Titolo dell’opera originale: Œuvres, Jours d’exil, 3 volumi, P. V. Stock Editeur, Paris 1910-1911
Traduzione italiana di Alfredo M. Bonanno
Prima edizione del solo primo volume: Catania 1981
Edizione dell’intera opera in tre volumi: Trieste 2013
Ernest Cœurderoy
I giorni dell’esilio
Volume II
Al mio amico Germain Rampont rappresentante dell’Yonne alla Costituente del 1848
Ancora il Monte Bianco. Il culto del sole. Nelle nuvole
Canto dell’esilio. Patria dell’Avvenire
Las noches de vervenas a Madrid
Al mio amico Germain Rampont rappresentante dell’Yonne alla Costituente del 1848
Annecy – Luglio 1855
L’uomo che ha degli amici tenga a loro
perché vi sono amici più cari di un fratello.
Proverbi del re Salomone
Gli uomini mi perseguitano, mi danno un esilio nell’esilio, mi confinano e mi tormentano. Ma le loro frecce si smussano sulla mia anima come su una torre di bronzo. Per resistere ho due beni preziosi:
Due beni più preziosi dell’oro e del diamante, più preziosi dei titoli e degli onori di questo mondo, due beni che non cambierei con la più brillante corona: l’Amore, la Libertà.
Per celebrarli ho una cattiva penna e una bravissima donna. Vi devo l’una; accettate il lavoro dell’altra.
E portatemi felicità!
Man mano che le mie libere ali si sviluppavano come l’ala della rondine pellegrina, come la vela del vascello di alto bordo; man mano che elevavo il mio canto all’avvenire, come il gallo eleva il suo all’aurora, gli uomini si allontanavano da me. – Parlo degli amici; quanto ai nemici essi non mi degnavano di uno sguardo.
E io ingenuo, amante, cercavo di raggiungerli e gridavo loro con tutti i polmoni: da questa parte, da questa parte! Sono nelle tenebre, nella polvere, in una fossa. Non mi vedete? Non verrete in mio aiuto?
Ottimo sistema per farli correre! Più li chiamavo, più essi fuggivano; più mi lamentavo, più essi ridevano del mio imbarazzo; più tendevo la mano, più essi nascondevano la loro nel fondo delle tasche sonore; più le ombre diventavano spesse intorno alla mia testa, più essi si stendevano con tutto il corpo al sole.
Ecco gli uomini, mi dicevo: tartufi, mentitori, senza amicizia, senza indipendenza, senza vergogna! Sono come le pecore che si serrano in gregge quando sentono sgozzare la propria sorella. Sono come il cane del famoso Jean, borghese di Nivelles; si nascondono quando un amico li chiama al momento dell’affanno. Sono come l’asino della favola; elargiscono vili insulti al coraggio caduto. Sono simili a Giuda, o almeno a Pietro e al signor [François] Guizot.
Avete visto correre sugli abissi quelle nuvole dai bordi grigi che non contengono nemmeno due soldi di elettricità? Esse non la danno mai se non sono attirate da una grande massa di elettricità contraria. Allo stesso modo, gli uomini si attaccano solo ai più ricchi e ai più noti tra loro. Quelli che si danno false arie di democrazia, più ancora degli altri; perché sono i più poveri e i più ignorati.
L’uomo è lo stesso in tutti i climi, in tutti i partiti, sotto tutte le maschere, le bandiere e i discorsi: un animale diritto come un pioppo e strisciante come un verme; lo sguardo al cielo e l’anima al fango. Le sue labbra sono orgogliose e le sue mani incatenate; ha viscere che non gli servono che per mangiare e si rade per rassomigliare alle donne; può fare l’amore ogni momento e non caccia un solo sospiro che non sia dettato dal calcolo; è di brace per la prosperità e di ghiaccio per la disgrazia!
... Così andavo solo con la mia disperazione e il mio ingrato lavoro. Maledicevo il passato, il presente, l’avvenire. Maledicevo la mia strada, la mia giornata. Della natura vedevo solo il lato oscuro e scoraggiante. Era l’inverno. Guardavo il lago, e il lago muggiva, e sulle sue rive non trovavo una canna verde cui appoggiarmi se fossi caduto. Guardavo l’abisso; e i cespugli che crescevano sui bordi non portavano che spine. Guardavo il torrente; era gonfio come le mie vene febbricitanti, mentre trasportava nel suo furore blocchi di roccia come fossero paglie d’avena. Guardavo la strada che si allungava ironicamente davanti a me snodando i suoi anelli sulla campagna spoglia come un serpente che si avvolge attorno a un cadavere. Guardavo il cielo; era nero, presagiva la neve e il freddo per molto tempo ancora. Guardavo gli alberi; vi tremava qualche foglia gialla e disseccata che il vento staccava ad una ad una, come la malattia stacca gli ultimi capelli da una testa sofferente. Guardavo le strade della città; e vedevo alberghi, teatri, musei, biblioteche chiudersi davanti a coloro che come me non avevano l’abito scuro e la catena d’oro. Vedevo le donne passare velocemente davanti ai poveri, sdegnose, spaventate, timorose di sporcare le proprie sciarpe da ballo con i loro stracci polverosi.
L’anima mia era presa da una tristezza mortale; la mia mediocrità, appena decente, mi pesava più di quanto non mi peserà il coperchio della bara; ero ossessionato da sogni di morte e di suicidio. E mi dicevo: chi mi salverà da quella situazione di isolamento, di oscurità e di miseria?
Chi mi porterà la felicità?
Benedetta sia la colomba che depone sull’arca il ramoscello di ulivo! Benedetto l’arcobaleno che separa col suo braccio iridato le nuvole turbolente! Benedetta la scialuppa che salva i naufraghi dalla più spaventosa delle morti! Benedetta la vigna e il fiume che nascondono il cervo all’inseguimento dei cani! Benedetta la mano che presenta la fresca coppa al guerriero ferito! Benedetto il salice piangente che fa ombra sulla tomba del giusto! Benedetta la bocca che si china sulla testa del poeta morente e gli dice:
“Rincuorati fratello, ti conosco, ti amo; canteremo, piangeremo insieme. In due, i fardelli sono meno pesanti, le strade meno lunghe, le pene meno dolorose e le gioie più brucianti. In due, non è più l’esilio e il rimprovero!
“Alzati e andiamo! Per i sentieri delle Alpi, nel mezzo delle brume di Londra, sotto il sole di Spagna, sul mare, nella notte, il mio coraggio non mancherà. Alla nostra libera alleanza io porto, da parte mia, un passato più felice di quello tuo, speranze più vicine e più nuove, meno esperienze di tradimenti di uomini e instabilità di cose, sogni ridenti, genitori che ci saranno amici e ci sosterranno”.
Giovani sono la Preghiera e la Poesia; giovani l’Aurora e la Rugiada; giovani la Primavera e l’uccello dei cespugli che essa fa nascere per benedirlo! Giovani sono anche l’Amore, l’Entusiasmo, la Speranza e la Fede che sollevano i monti dalle loro fondamenta e gli afflitti dal giaciglio dove vogliono morire!
Quando sentii questa voce di ragazza, fresca come l’acqua dei ruscelli e dolce come il loro mormorio, alzai la testa. Sentii un fremito di liberazione correre nelle mie arterie. Mi tenni in piedi e misi la mia mano magra nella sua bianca mano. E vi trovai la vostra, e nella vostra quella della donna sempre benedetta che, per salvarmi, acconsentì a imbarcare sua figlia, il suo angelo custode, sulle onde infinite dell’Oceano dell’Esilio!
Da quel giorno, il lago, il precipizio, il torrente, il cielo, la strada, gli alberi e le città mi parvero pieni d’incanto, di promesse di felicità. Trovai la primavera troppo fredda e l’estate troppo corta. Potei seguire la lancetta degli orologi e la pioggia d’oro delle clessidre; potei contare i minuti e i giorni, senza spaventarmi della loro lentezza. Spezzai sulle mie ginocchia la catena che la tristezza ribadiva nel mio seno. Mi lanciai di nuovo nella mischia sociale, sfidando gli uomini a mettere alla prova la mia pazienza, a fare tacere la mia voce, a liberarsi dai rimorsi e dai terrori che io ispiro loro. E per congedare la Morte che restava ostinatamente alla mia porta, le gettai contro la ganascia di un rrrivoluzionario della tradizione ucciso dallo sciovinismo all’epoca della prima sconfitta dei Francesi davanti a Sebastopoli.
Ciò mi portò la felicità.
Molti riterranno un sacrificio quello che avete fatto. Al mio posto, costoro si proclamerebbero per sempre vostri debitori dichiarandolo ad alta voce, per dispensarsi di provarlo. Io sono vostro amico; cesserei di amarvi il giorno che pensassi di dovervi qualcosa. Ed io voglio conservare il diritto di amarvi per sempre. Io sento vivamente ciò che minaccia le nostre espressioni e i nostri elogi; non vi farò l’ingiuria di chiamarvi mio creditore.
L’amore è più forte dei fasci di fucili e delle tavole della legge. L’Amore dal sorriso gioioso scappa davanti al Debito dalla fronte rugosa. Gli incontri imprevisti lo riempiono di allegria, le visite di convenienza provocano i suoi sbadigli. Il Finito non può contenere l’Infinito; l’Attrazione domina la Regola; il Dovere si spegne, il Diritto è immortale. Quando si ha un debito si salda il più presto possibile; quando si ama non si salda mai, non lo si può, non lo si vuole: si è troppo felici pensandoci sempre. Quando si deve, si è obbligati; e non vorrete la deferenza forzata, il rispetto, la venerazione che si paga tra negozianti e uomini politici. E io non potrei accordarveli. Questi rapporti sarebbero indegni di voi e di me. Siamo troppo liberi tutti e due per incatenarci l’un l’altro.
So quello che vi bisogna. È la stima che nessuno può rifiutarvi; è l’affetto duraturo che nasce da una reciproca simpatia; sono le lunghe conversazioni, gli omaggi che si rendono alle storie gloriose, gli sguardi lanciati al lontano avvenire dell’umanità. Ciò di cui avete bisogno sono le effusioni intime in cui i cuori si comprendono, in cui le voci servono da interpreti e gli occhi da specchio; sono le fantasticherie a due, all’ombra o sul bordo dell’acqua; quando il pensiero si unisce al pensiero, lo segue o lo precede, lo eccita o lo modera, lo coglie, lo assapora come un sospiro, come un bacio. Quello di cui avete bisogno soprattutto è la felicità di due esseri che vi sono cari.
Quello che mi bisogna, lo sento, è anche tutto ciò. Una famiglia, di mia scelta, non secondo il caso; amici, non parenti; una moglie, un’amante, una sorella, non una donna, una schiava secondo la legge. Quello che mi bisogna, è un luogo sulla terra dove possa indirizzare i miei desideri; un asilo felice dove i miei sogni siano compresi, incoraggiate le mie intraprese, perdonate le mie debolezze; una bella casa in mezzo ai campi dove le mie novità siano sempre accolte con dolci visi gioiosi. Quello che mi bisogna, è un focolare per l’anima mia, dato che il mio corpo non basta più. Perché tu mi sei testimone, rivoluzione della giustizia e della libertà, che io non lavoro per me soltanto in questo mondo che mi calunnia!
Così mi sembrava che fosse la felicità cercata da noi due. Così ci siamo incontrati in passato. Così perseguiremo nell’avvenire questa lunga strada che mi avete fatto riprendere sotto i migliori auspici. Così andremo, progettando, viaggiando, scrivendo, combattendo, sognando, lavorando o cantando; pensando, volendo insieme, gioiosi pellegrini! Così passeremo sui terremoti, le rivoluzioni, le guerre e i diluvi che riempiranno ben presto gli uomini di spavento.
Il Dovere, è la morte; il Diritto, è la vita. Il Lavoro che ci piace, è la nostra libertà. L’Interesse, è il male; l’Amore, è la salvezza.
Il Lavoro, l’Amore, la Libertà ci porteranno la felicità.
Voi siete di più nel presente, io di più nell’avvenire. Voi avete ancora un piede sul suolo dell’Occidente, io ho spinto il mio volo fino alle nuvole di porpora dove si leva il sole. Voi non disperate ancora di ogni cosa, io già spero molto dai sogni. Voi fate infinitamente bene come medico e proprietario, io non faccio molto male come anarchico e guaritore naturale.
E che importa per altro? Che cosa sono i nostri poveri pensieri nel turbine dei tempi e degli universi? Forse il fiume si arresta davanti al filo d’erba che la formica depone sulla sua riva agitata? Forse il fulmine risparmia le chiese le cui lingue di bronzo si lamentano durante l’uragano?
Discutiamo, ragioniamo, meditiamo: è il nostro diritto, la nostra vita, il fuoco sacro delle nostre intelligenze. Ma non confondiamo la Forza con l’Idea: non disconosciamo l’azione delle potenze più eterne e più vaste di noi.
E quando la grande trebbiatrice nell’aia, la Rivoluzione, che separa il loglio dal buon grano, ricomincerà il suo lavoro, non temiamo, lasciamoci portare dal suo temibile vaglio. Perché in verità siamo noi gli uomini di buona volontà, i pionieri delle strade nuove, il frumento che non si perde.
La ragione d’essere dell’individuo la trovo nelle qualità fisiche, morali e intellettuali che lo distinguono dalla massa. Se non vuole farle valere, è un ipocrita o un pauroso; se non può, è un cretino o uno schiavo: nei due casi un essere inutile o nocivo. Siano lodati la nostra franchezza e il nostro amor proprio, non rassomigliamo a questa gente! Siamo quello che siamo e non lo nascondiamo.
E anche se fossimo differenti, che importa? Forse i nostri contrasti non sarebbero accordati, armonizzati, ravvicinati, resi gradevoli, utili e buoni nel gruppo d’affinità che avremmo saputo crearci nel mezzo di una civilizzazione divisa da interessi contro la natura?
L’Amicizia porta felicità!
Così mi appariva la famiglia nell’avvenire; come la nostra, ma non più circondata, da vicino o da lontano, di indifferenti e di nemici: come la nostra, ma in un ambiente diverso da quello della civilizzazione: come la nostra, ma cullata dalle onde gioiose del mare umano, libera da ogni ostacolo.
Se me ne fossi fatto un’altra idea non mi sarei impegnato; se avessi temuto di trovarvi delle catene avrei continuato a trascinare quelle il cui rumore mi era diventato familiare. E se voi non avreste letto nell’avvenire, come me, non avreste consentito ad un’alleanza folle seguendo il mondo e i suoi meschini interessi.
Oh! quando si leverà su di tutti il sole della liberazione? Quando i poveri avranno il diritto al lavoro e i ricchi alla felicità? Quando privilegiati e proletari, primi e ultimi, soggetti e padroni spariranno dai continenti uniti? Quando la confederazione dei popoli e degli uomini condurrà sulle terre e sui mari le sue ronde trionfali?
Purtroppo! purtroppo! non vedremo tutto ciò nella nostra attuale vita. Ma il sole si leva tutte le mattine sui monti accigliati, la luna si bagna tutte le sere nelle onde tranquille, le rondini e i proscritti ritornano tutte le estati nelle valli che amano. Ma non vi sono belle feste, non vi sono esistenze utili che non abbiano un domani. Noi siamo stati, noi siamo: dunque saremo ancora. L’essere è immortale. – Lo credete, non è vero?
La Speranza porta felicità!
Sono superstizioso e non lo nascondo. Definisco la superstizione: l’estrema curiosità che ci porta a spiegarci i fenomeni di cui non abbiamo ancora scoperto il meccanismo.
Sostengo che tutti gli uomini sono superstiziosi. Ma lo sono in due modi: uno buono e l’altro cattivo. La superstizione ci è nociva quando paralizza i nostri sforzi, quando ci rende timidi, paurosi, indifferenti su tutte le cose, impotenti a intraprendere qualcosa; ci è profittevole quando ci stimola a lavorare, cercare, osservare, scoprire; quando è madre della scienza.
Sono posseduto da quest’ultimo movente. Mi appassiono a tutti i problemi temibili. È con gioia che mi impegno nel labirinto dell’incognito; è voluttuosamente che mi tuffo nel fondo delle acque, gli occhi spalancati; è a testa alta e senza inginocchiarmi che cerco la più vicina soluzione dell’eterno problema della Vita futura e di dio. Ritengo che così si vada più veloci. Colui che chiude gli occhi e giunge le mani per estasiarsi e pregare, non farà mai nulla che valga, né scoprirà mai qualcosa. Dove diavolo sarebbe l’Umanità, ditemi, se fosse rimasta sui talloni di Adamo, piangente e a lutto perché il nostro buon vecchio padre si mostrò meno virtuoso e più furbo di Giuseppe, l’uomo saggio!... L’imbecille che lasciò solo il suo mantello sul giaciglio lussurioso dove si contorceva la bella egiziana appena uscita dal bagno, dal bagno profumato!
Ecco come sono superstizioso.
La Superstizione porta felicità!
Perché questa digressione? Per trovare il modo di dirvi che amo le rondini, che spesso mi aggrappo alle loro ali smisurate per attraversare il tempo e lo spazio, e così credo di guadagnare molte ore.
Perché le ami tanto queste piccole bestie nere che molte persone temono me lo sono chiesto spesso, e ogni volta mi sono dato una risposta che me le rendeva ancora più care. Esattamente il contrario di quello che mi succede con gli uomini.
Le amo perché il loro canto mi consolava, fanciullo, quando mi avevano sgridato. Le amo perché mi tenevano compagnia nella mansarda, al tempo degli studi ingrati. Le amo perché, sotto tutti i cieli dove mi conduce l’esilio, le ritrovo viaggiatrici, lavoratrici, libere come me, come me che si avvicinano agli uomini ma non si mischiano con loro. Le amo perché sono vive e agili, perché fanno lunghi voli sulle montagne, le valli, le acque e gli abissi, senza mai arrestarsi. Le amo quando cinguettano sotto le mie finestre ed io con la mia penna sono la misura dei loro canti. Le amo perché non posso vederle senza pensare all’amore, al lavoro, all’indipendenza, ai viaggi, all’avvenire, a tutto ciò che ci consola, che ci innalza, che ci stacca dall’istante e dal luogo che racchiudono i nostri corpi. Le amo e mi piace pensare che nelle sue esistenze precedenti la mia anima ha fissato il suo soggiorno nelle ali di una rondine.
Questa credenza mi porterà felicità!
Buone notizie portate da un paese lontano
sono come l’acqua fresca per una persona
ammalata e stanca.
Proverbi di re Salomone
Questa mattina, mentre scrivevo, quella che mi è più familiare fermò il suo volo nella mia camera. – Salve! cantatrice dalla gola rossa, da dove vieni così contenta?
– Vengo dalle belle contrade dove il sole giace; ho attraversato i mari del Sud che esso fa scintillare sotto i suoi raggi. Quando le prime gelate imbiancheranno l’erba d’autunno, ripartirò per i paesi del sole. Prendo il mio bene dove lo trovo; il mondo è la mia patria, la terra è il mio dominio; gli uomini costruiscono palazzi e capanne che mi servono da tetto; e sulla pianura liquida, quando mi sento troppo stanca, mi riposo gorgheggiando sul cordame dei bei battelli.
– Dimmi, hai attraversato il grande paese dalle foreste verdeggianti, la Francia abbondante di vini, di frumenti e di bei frutti? Come l’hai trovata?
– Vecchia, triste, abbattuta, delusa, morente! Quanto è cambiata, gran dio! La vecchia gaiezza gallica e la libertà franca sono state bandite per sempre; il Dispotismo vi consolida il suo trono nell’umiliazione; la Guerra vi diffonde i suoi spaventi, e la Corruzione i suoi saturnali.
– Hai attraversato la Borgogna dalle coste d’oro, passando per la fresca Puisaye che bagna i suoi piedi bianchi nelle umide praterie? Hai notato tra le macchie di querce e di salici una casa tutta messa a nuovo carezzata dai venti? Che cosa vi accadeva?
– Sono passata dappertutto, ho contato le capanne che luccicano, le migliaia di città e villaggi che dormono sui bordi dei fiumi sonnolenti. Ho visto molte donne, fanciulle piangere i loro padri, i loro figli, i loro amanti e i loro fratelli, esiliati, imprigionati. Davanti alla casa a cui ti riferisci si trova un balcone su cui mi sono posata. Il giorno appena spuntava e di già, vicino una finestra, era seduta una madre che pensava a suo figlio, e gli scriveva. Nel campo vicino i giovani puledri saltavano attorno alle giumente, e la povera madre li guardava sospirando!
– Rondine! Rondine! perché non le parlavi dei tuoi progetti di viaggio? E poiché venivi nel paese dei ghiacciai e dei laghi, nella Savoia che lei ama, perché non le chiedevi dei messaggi?
– Li ho chiesti. Alla mia rapida ala lei ha voluto appendere un ricordo per te. Ma l’ho rifiutato. Il potere in Francia è ombroso e vigliacco; fa una guerra mortale agli uomini, alle donne, ai fanciulli, a tutti gli esseri che amano la Libertà, mia cara patrona; mi attirerei dei guai se volessi superare i treni che portano i dispacci. Conosco il destino crudele dei piccioni viaggiatori, ed io voglio conservare intero il mio volo fino ai miei ultimi giorni. Pertanto mi incarico solo di baci e di parole d’amore inviati ai proscritti. Ed io ti porto gli uni e le altre per quanto può un uccello della mia forza.
– Sii benedetta, corritrice dalle grandi ali, per la Libertà, per l’Amore e per me stesso! Che le tue attraversate siano felici! Che il tuo nido sia conservato sotto altri cieli come tu lo hai lasciato la passata stagione! Che i giovani cacciatori non ti inseguono col loro piombo assassino! Che i miei fratelli d’esilio si riuniscano ai tuoi canti! Che il mondo nuovo ti scelga per emblema delle sue nuove bandiere! E che tu possa portarmi la prossima stagione novità di libertà e di rivoluzione!
