebbe anzitutto soltanto alla capitale o forse a qualche grande città, le quali con ciò diventerebbero centri di commercio. In modo minore anche altre città potrebbero fondere le loro sale pubbliche di vendita e, appoggiate per associare queste sale con mutui dello Stato, o con associazioni proprie, trovarsi meglio di quanto non si siano finora trovate con le vendite isolate.

Senza dubbio con questo sistema verrebbe a soffrire il commercio degli intermediari; la qual cosa ammette anche l’autore. Ma penso – egli dice – che la ripercussione sul commercio degli intermediari sia appunto una buona raccomandazione per il mio progetto. Il commercio degli intermediari nella sua forma presente è ormai superato. Ma nella sua forma odierna il commercio di commissione non fa questo, piuttosto non è che un parassita della produzione rincarata così del 10 o 15 per cento con grave danno di chi deve affrontare la concorrenza estera. A ragione si favorisce con patenti ecc., l’industria delle macchine, ma per quanto questa sia utile all’umanità, tuttavia solo certi metodi di fabbricazione con essa possono essere agevolati, cioè possono eseguirsi a prezzi più bassi. Con lo sfrondamento del commercio intermediario invece verrebbero ad essere ribassati i prezzi di tutte le merci, con grande vantaggio dei consumatori e degli stessi produttori. Infine gli intermediari inoccupati potrebbero entrare a far parte dell’utile classe dei produttori, concorrendo così ad accrescere il benessere generale. In Inghilterra ed in Francia, in paesi cioè che hanno un’industria più sviluppata della nostra, in realtà non c’é un commercio di intermediari come da noi. In Inghilterra non esistono né fiere né credito: uno stesso gruppo di merci viene fabbricato in centri determinati dove i compratori si recano ad acquistare, in modo che il produttore si libera della sua merce contro contante ogni settimana, in casa sua o presso il mercato più vicino. In Francia invece si usa un sistema simile a quello indicato da Neumann; tutti gli affari si svolgono a Parigi che è la Borsa merci di tutta la Francia, ed in più, una fiera permanente.



[“Journal des österreichischen Lloyd”, Trieste, n. 222, 24 settembre 1848]

XIII
Ultimi ritrovamenti

1) Recensione a Theodor Rohmer, Deutschlands Beruf in der Gegenwart, Zürich und Winterthur 1841.

Com’ero contento da bambino quando, disteso sul pascolo verdeggiante, avvolto dall’aria di primavera, guardavo in alto il cielo blu e sognavo il mio brillante destino: dovevo diventare un grand’uomo, viaggiare in un tiro a sei, spargere oro a piene mani dalla carrozza, venire ringraziato dalla grande folla e dal popolo povero e attonito, resi felici da me, costruire palazzi di fate fatti d’ambra e farmi servire da rosee fanciulle in giardini fioriti. Se avessi potuto mettermi all’opera subito sarei oggi sicuramente un grand’uomo, ma purtroppo potevo solo diventarlo e pertanto non lo divenni. Chi non si sente gonfiare il petto di forti speranze e battere il cuore di dolce impazienza leggendo una pagina dopo l’altra del nostro libro, e chi non vede a quali azioni è predestinato il popolo tedesco e che cosa potrebbe diventare. Sì, siamo chiamati all’“egemonia, la natura tedesca porta il marchio della supremazia spirituale, ed è benedetta particolarmente da una quantità di talenti che nessuna nazione possiede in tale misura. Capacità politiche e militari, filosofiche e scientifiche, poetiche e artistiche, musicali e linguistiche, industriali e nautiche, mercantili e tecniche. Tutto ciò condiviso riccamente tra noi che, uguali ad ogni altro popolo nei singoli individui, lo superiamo nell’insieme. La Germania è sicuramente un regno costituzionale, in quella grande comunità che si chiama Europa” (p. 169). Ah! Si deve essere incapaci di gioire, di nutrire fiorenti speranze ed essere privi di dolcezza, di amor di patria e di umanità, se non si vuole, con l’autore, desiderare ardentemente, esigere con coraggio, aspettare con gioia e sognare come fanno i giovani. Io con lui ho preteso, atteso e sognato, nutrito il mio amore con l’entusiasmo e rafforzato la mia fede con speranza, goduto in quantità, perché allora sono scontento di questo libro? Perché non vi trovo la passione che risveglia gli animi degli uomini, perché anche qui mi viene incontro la benevola incompiutezza che vuole conciliare senza prima separare, che non è la spada del Cristo, ma la pace, in cui non arde nessuna rabbia, in cui nessun odio si consuma, nessuna ira, in cui questo stesso entusiasmo non è altro che un fuoco di paglia, e le parole di resurrezione non sono altro che intelligenza politica e diplomatica, che invece di favorire l’introspezione e l’approfondimento delle nostre anime prostrare, si parla solo di punti di vista. Dato che l’autore vuole liquidare i nostri difetti (e che difetti!) in una sola pagina (la 171) e dato che tutto il capitolo è senza fatti concreti, non posso considerare importante nemmeno il rifiuto dell’Hannover e del Mecklenburg di entrare nell’associazione doganale, ecc., ecc. Solo accidentalmente pensa alla stampa e all’ordinamento del tribunale, poi conclude nel modo seguente: “allontaniamoci dal triste spettacolo e consideriamo la visione che ci offre il futuro” e questa finezza la giustifica con le parole “dove il male è così profondamente radicato è inutile illustrare le singole mancanze, non perché ciò non sia necessario o degno di fatica, ma perché la chiarificazione non ha più effetto, mentre ci sono tante cose in cui la nazione ha maggiore chiarezza e profondità, e dove la comprensione è più facile. Tuttavia le cose non vanno così male, nonostante la voce pubblica”. La nazione ha la visione più chiara su alcune cose, ma da dove la può ricavare? Quanti leggono, per esempio, in tutta la Prussia qualcosa di diverso dai giornali di Stato e dai pochi altri giornali privilegiati dove si discute solo di festività e di orrori, che alla gente piacciono tanto? Quando vengono discussi i grandi temi della nuova epoca, come la libertà di stampa, l’informazione pubblica, come se non fossero incombenti, oppure come se dovessero trattarsi solo negli uffici del Ministero degli Esteri? Si vada nelle province e si impari ad apprezzare gli indicibili vantaggi della censura. In nessun altro luogo si trova una così grande quantità di stupidaggini per quel che riguarda le sante e non sante domande sulla vita dello Stato. E questa stupidità è così radicale che impedisce la penetrazione di un sia pure piccolo raggio di luce in questo buio primordiale. Solo un fulmine potrebbe portare una illuminazione capace di accendere un fuoco e avvolgere tutto. Vedo di già una nuvoletta oscillare nel più profondo orizzonte, per dire il vero ancora modesta e timida, e la vedono anche molti altri insieme a me, occhi di bambini innocenti, e penso che ci sarà un piccolo temporale dopo i giorni umidi.