Il salnitro ha tuonato; il corvo del Nord aguzza il becco contro i propri fratelli, i portatori di corona; i cacciatori ucraini tendono le trappole in Europa, in Asia; fin dal mattino hanno lanciato nei campi i cani e i cavalli. Quando me ne vado il mietitore conduce per l’ultima volta la sua falce nei campi, la foglia cade, l’uomo vacilla. Quando ritorno il fieno cresce di nuovo vicino al grano e ai fiori, le gemme perforano la scorza degli alberi, i bambini nascono in gran numero sotto il giovane sole. L’autunno e la primavera che verranno vedranno compiersi grandi cose. Io sono la Profetessa che non si interroga invano. Ascoltino coloro che hanno orecchie!
– Ascolto e penso di comprendere, sono avido di vedere. Ascolto e sento che le grandi meraviglie sono vicine. Ascolto e mi preparo alla Rivoluzione.
Aspettando, tu conosci il paese, la casa, la finestra dove puoi ricevere quello che ami. Quando ripasserai dalla Francia di’ loro che io lavoro per la Libertà, che sogno per essa, che le invio questo libro in testimonianza del mio amore.
E le auguro che porti loro fortuna!
Introduzione
Sum id quodo sum.
Dante
Le vive voci m’erano interdette;
Ond’io gridai con carta e con inchiostro.
Petrarca
… That heart hath long been changed;
Worm-like’t was trampled – adder-like avenged.
Byron
I
Lavoro come il seminatore che prende il frumento nel pugno e lo getta nel solco senza guardare dove cade, senza levare le pietre.
Il sole non manca; ma il tempo delle semine è breve e la nostra vita passa come l’ombra di una scintilla. Capricci, tormenti, malattie innumerevoli assorbono la maggior parte del nostro tempo. Ogni giorno basta alla sua pena.
Dunque carpe diem; utilizza il secondo; il Lavoro è la felicità!
E io semino cantando!
Getto nel vento i miei fogli neri e bianchi, come gli alberi le loro foglie verdi. – Richiamo sui miei libri la luce della discussione, la tromba della pubblicità, l’interesse dei liberi, l’odio degli schiavi, le dolci lacrime delle donne, il riso ingenuo dei bambini e dei vecchi. Ho solo paura del silenzio. La verità è sempre forte.
Ed io semino cantando!
Getto le mie parole bene in alto. – La calunnia le coglie al volo e le gela nell’aria. Ma il seme ritorna sempre alla terra; le buone ragioni della giustizia abbattono le collere cieche, come la pioggia i grandi venti. E quando splenderanno i bei giorni di primavera, le mie parole esploderanno. Mastro Rabelais lo dice, e io lo credo.
E semino cantando!
Getto le mie parole ben lontano. – Dietro sterili chiacchiere, ambizioni microscopiche del presente, battaglie di donne, di valletti e di re! Penso che l’uomo libero vede più chiaro nell’avvenire che non in queste orge tenebrose. Io riconosco come scrittori pericolosi solo gli intriganti e i venduti. Audacia, audacia, ancora audacia! Non c’è certezza che nella Profezia!
E io semino cantando!
Getto al pubblico le mie parole senza precauzione, senza misura. – Chiamo brutalmente le cose col loro nome. Oggi precauzione vuol dire vigliaccheria. E misura poetica significa cavicchio, sega tripla, lima coi denti ricurvi, succhiello smussato, lira o chitarra rotte, violino senza corde, ghigliottina senza grasso, organetto di Barberia, gioco di pazienza, viola per topi bianchi, marmotte sapienti e scimmie che ballano la polka, altalena, masturbazione dell’intelletto, getto continuo di acqua tiepida…
Oggi la rima è più despota che schiava; è mortale per l’originalità del pensiero, mortale per l’armonia; è l’anello di ferro che ne presuppone altri e ribadisce le più pesanti catene attorno all’intelligenza prigioniera. La ragione ha tutto da perdere accoppiandosi con essa.
Tutti questi scrittori da dozzina, che partoriscono con dolore milioni di parole in cadenza, non concepiranno mai un’idea.
La letteratura francese ripugna ai versi, il futuro socialismo li condanna. Non c’è un poeta francese, come non c’è un rimatore rivoluzionario. Goethe e Byron hanno ucciso i falegnami dello stile; vogliono essere seguiti nel loro rude cammino.
E io semino cantando!
Getto una profezia contro tutti quelli che si spremono il cervello per trovarvi ancora delle rime.
La lingua francese non ha ancora poemi, non ha un capolavoro di armonia letteraria. Molière è una delle glorie della nostra filosofia critica; per lui i versi erano qualcosa di accessorio. La prima composizione di questo genere che sarà fatta presso di noi, quella che ci darà un posto nella radiosa pleiade dove di già troneggiano l’Italia, la Germania, l’Inghilterra e la Russia, la prima creazione francese veramente epica sarà fatta in prosa.
Lamennais e Châteaubriand l’hanno tentata, ma questi due perfetti cristiani lavoravano su idee vecchie, essi sacrificavano tutto alla forma vistosa che serviva all’uno di sostegno e all’altro di mantello. Che il loro dio conservi in pace le loro anime!
L’eccentrico, il grandissimo, il proscritto dei puritani del culto e della rima, Byron, sarà sviluppato da un francese più profondamente filosofo, meno felicemente artista e poco rimatore quanto lui stesso.
Questo monumento letterario dovrà essere elevato alla fine di questo secolo, al momento in cui la Francia sparirà dalla scena del mondo. Sarà l’inno dei suoi funerali, l’immortale corona depositata sulla sua fronte.
La mia predizione si compirà fatalmente:
Perché la nostra epoca è eminentemente critica; – perché le rivoluzioni, le guerre e i cataclismi di ogni genere che attraverseremo, faranno nascere in gran numero produzioni critiche; – perché la Francia è prima di tutto una nazione critica; in essa la situazione, la lingua, i costumi e gli usi riassumono, alla nostra epoca, l’insieme morale dei popoli civili.
Risulta quindi che l’opera dei nostri tempi rivoluzionari uscirà dalla nazione il cui genio si esercita specialmente nella critica, il cui carattere proprio è di non averne per nulla.
E siccome i fatti che andranno ad accadere sotto i nostri occhi prenderanno proporzioni gigantesche, siccome il bagliore sinistro delle lotte si rifletterà su una grande distesa di tempo e di spazio, è impossibile che lo spirito francese non ne tragga un grande lavoro di universale armonia.
Per completare la mia predizione aggiungo che Rabelais, Montaigne, Molière e Beaumarchais saranno ancora più apprezzati di ora: – essi diverranno realmente europei – e che P. J. Proudhon lo diverrà molto di più; – mentre non vi sarà un uomo che sappia leggere che non riuscirà a raggiungere la verve satirica del buon curato di Meudon, dei terribili paradossi del Mefistofele della Franca Contea.
Aggiungo ancora che tutti i grandi autori europei saranno letti in francese; – che questa fase letteraria sarà veramente la fase francese generalizzata.
Ma il Libro più diffuso di tutti gli altri, la vera Bibbia del XIX secolo sarà quello a cui ho fatto cenno, meno nazionale e speciale di tutti gli altri, e che riassumerà le tendenze dei popoli e degli uomini minacciati dal diluvio.
Ecco ciò che affermo con altrettanta sicurezza della venuta dei Cosacchi!
E io semino cantando!
II
“Canta, canta ancora, anima mia ferita! Canta come il fanciullo della Savoia che muore di tristezza, come il cigno sotto il coltello! Canta ancora una volta”. – Così mi disse la voce interiore.
E io obbedii. Cantai come l’allodola quando vede planare su di sé l’astore d’Irlanda dagli artigli taglienti. Non sa con certezza quello di cui deve avere paura, ma è affascinata dall’occhio sanguinante della Morte. E io scriverò come poteva parlare Damocle ai festini regali di Sicilia, sotto la punta della spada!
E canterò come la capinera che trema quando il contadino crudele ha scoperto il suo nido. E scriverò come poteva scrivere Milton perseguitato dai sicari di Carlo II. E fischierò, riderò come chi attraversa una città contagiata dalla peste e vuole dissipare i terrori che l’ossessionano.
Hæret lateri lethalis arundo!
Sei ben stanca testa mia ribelle. I capelli mi sembrano vipere e la barba un prato secco! Niente, niente mi conforterà di questa angoscia?… Né l’acqua del fiume né l’azzurro del cielo né il chiaro delle stelle né il sole che sorge né lo sguardo, oh!, lo sguardo delle donne che tanto fin qui ho amato!
Haeret lateri lethalis arundo!
Purtroppo il Lavoro uccide velocemente, mille volte prima del Vizio! Che magro compagno è il Dolore! Come sono penetrati nella mia carne gli angoli delle sue ossa! Come ha appannato i miei occhi! Come mi ha cambiato!
Avevo un nonno che amavo molto, infinitamente, perché non mi rimproverava e mi raccontava delle belle storie da dormire in piedi. Ebbene! se adesso uscisse dalla tomba il brav’uomo non mi riconoscerebbe!
Haeret lateri lethalis arundo!
III
Lettore, tu leggerai queste pagine vicino a un buon fuoco, accanto a un limpido ruscello, sotto una quercia dal verde fogliame, ai piedi di una montagna in fiore. Forse applaudirai, forse fischierai, come si fa nei circhi quando i lottatori sono stanchi. Io mi batterò più o meno brillantemente ma sempre inutilmente contro le ferite che mi sono fatto.
Haeret lateri lethalis arundo!
Sentirò il riso trionfale dei governanti e dei partiti. Rialzeranno imprecando il mio corpo disteso sul cammino dei loro intrighi, sporcheranno la mia memoria maledetta, chiameranno l’adunata dei loro pretoriani battendo il mio cranio sonoro, mi taglieranno la mano destra, strapperanno a pezzi la mia lingua, vantandosi di avermi stancato. E tuttavia, lo giuro, non otterranno altro che il mio disprezzo. Il colpo è meno basso.
Haeret lateri lethalis arundo!
Sogna, sii felice, lettore, se lo puoi ancora. Io abbasso gli occhi del mio spirito sulle piaghe della mia anima, poi le alzo verso la polvere d’argento che brilla in alto sui monti, e mi domando:
La neve, la bianca neve non è più vicina agli abissi che ai cieli? Non è più fredda che eclatante? Oh! che resterà quando passeranno su di essa i primi ardori del sole?
Haeret lateri lethalis arundo!
IV
Sono simile alla bianca neve che, sussultante, percorre l’atmosfera e non si fonde che toccando il suolo.
Dove sei febbre feconda che mi facevi bere tutto il lavoro che la Solitudine versa all’uomo nella sua coppa brunita? Da dove vengono la secchezza delle labbra, l’incendio della fronte? Quali spesse tenebre coprono i miei occhi? Perché sono circondato dal Vuoto, l’orribile Vuoto che non ha limiti? Quale implacabile genio trascina la nostra anima affannata sui sentieri dell’inferno?
Atroci sogni notturni, fuggite, non cantate più, non danzate insieme, non vi prostituite gli uni con gli altri sul mio giaciglio vicino al fuoco! Sparite visioni, allucinazioni, disperazioni e torture!
Demone che agitavi Lutero e Cristo, e Jean-Jacques e Socrate, e Swedenborg l’Illuminato, demone che bevi la mia vita, demone succhiatore di midollo, arcangelo degli spaventi, anima di ferro e di bronzo che divampi di fiamme sempre rinascenti: lasciami! Fammi libero, o rendimi strafottente, insensibile al male, come il tuo spirito di soffio. Voglio essere senz’altro tuo complice ma non potrei restare tua vittima. Da quando gli angeli ribelli si accaniscono sui loro amici? Esci da me, demone! – Mai, risponde la voce che grida nelle mie viscere.
Haeret lateri lethalis arundo!
V
Estendo sulla natura il dolore della mia anima, il suo infinito dolore! Il lago è uno specchio, i fiori la sua corona, i ghiacciai il suo trono. Esso mi precede nei sentieri delle montagne, sotto i cammini coperti che corrono lungo i ruscelli. Nessuna gioiosa sensazione, nessuna speranza può arrivare fino al mio cuore senza attraversare uno spesso velo di lutto. Non c’è più imprevisto per me.
Vivo sotto condizione. Su tutte le meraviglie del mondo, nella corolla delle orchidee, in fondo alle acque, nell’aria, i miei occhi smarriti leggono questa fatale domanda: puoi gioire di ciò?
Ah! che cosa diventano tutti i nostri piaceri quando li rischiariamo alla fiamma divoratrice dell’analisi?… Altrettante torture!
Haeret lateri lethalis arundo!
L’uomo esprime bene solo quello che prova. Se io descrivo con mano così ferma i caratteri della decadenza dell’Occidente, è che mi sento attaccato allo stesso modo nel mio vigore. Purtroppo! ho vissuto la mia primavera come l’insetto effimero, ho tracciato il mio solco rosso, simile all’eterno fulmine. – Corta esistenza umana, fatale destino! strappo a pieni denti i fragili legami che mi legano a voi.
Haeret lateri lethalis arundo!
Qualche volta la stringo al mio senso, la Disillusione dall’occhio morto, dai rari capelli, ninfomane stanca che freme sotto gli abiti di seta con cui agghinda la sua affascinante gioventù! Quante volte essa estrae la sua lingua bianca e raffredda i miei ardori!
Quando la lascio sfuggire dalle mie braccia, erra frenetica, inseguendo usignoli e capinere, rompendo sul suo passaggio i rami dei mandorleti. Davanti ad essa sfuggono gli uccelli gioiosi e i ramoscelli seccano. Quando vuole immergere i suoi piedi neri nel chiaro ruscello, l’acqua si salva mormorando. E quando tende le sue braccia smagrite verso il cielo, il profondo specchio si copre di nuvole e la tempesta scoppia sulla natura tremante.
Spaventosa disposizione della mia anima! È sempre in primavera che soffro di più; è sempre quando tutto rinasce, sorride e gioisce nel giovane sole!
Haeret lateri lethalis arundo!
E il tedio taciturno, dalle dita palmate, il gigantesco vampiro, il nemico del sonno, che si sveglia tre ore prima del giorno per strapparmi e dirmi: eccomi!... quante volte lo vedo! Si stende sul mio corpo, incolla sulla mia bocca le sue labbra verdastre, riempie la mia gola e il mio petto di lava incandescente. Passa l’unghia sporca intorno ai miei occhi e li fa sanguinare attraverso le palpebre. Posa la mano di piombo sul mio fegato che comprime e avvicina lo stomaco alle vertebre. Sui miei fianchi e sulle mie spalle aguzza i suoi denti puzzolenti, fuligginosi. Mi inchioda sul mio giaciglio e non mi fa muovere, e non posso lamentarmi!
Oh rabbia! ciascuno trova il suo padrone. Io, che non ho paura di dio, che non ho paura dell’uomo; sono preda del male.
Haeret lateri lethalis arundo!
E la baccante dall’occhio truccato, la febbre rossa, ubriaca, impaziente, che frustra le guance e le mani!… quante volte la soffro! Arriva dolcemente, dolcemente, strisciando lungo le vene, come sui binari avanza la locomotiva che soffia per trascinare i vagoni. Borbotta, fischia, urla, fa un baccano d’inferno, getta scintille nel mio cervello, disfà le pieghe del mio cuore, si dimena su di me come su un ferro ardente.
Allora, corro alla tavola, accendo il sigaro fiammeggiante, aspiro il fuoco, bevo l’acqua. Poi scrivo: scrivo lettere, poesie, filosofia, pamphlet. Ho freddo e brucio, amo e odio, rido e piango. Ciò dura circa due ore. Durante questo tempo i miei pensieri straripano come torrenti; corrono, sfuggono da ogni parte, e non posso riunirli.
Affannato, senza voce, senza volontà, subisco la tormenta. Poi si fa luce e sono rapito nel mio spirito. Brucianti, scintillanti, mordenti mi vengono le parole; non ho altro da fare che lasciar passare il convoglio furioso. Attenzione avanti!
Ma dopo la mia testa pesa, i miei fianchi sono spezzati, un sudore bruciante percorre tutte le mie membra, le visioni di disgrazia ritornano.
Haeret lateri lethalis arundo!
Spesso nelle notti oscure, le mie quattro vene sembrano aprirsi, e mi scappano quattro getti di sangue che ricadono sul mio seno per soffocarmi. Spesso una mano di ferro mi lavora il fianco sinistro; mi sento gettato, morente, negli abissi senza fondo.
Orrore! gruppi di scheletri e di serpenti si intrecciano insieme come tanti Laocoonti. Rettili immondi sono circondati di aureole di gloria; il verme dai freddi anelli è loro sovrano. Marciano sulle stelle, nuotano nell’immensità dei cieli, mi attirano nei pozzi dalle fredde acque, nelle marre melmose; aprono una finestra e mi ordinano di gettarmi.
Poi l’incubo li raduna sotto le sue ali paterne e li trascina, urlanti, nel mezzo del Caos. Allora il mio cuore batte contro la gola come il fiotto del Vesuvio contro la crosta del cratere. Allora il firmamento mi sembra scoppiare come un globo di cristallo. Mi sveglio di soprassalto e il Sonno benefico non copre più i miei occhi con i suoi umidi baci.
Credo che soltanto il Rimorso possa torturare in questo modo. Ma io vedo che il traditore, il vigliacco, lo spergiuro, l’ozioso e lo sfruttatore prosperano. E che il lavoro, il santo amore dell’umanità uccide quelli che lo servono con troppa premura.
Haeret lateri lethalis arundo!
Qualche volta mi appare la Morte! Digrigna i denti, morde le mie arterie, si avvoltola nelle mie viscere e scappa via. Nemesi insonne, spezzando le nubi con le sue ali ossute. Mi lancia contro queste parole: Vivi per la disperazione! Mangia il pane delle privazioni, bevi il vino dell’angoscia! Bisogna segnare di salnitro il tuo solco fino in fondo!
Haeret lateri lethalis arundo!
Quando l’ultima consolatrice mi aprirà il suo inviolabile asilo, voi che mi avete amato, radunate i pensieri che l’esilio mi strappa. E gettateli in pasto agli uomini affinché questi non insultino più il dolore degli uomini!
Forse allora trasalirò sotto la pietra? Forse verrò a visitare qualche giovane delle future generazioni? E i loro canti di gioia mi rallegreranno. E avrò almeno la consolazione di non avere invano attraversato le città di questo mondo.
Ma no, sono ancora sogni. Quando non ne farò più ad ogni momento, per poi vederli sfuggire il momento dopo?...
Purtroppo! adesso che ho conquistato la forza di pensare, adesso anche la Fatica mi disprezza col suo riso ironico.
Mi spavento di tutto quello che mi resta da fare, e la mia impazienza aumenta la debolezza. I lavori di anni si presentano a me tutti in una volta come il lavoro di un giorno; non saprei più far seguire al mio spirito la marcia della mia penna. Perché parenti abitudinari mi hanno fatto consumare la giovinezza su studi assurdi? Perché mi sono stancato?
Haeret lateri lethalis arundo!
Se almeno una fanciulla diffondesse su queste strofe le sue lacrime virginali, se qualche buon vecchio le leggesse ai suoi bambini nelle lunghe veglie, se il prigioniero le meditasse in fondo alla sua galera, se il proscritto e l’emigrante le ripetessero alle lontane brezze, se potessi sperare che fossero trascritte nelle lingue di Castiglia e di Ausonia!...
Allora mi addormenterei quietamente nel sonno supremo, e mi direi: Siate benedetti, uccelli dei cieli che cantate per quelli che non sono più! Andate a fare i vostri nidi nel biancospino delle tombe! Andate a bere la rugiada nei petali della malva e della sempreviva! Amate, siate felici! E quando pioverà troppo forte, riparate bene le vostre ali sotto i cipressi che proteggono i morti con il loro spessore ramificato!
... “Oh la bella elegia! Passerai due notti in bianco per averla fatta”. Così minaccia al mio fianco il Male dallo sguardo fisso.
Haeret lateri lethalis arundo!
Passate, passate dunque, bei giorni della giovinezza, lenti come la tortura, tristi come la iena, pesanti, ghiacciati come la grandine sulla vigna in fiore! Passate, giorni monotoni, interminabili notti; sbadigliate, sospirate, imponetevi su di me!
Haeret lateri lethalis arundo!
VI
“Taci, mi si grida. Questo secolo è già pieno di confessioni di disperazione. In mezzo ai grandi mari, sulle cime delle Alpi, lungo i fiumi del Nord hanno gridato i Manfredi e i Faust. Troppe capigliature sono state sciolte al vento, troppe lacrime diffuse nella natura, troppe bestemmie si alzano contro dio!
“Segui la tua strada, inghiotti i singhiozzi, mordi il freno! Ma passa, passa presto, in silenzio, con le ombre, senza spaventare quelli che vivono felici!”.
– Taci e soffri! È facile a dire, nobili piccole signore dai nervi di fuoco. Il vostro sauro preferito non ha apprezzato le sue redini d’oro, non avete sporcato il vostro piede bianco sul selciato delle strade, il sole che gioca con le vostre tendine di seta non stanca i vostri begli occhi, sapete intrattenere i vostri amanti in un distinto pallore. Dunque, tutto è per il meglio; dunque, noi siamo sovranamente maleducati, noi che veniamo a turbare le vostre feste; dunque, disprezzo e pallottole a chi vorrebbe pane, a chi vorrebbe diritto!
Non è per voi, che amo, in quanto siete graziose, ma per l’eguaglianza, che desidero vedervi con qualche leggera preoccupazione: qualche piega sul vostro sofà, cinque minuti d’attesa ad un appuntamento, una cameriera innocente, un marito geloso, un amante intirizzito. E vi sfiderei a non lamentarvi!
Come vorreste dunque che resti muto l’irritabile poeta che sente sanguinare in lui tutti i lamenti dei diseredati? Come potrebbe egli mescolare i suoi rudi capelli alle vostre capigliature lisce e dedicarvi i suoi sogni? Ah! credetegli, se tanti uomini d’ingegno si sono staccati da voi per sfiorire nella solitudine, se tanti coraggiosi, se tanti cuori d’artista si sono lasciati andare, se avete sentito tanti canti lamentevoli, dipende dal fatto che viviamo in un’atmosfera di corruzione e di miseria che non è più respirabile, per cui occorre il lamento di qualcuno per accendere la rabbia nel ventre di tutti.
Io sostengo che queste confessioni oggi sono indispensabili, salutari. Sono fari nelle tenebre, proteste, avvertimenti in mezzo all’apatia generale. Sì, i più impressionabili fanno bene a ricordare agli altri il sentimento della loro umiliazione, la coscienza del diritto, della fierezza. Sopra le Sodoma e le Gomorra occorre del sale, del fuoco. Contro le malattie incurabili la dura Chirurgia scatena il suo acciaio. Così stenderò la mia destra fremente sull’abisso infetto in cui le società imputridiscono, e griderò a pieni polmoni:
Haeret lateri lethalis arundo!
Non sono rimatori incompresi, cercatori di pubblicità, quelli che predicono, ciascuno nel suo linguaggio, la rovina della Civilizzazione; essi non scrivono per attirare su di loro la stancante pubblicità di un giorno. No, perché si staccano dalla via comune per cospirare alla propria morte. No, perché essi non possono pensare senza diffondere sulle loro pagine, invece dell’inchiostro nero, fiotti vermigli del loro sangue. No, perché essi si esiliano su propria decisione dal mondo barbaro che vende la felicità a qualcuno al prezzo della sofferenza pubblica.
Ah! come ci si può divertire quando si vedono tanti uomini piangere? Come bere, mangiare e ridere davanti a quelli che muoiono di fame, che muoiono di freddo. Senza dubbio io sono di una sensibilità sciocca, ma non posso.
No, non posso tacere. Sono come la sensitiva, si china verso tutti i passanti per domandare carezze. Così io fremo a tutti i soffi, freschi o avvelenati, perché spero sempre di trovare in questa vita qualche sollievo.
E tuttavia quelli che mi avvicinano mi offendono senza pietà. Quando hanno raccolto il grido della mia angoscia, mi gettano nel fango come la foglia di sensitiva. In questo secolo di cinismo schiavo, di gioia parsimoniosa e di porcina sensibilità, l’uomo che ama è di troppo.
Haeret lateri lethalis arundo!
VII
Sono entrato nella vita attraverso la porta di bronzo, la pesante porta che gira sui suoi cardini gridando: Sfortuna!
Tuttavia seguo la mia strada. L’inflessibile logica vuole che l’uomo dell’avvenire sia straniero tra i suoi contemporanei, che l’indipendente soffra in mezzo agli schiavi, che il giusto sia perseguitato dai tribunali del privilegio. Essa vuole che l’intelligenza attiva usi prontamente la sua protezione, e che, presso gli scienziati ipocriti, lo spirito temerario sia tacciato di follia.
Se questa è Fatalità come non risentirla io che la subisco e l’affronto?...
Ma sono realmente solo, realmente sfortunato? No, perché se le gioie materiali e la stima del mondo venale mi sono rifiutate, io mi sento trasportato sulle sue onde muggenti dall’arco santo della filosofia, dai solidi remi della giustizia e del lavoro. E navigo a piena vela verso le rive della Terra nuova. E non mi compiaccio nel riposo, nell’estasi infinita, nella gioia che gusta il pensatore quando ha tradotte le vibrazioni della sua anima.
Sì, la conosco, questa ineffabile soddisfazione dei poeti e degli uomini liberi, soddisfazione di Omero e di Milton ciechi, di Dante proscritto, di Tasso che dicevano pazzo, di [Gustave] Moreau mancante di pane!
A colui che assapora questa suprema felicità che importano le tribolazioni sociali? Se la sua anima è sensibile come la mia, egli si lamenta; è un ulteriore bisogno della sua natura di artista. Ma in fondo egli non vorrebbe scambiare la sua sorte con quella di coloro che si nascondono dietro paraventi scarlatti. Ed io che mi sono messo così tardi in viaggio per la patria dei grandi e dei saggi, che morrò probabilmente senza raggiungerla, non baratterei tuttavia la mia cattiva penna contro l’imperiale trono di Francia.
Se questo è Orgoglio come potrei difendermi, io che mi sento migliore degli affamatori dei popoli?
Alla forza che mi opprime io oppongo la mia libertà, alla tirannia che mi perseguita resisto con la mia indifferenza; lotto contro la Fatalità con l’accanimento del mio Orgoglio. La reazione è in ragione diretta della compressione. Noi siamo ancora all’omeopatia sociale. Dunque male contro male: ognuno si salvi come può!
Uscirò dalla vita dalla porta d’oro, la porta smagliante sulla quale sta scritto, con le stelle, la parola Felicità!
Mi metterò sotto i piedi la libidinosa pantera, il furioso leone, la magra lupa che spaventò Ezechiele; e li farò indietreggiare fino ai limiti delle ombre.
Sentirò dietro di me le grida dei dannati di quaggiù, davanti a me i canti dei precursori partiti per altri cieli; resterò sospeso per qualche tempo tra l’Inferno e il Paradiso. E le dolci brezze e le nere tempeste mi porteranno il rumore che fanno le ali degli angeli e quelle dei demoni!
Ma in questa nuova esistenza sarò felice, assolutamente libero? Purtroppo no! Non esiste un mondo di gioia senza pena, di indipendenza senza soggezione. La monotonia è la triste risorsa dei caratteri impassibili, delle intelligenze limitate. Colui che sente vivamente spera e soffre molto più degli altri. Bisogna che accetti le alternative della mia natura che mi eccita fino alla febbre e mi abbatte fino allo scoraggiamento, che mi rende di volta in volta spirito o materia, fanciullo o vecchio, impaziente o rassegnato.
Dato che l’essere deve eternamente gravitare nel ciclo dell’esistenza, dato che gli è necessario dibattersi sempre tra bene e male, sopporterò la vita che mi ha dato su questa terra finché non sarò troppo stanco. Ne approfitterò per informare i miei simili delle mie impressioni vive perché essi non tendano troppo le molle contrarie del loro spirito, perché lascino sempre prodursi una soluzione prosaica, pratica, giornaliera tra due contemplazioni poetiche, passionali, infinite.
Purtroppo! l’esistenza è lunga, difficile, stancante, imbarazzante. Il cammino non è diritto, lo scopo sconosciuto. Come avanzare nella folla senza lottare, senza ferirsi? E tuttavia come può l’uomo riuscire a superare tutto quello che lo circonda, e spopolare l’universo? E qualora ci riuscisse quale figura vi farebbe, poveretto, sotto l’oscura corona del Nulla?
Penso che il Suicidio e la Morte siano punti di non ritorno, preparativi di viaggio, di provvisoria sistemazione, di cambio di casa, di sconfezionamento, di passatempo, di eccitante distrazione, ma non certo garanzie di felicità. L’uno e l’altra sembrano farci andare indietro di fronte a una soluzione rinviata all’infinito, ma non si può evitare di saltare, correre sempre, e sempre avanzare e tornare indietro. Dovunque portino le sue passioni e l’importanza della sua persona, l’essere è condannato a vivere in perpetuo; la Rivoluzione non abdica mai ai diritti che ha su di lui.
Se questa è la Disperazione, come vi sfuggirò, io che prendo ogni giorno coscienza delle mie passate esistenze e di quelle future?
All’impazienza del mio carattere che mi trascina verso l’Infinito, alla Libertà della mia intuizione che mi porta verso l’Eterno, opporrò la nozione di Fatalità che mi domina dappertutto. La compressione è in ragione diretta dell’emancipazione. Siamo ancora all’omeopatia sociale. Dunque male contro male: ognuno si salvi come può!
E questo accordo fatto tra le mie aspirazioni anarchiche e gli ostacoli che le comprimono, e la mia determinazione di Speranza, vivrò e lavorerò nella misura delle mie forze, rendendomi conto delle mie attitudini dominanti.
Osserverò il mondo disperso nello spazio, i secoli in equilibrio sulle ali del Tempo, gli imperi eretti dalle baionette, i re, i banchieri, i proprietari coperti d’oro. E mi dirò: il braccio dell’individuo non può nulla contro lo Stato delle monarchie, delle società e degli universi. Il tuo corpo è prigioniero fin quando una forza superiore non lo verrà a salvare dalla sua debolezza.
Ma se io avvicino il mio dito alla formica che arranca, la vedrò nascondersi tra le erbe e le pietre senza abbandonare il suo prezioso fardello; allora mi stancherò della sua ostinazione, della sua astuzia e la lascerò raccogliere le sue provviste d’inverno. E mi dirò: ogni essere ha il suo posto nella natura, l’uomo come la formica. La nostra perseveranza, il nostro genio possono trarre utilità dall’ordine sociale e universale. Dunque mi dichiarerò per il pensiero contro ogni ingiustizia; dunque persisterò nella mia rivolta fin quando mi resterà un filo d’aria nei miei polmoni; dunque aprirò con le mie idee il cammino alle potenze fisiche superiori alla mia. Così provocherò la loro azione sempre lenta; e quando colpiranno, io colpirò con esse. Ma fino ad allora mediterò, lavorerò. Cosa farei con la mia mano? Ucciderei o piuttosto mancherei un principe: gioco da fanciulli, inutile compito, pericoloso, sempre da ricominciare! Al contrario, quante cose posso portare a buon fine con la mia testa?
VIII
Ho aperto un abisso spaventoso davanti al mio orizzonte: bisognava farlo, non potevo farne a meno! In fondo vi è sabbia bruciante e vi leggo delle sentenze che mi fanno tremare:
La felicità non è che un miraggio.
L’avvenire – solo un’aspirazione.
La tradizione – solo un ricordo.
Il presente – solo una linea.
L’uguaglianza – solo una chimera.
La libertà – solo un desiderio.
La giustizia – solo un principio.
La società – solo una schiavitù.
La speranza – solo una visione.
L’esistenza – solo un peso.
La salute – solo una convalescenza.
La malattia – solo un’abitudine.
La morte, il suicidio sono solo palliativi!!
Desolazione! dove si trova il vero, il giusto, il tangibile? In quali mondi troverò la soluzione generale, irrefutabile, soddisfacente, assoluta del problema della vita? Chi colmerà l’abisso sempre aperto, sempre affascinante?
Purtroppo! l’individuo non saprebbe farlo. Sui bordi pieni di crepacci di questa geenna, le generazioni trascinano, l’una dopo l’altra, le loro coorti lamentose. Ciascuna di esse, passando, getta nel fosso pugni di ceneri umane e più le razze saranno avanzate in età, più si avvicineranno all’abisso, meglio scopriranno, indagheranno le sue profondità, meglio immagineranno il sistema di colmarlo. Per cui man mano che esse prendono coscienza più chiara delle proprie forze, si renderanno anche conto più esattamente degli ostacoli della natura. Da cui risulta ancora che l’intelligenza dell’individuo si sostituirà via via alla sua potenza corporale nella lotta ingaggiata contro l’universo; da cui risulta che l’individuo diverrà via via sensibile alla felicità come alla sofferenza; da cui risulta che durerà di meno e vivrà di più.
Fatevi i conti, medicastri che vi occupate di igiene e di benessere; non cercate di prolungare la durata media della nostra vita: sarebbe un ben triste regalo! Ma sforzatevi di moltiplicare tutte le nostre impressioni e rendete i nostri organi più adatti a percepirle. Così aumenterete realmente la somma dei nostri giorni!
Come è oscuro l’abisso dove si agitano gli eterni problemi! Come è ripido il pendio! A chi lo vede dall’alto come sembra verde e fiorito! Quanti sforzi bisogna fare per non precipitarvi a braccia tese! Silenzio delle notti, oscurità profonda, quanto siete funeste per chi non può dormire!
Ah! i miei capelli si drizzano, un sudore abbondante si diffonde sul mio corpo, mi sento imprigionato dai miei nervi tesi, come l’uccello nelle maglie della rete. Ho soffiato per dieci anni sull’incendio della mia anima, e ora non posso spegnerlo e ne sono divorato!
Voce di Distruzione, giganteschi fantasmi: lontano da me! Non morire, mia buona volontà; non mi abbandonare pazienza per tanto tempo messa alla prova. Perché oggi ho fatto la mia breccia nelle vecchie muraglie del Monopolio, ho rotto il timpano dei sordomuti di questo secolo. Posso essere buono a qualcosa quaggiù, e non sono di quelli che si isolano dalle miserie comini, e se soffro, purtroppo! è per eccesso di sensibilità.
Coraggio, anima mia! L’allodola si alza al di sopra degli abissi, l’erba vi cresce in primavera, e la foglia della quercia, e il fiore scarlatto dell’albero di Giuda. L’usignolo vi canta, le stelle vi dormono, rassicurate dalla sua voce. La rondine vi plana con le sue ali biforcute, poi si rialza come una freccia lanciata contro i cieli. Sulle nevi eterne che circondano i crepacci alpestri, il Giorno e la Notte discendono tranquilli, avviluppati nel rosso mantello del freddoloso Crepuscolo.
Coraggio, anima mia! Lasciati cullare sul caos delle rivoluzioni eterne, ma non guardare giù, non prestare orecchio alle seduzioni degli echi troppo lontani. O sarà la morte!... Ah! vedo, vedo il torrente infrangere la sua rabbia contro le rocce, urlare, turbinare, torcersi in una pioggia di schiuma, sospendere lembi di se stesso sulle spine crudeli!
Quante volte questi pensieri hanno attraversato il mio essere! Quante volte ho trovato il cibo amaro! Quanti mesi ho passato senza pensare a mia madre! Quanti passi ho camminato senza sapere il mio cammino! Quante volte ho toccato il mio corpo per sapere se ero vivo! Quante volte le risate dei passanti mi hanno fatto paura come le minacce delle Arpie. E quante volte ho detto:
Bisogna vivere o morire?
Non evitate la sorte di colui che vede lontano! Il dolore, l’insonnia lo circondano; il suolo grida sotto i suoi piedi; e l’aria, l’acqua delle fontane, il sole, le nuvole del cielo sono per lui pieni di voci che ripetono:
Bisogna vivere o morire?
IX
Una speranza mi resta.
Mi conforto che gli individui non sono passibili di pene e di ricompense ereditarie, trasmissibili in essi stessi da esistenza in esistenza, eterne e personali come insegna la Chiesa.
Mi conforto che l’uomo non è malvagio di sua propria volontà, che non si fa sfortunato da se stesso, ma che i suoi vizi, come le sue sofferenze, gli vengono dall’ambiente che lo circonda. Per cui non saprebbe portare lui solo le pene o le ricompense meritate da tutti. Per cui egli non deve essere responsabile in alcun caso, in alcun modo, del malessere sociale.
Mi conforto che la specie umana non può compiere i suoi destini che interamente. Da cui consegue che essa non può essere colpevole che tutta intera, che non può essere ricompensata che in massa; che la responsabilità è indivisibile come il lavoro. Finché produrrà il male, finché seminerà la pianta dell’assenzio, l’umanità mangerà il pomo della discordia e berrà il vino d’assenzio.
Mi conforto che gli individui resteranno indistintamente solidali nella ripartizione dei beni e dei mali comuni. Perché tutti, ricchi e poveri, sono ugualmente innocenti o ugualmente colpevoli della malvagia organizzazione dei secoli precedenti; perché essi non sono che gli strumenti obbedienti, di buon o di cattivo grado, a un movimento più forte di loro, che non modifica che molto lentamente l’impulso che essi ricevono dalla nascita e che li spinge fino alla morte.
La ripartizione delle pene e delle ricompense future non è dunque regolata seguendo le nozioni convenzionali di giustizia e di eredità attualmente in vigore tra noi, ma seguendo le attitudini e le attrazioni. Secondo le loro facoltà li porteranno verso le impressioni gioiose o tristi, gli uomini riceveranno sempre ripartite la felicità e la sfortuna.
Una speranza ancora mi resta.
L’anima dell’uomo deve percorrere una interminabile serie di esistenze; essa è nello stesso tempo virtualmente eterna e praticamente, utilitariamente, temporalmente trasformabile. Da cui risulta che contiene in essenza tutte le facoltà proprie all’esistenza infinita, ma che sono state sviluppate da essa solo in un certo numero in una data vita. Pertanto questo tempo limita le altre facoltà rimaste allo stato di germe, le quali si eserciteranno a loro volta solo in un altro ambiente vitale.
Mille fenomeni di ordine morale, come i ricordi, le aspirazioni, le ispirazioni, le vocazioni, le simpatie, le antipatie, le impressioni, i sogni, ci danno coscienza, quanto alla nostra anima, di questo doppio carattere di infinita vitalità e di trasformazioni indefinite, per altro proprie a tutti gli esseri fisici e morali. – Vi ritornerò quando darò le prove della vita futura.
Per ciò che mi riguarda, ecco l’applicazione di questi dati generali. Mi facevo notare nella mia giovinezza per dei singolari contrasti di gaiezza folle e di tristezza ostinata. Il sistema di educazione che ho subito, gli avvenimenti e le situazioni che ho attraversato hanno fatto predominare in me la seconda di queste disposizioni. Ciò è un dato di fatto. La mia esistenza non è soltanto di un secolo. Le mie disposizioni felici offuscate in questa vita mi ritorneranno nelle altre più favorevoli al loro sviluppo. La sorte non si girerà sempre contro di me, contro tanti altri. Credere il contrario, sarebbe la Disperazione per l’Eternità, sarebbe l’inattività nella pena, sarebbe l’inutilizzazione di un essere, il suo dimezzamento. Ora, tutto quello che è assolve ad uno scopo; la Rivoluzione respinge senza pietà il nulla che essa ha vinto.
Ciò che io scrivo nessuna intelligenza umana l’ha mai osato dire; mai occhio limpido si è tuffato così lontano nei terribili misteri dell’oscuro avvenire.
Come potrei quindi essere attaccato alla vita di oggi, io che percorro pensando i percorsi umani e sovrumani nei quali si slancerà la mia anima che non deve finire? Come non potrei essere staccato dagli interessi, dalle ambizioni, dagli intrighi e dai partiti di questa epoca? Come non potrei dire la verità meglio degli altri, io che nulla nascondo nell’espressione del mio libero pensiero?
Sono in questa vita come tra le onde il nuotatore che lotta perché ha visto brillare da lontano il faro della speranza. Sono in questa vita come tra le nuvole il viaggiatore che resiste al sonno fatale perché ha sentito abbaiare il cane del rifugio della salvezza. Resto nel presente come in un palco piccolissimo da cui osservo le scene dell’esistenza a venire; mi considero come in un soggiorno provvisorio di cui il mobilio e la disposizione delle cose mi importano poco. In questo passaggio, subisco con rassegnazione il mal di terra che fa soffrire molto di più del mal di mare.
Che il capitano dia i suoi ordini; che i marinai spieghino le vele cantando: che i poveri diavoli dei governanti dirigano come possano il vecchio pontone civilizzato, io non disturberò la manovra. A ciascuno il suo compito: che i grandi della terra subiscano le conseguenze della loro vanità! Quanto a me, perduto nella contemplazione delle rive lontane dove mi attende la felicità, i miei occhi e i miei sguardi seguiranno il piccolo mozzo che si arrampica in alto sugli alberi per ripetere tre volte: Terra e verde, salve!
17 agosto 1855. – Niente mi interessa nell’Europa di oggi, bruciante, sanguinante, compressa, fumosa, aggiotatrice, fanfarona, schifosa come un mercato o un carnaio. Considero zero il valore di queste migliaia di uomini sollecitati, titolati, decorati, agghindati o cenciosi che si inginocchiano al passaggio di due sovrani viventi dei loro sudori!
Penso che sudditi e re si valgono, si disprezzano, si vogliono, si tradiscono, si scorticano, si salutano rispettosamente, si tollerano difficilmente, per puro interesse. Penso che i più poveri pagheranno queste feste costose, queste danze, festini e nozze dei prìncipi, delle spie e degli ambasciatori. Penso che certamente la graziosissima maestà britannica aprirà per prima la quadriglia con il grande Imperatore una volta avventuriero nei suoi reami statali. Penso che se il detto imperatore non ricomincia vivrà tristemente e finirà per morire come il vecchio Luigi Filippo, sotto le attenzioni dell’intesa cordiale. Penso che gli sfortunati commedianti che portano corone non possono nemmeno stimarsi, amarsi, sposarsi e finire nel modo che preferiscono. Penso che essi sono schiavi degli uomini, i quali per altro sono ben poco liberi e si danno pensiero ancora meno di diventarlo. – Ecco il mio avviso, non dispiaccia a via Gerusalemme.
Ma per qual motivo sarei più amico dei miei contemporanei di quanto non lo siano essi stessi? Perché mi preoccuperei dei loro affari quando essi stessi non se ne occupano di più delle rivoluzioni in Cina? Che vadano a quel paese come preferiscono!
Contadini di Francia! Cosa eravate andati a vedere nella grande città? fazzoletti che si agitano a causa del vento, grandi signori, grandi dame alle finestre degli alberghi? – Che cosa di più? una donna grossa, un uomo volgare che sembravano bellissimi sotto la porpora e che si chiamavano sovrani per grazia dei popoli e di dio. – Che cosa eravate andati a vedere? milioni di imbecilli come voi, che si nascondono la coda tra le gambe. Che cosa di più? poliziotti con manganelli al vostro servizio? – Che cosa? candele romane che vi hanno fatto sputare con le imposte e i cui moccoli vi cadranno sul naso. – E ancora che cosa? le gloriose bandiere degli eserciti d’Oriente. – Che cosa eravate andati a vedere? le vittorie di Inkermann e di Alma dove i vostri figli ingrassano i campi con i loro cadaveri. – Che eravate andati a vedere ancora? i vostri alleati d’oltre mare: superbe teste, non è vero, per farne impugnature di ombrelli!