Un libro apparso nella Svizzera della libertà di stampa dovrebbe svelare le nostre vergogne, strappare la nostra apparente veste santa da pretaccio dall’anima di lupo. Non tirate, non raccomandazioni, non noiose riunione separate, ma scoperture prive di delicatezza, in modo da fare battere i denti e irrigidire le membra mettendo a nudo il bambino sotto l’invernale gelo nevoso dell’uomo, dando vita a una infinita richiesta di aiuto e a un sudore salvifico che permettono di raggiungere la nuova dimora. C’è un libretto di quarantasette pagine (non possiamo nominarlo) che è diventato noto in pochi mesi come il giornale di Spener e conosciuto come venti annate di tutti i giornali rivoluzionari. Questo libretto è arrivato a risvegliare in maniera incomparabilmente semplice le convinzioni e a rivoluzionare gli spiriti. Da questo scritto l’autore avrebbe potuto imparare ad essere popolare, ma egli è tedesco calzato e vestito. Lo si ascolti (a p. 201). “Per prima cosa deve essere sezionata l’anima, riconosciuta la sua costruzione, devono essere provate le sue funzioni, il suo sviluppo dalla nascita fino alla morte, devono essere descritti i singoli stadi, rielaborate sulla base dell’insegnamento fornito dallo spirito degli individui, degli individui uniti, razze, popoli, nazioni, stirpi, famiglie. Poi viene l’umanità. In questo senso, per la prima volta, si devono aprire gli occhi, si deve riconoscere che l’epoca della maggiore età è con ciò compiuta. Quanto più cresce in questa maniera, gradualmente, il riconoscimento di sé, tanto più genericamente si conosce la coscienza psicologica di se stessi nelle masse, tanto più possibile diventa raggiungere il massimo, ciò che la storia riconosce come Stato perfetto”. Non deve apparire come una sottile perfidia il fatto che ho scelto questo punto ridicolo, in cui viene offerto alle masse di studiare la psicologia con lo scopo ampiamente dettagliato di arrivare alla formazione dello Stato perfetto, in quanto questo tipo di autocoscienza non è un puro caso, non sono grilli senza significato ma pensieri alla base di questo libro. Ci si può meravigliare che l’autore si infiammi così entusiasticamente per il suo essere germanico visto che non lo riconosciamo come profondo tedesco? Comprendete – dice il signor Rohmer – il carattere e l’essenza dei Russi, dei Polacchi, dei Francesi, degli Inglesi, degli Spagnoli, dei Cinesi e degli Indiani, in breve, di tutti i popoli della terra, comprendete i vostri e confrontatevi con tutti. Allora vedrete che voi siete chiamati all’egemonia come popolo “benedetto” e farete salti mortali per conquistare questa egemonia con l’unità. In ogni concetto il mio libro deve aiutarvi, in esso tutti i popoli sono passati in rassegna e se voi l’avete assimilato e avete lasciato abilmente che riesca ad entrare nei vostri cuori, arriverà un Paracleto per “svegliare il migliore fra di voi”.

D’altra parte il Paracleto verrà solo quando sarà compiuto il suo tempo. Spetta a noi dargli corpo e fare penitenza con sacco e ceneri. Andate attraverso il paese, voi predicatori, entrate in ogni capanna, predicate discordie e violenze e non il debole pascolo dell’unità e la confortevole contentezza, flagellate le anime addormentate come si uccidono le mosche, non con speranze consolatorie, non con l’abitudine a tutti gli orrori che i fiduciosi credenti tengono nascosti. Cosa vuole l’appello del signor Rohmer per l’unità? Non siamo forse uniti noi Tedeschi? Non cantiamo tutti il Salmo “Che cos’è la patria tedesca”? Non si incontra lo svevo con l’abitante di Hannover, il renano con il sassone? Non si incontrano tutti i Tedeschi insieme con amicizia e fiducia, e non ci sentiamo tutti uniti nella parola “tedesco”? Questo il signor Rohmer lo sa bene come noi – e ciononostante ci reputa disuniti. Con quale diritto? Purtroppo con troppa fondatezza. Siamo uniti come un grande branco di pecore che brucano l’erba con pacifica vicinanza, spargiamo il concime nel campo con una involontaria bontà, ci facciamo mangiare e tosare nei pressi. Di tanto in tanto si presenta anche il lupacchiotto e, se è un ragazzo subdolo, con cautela, in sembianza di pecora, anche se non sarebbe necessario in quanto ci sono tanti esemplari zelanti che si sottomettono come se acconsentissero al proprio appetito.

Le pecore sono unite ma non hanno volontà. Destituite gli uomini senza volontà e i cuori sanguinanti si arricchiranno di un unico spirito. Mostrate le debolezze di tutte quelle autorità che dovrebbero presiedere al cambiamento umano, dove qualcuno potrebbe aver fatto il nido, vista la loro misera indole, ed ecco svanire ogni traccia di diritto. Così non comanderanno più all’uomo libero. Togliete tutti i sostegni ai quali il loro scarso coraggio si appoggia, mettete a nudo l’indole infantile di tutta quella magnanima fedeltà, di quella inerte fiducia piena di dedizione, di quella venerazione erudita, in breve, seppellite ogni credenza che non sia un credo dello spirito nello spirito, ogni sentimento di dipendenza. Solo se l’uomo si vede solo e abbandonato torna in sé e ritrova il coraggio, una forza gigantesca tende i suoi muscoli, la volontà si sviluppa e riconosce se stesso e la sua forza. Così si spoglia con coraggio e freschezza, strappa le bende del credo cieco e della vile fedeltà. Solo il bagno rugiadoso del mattino anima l’uomo nudo alla libertà. Abbiate solo il coraggio di distruggere e vedrete presto quale bellissimo fiore di armonia sboccerà dalla fertile cenere.

Non c’è altra salvezza fuori del possente pensiero che colma il nostro spirito e di una entusiasmante volontà che ci porta all’azione. Dove si trova in noi questa beatitudine assetata di azioni e alimentata da una grande idea che, con notevole sacrificio, costruisce un inarrestabile mondo e una propria esistenza? Noi Tedeschi conosciamo infatti molte cose e sicuramente altrettante sono a nostra infamia e a nostra vergogna. Ma possiamo essere orgogliosi solo di una cosa: della nostra libertà di pensiero, dell’entusiastico significato dell’io. Quindi siamo liberi soltanto nel regno del pensiero, ma non siamo orgogliosi di questa libertà. Nessun popolo avrebbe diritto come il nostro a scrivere a lettere maiuscole il proprio io quanto il popolo tedesco, ma esso lo nasconde in un recondito posticino e lascia all’io inglese la precedenza. Lasciateci provare l’onnipotenza del nostro io – che i Tedeschi seppero identificare con lo spirito, mentre il ristretto io dell’inglese sta ancora sottomesso alla dispotica autorità della Chiesa e quello francese scivola sotto il dominio della gloria. Fateci approfondire ciò e saremo orgogliosi. Sì, l’orgoglio ci manca, solo l’orgoglio, cacciamo via l’umiltà che ci piega e ci fa strisciare. L’uomo è se stesso! Non chiedete quali sono i doveri che si abbattono su di voi. Datevi voi stessi le leggi, e solo allora seguitele con la vostra volontà: solo così sarete liberi!

È il momento di seguire il libro su cui mi ristoro nelle sue diverse parti, e lo voglio fare in maniera radicale (nulla è meglio dell’essere radicali, il resto si ferma sempre a metà). Il convincimento che la Germania ha il compito di avere l’egemonia attraversa tutta la dissertazione. Ciò spinge l’autore a cercare la posizione dei Tedeschi e quindi a un confronto con le altre nazioni, ognuna secondo il suo compito, il suo destino e la sua storia. Per iniziare, la coscienza tedesca viene esaltata, con ragione, più della minorità politica. È poi la volta della situazione dell’Europa, storicamente considerata con ampiezza e approfondimento spirituale: qual è il compito dell’Europa? La storia dimostra che la Germania fu sempre decisiva e che fu il cuore dell’Europa. Ora, dice infine l’autore, “i Tedeschi devono, dopo aver distrutto gli altri, farli rinascere. Il protestantesimo, poiché sapeva quello che faceva, ha aspirato alla verità. Adesso deve creare dal suo centro un principio che possa risolvere i problemi più intimi dello spiriti e del tempo”. Il protestantesimo viene naturalmente identificato con la Germania in maniera un po’ impertinente. “Questo principio” continua “calmerà la più profonda nostalgia dell’umanità, la nostalgia di una visione della vita giustamente completa, secondo un consapevole rapporto degli uomini con Dio”. Voglio affermare ancora una volta, come ho detto sopra, che la nostalgia non è rivolta a una visione della vita completa, ad una soddisfazione teorica, ma ad una libera autoaffermazione. La passione di Goethe si è spenta nell’aspirazione che animava Schiller. Non è importante come l’uomo si comporta verso Dio ma come Dio agisce in quanto libero spirito producendo se stesso. Questa è ora la domanda e la nostalgia del tempo. “Il secolo lotta per la fondazione organica del vero Stato”, dice l’autore (p. 44). Questo scopo, affermato dal signor Rohmer, ci travia molto e per molto tempo, come se volessimo agire e produrre qualcosa in maniera diversa da noi stessi. Noi dobbiamo ricostruirci, manifestare noi stessi e renderci liberi. Lo Stato non si lascia creare, solo la libertà è la manifestazione dello spirito e degli spiriti. Lo spirito libero si interessa a tutti gli spiriti come lui agendo bene, ed è così che nasce spontaneamente fra tutti gli spiriti liberi la libera società degli spiriti, al quale da sola si guadagna l’appellativo di Stato. Di fronte a questo lo Stato che si può costruire come un pensiero imposto impallidisce – come la Chiesa di fronte alla luce della libertà divenne da visibile Chiesa invisibile, così lo Stato deve diventare invisibile e spirituale. Il signor Rohmer è però ancora e sempre intenzionato a fare di una condizione degli uomini uno status-Stato, nel quale essi, bene o male, devono trovare la libertà del loro agire, e quindi ripete la litania dei nostri giorni e si pone domande in maniera superficiale e parla di Stato, Chiesa, Nobiltà, di due Camere, ecc., ecc., come di cose che possono essere poste come domande e non capite direttamente. Perciò si tortura riguardo il rapporto tra Stato e Chiesa (per esempio, alle pp. 206 e sgg.) e gioca il ruolo di conciliatore ricco d’amore.