Che cosa avete inghiottito? polvere e umiliazioni: come se non ne avevate abbastanza nelle vostre campagne! – Che cosa avete respirato? la polvere delle mitragliatrici di Dicembre. – Che cosa avete letto? proclami menzogneri e insultanti, giornali imbavagliati, bollettini di sconfitta convertiti in trionfi, promesse di pace, di felicità e di libertà per l’anno ’40. – Che cosa riportate al focolare di famiglia? Due buoni scudi di meno, e di più qualche ricordo cocente dell’età d’Oro e di Mercurio.
Ma perché mi dovrei preoccupare di ciò che accade in Francia? Che questa brava gente si picchi, si schiacci, si sfondi le costole, si riduca in piccoli pezzi, si umili davanti ai tristi rifiuti di re; che mangino vacca arrabbiata, che bevano coco, che crepino di caldo: la cosa non mi riguarda. Grazie a dio traggo il mio insegnamento da questo stupido gioco, non sono più né medico né suddito né bighellone; non ho quindi da prendere la mia parte di queste fratture, storte e godimenti. I Frrrancesi trovano queste feste magnifiche, sono contenti, pagano, i loro superiori li prendono in considerazione, l’ordine regna nel loro grande paese: mi domando dov’è il male?
E quando ve ne fosse, come pretendono le cattive teste, che cosa vorreste che facessi?… Sono molto più felice sulla montagna, i piedi nel muschio, i capelli nella brezza, le labbra nella fonte, tenendo sotto gli occhi immense pianure, diversi reami, fiumi schiumanti, opulente città, villaggi, campanili brillanti, numerosi greggi di bestie e di soldati, foreste, vigne! Potendomi credere padrone del mondo sono molto più tranquillo dei re e dei proprietari esposti a tutte le tribolazioni, a tutti i pericoli che trascina con sé il possesso ingiustamente acquisito. Sono libero del mio tempo e del mio lavoro e se esercito sugli uomini una qualche influenza, almeno sono certo che essa non è colpevole.
E semino cantando!
X
Lavoro come il seminatore che si alza all’alba e si corica al cader della notte.
Al mattino, quando la libera allodola invia i suoi voti al sole rosso, quando la terra è facile all’aratro, quando il vento non porta i grani troppo lontano dal fresco solco, quando mi sento meno greve di pensieri, riposato di spirito e di corpo, trascrivo contento i miei sogni notturni e mi rifletto sulla mia carta che brilla ai primi raggi di luce. E che m’importa dell’opinione degli uomini, e quando verrà il tempo della mietitura!
Alla sera, quando la casta Diana fa scivolare dalle sue spalle il mantello grigio, quando l’aria diventa trasparente alle dolci stelle, quando le lucciole fanno sogni di grandezza nel prato, mi addormento, il cuore contento, non desiderando altro al mondo che la pace e la libertà.
Non voglio nulla di ciò che i civilizzati insistono ad offrirmi. Se devo desiderare il potere, che mi si nomini guardia campestre a perpetuità. – Se devo agognare la fortuna, che i miei pensieri più cari si cambino in polvere d’oro sotto il becco della mia penna. – Se devo sognare onori, che sia perseguitato come un re costituzionale dai pesanti saluti dei borghesi d’Occidente. – Se devo avere l’ambizione del titolo, che sia rimpicciolito fino al più grande di tutti. – Se devo ricercare i favori di un partito, che sia obbligato a bere tutte le notti del vinello e della birra pesante, ai cattivi accenti della Marsigliese intonata da un coro di rivoluzionari vigorosi. – Se devo sospirare per la reputazione di un giorno, che mi senta leggere, nominare, ammirare e criticare, vivente, da tutte le porte della capitale, come l’illustrissimo Paul de Kock, come Hugo, Dumas Alexandre e figlio. – Se devo mentire, che l’ispirazione si intorpidisca nel mio cranio. – Se devo calunniare, che la mia mano si paralizzi. – Se devo adulare, che il cielo mi rifiuti la vista dei suoi astri. – Se devo fare qualche cosa contro la mia coscienza, che le liquide acque dove mi tuffo si convertano in un abisso di fosforo che mi consumi interamente!… Ma io sono in pace con me stesso.
E semino cantando!
XI
Lavoro come il seminatore, secondo il tempo e il cielo. Quando c’è il sole canto, e quando piove, grido. Nulla può impedirmi di parlare se la lingua mi prude.
“Perché fai passare tanto tempo tra le tue pubblicazioni?” mi dicono gli impazienti: “rifletti troppo”. – “Come puoi produrre tanti capitoli in così breve tempo?” riprendono i tentennatori, “non pesi bene le parole”. – “Sii meno violento!” mi cantano nell’orecchio destro le persone come si deve, “ti troveremo un editore”. – “Sii più francese e più democratico!” mi soffiano nell’orecchio sinistro le persone un po’ meno come si deve, “la nostra approvazione l’hai di già”. – “Lascia da parte la filosofia, la forma biblica, magica, fai della buona polemica, un libretto terra terra; ammucchia, brucia, distruggi tutto; restituiscici Marat e Camille!”, mi urlano a bocca aperta persone come non si deve; “e potrai contare sul nostro appoggio”. – “Questa espressione potrebbe ferire il tuo migliore amico; il tuo più temibile nemico la prenderebbe forse per un attacco personale; credimi sopprimila. – Questa concessione ti attirerebbe senza dubbio i suffragi di influenti elettori, gli elogi della stampa liberale; al tuo posto la metterei. – Cita l’autore in voga, può essere che ti citerà per contraccolpo; in ogni caso avrai la sua protezione. – Ritratta questo accenno: spiace a tale tribuno. – Metti questa dieresi su questa i: farai la felicità di quel capobanda. – Domanda una prefazione a quello, un epilogo a quell’altro ciò è sempre lusinghiero. – Non andare troppo lontano, gli uomini non amano restare senza fiato. – Non restate indietro: il pubblico ha premura, lo sbadiglio è contagioso. Soddisfa tutti, anche il tuo signor padre e la tua signora madre che non è sempre dello stesso avviso del suo sposo. – Ricordati che prende più mosche il miele che l’aceto. – Metti acqua nel tuo vino! – Getta olio sul tuo fuoco! – Chiudi le ali! – Nuota in due acque! – Fatti un piano! – A sinistra! – A destra! – Avanza! – Retrocedi! – Riposati un poco! – Cammina sempre! – Coraggio! galoppa! – Non ti muovere! – Ecco qui va bene! – Ecco qui non va! – Concilia, perdio! – Scrivi con due mani. – Cammina a quattro zampe! – La Gloria non tuona così alto come immagini, la Rinomanza prospera solo nel fango: Tanto peggio per coloro che non sanno aprirsi la strada!”.
Eh! mosche cocchiere, contraddittorie per oziosaggine, contestatrici per vanità, bei piccoli maestri di politica, sempiterni avvocati, buoni a nulla, lasciatemi andare per favore a trarmi d’impaccio come potrò! Non mi dite: scrivete per me che vi consiglio, per me che vi affitto, per me che vi denigro, per me che godo mentre soffrite! Sono inutili tali discorsi e le contorsioni delle vostre labbra menzognere: faccio solo di testa mia. La critica è facile, ma l’arte è difficile: non nasce nei salotti facendo la bocca a cuore alle civette borghesi. Vado dove mi spinge la passione, mi presento come sono, pubblico il mio pensiero costi quel che costi; disprezzo le convenzioni e l’opportunismo, trovo gli uomini brutti e laidi i loro maestri; ho qualche sguardo solo per le belle donne!
E semino cantando!
XII
Lavoro come il seminatore che fa la parte migliore del suo compito al mattino, prima che gli altri abbiano aperto le palpebre, imprecato, pregato, insaponata la sporcizia della notte, liberata la gola e fatti alle Signore spose tutti i complimenti che il dovere esige.
Mi affretto a cantare mentre l’Aurora bacia le acque con labbra vermiglie, mentre i vapori pigri dormono ancora nei loro nidi verdi, mentre fa fresco, mentre il secolo a venire non passa ancora che la punta delle sue ali sulla cima dei monti.
Non potrei più farlo quando gli uomini si leveranno in tumulto, si raduneranno, si soffocheranno, cercando di provare l’eccellenza delle loro ragioni attraverso l’elevazione del loro verbo, ripetendo a iosa le verità per le quali mi hanno condannato.
Non potrei più farlo. Perché ho paura del rumore e della folla. Taccio quando tutti litigano, resto fermo quando non posso camminare secondo il mio passo. Sono come l’uccello che rinuncia al suo nido quando i falchi l’hanno scoperto. – Non potrei più farlo!
Non potrei più farlo! Perché sono cercatore di verità e non letterato a giornata, mercante di retorica, diffusore di false novità. Mi si può riconoscere dalle mie produzioni come l’artigiano dai suoi lavori, come l’albero dai suoi frutti. D’altronde, non ho più diciotto anni, l’età in cui si sceglie la stampa per amante e il club per sala di studio, l’età in cui ci si avviluppa nelle pieghe di una bandiera senza averne letto il motto, senza averlo meditato. – Non potrei più farlo!
XIII
Lavoro come il seminatore che non si ferma che sul giaciglio, lavoro come il sole che non segue la sua fatica che in seno ai mari. Attendo la sera per rinfrescarmi e rilassarmi, la sera che rende trasparenti le acque dei fiumi per cullarvi la luna, la sera che rende i rudi lenzuoli del mio letto più dolci delle foglie di rosa.
Utilizzo meglio che posso le corte ore del giorno. Ma la mia buona volontà soffre della mancanza di procedimenti veloci che l’Avvenire riserva a coloro che, come me, maneggiano il pensiero.
Il Pensiero! così consolante per noi, così poco fastidioso per gli altri! Il burlone che non si occupa di affari, che non fa rumore, che non ha ambizioni, né ricchezze né grandezze, che è sempre di buona salute e di umore facile! Il fecondo che non ha bisogno per crescere che di un poco di brezza e di sole, di una bella mattinata, di una serata taciturna, di un fiore, di un amore o di un bacio! – Il Pensiero! capriccioso che si spaventa di un rumore, di un sorriso, di una parola, di un volo di mosca o di un eccesso! Lo spensierato che si trova bene solo sulle onde blu e sui tetti scarlatti! Lo sbadigliante, il voluttuoso che si allunga al nostro fianco come il gatto favorito accanto alla sua padrona! Il misterioso, l’innamorato che ci sorprende sempre, sia che venga la notte a toccarci con le sue dita così fini, sia che cavalchi qualche bel raggio di sole o la vela bianca di un battello! Il bighellone, il lezioso, l’incantatore, il beneamato che ci addormenta tra le sue braccia di neve, e di cui prendiamo tra i denti i capelli!
XIV
Lavoro come il seminatore, l’uomo semplice che si rassegna, quando occorre, a servirsi di strumenti che gli ha lasciato suo padre, e segue senza esitare il suo difficile cammino.
Scrivo con una penna che può tracciare solo una lettera per volta. – Una lettera: un millesimo di sospiro nell’eternità! – Questo miserabile strumento mi stanca. Per una virgola che zoppica, per un’asta timida, per un punto di traverso, per una maiuscola che non si presenta in tutta la pompa desiderabile, mi irrito, pesto i piedi e soffro veramente. Avevo dipinto bene tutta una pagina: nel mezzo vi cade una goccia d’inchiostro, è a ricominciare! Allora tempesto, barbuglio le dita e la camicia; le idee che avevo incatenato con fatica scappano dalla prigione del mio cervello. Contente, fischiettanti, deridenti mi lasciano senza pietà, mi fanno gesti molto vezzosi per un uomo galante, mi ballano le contraddanze più complicate, acute, ottuse, tortuose, satiriche, sataniche, favolose. Passano e ripassano davanti al mio naso che si allunga e, simili a ombre cinesi, mi incantano e mi dicono: tu ci hai disturbato e non ci vedrai più! E io strappo il foglio di carta, spezzo la mia penna, mando tutti al diavolo e ci vado io stesso. Ecco la mia giornata perduta, il mondo privato di un capolavoro, il mio sonno turbato, il mio carattere reso più amaro. – In verità, direte voi, è per ben poca cosa! – Ebbene! cercate un poco di riflettere; vedrete poi se non vi sarà difficilissimo scrivere.
Prenderei molto più risolutamente una posizione contro queste piccole miserie se non fossi certo che prima della fine del secolo gli uomini se ne saranno liberati.
Allora si sarà scoperto il mezzo di tradurre i propri pensieri tanto velocemente come si presentano allo spirito. Ognuno possiederà la sua macchina tipografica e litografica portatile, perfezionate al punto di riprodurre all’istante frasi intere. – La stenografia sarà talmente semplificata che tutti potranno comprenderne gli elementi generali, ed essa si presenterà nelle sue applicazioni speciali ai capricci di ognuno. – Le frasi più comuni saranno rese con segni convenzionali facili. – Tanti pensieri assedieranno l’uomo che gli diventerà necessario classificarli a mezzo di cifre corrispondenti ai gruppi e alle serie di ciò che intende. – Infine i calligrafi, più numerosi e più abili, aiuteranno con le loro penne gli scrittori che, generalmente, non sapranno scrivere.
XV
Lavoro come il seminatore, l’uomo diligente e ingegnoso che ripara il fondo del proprio sacco perché possa contenere ancora il grano; e non ha paura di riempirlo a due mani fin quando non ne trova un altro più largo e più solido.
Quando voglio pubblicare un libro sono obbligato a sottostare alle condizioni di uno stampatore che mi fa pagare caro, obbligato com’è a prelevare la rendita delle sue macchine sui suoi operai e sugli autori. Quando la Francia è censurata, moralizzata, cauzionata, timbrata, purgata, insanguinata come oggi, mi vedo costretto a ricorrere alla libera Inghilterra e a fare comporre un parigino passabile a dei cockneys della City di Londra. Sapete allora cosa mi succede?
Horresco referens!… Sudo sangue ed acqua per scrivere meno illeggibilmente, consegno loro una copia magnifica; essi mi rendono bozze di stampa spaventose sulle quali perdo gli occhi, bozze che sarebbero inintelligibili se lasciassi al proto la prima correzione.
Non conosco compito più stupido della toilette definitiva di un manoscritto. È il rimpicciolimento, la sfigurazione delle idee primitive negligentemente gettate sulla carta; è come una circoncisione, un taglio; è come una sofferenza più viva di quella del coltivatore che taglia le sue siepi fiorite mandando sospiri.
Mi sottometterei con maggiore rassegnazione a questi rigori se non sapessi che gli uomini non soffriranno più alla fine di questo secolo.
Allora l’istruzione e la libertà essendo diffuse sulla terra fortunata, i buoni tipografi e le buone stamperie saranno moltiplicati all’infinito. – Ogni scrittore potrà averli a disposizione e sorvegliare le sue bozze tanto più minuziosamente quanto più sarà meticoloso. – Allora la stampa di un manoscritto, il più spaventoso dei compiti fino a ora, diventerà fonte di grandi gioie.
Allora si immagineranno mille sistemi di propagandare i capolavori dell’intelligenza umana. Si sceglieranno interi passaggi dei migliori autori per epigrafi dei libri, capitoli di almanacchi, di novità e di letture. – Se ne faranno canzoni, preghiere di libertà per i fanciulli, cantici d’amore per le ragazze, marce guerriere per i lavoratori, inni di riposo per i vecchi; ronde, danze, valzer, argomenti di declamazione, pezzi di teatro. – Il canto, la misura e la messa in scena diventeranno i più potenti ausiliari della memoria. – La corrispondenza servirà meravigliosamente a volgarizzare la scienza e l’arte. Nelle lettere, si renderà conto delle letture fatte, si discuteranno, si commenteranno, e spesso ispirandosi allo stile dell’autore e al suo soggetto, si arriverà senza sforzo a produrre come lui. – Così tutti gli spiriti si familiarizzeranno con tutte le composizioni in tutte le lingue. – Si scriveranno leggende, precetti, strofe, proverbi e massime sulle porte delle case, sui fianchi e le vele delle navi, sui vagoni e le vetture, sui confini, sui tronchi d’albero e sui paletti che sono sul bordo delle strade. – Così le vie di trasporto delle merci saranno ugualmente utili allo scambio delle idee; così i viaggi sembreranno più brevi e faranno nascere conversazioni e meditazioni profittevoli.
Allora saranno molto incoraggiati i giovani artisti che vedranno le opere dei loro predecessori vantate nel vasto mondo, trasportate da ogni parte dal rapido vapore, imparzialmente apprezzate nell’universo! E quali ispirazioni trarranno dalle mille fonti sempre fresche, sempre pure, dappertutto sgorganti della scienza generale. Ah! il lavoro delle veglie non costerà a colui che come prezzo della sua pena si sentirà sollevato sulle ali della Gloria, al di sopra dei continenti e dei popoli attenti alla sua voce. Può ben crederlo colui che spesso si ispira per scrivere alla lacrima di una donna o alla franca stretta di mano di un amico.
XVI
Lavoro come il seminatore, l’uomo pacifico, laborioso e franco che non può sopportare attorno a lui pigolii di passeri parassiti, ronzii di mosche bovine, di vespe e di calabroni.
Gioisco al pensiero di vedere ben presto messa in rotta, fatta a pezzi, crivellata da parte a parte, l’armata compatta, innumerevole, gulliverica, comica, bacchica, cinica, politica, polemica, satirica, proteica e prolifica dei giornalisti, romanzieri e critici. – Pessima piccola gente che, dalla soglia della scuola dove non hanno imparato nulla, ancora fanciulli e di già astuti come schiavi, adulano la fortuna e se ne vanno col naso al vento, tutti gonfi del loro spirito beffardo, ad installarsi negli uffici di una gazzetta o di una rivista periodica. – Là, i gomiti appoggiati su una larga tavola, un pezzo di carta sotto gli occhi, un paio di occhiali, il calamaio del fiele a lato, questi liceali seggono come in corte di assise ed emettono sentenze senza appello. Obelischi perpendicolari, insolenti come paggi, importanti come le signore scimmie del giardino zoologico, più sfrontati e meno vecchi, purtroppo! dei quaranta immortali, questi giovani fenomeni tirano di scherma, si dimenano, tagliano, battagliano a destra e a manca, in lungo e largo, a torto e a traverso, in terza, in quarta, di piatto e di taglio. Dal modo in cui scrivono promettono parecchie pene a questo povero pubblico che li fa vivere. Spaventosa devastazione, consumo pantagruelico! Scienza fisica, metafisica, extrafisica, astronomica, chimica, alchemica, geodesica, geologica, geografica, grafica, archeologica, logica, filologica, psicologica, psichica, estetica, linguistica, biblica, bibliografica, biografica, biologica, storica, numismatica, araldica, tecnica, tecnologica, zoologica, botanica, omeopatica, elettrica, magnetica, farmaceutica, terapeutica, litotomica, litontripica, tutte scienze fini, per concludere, e tutte essi le attraversano... Questi personaggi sanno tutto, conoscono tutto, hanno tutto letto, tutto visto, tutto divorato, tutto appreso. Niente può scappare al loro infallibile criterio, tutto si foggia al laminatoio della loro profonda erudizione, tutto si inclina sotto le loro penne caudine. Essi sgobbano in modo infernale, come un saltimbanco che inghiotte il fuoco, come una macchina che mangia il fumo. Mettono tutto a ferro e fuoco, e soddisfatti della loro attitudine universale fumano gloriosamente un sigaro avana sull’ecatombe letteraria stesa ai loro piedi!
Filosofi della tempra di Pierre Leroux e Proudhon, storici della taglia di Michelet e Quinet passano lunghe veglie sul mistero della loro scienza e della loro coscienza, producono un’opera, sperano di essere giudicati dall’opinione pubblica... Ma no! Tra gli autori e gli uomini, striscia la legione sorniona delle lettere, la nociva, oziosa, bisognosa, graffiante, mordente, invidiosa, odiosa che si abbatte su tutte le pubblicazioni recenti, le deflora, le sporca con le sue lodi o i suoi biasimi, e pretende fissarne definitivamente il valore con le sue sentenze!
E dire che tutti gli autori, per grandi che siano, si preoccupano di ciò che possono scrivere sul loro conto simili stornelli! E dire che li salutano umilmente, che li ricevono familiarmente per conquistare le loro buone grazie e l’annuncio alla quarta pagina, quella che viene subito dopo il tributo di elogio dovuto e pagato molto precisamente al Dott. Charles Albert, il Napoleone dei ciarlatani francesi!
Voi che siete realmente grandi, passate dunque superbi come il sole e l’aquila nei cieli, come il corsiero di battaglia sulla pianura insanguinata! Non vi abbassate, non cercate nell’erba gli insetti che non vi possono vedere, per quanto facciano molto più rumore dei rappresentanti in assemblea! Se la posterità dovrà raccogliere i vostri nomi, non saranno simili autorità che vi faranno conoscere; se le vostre opere dovranno sopravvivere al diluvio che la giusta Opinione getta sulla gran massa delle produzioni moderne, non è perché questi pigmei le avranno sollevate per qualche tempo sulle loro magre spalle. Se andate all’immenso Avvenire che vi importa della fama di un giorno, figlia della pubblicità, nascente e morente abortita? Capisco che un albergatore o un analista di orina acquistino senza batter ciglio, in buona moneta contante, dai piccoli giornalisti una riga di pubblicità che può loro fare guadagnare oro. Ma che si cambino buoni libri contro un cattivo rendiconto, contro un magro trafiletto, contro la moneta della scimmia e del monaco che questa gente può rendere, ecco ciò che mi sembra una vigliaccheria, di più, una sciocchezza che non trova scuse.
Pazienza! tutto questo mondo di scribacchini godrà dei propri resti. Ben presto cesserà la dittatura dei giornalisti monopolizzata dagli ambiziosi, dagli intriganti, dai redditieri senza professione; molto più pericolosa, più viscida, più vorace di quella dei governanti che si satollano a pancia piena negli splendidi festini del grande Budget.
Ai primi bei giorni della libertà, i giornalisti spunteranno tutti in una volta come la gramigna sulla buona terra, svilupperanno, invaderanno e finiranno per schiacciare il Giornalismo loro padre, vecchio pugile dalle zampe di gallina, dal pennacchio di cotone, figlio minore del caduco Saturno, cattivo fanciullo maligno e precoce, vergognosamente concepito nell’ultimo libertinaggio di suo padre con la Pubblicità, la prostituta del diciannovesimo secolo!
Allora, su ogni problema, tutti gli individui comunicativi potranno dare la propria opinione, fare stampare migliaia di esemplari e diffonderla al pubblico. – Allora i piccoli manifesti rimpiazzeranno i grandi fogli politici e gli uomini si formeranno un’opinione senza consultare il loro grande favorito. – Allora non saremo più schiacciati sotto le gazzette che piovono dalla capitale sulle province. – Allora non tremeremo più davanti al Ridicolo come i bambini davanti a Barbablu. – Allora lo spirito umano non essendo più compresso dalla pesante stampa, produrrà idee abbondanti, feconde all’infinito, diversificate all’infinito. – Allora sarà definitivamente levato l’interdetto, il veto, lo stato di assedio, lo spegnitoio che i capi politici mantengono sull’intelligenza di tutti. – Allora non vivremo più complici e vittime della più vergognosa servitù, quella che accettiamo e paghiamo senza esservi obbligati. – Allora la fama costruita attraverso la bottega letteraria contemporanea sarà interrata nel leggero lenzuolo delle orazioni funebri. Questa reputazione che sembrava alzarsi contro il cielo e attraversare l’eternità, si sgretolerà come pupazzi d’argilla sul loro piedistallo di abete. Dalla prima scossa rivoluzionaria, assisteremo a questa piccola demolizione. Nessuno noterà la sua morte, un gioco di parole l’aveva fatta nascere, un gioco di parole la farà rientrare nel nulla da cui non sarebbe mai dovuta uscire. E si scriverà sulla tomba: anatre, hanno vissuto quanto vivono le anatre, sufficientemente per cacare sui loro concittadini!
De profundis!
XVII
Lavoro come il seminatore, il rude contadino che allontana col piede le vipere, le cattive erbe e i ciottoli che trova sulla strada.
Piallatori di frasi ambiziose, gradevoli dicitori di niente, bei allineatori di citazioni, intrepidi sfogliatori di antichità, poeti incompresi e ben degni di esserlo, scienziati meccanici, compilatori perfezionati, miti papirivori, grandi boa assimilatori di ogni sostanza spirituale, critici imparziali a uno scudo ad articolo, robuste immaginazioni che creano altrettante novelle quanti sono i giorni dell’anno, gioiosi parassiti di tavole ben imbandite e di borse fornite, immortali scrittori che vivono fin quanto vive la città capitale di cui siete l’onore, illustri laureati di mattinate, veglie e atenei letterari, fronti strette, crani vuoti, coronati dalla mano bianca di celebri saccenti!...
Conduco sulla terra dell’esilio un colossale sdegno per le vostre persone e le vostre derrate di pessima lega. Tanti voi siete, giornalisti, ed altrettanti esistono nel mondo buffoni, scocciatori, avvelenatori. Mi dispiace se non trovate parlamentari queste espressioni. Miei signori, Nostri signori, ma io chiamo tutti col proprio nome, giornalisti, avvocati, medici e bricconi. Vi importa ben poco dell’opinione di uno che va per la terra come me, di un anarchico scacciato da questa gloriosa Francia sulla quale voi diffondete liberamente le vostre quotidiane elucubrazioni.
Liberamente! Voi liberi!... Sì, sotto l’occhio della censura più cieca, più brutale, più ignara, più poliziesca che mai! Liberi come i nani e i buffoni che rallegrano i prìncipi! Liberi di rendere conto delle piccole cene e dei grandi risvegli della vostra imperatrice, della sua interessante posizione, delle sue abluzioni, delle mille grazie, indisposizioni, capricci, battute e buone parole emanate dalla sua augusta persona! Liberi come scolari, asini o domestici! Liberi come l’insetto di cui il crudele fanciullo impedisce lo slancio con un filo! Liberi come il maggiolino!!!
Sostengo che oggi non esiste in Francia un solo libero scrittore. Sostengo che un uomo di lettere è schiavo del fatto che non può dire quello che vuole, soprattutto quello che vuole, quando vuole. Pretendo che un pubblicista non rispetta se stesso, pretendo che si rende spregevole a tutti quando qualifica di grandezza, altezza, maestà, virtù, coraggio e splendore tutti coloro che dappertutto e sempre si chiamano avventurieri, istrioni, accozzaglia, facitori di giochetti, artigiani di truffe, di bassezze, di malvagità, di massacri e di tradimenti. Affermo che è più prostituito della più sfortunata delle prostitute, l’uomo che deve tacere anche sui grandi fatti del Due Dicembre, anche sui tristi eroi che commisero questo atto di brigantaggio coronato di successo! Sì, prostituito a Bonaparte, complice di Bonaparte, suddito, valletto di Bonaparte, chiunque chiami Imperatore questo gesuita assassino!
Ah! potete sorridere e distogliere il capo! Potete dire che tutte queste ingiurie sono ribattute e non possono toccarvi! Potete aggiungere che l’oro delle corone nasconde ogni bruttezza, che l’oblio sacro purifica ogni sporcizia, che i più spaventosi crimini si spogliano facilmente dietro il velo delle baionette, e che si chiude la bocca degli scontenti con una moneta e con una effige qualsiasi...
Io confermo di no, la mano sulla storia. Confermo che siete al di sotto dei più prostrati, che vi arrampicate su un piano inferiore al verme e alla formica. Confermo che tutte le pillocchere vi raggiungono, che vi è sempre posto per una macchia di fango sui vostri orpelli ricamati. Confermo che non vi si vende tutto; confermo che non comprerete né la mia parola né la mia penna né la voce vibrante degli squadroni cosacchi né il bulino di platino della Posterità.
E semino cantando.
XVIII
Lavoro come il seminatore che passa sopra le rocce e le spine e continua il suo cammino.
Mi metto al di sopra delle regole dello stile, della punteggiatura e dell’ortografia, che vorrebbero impormi d’usare. Queste sono ancora pastoie, bavagli che paralizzano i miei atteggiamenti liberi, la mia libera dizione; sono trappole che la maggioranza prepara contro gli uomini che la temono. I paurosi hanno il diritto di lasciarvisi prendere; io me ne sono liberato. Così nelle praterie, il giovane corsiero si slancia, criniera e narici al vento, senza briglia né cinghia, balzante al di sopra delle siepi e dei fossati con cui i proprietari hanno tagliato la campagna: indomito, rapido come l’aria che colpisce i suoi zoccoli.
Aspiro al tempo in cui lo stile dell’individuo tradirà lo slancio delle passioni che lo agitano, in cui la dizione scritta, semplice e naturale, si avvicinerà alla dizione parlata, in cui si potrà conoscere un uomo leggendolo.
Allora la dissimulazione diventerà molto difficile. I cattivi non sopporteranno il linguaggio angelico come i buoni non sopportano il linguaggio infernale. – Allora sulla terra e nel cielo vi sarà soltanto una ineffabile lingua. – Allora non si tratterà più di dizionari d’accademia, di grammatiche né di autorità grammaticali; gli errori saranno scomparsi come le regole. – Allora ognuno raddoppierà le consonanti e le vocali, urterà, taglierà, prolungherà le frasi secondo i propri capricci. – Allora le espressioni e lo scrivere denunceranno l’umore, le disposizioni e le preoccupazioni del momento. Allora niente di obbligatorio, ma gli scrittori si sentiranno trascinati verso la precisione, la chiarezza, la grazia e l’originalità. Queste qualità saranno messe in evidenza dalla libertà più estesa. – A partire dalla fine di questo secolo, gli uomini che oggi si distinguono solo per il loro più o meno grande servile torpore, questi stessi uomini rivaleggeranno in indipendenza ed emulazione.
XIX
Lavoro come il seminatore, uomo osservatore che consulta il soffio del vento gettando in aria un ciuffo di grano.
Prevedo il tempo in cui tutte le storture saranno raddrizzate, tutte le umiliazioni eliminate, tutte la calunnie riparate, tutte le strade appianate, tutte le difficoltà vinte, tutte le giustizie rese. Respiro di già l’alito tiepido che la Rivoluzione ci invia per annunciare il suo prossimo arrivo; corro avanti, le mani tremanti, il cuore che mi batte. Respiro nell’avvenire, scuoto rudemente le catene di oggi.
Alla faccia della critica, introdurrò nei miei libri ogni espressione familiare, e anche triviale, che renda bene il mio pensiero. Quando la lingua francese, mediocremente ricca e armoniosa, non mi fornirà più la parola o la consonanza desiderata, farò ricorso alle altre lingue. Quando descriverò i costumi di paesi diversi, impiegherò i termini propri alla nazione oggetto dei miei studi. Mi comprenda chi vuole, adesso. Io sarò letto più tardi.
I miei libri sono fatti in vista dei popoli che usciranno dalla grande rivoluzione futura. Essi dovranno contenere per conseguenza molte locuzioni popolari, volgari, caratteristiche; molte parole estranee al francese, molti neologismi, sia miei che di altri.
– Perché le locuzioni popolari di un’epoca rappresentano le abitudini che si introducono in un insieme di uomini. Sono le foglie verdi in mezzo a cui ricresce incessantemente l’albero della parola, l’albero meraviglioso che riversa le sue mille espressioni su di noi come fiori balsamici.
– Perché le locuzioni volgari ed anche triviali sono precisamente le più espressive, le più immaginose. Per qual motivo privarmi della gaiezza del cuore? Perché non riprendere la vera, la buona tradizione, quella di Rabelais, di Molière? Perché dunque dovrei mettere punti, asterischi allo scopo di far notare prima ai giovani bene educati i termini che fanno guardare storto le loro ombrose mamme? In verità ammiro gli scrittorucoli di oggi. Essi riescono ad essere verecondi come le preziose ridicole, maldestri come gli orsi del giardiniere, paurosi come lepri e insipidi come le ostriche.
– Perché i dialetti sono simili alle membra di un feto nell’utero della madre; essi sono i primi lineamenti del nuovo idioma racchiuso nel seno delle nazioni che vanno a confondersi. Dapprima vi restano impercettibilmente; poi si sviluppano, si riuniscono, si agglomerano e formano il linguaggio della giovane razza che prende possesso del globo. – Et Verbum caro factum est.
Se voi osservate nei minimi dettagli l’organizzazione dei Francesi, vi troverete sempre nuove prove a sostegno del loro ruolo di unificazione sociale. La loro meravigliosa attitudine a scorticare la lingua, il loro ardore nella discussione li rende adatti a snaturare gli antichi idiomi, a fornire, a propagare il nuovo.
– Perché tutte le lingue attuali forniranno alla lingua futura i termini più usati. Questi sono in effetti le etichette che i popoli incollano sui loro costumi più significativi perché sopravvivano ai diluvi trasformatori.
Il francese sarà la lingua madre dalla quale nasceranno le nuove lingue. Darò quindi ai miei libri il francese come matrice, e su questa inciderò ogni espressione che mi piacerà, senza indicare, per mezzo di note, da quale fonte attingo.
Così riesumerò per quanto lo si possa fare nel linguaggio, i mille fenomeni della decomposizione, ricomposizione, alterazione, variazione, esitazione, trasformazione di nuove parole e, conseguentemente, della società che esse rappresentano.
E allo stesso modo in cui l’uso dei dialetti fa le lingue; il buon diritto, la perseveranza e il tempo convertono le minoranze in maggioranze; il lavoro, gli anni e la discussione faranno diventare chiare anche ai più semplici le mie idee che oggi vengono rigettate dalla maggior parte degli uomini. Pertanto farò come i profeti, non cederò alle brucianti richieste della maggioranza, non adotterò né le sue idee né il suo linguaggio: aspetterò che si venga a me. Così mi piace!
XX
Lavoro come il seminatore, che sa vivere e designa i suoi compagni con nomignoli appropriati ai loro caratteri.
Non ci si meravigli di vedermi aggiungere quasi sempre epiteti qualificativi ai nomi che cito. Le denominazioni attuali sono ereditarie, esse non danno alcuna idea di quello che comportano come le campanelle non hanno che un solo suono. Oggi è impossibile immaginarsi una persona di cui si conosca soltanto il nome. Perché dunque una distinzione che non distingue, una denominazione alla quale non risponderemmo se i nostri genitori, il sindaco e il curato non l’avessero indicato come nostra?
La maggior parte dei nostri nomi sono come oltraggi, supplizi, infermità che ci fanno subire. – Che bella fortuna chiamarsi Acquachiara quando si è intrepidi bevitori, e Bevivino quando non si preferisce che acqua! – Non è forse una disgrazia essere bello realmente e sentirsi ripetere Brutto tutto il giorno? – E non è peggio essere brutto di persona e Bello secondo i registri dello Stato civile? – Quali imbarazzanti designazioni come Grande per un uomo piccolo, e Piccolo per un gigante! – Conosco uno sfortunato Beneamato che la gente del suo paese lapida senza pietà tutte le volte che mette fuori il naso; – una signorina Sarcofago che si è da poco impegnata con i legami rosei di imene; – due Guadagno che hanno fatto una dopo l’altra mezza dozzina di bancarotte; – una dozzina di Nero che si potrebbero indicare come albini senza imbrogliare nessuno; – centinaia di Bianco che sono bruni; – migliaia di Bruno che sono rossi; – una infinità di Rossi che non lo sono né fisicamente, né moralmente, un guerriero, celebre bottegaio di Parigi, – Un Pasticcere, medico, che non fece mai una brioche. – Non si chiamava Buono il proconsole dal sottopancia tricolore che fraternamente inviava i suoi concittadini a dormire nell’Atlantico? – Il celebre bollettino del bombardamento di Sweaborg non fu firmato da un ammiraglio Avvilito? Ed io che scrivo queste righe, io socialista e proscritto, non sono afflitto dal più aristocratico fra i nomi aristocratici?
E questi nomi sono i meno impressionanti: basta riferirsi a me per risparmiare al mio prossimo scherzi atroci! Non parlerò pertanto di tutte quelle vittime innocenti che per nascita o matrimonio si chiamano: Becco, Acuto, Cornuto, Corno, Lo Gatto, Lo Porco, Lo Cane, Lo Topo, Lo Bue, Companatico, Mariolo, Attaccabrighe, Passero, Ammonito, Cammello, Ribaldo, Mostarda, Moccio, Rognoso, Tondo, Bruciato, Pelato, Scorticato, Trucco, Battidenti, ecc., ecc. Una simile litania è nauseante e per altro inutile in quanto ognuno può trovare fra i suoi più vicini e migliori amici nomi da far morire dal ridere.
È certo che le più insignificanti designazioni sono oggi le meno pesanti. Per altro c’è di buono che molti hanno tanto arrossito che, per averne altre, hanno fatto ricorso ai tribunali supremi. Come se il governo avesse qualcosa da vedere in questo problema. Come se potesse obbligare a portare questo nome o ad abbandonare quell’altro.
Oppure sì, il potere ha questo diritto; voi glielo avete dato, voi suoi sudditi. Per il fatto che lo avete istituito conservatore del presente ordine sociale. Quest’ordine contro natura sanziona il possesso ereditario e abusivo che si mantiene grazie ai nomi. Il nome è il numero di registrazione a mezzo del quale l’autorità ritrova sempre i suoi amati e amorevoli schiavi. Il nome rimpiazza l’uomo, il suo cuore e la sua vita, come il capitale rimpiazza la cosa, la terra, il lavoro e il valore reale. L’uomo e la natura scompaiono davanti la finzione.
Ergo, cantate, danzate, sposatevi! Resterete Testardi, Storti, Gobbi, Zoppi, Monchi e Sordi fin quando tutto ciò sarà nell’interesse e nel capriccio dei vostri padroni e signori.
Se questa sistemazione vi conviene, osate! Signori e Signore! fate presto bambini; che nomi così graziosi non vadano perduti per la posterità!
L’uomo non dovrà più essere battezzato alla nascita, a caso, quando ancora nulla rivela le sue tendenze; né suo padre né la sua nutrice né il suo padrino hanno il diritto di disporre così del suo avvenire. La donna non dovrà più essere ribattezzata dal matrimonio. Il figlio non dovrà più essere condannato perpetuamente a chiamarsi come i suoi onorevoli antenati.
Il nostro nome deve essere l’epigrafe della nostra vita, deve rappresentarci sotto il nostro aspetto più generale e riassuntivo, per cui soltanto a sentirlo ci si possa conoscere come se ci si frequentasse da sempre. Il nostro nome deve variare con l’età, il luogo, il tempo e gli avvenimenti. Vi devono essere nomi d’infanzia, di gioventù, di età matura e di vecchiaia. È necessario che si possano cambiare secondo come lo esige la propria natura e le variazioni del proprio modo di vivere. Agli uni basterà un solo nome per tutta la vita, agli altri sarà necessario cambiarlo come una camicia. L’essenziale, in una parola, è che lo Stato Civile non sia più fisso, ingiusto e stupido come oggi lo vuole la moda del possesso.
Il soprannome diventerà il vero nome, e con buona ragione, scelto da noi stessi o dagli altri, secondo gli avvenimenti, gli incidenti, le situazioni e le conversazioni della vita. Lo ritroveremo in un accesso di gaiezza, di dolore o di espansione, in una di quelle circostanze rare in cui l’uomo si fa conoscere bene. Come tutti gli altri l’uso del denominatore dovrà essere sottoposto alle leggi della Trasformazione incessante e non ai codici della Proprietà.
XXI
Lavoro come il seminatore, il brav’uomo dei campi che si mette a suo agio negli abiti per fare il maggior lavoro possibile.
Secondo me il vestito dell’individuo deve essere in rapporto al paese in cui abita, alla stagione, alla temperatura, alle circostanze e occupazioni della sua vita. La più soffocante delle tirannie è senza dubbio quella della moda. Essa non ci lascia mai un istante a noi stessi, ci fa sorvegliare dai mille sguardi dei suoi Argo e dei suoi fedeli, che ci spiano nei nostri minimi movimenti. Copre con una maschera uniforme i nostri istinti più diversi, ci imprigiona dalla testa ai piedi e ci obbliga a portare la nostra prigione con noi col caldo e col freddo, col sole e la pioggia, i venti e la polvere, in campagna come in città. Essa ci pietrifica, mummifica, ridicolizza, cristallizza, stalagtizza.
La forma tradisce il fondo. L’esteriore riflette l’interiore. Certamente non si può giudicare un uomo dal solo esame degli abiti, dalle protuberanze del cranio, dalle linee della mano, dall’espressione della fisionomia. Ma ciascuno di questi attributi superficiali indica una particolarità della nostra profonda organizzazione, e si perviene sicuramente ad una opinione molto giusta su di una persona osservando tutti questi dettagli, ravvicinando e comparando i risultati di questa osservazione.
L’abito rivela dunque un lato del nostro carattere, come lo stile, la scrittura e l’abitudine dei nostri tratti ne rivelano altri. Senza accordare ai signori sarti l’influenza fondamentale che pretendono sul cammino della civilizzazione, senza costruire da parte mia un nuovo sistema fisiognomico, senza cadere nell’esclusivismo ristretto, esagerato, meschino di molta gente, sostengo ciò. Pretendo che gli abiti stanno ai costumi come nel corpo umano la pelle ai muscoli. E allo stesso modo in cui il buono o cattivo stato della pelle fa giudicare sul buono o cattivo stato delle vie interiori, così questo o quell’abbigliamento indica questa o quella disposizione dell’essere morale.
– Che i ragazzi con lo stomaco pieno non si permettano, partendo da questa affermazione, di insultare la miseria con qualche battuta molto spiritosa! Come loro, so benissimo che la fame si nasconde come può sotto gli stracci. Ma il tempo farà giustizia di voi, piccoli redditieri coperti di rame e di oro. E sarà disgrazia per coloro che rideranno ancora del povero! I vostri libri santi lo dicono: “disgrazia a colui che ride del povero! egli disonora il creatore”. –
Non è certo ai disgraziati che vanno le mie allusioni. No, certo. Rispetto troppo la loro situazione per non togliermi il cappello tutte le volte che la incontro. Ma mi indirizzo a coloro che potendosi vestire come vogliono, sono sempre abbigliati come non vorrebbero. Parlo di quei vigliacchi che preferiscono martirizzarsi il corpo piuttosto che scompigliare un capello all’Opinione, che tagliare un’unghia al Pregiudizio adunco. Parlo di quegli oziosi che passano tre ore su ventiquattro a lottare contro la testardaggine di un pelo della barba, di un colletto o di un nodo alla cravatta. Parlo di questi uomini graziosi che si infuriano, imprecano, si arrabbiano e sudano davanti allo specchio della loro fatuità. Parlo di questi sacchetti ambulanti che ci asfissiano con le esalazioni di muschio e paciulì. Parlo di questi manichini pubblicitari che passeggiano i loro abiti nuovi sui boulevard, per il maggior guadagno dei loro fornitori. Parlo di questi suppliziati consenzienti, serrati, ghigliottinati, compressi, strangolati, ridicolizzati, depressi, compressi, scorticati, legati, riempiti, graffiati, abbottonati, appuntati con gli spilli, martirizzati, raggomitolati, torturati, che si sentirebbero infelici se potessero respirare e camminare liberamente. Parlo di queste graziose schiave che si slogano piedi e mani, che si bucano le orecchie e le narici se cominciate a far loro la corte. Parlo di questi imbecilli indifesi che consegnano le membra agli acconciatori e le teste ai barbieri, arrendendosi a discrezione e senza misericordia. Parlo di queste bambole umane di cui si allunga o accorcia il viso a piacere, che si insaponano, radono, impomatano, arricciano, arrostiscono, bruciano, ingessano, riparano e rappezzano. E che restano là più pazienti di un cane barbone che si porta a tosare o di un mulo che si fa ferrare! E che non sopporterebbero lo spazio di un mattino il contatto della mano del barbiere. Parlo di esseri viventi che si lasciano tagliare come giardini inglesi, come sacchi, palle, mummie, spazzole, squadre, piramidi, triangoli, obelischi, né più né meno che dei rami di tasso o delle code di cavallo! Mi divertono quelli che fanno sfiorire sulla loro faccia una cotoletta, una mosca, un re o un asso di fiori! Gli ereditieri di buona famiglia mi divertono molto quando tirano in su i loro mustacchi per guadagnare qualche millimetro e sfidare il cielo!