La Storia non ha dimostrato, da parte sua, a quale ruolo importante sia chiamata la Germania, così risulta anche dal giudizio di altri popoli. “L’ubicazione politica dell’Europa, la posizione dei popoli, degli Stati, la condizione dei loro sforzi, devono mostrarci il compito al quale la Germania è destinata. In verità, all’epoca della Riforma, ancora più chiaramente, per lo meno per quelli che guardano solo alla superficie, dalla Rivoluzione in poi, l’Europa è stata presa da un continuo fermento: tutta solo passaggi, crisi e riprese. La Nuova Era, che in così indicibili agonie, tiene tesi gli uomini, deve ancora nascere. Le doglie del parto, convulse e violente, lentamente ma con dolore, la storia d’Europa le ha mostrate nel 1789 al mondo intero”.

Nei quattordici capitoli della seconda parte viene discusso l’argomento europeo da più punti di vista. La cosa più importante, che noi approfondiamo, ma che abbiamo dovuto condensare con spiacevoli allusioni, è: “siate uniti e due grosse forze verranno animate dal vostro volere e sarà una forza con due braccia. Siate uniti e l’Olanda vi offrirà lo spirito forte e antico, ciò che è la natura dei Tedeschi, in Belgio e in Svizzera si tornerà con o senza pretese alla nuova luce. Siate uniti e la Scandinavia vi tenderà la mano. Siate uniti e l’Inghilterra cercherà il vostro contatto, nel primo momento del pericolo. Siate uniti e la Russia tremerà e la Polonia spererà. Siate uniti e l’Austria, nella doppia posizione di base, pungolata da Germania e Ungheria, innalzerà il vostro volere a legge – sulla questione dell’Oriente. Siate uniti e l’Italia bramerà da voi il suo futuro. Sì, con la vostra unità voi costringerete il Portogallo, la Francia, la Spagna a essere uniti. Siate voi stessi uniti e sarete il primo popolo della terra” (p. 161).

Ma da dove deriverà questa unità? Con che cosa deve essere creata? Un principio pretende sia giunto il momento di distruggere i falsi poteri, di crearne di nuovi e di annunciare la verità. E il creatore di questo principio, che il Signor Rohmer conosce da sé e che non può, in nessun modo nominare in quanto filosofo, deve essere la filosofia. “Noi tutti sappiamo che solo la filosofia tedesca può porre la base per un più alto futuro” (p. 188). Siamo arrivati con ciò al capitolo finale del libro. Dobbiamo compatire, qui, il fatto che l’autore conosca così poco l’argomento di cui discute. Vuole naturalmente solo “descrivere l’effetto generale della filosofia sul tempo e sugli uomini”. Come può capire però gli effetti senza comprendere ciò che li produce? Egli non vedrà i numerosi effetti della filosofia, prodotti dalla stessa, perché i suoi occhi non ne hanno mai visto la fonte. Quando un osservatore enuncia da lontano le osservazioni più sensate e ci apre l’orizzonte a qualche amara verità, non incontra con ciò l’intima essenza della realtà, specialmente per quanto riguarda il significato della filosofia di Hegel. Così finisce per cedere del tutto all’ignoranza in maniera ingenua e negativa, come fa la gran parte dei nostri incerti fratelli del Sud, che già da lungo tempo siamo abituati a vedere in questo modo.

Fichte è per lui “unico, un uomo del tutto diverso” e la nazione tedesca deve ritenerlo un santo o uno dei suoi salvatori. Se Hegel infiamma la gente non più con il motto “Dio e la Patria”, ma invocando una guerra vendicativa, dov’è l’errore? Devo unirmi all’autore su Hegel e la sua filosofia o devo porre una domanda sugli effetti che ne derivano ai suoi stessi salvatori? Lo ritengono un uomo serio e penso che il suo libro farà gioire tutti quelli che non sono di sentimenti fiacchi, ma di questi problemi non capisce nulla. Chi, per esempio, conoscendo la psicologia di Burdach o di Schubert, per tacere di Hegel e di altri venuti dopo di lui, può pensare di chiamare scienza quel povero conglomerato di notizie e di osservazioni che possediamo oggi? E quelle meraviglie che capisce il Signor Rohmer, soprattutto di psicologia, le abbiamo citate sopra (p. 312).

Eppure egli ha chiamato tutto ciò “dottrina dello Spirito” e si aspetta dalla sua realizzazione giorni dorati. A p. 200 tratta non solo di problemi di filosofia, ma anche dei risultati ai quali essa deve portare, rispondendo ai bisogni del cuore e dello spirito, nonostante che poco prima (p. 196) non volesse prendere in considerazione simile Scolastica. Naturalmente la filosofia possiede una sua nuova formulazione ma non corrisponde ai desideri e agli effetti ipotizzati dall’autore che pertanto resteranno non appagati, specie riguardo la conciliazione dei concetti di fratellanza tra Stato e Chiesa, poteri dei principi, ecc., ecc., “che non sono né nuovi né tanto meno radicali”. Purtroppo non possiamo sottrarci, giunti alla fine, come per tutto il corso del libro, alla triste considerazione che l’autore predica la sua profetica “visione del mondo” per lo più a orecchie sorde. Chi volesse realizzarla lo farebbe esclusivamente per creare il proprio potere, senza nessuna intenzione internazionalista. Gli altri, per altro non ancora convinti, non sono liberi dai propri fanatismi.



[“Die Eisenbahn”, IV, n. 77, 1841, pp. 307-308]

2) Poesie

Nuove costruzioni
Muratore
Perché ti affaccendi con la cazzuola?
Diventerà una casa di piacere?
Mi pare che non metterai grandi folle lì dentro.
“Diventerà un harem per belle donne?
Costruiamo per l’uomo nuovo”.
Muratore
Perché ti affaccendi con la cazzuola?
Come unisci malvolentieri al buio i massi
Chi sarà l’inquilino della casa?
L’oscurità di una casa buia…
Presto entreranno e usciranno persone incappottate.
Muratore
Perché ti affaccendi con la cazzuola?
Sono stretti e piccoli gli occhi delle case, vero?
A malapena può entrare un po’ d’aria
Evviva la parola libera, evviva l’aquila ardita,
Costruiamo una casa per i morti”.

G. Edward



[“Die Eisenbahn”, V, n. 58, 1842, p. 1]

In montagna
Scorre il torrente, fuma la valle;
La nebbia stringe il raggio di sole.
Voi montagne splendenti della mattiniera luce,
Cantatemi forte quella libera canzone:
Svegliati, popolo tedesco!
Piena di vita si alza la nebbia;
Quale forma va assumendo?
Bellissima vergine,
Azzurri gli occhi e dorati i capelli,
Svegliati, popolo tedesco!
Al viandante brilla l’occhio,
E una lacrima dentro vi splende.
Chi sei, stupenda fanciulla,
Che l’immagine divina del sole adorna?
Svegliati, popolo tedesco!
“Nella foresta di querce di Germania son diventata grande,
Nel ventre tedesco forte son cresciuta.
Mi chiamo Libertà, ma son bandita
Dal teutonico senno dalla germanica landa”.
Svegliati, popolo tedesco!
Non sei più disconosciuta né bandita,
Il figlio di Germania si è fatto uomo
E ti loda in questa libera canzone,
Che presto trascinerà all’azione.
Svegliati, popolo tedesco!
Guarda, la figura è scomparsa.
Il giorno chiaro riempie le valli.
Voi montagne, splendenti della mattiniera luce,
Cantatemi quella libera canzone:
Svegliati, popolo tedesco!

G. Edward



[“Die Eisenbahn”, V, n. 73, 1842, p. 1]

A una madre
Come il fiore, chinando leggermente
La corolla verso la sorgente
Vede la sua immagine nel luccichio dell’onda,
Silenziosa nella sua felicità,
Così tu guardi, o bella madre, con dolcezza,
Sorridendo, in basso, verso il bimbo
Vedi come in uno specchio la tua essenza.
Vegliando sul suo sonno
Cacci via le mosche e i brutti sogni.
Ricche d’amore nella gioia e nel dolore
Sono le pieghe del cuore materno.
La tua anima fa intuire
La lotta per la sua vita.
Allora non potrai opporti ai dolori
Del tuo amato figlio
Quando nel suo cuore
Passione e dispiaceri lo tortureranno.
Perché non lo hai fatto nascere
In un mondo ricco di felicità.
L’uccello sente il suo volteggiare
E prende la sua via.
Felice è colui che ora ha scelto
Una buona spada.
Madre che ami, sussurra
Al bambino leggiadro il nome della Libertà!
La grande saggezza di questo suono
È un fertile concime nel suo cuore,
Come un buon seme!
Instilla nel fanciullo
La passione per la libertà!
Affiorino dal profondo della sua anima
Nobili impulsi,
Così che l’uomo, lontano da una vile cecità,
Lotti per la libertà,
Che gli si avvicina come lo spirito di fanciullezza
Sulle ali dell’amore materno.
Che il frutto del tuo corpo
Non debba piegarsi ai favori del Principi.
Per educare degli uomini liberi,
C’è la divinità della donna.
Piangi? Sì piangi di gioia!
Non per le generazioni future,
attanagliate dalla paura,
Vedi, sorride il piccolo,
Rose fioriscono sulle sue guance!
Che possa istintivamente avere dei sogni
Pieni di presentimenti.
Dio della Libertà, dio dell’Amore!
Proteggi madre e figlio.

G. Edward



[“Die Eisenbahn”, V, n. 79, 1842, p. 1]

Viaggio sull’acqua
Il remo era fermo
L’imbarcazione viaggiava da sola.
Le rocce coronate di abeti
Ombreggiavano ampiamente il lago.
Saltava fuori dai cespugli
Il ripido e snello capriolo.
Lo spirito creativo della Terra
Ci abbatte possente in silenzio.
Il mio capo è adagiato delicatamente
Nel grembo della mia amata.
Guardo l’etere e sogno.
Allora venne la luce delle stelle
Il tuo dolce viso
Guardava tra terra e cielo.

G. Edward



[“Die Eisenbahn”, V, n. 96, 1842, p. 1]

Separazione
Le ruote scorrono, risuona lo zoccolo,
Corre attraverso i prati con andatura rapida.
Il postiglione risveglia con il suono del corno
Il mattino assopito dal sogno.
Guardo indietro, dove nella fioritura profumata
Si alzano le torri dell’antica città,
Si elevano come ultimo segno,
Come ultima consolazione al mio sguardo.
Là stai seduta con grazia, negli occhi sono sospese
Lacrime infuocate e cadono in grembo.
L’ultimo bacio trema ancora sulle labbra.
Senti il braccio che ti cingeva dimostrandoti amore.
Scorrono le ruote, risuona lo zoccolo,
E continua a trascinarmi lontano.
Tu mondo dorato, che credesti all’amore,
Fluttui laggiù come nebbia profumata.

G. Edward



[“Die Eisenbahn”, V, n. 102, 1842, p. 1]

All’amata
Vieni, prendi la cetra,
Cantami una canzone!
Perché la tempesta
Mi sconvolge l’anima.
Come il vento tra le foglie
Lasciami ascoltare in silenzio
Sogno ristoratore.
Amore mio, mia leggiadra
Cantami una canzone!
Che vinca la giustizia
Si diffondi la libertà
Della stirpe umana.
Le tue labbra quando cantano
Risuonano in maniera
Così aggraziata che
Persino l’inganno echeggia
Come l’oro della verità.

G. Edward



[“Die Eisenbahn”, V, n. 116, 1842, p. 1]

3) Sull’impegno del cittadino e su di un certo impegno religioso

È negativo il fatto che una irragionevolezza codina si immischi nelle faccende che esulano dal proprio campo. Questo è il caso del “Kölnischen” e del giornale di Spener riguardo la progettata associazione dei “Liberi”. Entrambi propongono, con antica furbizia, esagerate e false interpretazioni e presupposti privi di senso. Ma si tratta di un terreno sconosciuto ai non addetti ai lavori, una vera “terra ignota”. Sarebbe stato necessario ricordare Strauss, Feuerbach, Bayer, i “Deutschen Jahrbücher”, per tenersi lontano da tali fantastiche e avventurose rappresentazioni. Per difendere la religione si dovrebbe cambiare il modo di pensare all’interno del Cristianesimo. Il che è faccenda da affrontarsi da tutt’altra angolazione. Quello che in un primo momento sembra sconsideratezza è forse una tattica ben calcolata sulla base di tutti gli antefatti e dell’importanza della questione. La critica in questo modo non è altro che una figura retorica in memoria della dea Ragione, posta innanzi agli spiriti deboli come un fantoccio. E ciò perché costoro possano dormire tra due guanciali e fornire alla polizia la piena fiducia di cui questa ha bisogno, in modo da potere proteggere la vita dei pacifici borghesi e degli onorati padri di famiglia.

Sappiamo bene quello che viene fatto in nome di Dio e della Religione, rogo e pugnale compresi, fino alle peggiori persecuzioni. Quale cruento sacrificio accettare la religione. Non c’è nulla di simile nella filosofia, questa non ha perseguitato, è stata sempre repressa e perseguitata e non cambierà il suo nobile posto. Peraltro i tempi sono un po’ migliorati: non si lapida più, non si crocifigge, non si brucia, ma ci sono altri mezzi, non meno sperimentati: si espellono gli insegnanti dall’ufficio e si toglie loro la prebenda, si lotta contro coloro che restano fedeli alla loro dottrina, li si caccia dalla patria, si sospetta di quelli che riconoscono la ragione come unica norma della loro vita e dei loro affari, si attacca il proletariato ma non si dice: lapidate gli scellerati, si cerca una “argumentatio ad hominem” in quanto il sano senso comune dei borghesi non sopporterebbe il vecchio modo di fare. Almeno sembra. In caso contrario si trova l’espediente di fare pensare “liberamente” la gente lasciando che tutti si comportino da mascalzoni, assassini e banditi.

Cosa vogliono i “Liberi”, che cosa può sollecitare accuse tanto ridicole? La risposta è semplice: vogliono sentirsi liberi, soprattutto da ogni Credo, da tutte le Autorità e dalle tradizioni, perché queste sono umane, non vogliono alcuna religione che fissi regole solo esteriormente e rappresenti l’uomo come estraneo a ciò che vive nel suo petto. È perciò ridicolo cambiare loro la fede nella Ragione.

Questo discorso sulla Ragione è in grado di fare saltare le catene. I “Liberi” non vedono librare nessun Dio da qualche parte, nessun essere supremo, o come lo si vuole chiamare, ma solo il Dio che è nell’uomo e nella Storia, se lo si vuole chiamare così. Tutti gli altri gradini della coscienza hanno solo un’ingannevole immagine speculare e una vuota fantasmagoria. Per i “Liberi” non c’è naturalmente nessuna rivelazione, perché all’uomo non può essere rivelata la sua propria essenza, ma solo portata alla sua coscienza consapevole. Per loro non c’è l’immaginazione dell’immortalità personale, essi sanno che soltanto lo Spirito non muore, per loro non ci sono rappresentazioni umilianti che sorgono solo per disonorare il finito con l’infinito.