Bisogna che mi fermi. Così facendo volgo in ridicolo il mio lavoro e mi ferisco profondamente. Mi indigno di vedere l’uomo deformato dal destino e di non riuscire a sentire i sospiri della sua impazienza, le grida del suo furore. Mi domando come egli può far passare sotto questo giogo assurdo la sua gravità, la sua forza; come la donna può sottomettervi il suo buon gusto, la sua capricciosa delicatezza; come qualsiasi essere imbevuto del sentimento del suo valore, non si senta umiliato profondamente anche dal fatto di aver tagliato le sue capacità espressive più intime. Oh! che secolo, in cui la stessa misura, la più piccola ed economica, è applicabile a tutti i caratteri, a tutte le intelligenze, a tutte le taglie, a tutti gli abiti! Che secolo in cui gli uomini cercano di assomigliarsi tutti per rendersi uguali! Secolo in cui si è caricaturizzato, rappezzato, snaturato, in cui non si apprezza la gente che dalla qualità della propria biancheria, in cui l’individuo mette tutto il proprio orgoglio a realizzare il più esattamente possibile le belle immagini dei giornali di moda!
Tutto cade sotto il ferro dei preti di Psiche. Davanti alla loro stupida dea costoro immolano in olocausto i lunghi capelli che inquadrano così graziosamente i visi dei giovani, le barbe come la seta che completano l’espressione della fisionomia, i colori naturali che le danno una propria animazione. Con le loro mani grossolane essi vogliono correggere la natura e ritoccare l’opera diligente degli anni. Rallegratevi dunque civilizzati, siete come bambole di cartone nelle mani di parrucchieri, sarti e apostoli di San Crivello! L’uomo, il re della natura, si è inchinato davanti al pettine, al trincetto e alle forbici. Rantola in un corsetto, soffre fino a piangere nelle scarpe di vernice, mentre la nobile fronte è segnata dall’impronta del cappello.
Oh! la gloriosissima, la divina Moda, la moda così celebre e festeggiata oggi, l’impudica, la banale, la laida, la trascinata dappertutto, quella che le donne adorano mentre sono metamorfosate in torri di crinolina e gli uomini mentre che si trasformano in porta ombrelli!… Ecco cosa ha fatto dei corpi!
E le Anime, le anime! Nemmeno il più indurito degli anatomisti avrebbe il triste coraggio di descrivere la malvagità, la fetida corruzione di questi tempi. Non sono ben sicuro che l’abito non faccia qualcosa dell’uomo, ma quello di cui sono sicurissimo è che ne disfà una gran parte. Colui che porta sempre lo stesso fastidioso vestito è obbligato a conservare sempre la stessa attitudine contratta, frequentare sempre la stessa cerchia di conoscenze azzimate, preparate, agghindate, bardate, affettate, crocifisse come lui; ed è obbligato a sprecare sempre la propria forza e intelligenza nelle stesse conversazioni, negli stessi frivoli intrighi. Il linguaggio e le maniere di queste scimmie ammaestrate soffrono a lungo andare dello stato innaturale in cui i propri corpi sono ridotti. La stessa morale non sfugge a questa deformazione causata dalla Moda non più di quanto lo facciano i muscoli, i nervi, le articolazioni, le ossa stesse che essa finisce per alterare, curvare, rammollire. Quando l’abito prende il posto del cuore, quando l’accessorio prende il posto del principale, quando il dettaglio assorbe il tutto, l’uomo ben presto scompare sepolto sotto un corsetto e piegato sotto un feltro.
La letteratura giornalistica dà un’idea esatta delle opinioni, delle riflessioni dei nostri contemporanei. Siete in grado di leggere un giornale? Per quel che mi riguarda non ci riesco e ne sono soddisfatto. Perché conosco in anticipo le informazioni positive, gli scandali in alto luogo, le notizie molto poco gradevoli, i dettagli autentici, le allusioni trasparenti, le rivelazioni da fonte sicura, le ricezioni, allocuzioni, pubblicazioni, menzioni, indicazioni, supposizioni, interpretazioni, diffamazioni e delusioni altamente interessanti che un giornale può contenere; le asserzioni serie, i gravi apprezzamenti che vengono avanzati un giorno per essere smentiti l’indomani. So che gli sfortunati corrispondenti e redattori devono mettere tutto al condizionale: la gravidanza dell’imperatrice, la superiorità di Shakespeare su Ponsard, quella di [Adelaide] Ristori su [Elisabeth] Rachel, questa israelita fredda come un verso di Racine, il bombardamento di Sebastopoli, la distruzione della potenza russa soprattutto, la stessa esistenza delle leggi, il loro stesso diritto di scrivere. So che essi non affermano nulla, non garantiscono nulla, nulla rifiutano e tengono fra tutto ciò solo al proprio salario. So che coprono il vuoto delle proprie colonne con un insopportabile gergo d’alta scuola che ritroverete senza eccezione presso tutti. So che pesa sul giornalismo francese una certa inconfessata dittatura di capoverso, d’orientalismo, di bizantinismo, di decadenza, di chincaglieria, di porcellanomania, di balletto, di doppio gioco, di amabilità affettata, di reticenze, di convenzioni, di semi-confidenze, di galanterie, di sospiri, di smalti e di cammei, di anticaglie, di mosaici che produce un inesauribile chiacchiericcio, una delirante fraseologia, un gergo senza precedenti in nessuna letteratura. Ho constatato la disperazione degli antichi abbonati del “Costitutionnel”; quando si chiedevano dove va il mondo con questo modo di fare. Ho visto organizzazioni alle prove della commediola o della poesia lamartiniana, non riuscire a superare il Tutto-Parigi dei prìncipi della stampa; le ho visto perdervi il coraggio e l’audacia acquistati in mezzo secolo di letture morali. E mi sono domandato spesso, molto spesso, io che mi meraviglio difficilmente, quando finirà questa lunga tortura del senso comune. Moda! Vecchia puttana, bigotta, ipocrita, rugosa, conciata, antiquata, sorpassata, imbellettata, tinta, stinta e ritinta, mi sono spesso chiesto quando cesserà la deplorevole tutela che ti sei arrogata sul giovane Pensiero?
Non si può negare l’influenza reciproca dei vestiti e delle abitudini. L’uomo prende l’aspetto esteriore della sua professione, il monaco si identifica col proprio abito. Il medico è come calato nel suo cappotto con le larghe maniche; il curato fa tutt’uno con la sua sporca sottana; il proprietario fiorisce accanto al suo camino nella sua ampia veste da camera; l’operaio si dondola contento nella sua tuta da lavoro; il soldato resta dritto come una i nell’uniforme che gli ha dato la munificenza del suo imperatore; la religiosa può vivere sotto il velo che nasconde ai curiosi i suoi sguardi pudibondi. Studiate l’incedere compassato del pastore protestante; guardate come vi si avvicina il pedagogo e il gesuita, gli occhi umilmente chini a terra; contate i passi del notaio calcolatore e i salti del suo scritturale che valica i rigagnoli; esaminate l’estasi dell’usciere quando può fare un pignoramento presso un povero diavolo; ascoltate fischiettare il marinaio che si ricorda le gioie e i furori del mare da lui tanto amato, guardate come si equilibra sulle gambe per seguire il rullio del caro battello. Considerate il borghese d’Occidente! si è messo a lutto, piange la bonomia, la franchezza, l’ospitalità, la cordialità, le gioie semplici dei suoi padri ormai perdute per sempre. Nel suo vestito tutto è calcolato: la lana e la seta, il cotone e il filo, il crine e il velluto, l’onore e il profitto. Quando prende i galloni non gli bastano mai.
Ditemi adesso se i costumi non sono in rapporto con i lavori giornalieri e gli atteggiamenti favoriti; ditemi se l’abito dell’uomo non è cosa di grande importanza nella sua vita; ditemi se è possibile immobilizzare la libertà di ciascuno in un vestito fatto per tutti; ditemi se tutte le riforme, dalla più grande alla più piccola, non si condannano da sole; ditemi se in avvenire si potranno tagliare gli abiti su misura o sul gentile modello imposto a tutto un popolo dalla cupida immaginazione di un sarto alla moda?
Sui monti d’Italia, fra le nuvole blu, i vapori leggeri, le fonti cristalline, vedo danzare l’Europa del futuro, l’Europa artista e libera. Ai suoi fianchi è legata la sciarpa verde e rosa, riflesso terrestre dell’arcobaleno, simbolo delle nostre gioie e delle nostre speranze. Essa tiene sotto i piedi la Moda agonizzante col cappello a forma di carrozza, corazzata di un triplice corsetto, guantata di capretto, calzata alla scudiera, armata di un parasole e nonostante tutto, vinta.
Moltitudini festose la circondano; l’aria trema di allegri concerti; gli accordi delle arpe e delle chitarre, gli scoppi brucianti degli strumenti di rame, vengono ripetuti dagli echi. Le danze e le quadriglie si intrecciano come ghirlande di fiori. Nulla può dare oggi un’idea di questo magnifico spettacolo.
Oh! che bei colori freschi, vari e puri! Oh! che bei vestiti comodi, graziosi, originali e pittoreschi! Oh! che mantiglie, veli, velette e leggeri cappelli che fluttuano al vento! Oh! che pantaloni bianchi, turbanti dorati, copricapo greci, pennacchi ondulati! Oh! che mantelline ussare, che barracani arabi, plaid scozzesi, vesti albanesi e indiane, giacchette castigliane e andaluse! Oh! che delicati coprispalle, che spille d’oro e d’argento, che ricami imitanti foglie e fiori, che decorazioni di rose, garofani, gigli, pervinche, violette e viole! Oh! che stelle, lampi, uccelli, farfalle, lucciole e libellule disegnati sugli abiti! Oh! che armi di bronzo e di rame, bianche e rosse! Oh! che fucili, carabine, lunghe spade, larghe sciabole che non versano più sangue. I bambini le fanno sbattere sui fianchi dei giovani che le portano gaiamente! Oh! che eleganti calzature di sogno, gialle e nere, snelle, lisce, levigate, ornate di speroni d’oro e nappe di corallo! La luna vi si specchia e i cavalli sono fieri di sentirle nella staffa! Oh! le donne, gli angeli, le ninfe, le deesse beneamate, vestite di bianco, di rosa, di verde, di violetto e d’azzurro, trottanti, galoppanti, danzanti sui prati fioriti con piccole scarpette di seta! E i piccoli ragazzini svegli, con le braccia e le gambe nudi, con belle bluse, con archi, frecce, cerchi brucianti, tocchi, pennacchi di piume d’aquila e di pavone! E le ragazzine, rosee, scherzose, folleggianti, vezzose col fresco costume delle loro graziose sorelle di Perth, il vestito a quadri, corto, largo e brillante come le pietre preziose dei monti della Caledonia. E i cavalli nitrenti, scalpitanti, caracollanti, schiumanti, coperti di stoffe scarlatte, fieri sotto la sella araba e le grandi pistole strette negli arcioni. E le vetture veloci, fatte di cristallo, di legno di palissandro e di ebano, correnti su strade cosparse di verde. E i camosci e le gazzelle, gli uccelli dei campi che verranno a prendere parte con gioia alle feste degli uomini meno crudeli.
In questi tempi di libertà, di grazia, di felicità e di festa ciascuno sceglierà il proprio costume nella stoffa e nel colore che gli piaceranno. I sarti saranno consultati ma raramente obbediti. La forma, la lunghezza, la larghezza dei vestiti saranno determinate dalla taglia, dalla corpulenza, dagli atteggiamenti e dalla professione degli individui. In genere gli uomini saranno vestiti semplicemente e comodamente. Le donne rivaluteranno la loro grazia naturale, immagineranno completi che valorizzeranno le attrattive, il modo di camminare e di fare e saranno notate per il gusto e le personali grazie. Non più gonfiate da gonne e accessori, libere da ogni tipo di corsetto, prenderanno fiducia in se stesse, e crederanno nella loro missione sociale e nei loro diritti identici a quelli degli uomini. Essendo infine ognuno diverso dagli altri, l’originalità del costume non sarà più elemento ridicolo, ma al contrario una qualità essenziale, una specie di sigillo del carattere. Allora l’individuo sarà libero nei suoi abiti come nei suoi atti e nei suoi discorsi. Allora la diversità prenderà il posto dell’uniformità, l’animazione quello della monotonia, la sicurezza quello della timidezza, e l’espansione quello della paura. La società degli uomini si distinguerà immediatamente da quella degli animali domestici che hanno tutti lo stesso pelame, nemmeno tanto pesante; essa sarà più conforme ai desideri della natura, più simile ai corpi celesti il cui splendore, i cui raggi e la cui velocità differiscono all’infinito.
Oh! che venga il tuo regno, Libertà! Liberiamoci finalmente dall’aspetto stancante delle folle umane sormontate da tubi di stufa, rantolanti nei loro abiti meschini! Oppure, se l’impero della moda e della razza del Badinguet-Trionfatore deve sussistere sempre, che la si finisca al più presto con le ultime vestigia dell’indipendenza individuale. Che i chirurghi, i dentisti e i disegnatori di modelli si occupino dell’umanità malata! Che essi la sezionino, la posino in rastrelliere di avorio, la colino in astucci di gesso e la portino, radiosa, al palazzo dell’Esposizione universale! Sicuramente ciò sarà il capolavoro del genio civilizzato. – Il nostro primo padre, con la sua foglia di vite e il suo sguardo modesto, ancora va bene! Ma il borghese con il suo colletto, il suo ombrello, la sua voce arrogante e il suo occhio vanitosamente sciocco, è impossibile!
XXII
Lavoro come il seminatore che non chiacchiera inutilmente. Guarda, ascolta e nota ogni cosa, non inquietandosi per nulla delle distinzioni sottili della gente delle grandi parole, dei facitori di imbarazzi.
Osservo che la Libertà abbatte gli usi che si oppongono al suo cammino, noto che la Natura si vendica delle società che disconoscono le sue leggi, mi rallegro che la compressione non possa essere sopportata dal corpo dell’uomo non più a lungo di quanto possa sopportarla la sua anima.
Che i testardi si rassegnino! L’individuo protesta sempre contro gli ostacoli che nuocciono al proprio sviluppo. E quando si sente sufficientemente forte spezza le catene della Legge, della Moda e del Pregiudizio che lo tenevano prigioniero!
Quando ero nel numero dei viventi e frequentavo il bel mondo, ho visto l’Abitudine, la vecchia matrona altezzosa e aspra, facente tappezzeria per ore intere, mentre la gioventù si divertiva nelle gioiose quadriglie. Le ragazze non ne avevano paura, i giovani la salutavano con deferenza, da molto lontano, ma la lasciavano in pace. Lei s’indignava, fulminava contro le depravazioni mondane, stringeva le mani secche e passava sui suoi denti l’ago vermiglio che gli serviva per mantenere il contegno. Al suo fianco altre signorine lasciate per semenza anch’esse, ancora più ossessionate dell’Abitudine. Una si chiamava Belle-Maniere ed aveva la spina dorsale storta e le gambe zoppicanti a furia di riverenze. Un’altra si chiamava Pudicizia e nascondeva le sue rughe imbellettate con un ventaglio giallastro. Una terza, una inglese dai capelli rossi, Miss Calze-Blu si abbandonava a orribili contorsioni declamando i versi duri e tonanti di un poeta incompreso. Un vecchio donnaiolo dalla testa tremante, con la voce dolciastra, dalle insinuazioni perfide, un vecchio puzzolente di incenso e di canfora, serviva loro nello stesso tempo da Leandro, da paravento, da compagno per giocare a carte e da ballerino nei momenti di grande necessità.
È per questo che vi dico, a voi generazioni che ancora siete strette al petto delle vostre madri, voi farete i funerali alla Virtù, all’Abitudine e alla Modestia.
– Laetare!
E semino cantando!
XXIII
Quando ero nel numero dei piccoli studiosi che si disputano la manna universitaria, seguivo assiduamente i corsi delle scuole e le sedute delle assemblee. Là ho visto gli studenti e gli stenografi riprodurre i discorsi alla stessa velocità in cui venivano pronunciati. Io stesso, con un procedimento mio, prendevo delle note senza dimenticare una sola parola che cadeva dalle labbra dell’oracolo. Ho concluso pertanto che la scrittura ordinaria, la lenta, difficile che tradisce i nostri sforzi non aveva molto tempo per esercitare ancora la sua tirannia su di noi.
Ascolto molte conversazioni, leggo molte lettere in tutte le lingue, provenienti da tutte le classi. Mi rendo conto che ognuno si libera insensibilmente dalle regole della grammatica. Molte abbreviazioni penetrano nell’uso. Non ci si meraviglia più degli errori d’ortografia; si trova più interessante che uno spirito originale accenti, punteggi e raddoppi le lettere secondo come l’intende.
Il numero di questi rivoluzionari aumenta ogni giorno senza che il potere prenda provvedimenti, senza che comprenda la portata delle loro proteste. Conosco bene i giovani che risolutamente fanno barbarismi e solecismi fino a rompere i nervi induriti di tutto il corpo insegnante. Essi si sentono sufficientemente autorizzati, dopo che siamo diventati un impero, dall’illustre esempio del primo Napoleone.
Ho avuto in mano molte lettere in inglese. Ho notato con vivo piacere che i nostri vicini e alleati hanno il buon senso di gettare alle ortiche la banale cortesia in cui noi ancora eccelliamo. Sì e no e una firma, questo è spesso il tenore delle loro risposte. E perché di più, se ci si intende bene così? Credete forse di divertire gli altri obbligandoli a leggere ciò che vi forzate a scrivere? Chi si rallegrerà di questo rimbalzare di frasi pompose? La Posta dalle bubbole chiassose e il vostro fornitore di carta.
Per quanto mi riguarda, vedendo generalizzarsi queste maniere ottime, facili e gradevoli, mi rendo conto che vi è una generale reazione contro la noia determinata dalla corrispondenza, dal momento che quest’ultima ha smesso di essere intima. Mi rendo conto che si vuole porre fine alla fraseologia pretenziosa, eliminando dai rapporti di ogni giorno ogni sterile chiacchiericcio. – Amen!
E semino cantando!
XXIV
Quando cercavo un filo di Arianna, un sentimento, un principio, un pensiero nel labirinto popolato dalla oziosa politica; quando scorrevo i giornali e li vedevo leggere ai frequentatori delle biblioteche, notavo che gli uomini più semplici si permettono di discutere l’opinione del più famoso redattore, di trovare la cronaca priva di interesse, di criticare amaramente dapprima e poi, in seguito, di smettere di consumare questo tipo di produzione in fogli.
Dopo ho continuato le mie osservazioni. Oggi conosco molta gente onesta che sarebbe singolarmente contraria se la si sorprendesse dello stesso avviso del proprio giornale. Essi pensano che un individuo non può imporsi solo perché possiede il mezzo di farsi stampare. Due soli giornali sembrano loro scritti con talento, “le Peuple” e “la Presse”, i cui redattori cercano di distruggere l’impero del Giornalismo e dei Partiti contribuendo all’avanzamento della libertà individuale.
Il Due Dicembre ho visto il più vituperevole e il più imbrattato di sangue dei poteri tirannici, affondare i propri speroni fino in fondo alla gola del Giornale, mettere il morso tra i suoi denti coperti di schiuma e condurlo in fondo all’abisso dell’abiezione. A seguito di questa razzia brillantemente eseguita, i cagnolini e i grifoni piumati si sono sentiti scappare in modo così netto lo spirito pubblico che hanno per sempre rinunciato a scavarsi un cammino verso gli onori. Ora essi cercano di farsi notare dal Potere e si stimano molto felici quando quest’ultimo li compra. Non potendo divenire padroni come in Febbraio, si fanno domestici come nel 1815. È questa la più completa ammissione della loro incapacità a ricostruire ormai in Occidente un partito di opposizione.
Oggi sono molti i lettori che cercano lavori originali e disprezzano il giudizio dei critici, questi magri insetti che si attaccano ai frutti migliori. Le recensioni, le censure dei giornali, le approvazioni, le riprovazioni, i brevetti, i diplomi di accademie, università e facoltà, i programmi dei partiti, le loro liste elettorali preparatorie, la dittatura esercitata sulle intelligenze, tutto ciò diventa impossibile come il governo, il codice e la maggioranza sociale uccisi dal Privilegio. – Alleluia!
E semino cantando!
XXV
Se la Francia non può più stampare le nuove idee, il Belgio, la Svizzera, l’Inghilterra, l’Olanda, l’America, avidi di guadagno, si incaricano di farlo. Ciò accade oggi che le comunicazioni rapide e frequenti legano tutti i popoli, oggi che il Contrabbando dal piede lesto salta in un soffio al di sopra del corpo dei doganieri addormentati.
Se la censura ufficiale rende i giornali francesi nauseanti a leggere e a scrivere, ne risulterà per forza che le letterature antiche, straniere e quelle dell’esilio saranno ben presto meglio conosciute e più apprezzate presso di noi. Di già a Parigi si moltiplicano le traduzioni degli autori dell’antichità, quelle dei grandi scrittori degli altri paesi, e le edizioni popolari a buon mercato. La Bibliothéque-Charpentier, e la Librairie nouvelle trovano il proprio interesse in queste attività. La Germania, l’Inghilterra, l’Italia, l’Oriente, le anime della vecchia Roma e della Grecia olimpica gioiscono della pubblicità che diamo alle loro opere. Così l’educazione francese, tanto difettosa in ciò che riguarda le altre letterature, si perfezionerà durante il tempo di mutismo che attraversiamo; così la nazione potrà penetrarsi delle grandi massime di giustizia e di libertà contenute in tutti i capolavori che sono patrimonio del genere umano.