Lamentatevi, anime schiave, una volta raggiunta la coscienza della vostra schiavitù, le vostre ginocchia non si piegano più nella posizione servile ma si addicono ad un’umanità consapevole di essere libera e nobile. E voi tremate, gente priva di onore, chiudete forte le vostre borse e badate ad avere cura delle vostre teste. Chi vi garantirà il vostro quattro per cento se non ci sarà più religione? Chi vi proteggerò dall’assassinio e dal colpo mortale? Se si ha fiducia solo nella polizia, non la si può avere in tante altre cose, anche nei riguardi di coloro che non si stancano di dirvi che la religione è il presupposto della morale e della moralità. Convincetevi che restando al vostro posto pescherete sempre nel torbido. E restate convinti pure del fatto che per essere un uomo buono occorre essere un buon cristiano.

Così è stato detto, ma nessuno vi ha creduto. Nell’interesse della casta dominante può darsi che il Cristianesimo appaia come l’unica sorgente di tutte le virtù, visto che si tratta di sentimenti dell’uomo corruttibile. Nel loro interesse può darsi che vi sia un Dio da qualche parte in quanto essi ne sono le guardie, i mercenari, i cortigiani, i quali cercano di ottenere il massimo ricavato possibile. Ma noi? Dovremmo credere che senza religione, soprattutto senza Cristianesimo, non vi sia virtù e morale che possa vivere? Tali favole vanno bene per i bambini. Sappiamo dove dobbiamo cercare le cose giuste e buone ed evitiamo di prenderle di seconda mano, perché non ci riteniamo puri ma non vogliamo nemmeno essere resi falsi. Chi vuole essere un vero uomo si tocchi il petto, cerchi le cose nobili e grandi nella natura umana e basta, e se non basta osservi come segno di riconoscimento che non è degno di libertà chi manca di dignità umana. No, voi Farisei questo non lo potere dire, cioè non potere affermare che fuori del Cristianesimo esistono morale ed etica. L’impronta del vostro tornaconto ha condizionato molto il significato di questi concetti, ed ha introdotto la dottrina dell’espiazione e della ricompensa. Noi siamo più nobili perché facciamo il bene non in vista della ricompensa ma perché la nostra natura umana è degna.

Si è detto anche che si deve essere un buon cristiano per essere un buon cittadino. Si parla incessantemente di Stati cristiani, come se la Chiesa e lo Stato non fossero separati, ma mescolati insieme. Come se io non potessi pretendere i miei diritti contro lo Stato senza appartenere alla Chiesa, quando è proprio la realizzazione delle pretese religiose che porta alla totale negazione dello Stato. Naturalmente è di nuovo nell’interesse degli uomini neri, sotto protezione dello Stato, di impegnare la coscienza incatenando le convinzioni. Peggio per lo Stato se vuole essere “Stato cristiano”. Fu proprio lo Stato cristiano che a causa della religione eliminò gli Ebrei dalla comunità dei cittadini lasciandoli nei ghetti. Fu lo Stato cristiano che non accettò gli antichi luterani e non volle permettere la dottrina della libertà all’interno dei confini del Cristianesimo.

I “Liberi” onorano lo Stato, non solo quello cristiano, essi si sono dati anima e corpo e immoleranno i propri beni e il proprio sangue quando saranno chiamati, ma non vogliono avere a che fare con la Chiesa e cercheranno di accelerare l’inevitabile processo di separazione tra Stato e Chiesa, secondo le proprie forze. Non riconoscono il Cristianesimo, ma poiché lo Stato ha adottato forme religiose a conferma di atti specifici della cittadinanza, devono battezzarsi, segnarsi, ecc., ecc. Ecco quindi che non possono vivere senza venire in collisione con la Chiesa. Devono perfino testimoniare in nome di Dio, che essi non riconoscono, per affermare la verità di una loro dichiarazione. È una condizione insopportabile per loro, alla quale vogliono sottrarsi ad ogni costo. È tutto quello che essi pretendono, vogliono essere cittadini, senza avere una religione. Ma ciò sembra non essere permesso. La Ragione domina sotto molte forme ma ad essa non viene concessa una esistenza ufficiale. Dunque, nessuna religione! Via dalla Chiesa! Sì alla morale, alla moralità, ai diritti verso la famiglia, la società borghese e lo Stato. Nessun servizio agli idoli, ma onore alle forze etiche e alla vera Umanità. Ma perché giusto ora? Perché finalmente viene il momento in cui il baccello scoppia. Prima la libertà esisteva solo nella scienza, e qui viveva nascosta in oscure formule. Leibniz, Spinoza, Hegel possedevano la verità, ma era esoterica. Ora, finalmente, entra nella scienza della vita e diventa essoterica e pratica. Speriamo che ne abbia la forza.

E ora, tu, uomo pauroso, tu che sogni l’assassinio e il pugnale, anche la tua paura sarà calmata. O no? In stretto contatto con i “Liberi”, noi vogliamo ottenere l’assicurazione per te e la tua famiglia, una salvaguardia per la tua casa, e vedrai che i “Liberi” ti vendicheranno in maniera nobile. E poi, “si fractus illabatur orbis”, sarai al sicuro.



[Manoscritto scoperto da Gustav Mayer e attribuito con riserva a Stirner. Mackay cercò in tutti i modi di dimostrarne la paternità senza riuscirci. Il testo si trova in Max Stirner, Parerga, Kritiken, Repliken, Nürnberg 1986, pp. 111-116.]

4) Corrispondenza

Berlino, 29 gennaio 1842

Recentemente uno dei nostri tanti religiosi – il nome non ha importanza – ha lamentato in una predica una sua perplessità riguardo il fatto che benedicendo un matrimonio provava una sorta di angoscia a causa della legge vigente, concludendo con le parole: “speriamo ed aspettiamo”. Niente di più ingiusto nei confronti di coloro che vengono vincolati dalla Bibbia e dalle parole divine.

Matteo (XIX, 9) dice “Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un’altra commette adulterio”. E Luca (XVI, 18), come pure Marco (XII, 5), non dicono nulla sulla rottura del matrimonio e nemmeno sui motivi della separazione. In questo modo i dotti delle scritture, ai nostri giorni, possono fornire ogni tipo di spiegazione e interpretazione in tutta coscienza.

Un vero apostolo del Signore, che rispetta i giorni festivi e domenicali, sa molto bene come ognuno possa rispettare la legge e peccare nello stesso tempo. L’alternativa è ascoltare Dio o l’uomo? Il povero umile servo dovrebbe morire per la debolezza del suo carattere di fronte a queste difficoltà se non gli venisse offerta una via d’uscita. Egli serve Dio, quindi la sua coscienza è tranquilla. Ecco perché spera e aspetta. Gli capita a volte perfino di conquistarsi un cuore. Un’eccezione.



[“Die Eisenbahn”, V, n. 19, 1842, p. 75]

* * *

Berlino, 1 febbraio 1842

Che la stampa debba essere posta sotto dei vincoli precisi piace naturalmente ai benpensanti. Nel resto della Germania e in Sassonia, per esempio, dove c’è da molto tempo quello che qui verrà proposto dopo, sono molto soddisfatti. Così sul “Spener’schen Zeitung” del 19 febbraio il criminale direttore Hitzig ha consigliato l’impiegato regio prussiano su come usare nel modo più conveniente il suo potere repressivo. La sua preoccupazione va anche oltre: considerare con attenzione i fogli stranieri. Egli intende con ciò qualunque altro genere di fogli tedeschi. Questi giornali stranieri, egli dice, contengono ogni genere di menzogne che infettano gli ignari corrispondenti. Quindi, voi, funzionari prussiani, dovete precorrere i tempi e spedire ai redattori locali le indicazioni su come comportarsi con i fogli stranieri. Solo un seguace del segreto di Stato può avere avuto una preoccupazione del genere. Un suggerimento come questo mancava da tempo. Siccome qualche volta in questi fogli viene usato dello spirito li si cerca e li si legge volentieri. Anche di Rebenschein sono apparse “alcune parole” sulla censura.

In questi giorni, da queste parti è passata una ladra. Sapeva parlare molto bene e anche rubare pietre preziose. La polizia naturalmente si interessò alle sue altissime attività. Una educatissima giovane signora proveniente da Hannover, capace di giocare molto bene il ruolo di raffinata inglese. Ma ebbe la sfortuna di imbattersi nel nostro pregiudizio antico-franco che conserviamo anche adesso. Avrebbe dovuto essere contenta di vendere così bene il suo inglese, ma come ladra se ne vergognò. In ogni caso ebbe migliore fortuna del predicatore ebreo-missionario che in casa sua teneva calde prediche e conversazioni in lingua inglese. Raccomandato da List venne accolto, costui, all’Accademia e festeggiato al Reggimento degli Ussari di Potsdam, con List come unico ospite civile. Alla fine anche un gruppo di conoscenti si infiltrò e la cosa si concluse che il predicatore venne incatenato ai notabili che giuravano in nome di Hegel, di Sonntag, di Schelling e di altri. Tutti alla fine brindarono citando l’arguto motto di spirito: “Stile e Senso”. Un equivoco.

Da giovanissimo andai una volta, mentre si celebrava il servizio divino, per le strade della capitale, dappertutto regnava il silenzio, i negozi erano chiusi, le finestre avevano le tende pudicamente abbassate. Da ciò si vedeva che il berlinese reprimeva la sua collera. Tutti i quadri erano nascosti proprio dietro una tenda e una buona metà della Berlino notturna e speculativa guardava in su.



[“Die Eisenbahn”, V, n. 25, 1842, pp. 99-100]

* * *

Berlino, 1 marzo 1842

I puseisti attizzarono nuovamente, nella Chiesa inglese dei veri credenti, la fiamma dell’alterco e del litigio di un puro teologo e per molti sarà interessante sapere che la causa di ogni inquietudine a Oxford è Pusey (1), uno scolaro del nostro pio Neander (2), che come ogni uomo dinamico, sapeva dar vita a chi veniva accolto come “pietra angolare del sapere”.

La partenza di List, nota ai giornali qui più che altrove, è stata festeggiata e soprattutto ha saputo guadagnarsi i cuori delle signore e degli studenti. Essa ha avuto luogo il 3 di maggio dell’anno scorso con l’afflusso di migliaia di persone e con uno splendido comitato di studenti, nel vicino Friedrichsfeld, dove il proprietario organizzò una festa d’addio per lui e per i suoi accompagnatori. Qui abbiamo visto nuovamente cosa succede alle masse. Il vero proprietario dello stanzino di lettura (Dr. Häring Willibald Alexis), è diventato librario e darà vita a una libreria molto assortita, col nome “Buchhandlung des Berliner Lese Kabinetts” [Libreria dello Stanzino di lettura berlinese], in questa maniera vengono esposti più libri e più fascicoli che possono diventare ancora di più di quelli che ci sono stati finora. Il circolo dei lettori ha capito che con la letteratura dotta si può rimanere indietro e quindi l’allestimento si ingrandirà molto di più. Delle attuali novità letterarie c’è da notare per prima cosa: la Prussia, la sua Costituzione, la sua amministrazione, la sua relazione con la Germania.

Von Bülow Cammeron, Bei Weit und Company, Berlin 1842. Questo libro dimostra il massimo della schiettezza, così che molti pusillanimi temevano che sarebbe stato proibito. Soltanto il re si era tenuto un esemplare del libro e non aveva mostrato la benché minima scontentezza. Herr Von Bülow Cammeron è un ricco proprietario della Pomerania e – come si dice – è diventato membro della Dieta regionale, perché ha la pretesa di avere una “voce virile”. Può avere giocato anche, nell’uomo pratico, un’altra ragione, se si deve credere a un aneddoto, che non posso riferire. Le parti migliori del suo libro sono incontestabilmente da cercare nella sezione concernente l’amministrazione.

Uno scritto (3): La necessità della Chiesa e la festività domenicale. Una parola seria sulla frivolezza dei tempi, Berlin 1842, citato dal giornale della Chiesa evangelica, riporta un largo estratto del libro di Von Bülow Cammeron. Involontariamente ci viene un sospetto: che cosa avrebbe fatto la censura se in un libro libero si fosse inserito una larga parte di un libro proibito?

(1) Edward Bouverie Pusey (1800-1882), teologo inglese, partecipò al movimento di Oxford per un rinnovamento della Chiesa d’Inghilterra. Staccandosi dal controllo statale passò al cattolicesimo.

(2) Johann August Wilhelm Neander (1789-1850), pietista, professore di Storia della Chiesa a Berlino.

(3) Lo scritto anonimo apparso con le edizioni Hermes era del giornalista Ludwig Buhl, uno dei “Liberi”, direttore di “Der Patriot”.



[“Die Eisenbahn”, V, n. 30, 1842, p. 120]

5) Sabato e Domenica o la festività cristiana

Questo problema viene dibattuto liberamente ai nostri giorni. Si tratta di un semplice dilemma al quale il tempo avrebbe dovuto dare una risposta decisiva.

Nel regolare il loro percorso di vita gli uomini non si sono sbagliati di certo, ma hanno sempre avuto incertezze e preconcetti. Il dottor Jachmann, di Königsberg, ha scritto un opuscolo sul problema della festività cristiana della domenica (Königsberg 1842). Egli ha avuto il merito e il coraggio di tenere una predica per dimostrare che ci si poteva appellare a una tradizione di festività senza ricorrere alla dottrina cristiana né alla sua storia. Egli afferma: “Per primi gli imperatori Graziano e Teodosio proibirono i riti domenicali, ma solo con la motivazione che questi una volta erano spettacoli pagani, i quali d’altra parte, i cristiani avevano finito per accettare. Lentamente, tuttavia i cristiani sprofondarono da allora in una pratica così poco libera che nel VII secolo non era più permesso loro, di domenica, né cavalcare né viaggiare né andare in barca né fare il bagno e perfino non potevano cucinare il pane. Sotto questo aspetto potevano essere scambiati per Ebrei, rispetto ai quali loro apparivano infinitamente superiori”. Chi si sente in pericolo di peccare o di essere lassista nei riguardi delle dottrine cristiane, trova nel riportato opuscolo la consolazione storica necessaria. Anche nella nostra epoca, caratterizzata da prove scientifiche, c’è la necessità di avanzare prove opposte, con fatti storici, contro coloro che pensano di colpirci con teorie e arroganze degne dell’epoca dei barbari. A loro si affiancano altri che, nei secoli bui dei primi tempi, trovano norme per ogni cosa, perfino per fissare i detti degli Apostoli per tutta l’eternità, senza tenere presente gli sviluppi storici successivi. Si aspira a giustificare l’assolutismo. Per giustificare la forza della Chiesa la si fa derivare da una interrotta sequela di discendenti degli Apostoli, volendo rendere santa la Domenica, si progetta una toccante immagine di devozione ai nostri avi. Contro tutte queste distorsioni della storia, da parte di teste ottuse o di intriganti per la salvezza delle loro buone cose illuminate, ci si deve assicurare con una onesta imparzialità storica, come ha fatto Jachmann nel suo libro: La festività della domenica. Così egli scrive: “Capovolgiamo per una volta la situazione, cerchiamo il motivo della mancanza di religiosità. Questa dipende da coloro che predicano sempre ed eternamente le antiche e vecchie dottrine di una incomprensibile ortodossia, che minacciano sempre l’inferno e una condanna eterna, come se fossero strumenti segreti di Satana, che non annunciano l’amore ma l’odio, che spingono intenzionalmente al più esatto contrario della nostra odierna cultura e dimenticano che noi non viviamo a Gerusalemme o sulla sponda del Giordano, che negano il fatto che la nostra più profonda e generalmente diffusa conoscenza richiede anche una soddisfazione e un bisogno religiosi non come bastavano nel sedicesimo o nel primo secolo”.



[“Die Eisenbahn”, V, n. 43, 1842, p. 171-172]

6) Cristianesimo e anticristianesimo

Anche il più piccolo passo che porta più vicino alla meta è importante, specie quando risulta essere molto difficile. In fondo è inevitabile tutto quello che può servire e rischiarare e illuminare. La religione ha un valore assoluto oppure no? In altre parole: la religione ha una vera rappresentazione scientifica, cioè esiste una teologia o no? Questa è grande domanda alla quale finora non è stata data una risposta, ma ora la soluzione ci è suggerita non solo dalla scienza, ma perfino dalla Chiesa e dallo Stato.