Oh! che società dall’aspetto bestiale! Oh! che Potere guercio che non vede altro al di là della propria effimera esistenza minacciata da un pugnale aguzzato nell’ombra! Il Potere ignorante che sopprime giornali insignificanti e chiassosi, che s’inquieta per le innocenti caricature del “Charivari”, ma che lascia stampare, ristampare e circolare dappertutto il Vangelo, Dante, Byron, Goethe, Rabelais, Molière, J. de Maistre e Proudhon! Possibile, potere pigro e trasalente, che tu non abbia mai letto nulla, né saputo nulla, possibile che la Rivoluzione ti faccia perdere così facilmente le sue tracce, le sue tracce che sono così chiare come il giorno che ci illumina? Pietà, pietà per loro, per i governanti e i poveri di spirito, essi non sanno quello che fanno! – Kyrie eleison!
E semino cantando!
XXVI
Prevedo la conclusione prossima di un trattato di libero commercio tra la Francia e l’Inghilterra, trattato che non permetterà ai padroni delle dogane di continuare l’esercizio sui viaggiatori della loro dittatura di sondaggio o di perquisizione a vivo. Allora i libri dei proscritti passeranno le frontiere che li assediano da tanto tempo. Se questa letteratura saprà rendersi interessante non potrà far fronte alle richieste che arriveranno da tutte le parti: l’Uomo, soprattutto la donna, la figlia di Eva la curiosa, sono talmente avidi di frutti proibiti! I curiosi, la gente importante, gli amici dello scandalo e delle novità, i membri dei circoli di paese, tutti questi piccoli borghesi turisti che tengono il broncio al potere, ritorneranno in seno alle proprie famiglie, col viso maligno, il naso all’insù, la bocca e le tasche piene di ciò che si può scrivere all’estero contro l’ordine di cose regnante in Francia. Essi si impadroniranno di questi libri, di questi opuscoli, li leggeranno, li conserveranno preziosamente sotto vetro, nel cotone, li nasconderanno, li imbalsameranno, li faranno rilegare col dorso dorato, perché vi troveranno dentro eminenti verità per gli uomini liberi da ogni legislazione. I gerenti dei giornali censurati si strapperanno pugni di capelli davanti alle loro casse vuote; i processi pioveranno su di loro come grandine dal momento che vorranno darsi delle arie un poco troppo da furbi. I trafficanti britannici saranno pieni di riguardo per i proscritti che faranno guadagnare loro dei soldi. La Rivoluzione correrà su un carro fatto di sterline!
Verrà infine il giorno in cui il pensiero dell’individuo riempirà di terrore la forza pubblica. Allora il solco della giustizia scavato in tutte le coscienze sarà così profondo che nessun potere lo potrà mai distruggere. Allora il gioioso Atlantico balzerà su tutte le navi cariche della produzione intellettuale. Allora gli uomini fisseranno il sole rosso senza essere abbagliati dalla sua gloria e dalla sua libertà. – Laudate!
E semino cantando!
XXVII
Se tempesto per mettere insieme alcune parole con la mia penna, sono molti quelli che si impazientiscono, per primi i tipografi, quando scelgono l’uno dopo l’altro i caratteri che formano le parole. La Scoperta troverà molto presto metodi per risparmiare all’operaio il fastidioso lavoro della composizione. È impossibile che un giorno non disporremo di un processo analogo ai nostri attuali sistemi stenografici.
Negli ultimi sette anni si stampa più velocemente e molto meglio che in passato, grazie ai perfezionamenti costanti apportati alla grande arte di Gutenberg. All’esposizione di Londra funzionava una macchina immensa a cui si davano da mangiare pezzi di stoffa e che restituiva un giornale infarcito di dispacci e di menzogne, firmato, timbrato, piegato, girato dal verso giusto, in una parola pronto ad essere divorato dagli amatori. – Nello stesso tempo il “Times” e l’“Illustrated London News” possono tirare all’infinito per soddisfare una favolosa esigenza di consumo. – L’inevitabile soppressione di ogni potente e di ogni censura permetterà ben presto il lavoro per proprio conto a buoni operai tipografi. Questa moltiplicazione delle tipografie comporterà una diminuzione dei loro prezzi a seguito della concorrenza che si stabilirà. A poco a poco scomparirà anche l’intermediario capitalista che separa lo scrittore dall’operaio.
Guardate a quante relazioni sociali, avvisi, annunci, programmi, prospetti, lettere di partecipazione, bollettini, comunicazioni di ogni tipo oggi si dedica una tipografia. Man mano che la popolazione crescerà, che gli interessi si frazioneranno, che gli individui si emanciperanno dalla tutela della società, la stampa sostituisce la parola e la scrittura per lo scambio dell’offerta e della domanda, per la messa in circolazione di tutte le notizie. Il manifesto accompagna dappertutto la ferrovia e le navi a vapore, esso è diventato come la voce di questi corrieri muti.
Siamo al punto in cui l’intelligenza, per tanto tempo paralizzata dai prodigiosi sviluppi dell’industria, riprenderà il suo sforzo a mezzo di mille nuovi procedimenti. Il Pensiero non sarà più a rimorchio della Materia, avrà su di questa una splendida rivincita e si libererà definitivamente dall’impero degli interessi.
Ho molta pietà per i banchieri e per gli imprenditori che contano sulle loro transitorie ricchezze. Affermo che prima di mezzo secolo l’uomo avrà valore solo per la sua abilità, la sua attività, il suo lavoro, il suo spirito inventivo e la sua anima amante.
Allora tanto peggio per coloro che sacrificheranno ancora agli dèi pagani! Tanto peggio per coloro che saranno fatti sul modello di Baal, con una testa d’argento, le mani di rame e un lingotto al posto del cuore! Perché l’uomo non porrà più la sua felicità nella sete dell’oro. Perché i diseredati spezzeranno le immagini, diventeranno feroci, impietosi, avidi di godimenti, assetati di sangue. Scivoleranno nei letti delle principesse e metteranno le mani nelle loro casseforti. E il risparmio di secoli sarà dissipato, lavato, rimesso in circolazione da essi in qualche giorno di guerra civile.
Le visioni di vendetta mi ossessionano, bisogna che lanci grida strazianti! I cieli faranno piovere sui privilegiati i colpi della giustizia. I primi a bruciare saranno gli abiti scarlatti dei cardinali e dei giudici tremanti. Il suolo si aprirà sotto i proprietari perché possano soddisfare la loro bramosia di argilla. Le foreste cammineranno agitando nell’aria i loro pennacchi. Le montagne crolleranno formando laghi e arrestando il corso di torrenti in piena. I ghiacciai, i vulcani e i mari parteciperanno alla festa; essi canteranno ai preti smarriti un terribile Stabat. I raggi degli astri diventeranno più rossi del lampo. Sento venire le guerre, i sollevamenti e i disastri che scuotono gli imperi fin dalle fondamenta. Col suo piede inarrestabile, la Rivoluzione fruga fra i Civilizzati come un boscaiolo in un formichiere. Per quanto mi riguarda mi considero felice allo stesso modo dell’antico Bîas e del moderno vagabondo: potrò portare tutto con me al momento di questo universale trasloco. Non ho nulla da temere da ladri celebri, essi non conoscono il prezzo della parola. – Verbum sapientiae!
E semino cantando!
XXVIII
Osservo che nelle campagne, nelle scuole e nelle fabbriche, dappertutto dove l’uomo è fresco e semplice, ci si libera decisamente dalle maniere affettate e di ogni schiavitù imposta dall’opinione. Qui gli individui non si chiamano più con il nome dei loro padri. Salvo che non siano sprovvisti di qualsiasi attitudine, si applicano loro soprannomi che rispondono meravigliosamente al lato notevole delle loro persone. Il loro battesimo civile e religioso è ricordato solo negli atti ufficiali. – Nella buona società l’uso del nomignolo è altrettanto diffuso, per quanto lo si ripeta sottovoce.
Non conosco un solo bambino grazioso, amato da sua madre e dai suoi compagni; non conosco una sola donna giovane, intelligente e bella; non conosco un solo vecchio benevolo e affabile; non conosco un solo uomo dotato di amore e di sensibilità che venga chiamato soltanto col suo nome legale. – Tra ragazzi e ragazze, nelle famiglie unite, vi sono designazioni che rispondono a tutti i sentimenti. L’antipatia, la simpatia, la protezione, la forza, la debolezza, le qualità, i difetti, l’età, la bellezza, la bontà, l’ipocrisia, la vigliaccheria, il coraggio, il talento, la semplicità, l’astuzia, l’attività, la pigrizia, tutto ciò si battezza con giustizia, spirito e a proposito. – Per quanto poco un uomo, imperatore o contadino, lasci un segno, lo si distingue con un epiteto che passa nell’uso e nella storia. – I cattivi latifondisti, i deputati smagriti, i negozianti arricchiti si concedono generosamente titoli di nobiltà facendo seguire i loro nomi troppo volgari da quello del loro villaggio o del loro pezzettino di terra. – Guardate i rapporti degli amanti e degli amici, vedrete che l’affetto umano, quando diventa intimo, si traduce con designazioni diverse da quelle che infligge il caso.
Tutto ciò prova che i nomi ereditari non bastano ai nostri rapporti sociali e che sono superati come la famiglia legale di cui perpetuano le rapine privilegiate.
Si avvicina il tempo in cui l’autorità non riconoscerà più gli individui che con nomi ufficiali inusitati negli affari e nel linguaggio ordinario. Allora gli agenti del governo non saranno più compresi quando parleranno di questa o quella persona nel loro grottesco idioma, e ci si burlerà di loro invece di facilitare le loro ricerche. L’ostinazione che essi mettono nella pratica di questa ridicola abitudine contribuirà, come molte altre vocazioni, ad isolarli dal popolo. In simili circostanze l’esercizio del potere diventa del tutto impraticabile. La gioiosa Anarchia prenderà alla gola i funzionari, li stordirà, li schiaccerà senza misericordia. Non si troverà più un solo mezzemaniche per riempire il più piccolo vuoto lasciato nei quadri amministrativi. Le società si dissolveranno nella loro profondità quando perderanno l’abitudine ad ogni superficiale classificazione. A seguito delle nuove condizioni di lavoro la proprietà si mobilizza, a seguito delle nuove condizioni di esistenza i nomi si mobilizzano. Gli uomini terranno più di quanto oggi non facciano alla loro inviolabilità, quando avranno accettato o scelto liberamente il nome che la salvaguarda. Il corpo sociale si modificherà tutto in una volta nel suo organismo e nella sua fisionomia. Questo il vulcano che sconvolge le viscere del globo e diffonde nella pianura i suoi prodotti incendiari, questa la Rivoluzione fra gli uomini. – Gratias agamus!
E semino cantando!
XXIX
Il bisogno di fare constatare la propria personalità si tradisce anche presso coloro che sembrerebbero meno interessati, presso i docilissimi della borghesia paurosa e del piccolo commercio. La polizia non sospetterà mai fin dove si estendono le ramificazioni e gli sviamenti della Rivoluzione.
Il commesso torce il nodo della cravatta con l’intenzione a lungo premeditata di distinguersi dal volgo; fa valere gli abiti che porta, con un taglio o un disegno del tutto particolare, con impercettibili tracce di colore che tagliano a poco a poco la nera uniforme dei suoi simili. – Il parrucchiere divide i capelli nel mezzo del cranio, o sul lato destro, almeno egli protesta con qualche capello contro la linea generalmente seguita. Il sarto si singolarizza con le ambiziose pretese del panno dei suoi abiti o delle pieghe delle sue mutande.
Non chiedete altra protesta a questi onesti bottegai. Ognuno fa quello che può. È già molto per i leviti della Moda dichiarare guerra al loro patrono e immaginare, in un eccesso di orgoglio, che l’uomo possa adattare anarchicamente gli abiti al proprio corpo.
I liberi, quelli che si immergono in un lavoro serio, sfidano da molto tempo le mille vessazioni dell’Uso. Essi sentono che l’anima non saprebbe essere grande in un corpo incatenato. – L’artista e il rivoluzionario lasciano crescere capelli e barba fin quando non sono infastiditi dalla loro lunghezza. – L’uomo dei campi, l’uomo di lettere, l’uomo del mare, infine l’operaio, il buon operaio, qualsiasi cosa faccia, in qualsiasi posto, si mette a suo agio per fare il proprio lavoro. – Il funzionario stesso, etichetta che cammina, legale e vivente, si sbarazza con gioia dei suoi finimenti da schiavo quando ritorna a casa. – Il militare, ancora più strangolato di noi, sollecita ai suoi capi il permesso di vestire in borghese al più presto possibile.
Nelle società più eleganti si disprezza l’uomo che passa la propria vita davanti ad uno specchio. La ripugnante uniformità della moda, i suoi rigori assurdi, le sue stupide velleità dittatoriali, suscitano ogni giorno nuove proteste contro il suo impero. Ognuno trema di somigliare al proprio vicino, per quanto ciascuno si sforzi di imitare tutti gli altri. L’individuo mette con cura a profitto la propria indipendenza che gli resta per segnalare le sue più piccole tendenze originali.
Guardate come insorge a mezzo del baffo diritto, incollato, raddrizzato, arricciato, rimboccato, verniciato! Come tratteggia i propri atteggiamenti, la posa, lo sguardo attraversando le passeggiate! Come studia la punta e il tallone dei suoi stivali, la falda del cappello, la rigidezza del colletto, i bottoni della camicia, la composizione dei ciondoli, la collocazione del monocolo nell’angolo dell’occhio! Come porta volentieri occhiali, e come esagera ad arte la semplicità del suo guardaroba. E come la minima bizzarria di una persona ecciti l’invidia di tutti gli altri!
Ah! è uno spettacolo veramente monotono vedere sfilare nelle strade l’interminabile processione della gente come si deve! Quando più deplorevole sarebbe se i vestiti si strappassero dal collo alle mutande facendo vedere le anime nere che coprono col proprio velo!
Come che sia bisogna accettare le proteste anche le più timide. Bisogna concludere che l’originalità dell’uomo non può essere annientata, ma che essa è annacquata, sprecata in dettagli che sono la vergogna del nostro buon gusto e del nostro buon senso.
Tuttavia siamo spinti da problemi così importanti, così decisivi che non possiamo più sprecare la nostra vita nelle mille futilità dell’etichetta, e che bisogna darsi ad ogni costo, senza recriminazioni, senza ritorno... O morire punti da cento spilli.
Gettate all’aria quindi castori, corsetti, cravatte, crinoline, nastri, guarnizioni, molle e ciuffi e parrucche! Che l’infernale Valzer scalpiti su pezzi di frac, di livree e di galloni! Che il voluttuoso Fandango scuota dalle sue magre dita i guanti e gli anelli troppo stretti per la sua mano! Che l’Umanità passi come turbine sui suoi vecchi stracci! Che sollevi col suo piede ricurvo nuvole di polvere, di belletto, di piume e di odori malsani. Che parrucchieri, sarti, camiciai, corsettieri, magliai sgomenti, modiste catarrose, scompaiano una buona volta per non più ritornare sotto una forma così secca! Che le nuove generazioni si bagnino nel latte e nell’ambrosia, uscendone fresche, rosee, profumate, brillantemente vestite, ma libere nei loro movimenti, agili, graziose, eleganti, piene di mille colori, sottolineanti le proprie forme, splendenti negli abiti più splendenti ancora! Ave stellae matutinae!
E semino cantando!
XXX
Lavoro come il seminatore. Egli mette dell’amor proprio nel suo lavoro che non gli parrebbe più buono se altri al suo posto lo toccassero.
L’uomo è fatto così. Si crede diverso da tutti quelli che lo avvicinano e tuttavia li chiama propri simili. A meno di essere storpio, rognoso o negro, non c’è individuo che non si consideri superiore al proprio vicino in tutte le attribuzioni. Nessuno acconsentirebbe a scambiare la propria nuda persona con un’altra ugualmente sprovvista di titoli, prestigio, fortuna.
L’uomo è proprio fatto così. Questa buona opinione che ha di se stesso salvaguarda la sua propria libertà e mantiene l’armonia nel nostro piccolo mondo a mezzo della varietà.
Dal momento che ci scostiamo da questa nozione di diversità, arriviamo a quella di similitudine, dalla nozione di similitudine passiamo a quella di uguaglianza con un piccolissimo sofisma alla maniera di Babœuf, Condorcet, Jean-Jacques, Licurgo, Robespierre, Luigi XIV e Loyola, il livellatore di cadaveri!
E quando siamo a questo punto, addio libertà, addio diritti dell’uomo! Eccoci nella schiavitù, testa e piedi; l’intelligenza e la razza rantolanti per sempre sotto gli artigli del più forte. I governanti coricano le nostre rivendicazioni anarchiche in lenzuoli bellissimi di carta bianca che chiamano costituzioni. Le salve gioiose dei cannoni cullano, addormentano i popoli che sono stati derubati. Russate Te Deum! L’ordine regna nelle città trafelate!
Rassomigliarsi, riunirsi, essere somiglianti, essere riuniti, è sempre la stessa cosa. I simili, gli uguali, gli identici possono essere riuniti.
Ora, una riunione suppone un ordine, una classificazione, una testa, una coda, un giusto-mezzo, una direzione, un’obbedienza, una parola d’ordine, doveri, superiori, inferiori, ricchi e poveri.
Da ciò i re, i sudditi, i dittatori, le plebi, le aristocrazie, le democrazie, le autocrazie, le burocrazie, ecc., ecc. Da ciò le catene, le palle, i cannoni, gli scudi, i piedi pesanti dei despoti e degli usurai che opprimono e pelano la testa delle nazioni, marciano su di essa come sulla sabbia di un sentiero. Da ciò il Male, la Guerra, le Sommosse, i Colpi di Stato, la Miseria, gli annegamenti, i mitragliamenti, la San Bartolomeo, Nerone, Bonaparte, Erode, Pilato e Samson il carnefice!
Uomini! Ve lo dico, se i vostri diritti sono uguali, le vostre nature sono diverse. Quando parlate l’uno dell’altro non dite il mio simile, dite il mio differente. Avrete fatto molto per il Diritto fissando nettamente i termini relativi. La lingua dà la misura dei costumi, e fra la gente che si dice uguale, una minoranza è sovra-posta mentre la maggior parte è sotto-posta. Se la tutela dei diritti di ciascuno è rimessa nelle mani di tutti, gli uomini diventano solidali nella schiavitù, nella sofferenza, mai nella libertà, mai nella felicità.
L’uguaglianza delle persone è un agguato, una trappola sociale in cui si arrabattono ancora i Cosacchi e i partigiani di Cabet. Io pretendo di essere differente dagli altri, sono più giusto, più libero, e soprattutto meno ambizioso dei capi comunisti. – Principes sacerdotum!
E semino cantando!
XXXI
Lavoro come il seminatore. Egli fa passare avanti l’uomo che con l’aratro trancia e rinnova la crosta del suolo, la mischia e la rende adatta alla coltura. Perché sa che il buon grano non cresce nelle terre cattive, scavate dagli insetti senza ali, dalle talpe cieche, dalle formiche avare, dai conigli roditori, dagli animali voraci, avidi e rampanti.
Così io, sul campo sociale bucato dai borghesi, esaurito, secco, arido, io chiamo i lavoratori del Nord, i barbari dalle lunghe lance, per scavare i solchi con le tombe, facendo loro bere sangue e mangiare cadaveri. Li invito, per la salvezza degli uomini, a bruciare, erpicare, distruggere, diritto davanti a loro, tutte le ricchezze e tutte le miserie dell’Occidente.
Slavi, fratelli miei, dal fondo delle steppe dove siete stati parcheggiati, non restate senza vita, come una razza decaduta! Alzatevi! Marciate, galoppate, balzate sui vostri liberi cavalli! Riunitevi, urlate, esigete che vi si guidi sulle rive dei mari dove cresce la vite, l’olivo e i bei frutti!
Ed io applaudirò. Ascolterò i vostri clamori di lotta nella solitudine in cui spio l’avvenire. Perché la mia anima si consuma di languore nel ristretto recinto del presente; perché tutto mi irrita, mi ferisce, mi desola civilizzandomi; non vi potrei realizzare il più piccolo dei miei sogni senza grandi sofferenze. Tutto mi sembrerebbe senza splendore, senza profumo, senza attrattiva, senza bellezza, senza onore, senza grandezza. La Poesia stessa manda riflessi più pallidi della luna nelle necropoli moderne.
E intorno a me i migliori esseri soffrono: i bei piccoli fanciulli, il vegliardo venerabile, il lavoratore robusto, l’artista di genio. E per essi tutto è morto: la fede, la libertà, la patria, la felicità e il divino amore; tutto fino alla speranza, tutto salvo l’angustia.
Venite, accorrete dunque, Slavi, bei guerrieri! Riscattateci, salvateci, riscaldate, rigenerate col vostro sangue l’Europa decrepita! Che su questo nuovo terreno fioriscano le abitudini e i costumi felici che sto descrivendo, che saranno come il rigoglio del nuovo albero etnografico dalle radici vivaci e profonde, dal verde fogliame balsamico. – Ave! salus, spes unica!
E semino cantando!
XXXII
L’ho detto nel mio cuore:
Amo, penso, scrivo. – Ma non c’è più luce sotto il sole, non c’è più giustizia sulla terra. Tutto è corrotto, tutto è oscurato dai traffici e dall’usura. La specie umana è un’ulcera. Il Bene e il Male sono ribaditi insieme da un grosso anello d’oro!