In un primo momento, naturalmente, è solo la scienza a fornire la risposta, ma già si sente la sua influenza nella Chiesa e presto si farà sentire anche nello Stato e nella vita pubblica. In un primo momento, il lato scientifico della questione potrebbe dunque dar da fare anche a noi, e in futuro anche il resto. La teologia viene cancellata o eliminata dall’enciclopedia scientifica e il suo oggetto, la religione, è diviso tra filosofia e storia. La teologia non fronteggia le altre scienze come una branca indipendente ma si è mescolata con le stesse, il campo religioso con quello profano. La facoltà teologica non è nulla di più di una innaturale unione di facoltà filosofica e predica da seminario, le quali possono reggere o l’una o l’altra. La loro separazione sarà nello stesso tempo la dissoluzione della stessa facoltà teologica.

Questo risultato è preceduto dalla storia del rapporto tra scienza e religione, fin dal tempo in cui stavano una di fronte all’altra, quando cioè la religione fu penetrata dalla rinascita dello spirito scientifico. Lo sviluppo di questo rapporto può essere considerato oggi come una ricapitolazione della fase precedente, solo che le diverse parti, che prima stavano per lo più una di fronte all’altra come parti filosofiche e non filosofiche, ora si sono unite collettivamente sul terreno della filosofia. Non si tratta del punto di vista di quel sistema di pensiero che si suole indicare come “sinistra”, perché adesso si accentra il problema sulla disputa e sulle differenza tra Strauss e Feuerbach. L’ampiezza dello scontro si restringe e così si ha il convincimento di avere davanti la fine della disputa. La teologia ha fatto sgombrare il campo alla filosofia, la filosofia ortodossa alla filosofia dei non credenti, riducendola al silenzio, per cui non restano da fare che le cose normali, l’obbligo di adempiere ai diritti dei combattenti, precisamente sotterrare i caduti, lasciar morire o guarire gli ammalati gravi e quelli meno gravi, fuori di immagine e in una parola, concludere o far concludere la scissione dei contrasti.

Davanti a noi non abbiamo l’astratta conciliazione, di questo non abbiamo proprio bisogno!

Ciò che può e deve essere conciliato, la conciliazione stessa, è ora diventata dissidio tra pensiero e mancanza di pensiero, e questo dissidio non si può conciliare nuovamente! Alcuni dei nostri filosofi religiosi e devoti teorici ritornano al caro “io”, gli altri procedono e precipitano nel dissidio del pensiero.

Sia la scienza che la religione sono infine stanche di fare da “factotum” e vogliono la partecipazione di tutti, non c’è altra soluzione. I nostri teologi saranno perduti, e anche presto, se non staranno con Dio e con il mondo, comportandosi diversamente, e anche Strauss dovrà essere più risoluto di quanto non lo sia stato finora. Per la precisione Strauss teme di aver lasciato che si formassero per lungo tempo dei timori in relazione ai cambiamenti del principio accolto nella quarta edizione della sua rielaborazione critica della Vita di Gesù come rappresentazione della dottrina cristiana “nella sua lotta contro la scienza moderna”, e ciò nella speranza di potere sviluppare tutte le conseguenze logiche di questo principio non appena Feuerbach ne riconoscerà la verità, cessando di contrastarlo. Ora invece dovrebbe fermarsi, non potendo andare oltre il punto in cui è arrivato. Le contraddizioni in cui è incorso nella sua polemica con Feuerbach non possono passare inosservate. La distinzione tra forma e contenuto non la ritiene più sufficiente come prova, dovendosi distinguere la religione dalla filosofia, tuttavia, essa si deve vedere da un altro punto di vista, in relazione al contenuto, cioè come coscienza dell’assoluto.

Una tale divisione astratta è contraria allo spirito della nuova filosofia e alla filosofia religiosa di Hegel ed è in contraddizione con la sua logica. Perché, secondo quest’ultima, “il contenuto non è la materia grezza, ma la materia formata”. Nelle più alte sfere del pensiero speculativo si riconosce la non verità della differenza tra forma e contenuto e la fondatezza del fatto che la forma pura è la stessa che diventa contenuto. Così il contenuto non è altro che il rovesciamento della forma e la forma nient’altro che il rovesciamento del contenuto in forma. Solo l’esterno, il lato superficiale della forma è simile al contenuto, che essendo un cambiamento della forma non può restare lo stesso. “Se perciò Hegel – continua Strauss – indica senza timore la forma dell’idea nella quale secondo lui la religione ha il contenuto assolto, un’idea subordinata e inadeguata, così si domanda se in una forma finita, il contenuto possa essere inteso come assoluto esistente, e non possa diventare molto di più, in questa stessa forma, un finito inadeguato all’idea”. Sì, certo, Hegel stesso fa valere la differenza: se la ragione si esplicita in una religione o se questa è esistente solo come buio e profondità, per cui non c’è nessun contenuto reale, cioè etico, nella religione che non sia nella ragione. L’utilizzo, per come si vede in queste affermazioni, per quanto riguarda il cristianesimo, è indirizzato contro Hegel dallo stesso Strauss.

È andato avanti, Strauss, o si è fermato a metà strada?

Che ora Strauss noti che in relazione al punto di vista di Feuerbach l’anima sia il fondamento da cui scaturisce la religione, e che non si può negare che questa base sia impregnata di desideri sensitivi, finiti, puramente soggettivi, insomma i bisogni dell’uomo, deve portarlo alla conclusione che la ragione, l’obiettiva attività dell’intelligenza, non svolga un ruolo che può interessare la religione.

Si può replicare: può la ragione privarsi del suo sentimento animalesco? No. Appena nella coscienza religiosa il seme ragionevole comincia a germogliare, “eo ipso”, anche la coscienza religiosa stessa smette di essere religiosa e, in contraddizione con se stessa, apre l’accesso al movimento di liberazione. La coscienza religiosa non può vivere nell’antica dignità se non soffocando la ragione, altrimenti il principio ragionevole diventa dominante e la religione soccombente. La religione sussiste solo perché il seme ragionevole non è ancora una “vera ragione”. Non è “ragione esplicita”, sviluppata. Un gradino della consapevolezza, nel quale la ragione giace nascosta, non è ancora ragione. Solo quando essa si esprime veramente in modo esplicito può essere tenuta in considerazione nella sua vera natura, e allora risplende a prescindere da qualsiasi religione. Senza la severa fermezza di questo principio non ci può essere nessuna trattazione scientifica né filosofica né storica delle cose. Perché se certamente, come è riconosciuto da tutti, il compito della scienza è quello di capire le cose con gradualità, come momenti dello sviluppo di un’idea, non si può definire scientifica quella considerazione che in un dato gradino della natura o dello spirito non tratta se stessa in base ai concetti di gradualità.

Ma l’uomo religioso, quando è ragionevole, è come il filosofo? Non è detto, almeno fino a quando si scambia la consapevolezza religione con la vera ragione, oppure fino a quando non si lascia emergere l’assoluta ragionevolezza della ragione stessa. In fondo giace la ragione, e solo una lontana aspirazione alla ragione può sottostare alla religione, una falsa, non una vera ragione. Altrimenti l’egoista a cui si vuole offrire un dito si prenderà tutta la mano. Fino in fondo.

A confutazione del concetto di miracolo in Feuerbach si legge: “Come Gesù minaccia la tempesta sul mare e con una parola la placa, così l’anima di questa stupefacente storia deve essere soltanto il desiderio di un cuore umano, di potersi togliere nello stesso modo – cioè facilmente – da un pericoloso attentato, o meglio, la consapevolezza dello spirito della sua superiorità sulle forze della natura”. Ciò ha due facce e non una forma pura e chiara. Lo spirito, non come uomo puro, ma come ente soprannaturale, compie un sopruso sulla natura, ma ciò è presentato come qualcosa di magico e quindi di poco chiaro. Chi potrebbe accontentarsi di così poca luce?

Questa domanda finale mi pare più dignitosa della rielaborazione di Philateto. Il potere sulla natura, da parte dello spirito, è rappresentato come fatto oggettivo ma non come consapevolezza di questo potere stesso, attribuita alla fede. Nessuna modificazione, nessun presagio per un osservatore imparziale.

Che cos’è questa forza dello spirito sulla natura: né l’idea che la consapevolezza religiosa sarà resa coscienza – come fede – né l’idea che il credente dello spirito (o l’immaginazione che le è pertinente) sia quella giusta. Una cosa che non è giusta né assolutamente chiara, come appare qui (lo spirito sovrumano attuale e la sua immediata attività) non viene rappresentata come essa è, non può quindi essere indicata come un oggetto dell’idea in questione. Il credente non ha quindi coscienza di questo potere dello spirito sulla natura, se l’avesse sarebbe come il cane al quale viene gettato il pasto ma non si cura di ricercare una presumibile identità tra oggettivo e soggettivo, né tanto meno di realizzarla.

Non c’è modo di affermare questo con serietà.

Ma nella teologia non si accetta tutto questo in modo così netto. Dopo aver provato la parte filosofico-dogmatica delle obiezioni di Strauss contro l’insostenibilità di Feuerbach, si deve considerare, in breve, il superamento operato dallo stesso Strauss. Egli scrive: “La verità è da trovarsi solo presso i filosofi per cui è possibile una visione filosofico-storica ma questa non la si può conoscere a priori ma solo a posteriori, dopo opportune verifiche”. Noi potremmo aggiungere che la verità dimostrata filosoficamente attraverso la storia è inconfutabile.

Egli continua: “È soltanto conveniente che noi seguiamo l’osservazione fatta in quanto senza basi scientifiche non è possibile avanzare nessuna pretesa di verità”. Permettiamoci alcune osservazioni.

Tutto dipende dal fatto che si scrivono frasi generiche al posto di frasi esatte. Che il cristianesimo sia stato nella storia la sorgente di grandi avvenimenti positivi, nessuno può negarlo seriamente, ma questa affermazione, in questo momento, si presta a una doppia lettura. Ci si domanda precisamente se il cristianesimo come momento positivo o negativo nello sviluppo dello spirito moderno abbia un significato preciso.

Il cristianesimo non ebbe un puro significato negativo, ma la sua importanza positiva non risalta se non nei primi secoli della sua esistenza quando fu vivo e produttivo.

La dominazione romana, in contrasto alla quale era sorto e aveva il suo significato positivo, crollò anch’essa da sé. Quando lo spirito del mondo arrivò ai Germani, aveva eletto una nuova era, del passato non restava più nulla se non un insieme ormai finito e morto di dogmi e di parole.

La sua importanza consisteva adesso nel mantenere il più a lungo la forza fresca e indomita del nuovo spirito, di tenerlo a freno e al proprio servizio, fino a che si potesse rinforzare per diventare cosciente di sé. Il fatto che siano i popoli cristiani i propugnatori della cultura moderna si spiega proprio con l’alto significato del cristianesimo, cioè col fatto che essi cristiani lo sono di fatto, non solo di nome. Il risultato dell’attuale posizione della scienza della religione nell’ambito scientifico è quindi il seguente: espulsione della religione dalla sfera dello spirito assoluto e trasferimento della stessa nell’antropologia per quanto riguarda la coscienza soggettiva bastevole a se stessa e nella storia mondiale per quanto riguarda l’analisi storica, cioè in relazione a un determinato periodo dello sviluppo dell’umanità.

Bisogna fare attenzione alle importanti conseguenze che dal punto di vista scientifico racchiude in sé la relazione tra Stato e Chiesa.

La Chiesa che possiede una determinata professione di fede da imporre a tutti i membri della società e lo Stato che ha la pretesa che ogni singolo resti in una dimensione religiosa. Da un lato c’è l’esigenza della scienza moderna di sormontare la religione, dall’altro l’esigenza di rinunciare al pensiero e unirsi a determinate condizioni religiose e all’esigenza di rivolgersi al proprio Dio nell’ambito di determinate leggi. Per questo motivo ogni tentativo di mediazione tra loro due è un’impresa in quanto da una parte si pensa che la mediazione sia di già avvenuta e dall’altra si ritiene di restare nella propria immediatezza stazionaria. Così come la persona religiosa sta nella propria immediatezza, con pieno diritto contro chi vuole attirarla in un processo di mediazione, così protesta con maggior diritto il pensatore contro tutti i tentativi di condurlo all’immediatezza della mancanza di pensiero. L’uomo religioso non vuole trascinare nello stesso giogo il non credente e questo, da parte sua, non vuole sentire nulla del giogo religioso. Il contrasto tra noi e la Chiesa è insanabile e questo di conseguenza è riconosciuto e reso manifesto da tutti i partiti.

Ora, la separazione dei caproni dalle pecore, intorno a cui gli uomini di tutti i tempi hanno pregato senza essere ascoltati, non è più un semplice e pio desiderio. Finché i pensatori trovavano ancora sopportabile – per lungo tempo – la pressione della Chiesa, la loro cacciata (che con la consapevolezza dei credenti era stata messa in atto) aveva poco da promettere perché solo una parte, precisamente quella più debole se non per numero certo per forza, aveva offerto l’occasione per la separazione. Ora, però, acconsente anche l’altra parte e fa funzionare la faccenda – che ad alcuni è perfino più cara. La decisione stessa, dopo che per mille anni lo spirito del mondo ha avuto il tempo di rifletterci sopra, può però essere condotta senza fretta. Periculum in mora. Ma noi non vogliamo starci, noi che siamo decisi ad arrabbiarci e che vogliamo uscire dalla Chiesa. Altrimenti non potremmo rigettare il rimprovero di essere degli ipocriti. Dalla nostra parte non ci sarà solo la legge, la morale e la scienza ma anche la stessa Chiesa potrà dare il benvenuto al nostro passo. Ma lo Stato, cosa dirà lo Stato? Non ci tratterà come ribelli dello Stato, considerando la Chiesa non come una società a fianco di altre società ma come un alter ego dello stesso Stato? Non c’è via d’uscita, è obbligato a vedere le cose in questo modo. Peraltro quello che noi dobbiamo fare non ha spazio per il dubbio. Dobbiamo fare quello che il dovere assoluto ci prescrive: seguire la scienza e la moralità e poi aspettare che lo Stato inizi a giustificare una nuova e completa forma di rapportazione. Lo Stato dovrà essere fedele al principio protestante della dottrina e della libertà di coscienza dei suoi cittadini. Nessuna determinata confessione di fede, nessun certificato di battesimo. Non può pretendere cose simili, per cui saremo cittadini senza essere appartenenti ad una qualsiasi religione. In caso contrario lo Stato dovrà identificare l’esistenza della Chiesa con la sua stessa esistenza e quindi l’esilio sarà il nostro destino. In quest’ultimo caso si potrebbe accettare in modo allegorico la dottrina della Chiesa, ma la scienza richiama qui alla parola di Cristo: “Chi ama il padre e la madre più di me, costui non mi merita”. Con ciò, come hanno nuovamente auspicato questi “Deutsche Jahrbücher für Wissenschaft und Kunst”, il rapporto dei teologi hegeliani e dei super-hegeliani nei confronti dello Stato e della Chiesa è spiegato, non con la desiderata ricchezza di dettagli ma in maniera determinata a chiara, per quanto possibile. Ciò che brilla di luce propria non può essere reso più chiaro con molte parole. Parole ne abbiamo ascoltate abbastanza e chi non ne ha ascoltate abbastanza vuol dire che non le voleva ascoltare.



[“Deutsche Jahrbücher für Wissenschaft und Kunst”, Leipzig 1842, pp. 30-35. Il testo accettato da Gustav Mayer è messo in dubbio da Mackay.]

[1] Possiamo osservare qui che molti proprietari terrieri di quella regione, subito dopo l’annuncio della formazione dell’associazione – o della lega – dei “Liberi”, si sono dichiarati disposti ad aderirvi.

[2] Evidentemente qui si vuol dire “errore” (NdE).

[3] Vale la pena di presentare questo tipo di Stato, poiché è la forma più compiuta e alta dello Stato.

[4] Virtuosità, che rende loro il pensare una necessità e una cosa interessante.

[5] Le confusioni religiose dei nostri giorni trovano qui il loro fondamento; anzi sono diretta espressione di questa scrupolosità.

[6] Cioè dal punto di vista cristiano, socialista, ecc.

 
 

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