Interessi degli interessi: tutto non è altro che un interesse!
E la Ragione mi ha risposto:
“La tua vocazione ti chiama: vai! – Parla quando ti comanda di parlare, scrivi quando ti ordina di scrivere, ama quando ti dirà di amare!”.
– Ho seguito quindi la parola della mia attrazione ed ho pubblicato questo libro senza inquietarmi degli uomini, dei loro elogi o dei loro biasimi.
E semino, canto e grido: Libertà!
L’ho detto nel mio pudore:
Ho editato questo libro. – Non è oro, non è piombo, non è carne fresca, non sono menzogne che porto ai civilizzati. Quindi loro non mi considereranno come il banchiere ebreo, non mi coroneranno come il mitragliatore di Dicembre, non mi pagheranno come una prostituta, non mi ascolteranno come loro avvocato chiacchierone e cattivo.
Corruzione delle corruzioni; tutto è corruzione.
E la Ragione mi ha risposto:
“La rivolta ti chiama: vai! – Che t’importa di un’opinione venduta, mercanteggiata, trascinata nelle colonne dei giornali, su tutti i muri, nel fango dei rigagnoli? Perché preoccuparsi dei paesi sottomessi, delle razze in decadenza? La spada del conquistatore, la spada esecutrice della Rivoluzione, annienterà tutto ciò!”.
– Ho seguito quindi il grido della mia rivolta. Ho pubblicato questo libro non per nazioni caduche, tremanti sull’orlo della loro fossa, ma per i popoli giovani, sollevanti il loro lenzuolo di neve come le primavere sotto il nuovo sole.
E semino, canto e grido: Libertà!
L’ho detto nel mio isolamento:
Se mi pongo dal punto di vista di mio padre e di mia madre… – Allora questo libro non è un’eredità ma una spesa; non è un titolo ufficiale ma una recidiva anarchica; non è infine un regalo molto presentabile che io invio loro per il primo giorno dell’anno.
Dipendenza delle dipendenze: tutto è dipendenza!
E la Ragione mi ha risposto:
“La tua libertà ti chiama: vai! – Ogni cosa a suo tempo. Era giorno di allegria nel focolare di famiglia quando un testamento veniva a posare la sua ala funebre. Era giorno di allegria quando, scolaro docile, portavi al padre un diploma dopo l’altro. Era giorno di allegria quando, al primo Gennaio, facevi alla madre i complimenti d’uso. Adesso tu sei un uomo e non devi più piegarti”.
– Ho seguito quindi la parola della mia libertà. Ed elevandomi al di sopra di tutti i vani pregiudizi, pubblico questo libro non contro la mia famiglia, ma per l’umanità.
E semino, canto e grido: Libertà!
L’ho detto nella mia tristezza:
L’opera delle mie mani, il lavoro della mia testa non sono titoli di protezione di cui possa farne parte con i miei amici. Non sono né potente né ricco. E più studierò, più mediterò, più scoprirò, più mi creerò avversari accaniti.
Gelosia delle gelosie: tutto è gelosia!
E la Ragione mi ha risposto:
“L’umanità ti chiama: vai! – I tuoi nemici invecchiano tutti i giorni, e i tuoi amici si avvicinano a te sulle nuvole di fuoco che portano l’Avvenire. Tu non sei più soldato di un partito, ma cittadino del mondo. A te di provare che tu meriti questa grande naturalizzazione!”.
– Ho seguito quindi l’ispirazione dell’umanità. E pubblico questo libro, facendo poco caso alle amicizie banali che piovono sull’uomo come uccelli sul miglio.
E semino, canto e grido: Libertà!
L’ho detto a mio danno:
Da dove deriva che ogni rivendicazione in favore del diritto è punita, in questo mondo, come un oltraggio alle leggi, come un crimine di lesa maestà sociale? Da dove deriva che i buoni soffrono, i cattivi prosperano, i popoli sono guidati, incatenati come greggi?
Ingiustizia delle ingiustizie: ah! tutto non è che ingiustizia!
E la Ragione mi ha risposto:
“La tua coscienza ti chiama: vai! – Nei pantani salmastri trionfa lo spaventoso rospo, nei rivoli di fango si rotolano gli insetti dagli appetiti immondi. Là è tutto disordine, torpore, asfissia, compressione, desolazione! Come nelle nostre società. Ma l’acqua riprende il suo limpido corso, la cancrena cade in polvere di carbone, niente resta stagnante sul globo che gira. Tutto matura al sole, tutto verdeggia nella pioggia; nella sua corsa senza fine la Rivoluzione raddrizza i torti, ripara le ingiustizie, salva gli uomini e gli imperi”.
– Ho seguito quindi la sollecitazione della mia coscienza. E pubblico questo libro per sfidare i tribunali, i governanti e gli aborti umani che si chiamano re.
E semino, canto e grido: Libertà!
L’ho detto nel mio scoraggiamento:
Perché persistere in una lotta senza speranza? Perché non abbandonarsi senza resistere alla fogna dalle acque nere che conduce alla vergogna dappertutto in Occidente?
Spudoratezza delle spudoratezze: ah! tutto non è che spudoratezza!
E la Ragione mi ha risposto:
“La tua fierezza ti chiama: vai! – Fra tutti questi avventurieri, questi diplomati in anticamera, questi oratori da salotto, questi scrocconi di funzioni servili, fra tutti questi miserabili in abito nero, sollevati, alzati come un rimorso vivente. La Gloria è la donna libera che ringiovanisce all’aria dei monti, al grande sole e al fuoco del lavoro. Lei muore di disgusto nelle folle che si accalcano dove uomini senza delicatezza, senza coraggio e senza cuore la ossessionano, a migliaia, con le loro brutali proposte”.
– Ho seguito quindi il richiamo della mia fierezza. E pubblico questo libro per far vergognare della loro vigliaccheria i mendicanti, i parassiti e tutti i servitori di questo mezzo mondo.
E semino, canto e grido: Libertà!
L’ho detto nel mio sbalordimento:
Com’è che i civilizzati considerano follia ogni opera originale? Com’è che ogni nostra ambizione, a parte quella di fare fortuna, sembra loro inutile, condannabile? Com’è che l’operaio, l’artista, il pensatore soccombono, privati di tutto, disseccati, se non si vendono?
Miseria della miseria: ah! tutto non è che miseria!
E la Ragione mi ha risposto:
“Il tuo disinteresse ti chiama: – Vai! Ai giorni nostri l’abitudine è una seconda natura, e l’interesse un bisogno vitale. Il Risparmio, il Fastidio, la Mediocrità si spaventano davanti a coloro che non sono abituati a vedere. Il secolo è così ben vestito, la fiducia è così grande che la prima preoccupazione di due borghesi che s’incontrano è quella di stare attenti alle proprie mani e alle proprie tasche. Amicizia, odio, considerazione, protezione, negozio, tutti i rapporti cominciano, finiscono e si riassumono in una questione di denaro. Sfortunati i disinteressati fin quando dureranno questi ignobili saturnali! Ma felici nell’avvenire i poveri di fortuna, i ricchi di talento!
– Ho seguito quindi la tendenza del mio disinteressamento. Ho pubblicato questo libro per dare a tutti i trafficanti del giorno l’esempio di un pazzo che sacrifica la sua posizione alla passione di scrivere, il suo avvenire di un giorno, la sua esistenza di insetto ai suoi sogni angelici di eternità.
E semino, canto e grido: Libertà!
L’ho detto nella sua disillusione:
Chi saprà distinguere il libero dallo schiavo, il giusto dal perverso, e il diritto dal curvo? Perché adesso gli uomini sono tutti mentitori, mascherati, appiattiti e tremanti e rampanti.
Confusione delle confusioni: tutto è confusione!
E la Ragione mi ha risposto:
“La tua collera ti chiama: vai! – Le sentenze della maggioranza sono fatte a sua immagine. In questa banda di cattivi ladroni che consideriamo la nostra società, il diritto si trova con i poveri, gli accusati, i prigionieri, i condannati a morte”.
– Ho seguito quindi la forza della mia collera. E pubblico questo libro per la glorificazione dei miserabili, dei criminali che il mondo provoca e uccide vigliaccamente.
E semino, canto e grido: Libertà!
L’ho detto nella mia indignazione:
Perché il popolo canta le lodi dei suoi oppressori? Perché innalza nuvole d’incenso davanti ad essi? Perché disprezza, ignora al contrario e copre di obbrobrio quelli che sono martirizzati, perseguitati difendendo i suoi diritti? L’indifferenza del popolo è il peggiore disgusto, il male irreparabile!
Disperazione delle disperazioni: tutto non è che disperazione!
E la Ragione mi ha risposto:
“La tua dignità ti chiama: vai! – Il popolo è ignorante, il popolo è decimato. Il popolo ha fame, il popolo ha freddo. Il popolo non sente niente, non vede niente, non sa niente, se non che gli bisogna sbarcare la giornata. Il popolo eleva al trono l’uomo che gli porge del pane sulla punta delle baionette, corre alla gogna per esporre i suoi fratelli, i miserabili da sommossa e da patibolo. Purtroppo! ventre affamato non ha orecchie, il popolo è ridotto a mendicare la sua pena, a mendicare il suo lavoro e il suo salario”.
– Ho seguito quindi i consigli della mia dignità. E non ho fatto alcuna richiesta, alcuna concessione per ottenere gli elogi del popolo, ed ho testimoniato il mio amore per la giusta causa non adulandola. E pubblico questo libro per dare una lezione di saper vivere ai cortigiani dei cenciaiuoli!
E semino, canto e grido: Libertà!
L’ho detto nella mia desolazione:
Il lavoro è maledetto, la zizzania si diffonde nel grano. L’usura è sovrana e il pensiero prigioniero. Il fanciullo è un martire, la vecchiaia un’agonia, il proletariato un grande carnaio. L’uomo ama la donna solo al mattino.
Vigliaccheria delle vigliaccherie: tutto è vigliaccheria!
E la Ragione mi ha risposto:
“La redenzione ti chiama: vai! – Per tutti quelli che sono disconosciuti, abbassati, prostituiti; per tutti quelli che soffrono, per tutti quelli che aspettano: lotta! La Giustizia lo vuole; nel suo segno vincerai!”.
– Ho girato allora i miei sguardi verso la croce del Libero, del Giusto che rivoluzionò il mondo al suono della propria voce. E pubblico questo libro alla vigilia di una redenzione vicina, completa, immensa.
E semino, canto e grido: Libertà!
L’ho detto nel mio spavento:
Sono in un abisso di contraddizioni. – Quando la terra pura è ridente, brillante a giorno, allora mi slancerò nelle pianure del cielo per averla sotto le mie ali, cantarla, adorarla come i liberi uccelli. Tuttavia, non so che acuta tristezza, che amaro sentimento di impotenza umana mi trattiene incatenato in una triste camera, su qualche povera opera, ironico aborto di concezioni più vaste. Simile all’antico suppliziato, vedo arpe sospese ai rami dei salici, la mia mano si avvicina e le corde si sollevano come molle: non posso cantare! Oh! miseria! Oh! debolezza! La mia esistenza è nello stesso tempo un’acre orgia di dolore e un soave delirio d’ispirazione. Amante dell’avvenire, mi trascino nell’argilla, tremo e mi dibatto come un’allodola ferita.
Tristezza delle tristezze: tutto non è che tristezza!
E la ragione mi ha risposto:
“La tua sensibilità ti chiama: vai! – Niente accade a caso. Dalle nostre lotte interiori fioriscono, lacerandoci, i nostri pigri pensieri. Gli altri sono provati come te, ma non tutti provano l’accento delle proprie sofferenze. Sii pertanto felice di saper tradurre i tuoi, impiegare il tuo esilio e seguire la tua via”.
– Ho messo contro il mio fianco la freccia della mia sensibilità. Ho preso piacere a farmi sanguinare, a raccogliere il sangue man mano che usciva. E pubblico questo libro per insegnare all’uomo che non deve mai troppo dubitare di se stesso e dell’utilità delle sue sensazioni.
E semino, canto e grido: Libertà!
XXXIII
Come un puro cristallo riflette il viso in tutti i suoi dettagli, così questo libro riassume ogni osservazione, impressione, emozione, ricordo e aspirazione del mio essere.
Come l’eco ripete suono per suono tutti i rumori che la colpiscono così questo libro riproduce fedelmente ogni preoccupazione, agitazione, febbre sociale e politica del mio secolo.
Come il Crepuscolo precede la notte, così questo libro precede il terribile Cataclisma che getterà l’Europa nelle più oscure tenebre. Per questo si troveranno pagine listate a lutto e pagine macchiate, per così dire, di polvere e di sangue.
Come l’Aurora appare prima del giorno, questo libro appare prima della Resurrezione dei popoli e degli uomini. Vi si potranno leggere pagine tracciate in rosa, gioiose, danzanti, per così dire, agli accordi delle future armonie.
Come il Mare riflette i cieli e gli abissi dentro i quali, eterno prigioniero, muggisce, così questo libro riflette l’Avvenire e il Passato tra i quali si consumano i giorni erranti del suo autore.
Come l’aquila altera, dominando le solitarie Alpi, può guardare il sole più rosso del sangue, così, dalla soglia di questa vita desolata, posso leggere ciò che accadrà nell’ardente Città dell’Uomo futuro.
E annuncio alle città crollanti della Civilizzazione. – Chi ha orecchie ascolti!
Che vada, adesso, questo libro!
Non è fatto in particolare per un’epoca, per un paese, un’età, un sesso, una classe sociale. – Ma sarà interessante tra cento anni come oggi, a Parigi come a Pechino, ai giovani e ai vecchi, alle donne e agli uomini, ai nobili e ai pezzenti. – I mariti pudibondi ne vieteranno la lettura alle caste spose, e queste lo nasconderanno alle innocenti figlie per conservarlo più a lungo sotto il loro candido guanciale.
Che vada, questo libro!
Mio padre lo troverà privo di senso. Che m’importa! Sono più vecchio di mio padre: ho vissuto prima di lui, ho sognato più a lungo. – I tribunali lo condanneranno come immorale, infame. Che m’importa! Ho più onestà nella mia anima, probità nello spirito dei rifornitori della morte: non sono vigliacco, scellerato, assassino come i giudici onoratissimi che vestono la toga. – La nazione francese lo sconfesserà. Che m’importa! Sono molto più grande della nazione francese, io che confondo la mia gracile esistenza con l’esistenza infinita dell’Universo. – I repubblicani d’Occidente lo bruceranno. E ancora che m’importa! Sono molto più giovane dei morenti repubblicani, io che non saprei aderire al programma di nessuna setta esistente, ricercatore di verità, che ogni giorno, ogni ora, modifico le mie opinioni ingrandendole, che non voglio nemmeno impegnarmi con la mia coscienza e non saprei rispondere il giorno dopo del mio pensiero libero.
Che vada, questo libro!
Finché durerà la spaventosa decadenza attuale, per esso si avranno rare interdizioni e timide simpatie personali. – Ma lo si troverà nelle lontane contrade. Passerà mari e frontiere di contrabbando, pagina per pagina, pezzo per pezzo, come le foglie d’autunno portate dai venti, le foglie che fertilizzano il suolo senza che l’agricoltura prenda cura di spargerle.
Che vada, questo libro!
Non è uno scritto, è una volontà, un atto, un comportamento che si svela davanti al pubblico. A ogni questione insidiosa risponderà francamente, chiaramente, con un sì o un no, come un bambino maleducato. Alla menzogna opporrà la verità, la luce alle tenebre, l’interesse di tutti all’intrigo dei partiti. Canterà il lavoro e la gioia come una grande orchestra; tuonerà la guerra, urlerà a stormo come cento cannoni, come tutte le compagnie dell’impero; attaccherà, romperà le vecchie dighe del Monopolio, con fracasso, con furia, come le onde trionfanti dell’Oceano!
Che vada, questo libro!
Dopo che ho scritto, sento la mia coscienza alleggerita di un gran peso. Nel fiume di parole che scorre sul mondo, almeno avrò detto qualcosa di nuovo; in mezzo al torpore di tutti, almeno avrò dato la prova di sapere odiare; amare e convincere; avrò almeno fatto fuoco su tutti i grandi ladri.
Che vada, questo libro!
Da tutti gli scrittorucoli, scribacchini, classici, critici, didattici, giornalisti, moralisti, puristi, scribi e farisei lo sento commentare, masticare. Sento da qui le loro penne irritanti, cigolare nell’annotarlo, sgualcirlo, annerirlo, sporcarlo con rabbia. Vedo i fannulloni capi dei partiti, invidiosi, segnarsi quando ne parlano, esorcizzarlo, snaturarlo, affettarlo per servirlo come toast ai loro pretoriani che grideranno “bravo”!
Che vada questo, libro!
Non saprei dare un’idea del lavoro dei sogni, degli scoraggiamenti e delle gioie, che mi è costato. – Ma gli uomini perspicaci vi scopriranno facilmente le cicatrici appena rimarginate, i germi della speranza, delle illusioni, nascosti fra le righe; i progetti che si appoggiano su queste per slanciarsi, gioiosi, verso il grande futuro.
Che vada, adesso, questo libro!
Mi do insieme ad esso. – Con esso voglio passare di mano in mano: mani brune o bianche, amiche o nemiche, pulite o sporche, strette o pienotte; mani fini di graziose fanciulle, mani abili di sarte, mani callose di operai, mani nere di negri, mani rapaci di usurai, mani piene di geloni di borghesi.
– Con esso voglio essere visto da tutti: occhi corrotti di dignitari, occhi di falco di poliziotti, occhi piccoli di maiali, occhi loschi di procuratori, occhi sornioni di gesuiti, occhi gelosi di tribuni, occhi vivi di ragazzi, occhi dolci di fanciulle, occhi fistolosi di bigotte, occhi purulenti di borghesi. – Con esso raccoglierò rari elogi, annegati in una vera inondazione d’acqua benedetta, d’insulti, di furori, di stropiccio di piedi, di digrignar di denti, di ragli d’asino o di borghesi.
Con esso io sarò girato, sgualcito, strappato, bruciato, venduto, tassato, affittato, declamato, curato, trattato bene, conservato sul cuore come una reliquia. – Con esso rinascerò, da un’edizione all’altra, come la fenice, il misterioso uccello.
Col mio libro, io che sono freddoloso, me ne starò in panciolle sulle steli mortuarie al suo dolce calore. – Con esso, turista, andrò leggero ai confini del mondo. – Con esso, lettore, passerò i miei giorni nelle biblioteche, fra i buoni autori, mie vecchie conoscenze. – Sognatore, con esso, forse ispirerò il nascente poeta che ha troppa sfiducia. – Bighellone, con esso, andrò alle belle passeggiate, agli incontri amorosi, alle lunghe fantasticherie nel fondo di una barca. – Con esso, carezzevole, dormirò spesso accanto la testa delle donne, baciandole, bevendo i loro sospiri!
Oh! molto meglio della gloria di un giorno saranno le mie notti passate così. – Perché la donna dall’occhio puro, dal gran cuore, la donna che sorride, trasale e sa dire tutto con una parola, un soffio, un segno delle labbra, una treccia dei capelli, una lacrima, un fiore, un bambino che lei bacia in fronte!... Questa donna, ricordatelo, la vera donna del sogno, sarà l’anima dell’Umanità futura!
N. B.
Lettore, ti ricorderai che alla fine della prima parte di questi Giorni dell’esilio, pubblicata due anni fa, annunciavo pomposamente una lunga processione di argomenti alcuni dei quali non figureranno in questo secondo volume.
Passavo avanti alle mie possibilità, imitavo i governi che promettono sempre più onore che miseria, più burro che pane, più gloria che imposte, più feste che bastonate... e mantengono spesso i loro giuramenti a rovescio. Imitavo i capi dei partiti che si impegnano col popolo, con loro stessi, e rompono il proprio impegno, come servitori, quando hanno messo il proprio guadagno in tasca e vi hanno poi messo sopra il fazzoletto.
Ma, al contrario di questi augusti personaggi, io non ho peccato che per inesperienza. Infatti ero profondamente convinto di poter continuare il racconto nell’ordine cronologico adottato all’inizio.
Lettore, tu conosci di certo questi due notevoli proverbi pronunciati dalla saggezza delle nazioni: Peccato confessato è metà perdonato. – Ciò che è differito non è perso?
Facciamo quindi un accordo, lettore. Perdonami il peccato che ti ho così candidamente confessato, come io perdono i loro peccati a tutti quelli che mi hanno offeso. Per contro sarò debitore nei tuoi confronti di una terza ed ultima parte di questa mia preziosissima Odissea, nella quale saranno magistralmente trattati, insieme a molti altri, gli argomenti che credevi di aver perduto per il tuo passatempo e che già rimpiangevi amaramente.
… Ecco quello che andava detto. L’accordo ti conviene. Dammi quindi la mano e promettimi di non scorticare troppo la mia prosa davanti alle signorine.
Ma lettore sospettoso, amico di [Jean de] La Fontaine, ti ricordi, lo vedo bene, della celebre favola di quel pastore che gridava sempre al lupo. E sorridi, lettore, e non credi ad una parola, e mi prendi per un guascone di buona razza, di quelli che bevono l’acqua della verde Garonna e gliela restituiscono in pioggia d’oro e di schiuma dalle finestre dei loro castelli.
Eppure tu hai torto, lettore! Io non ti rispetto per abitudine, di questo ne convengo. Ma il poco riguardo che io professo per la tua persona non va fino a farmi dimenticare la deferenza che io devo alla mia. Ora, io ti ho fatto una promessa; si tratta di una cosa dovuta che mi piace pagare. Ed io la pagherò come non c’è che un Cristo, salvo una morte immediata o un intervento nei miei affari della democratica polizia.
Tuttavia, se vuoi conoscere i motivi del mio ritardo capriccioso, ti rispondo:
L’oscura miseria di Londra, i suoi freddi saturnali, le sue immigrazioni in stracci, i suoi innumerevoli dolori non potevano entrare nel quadro della mia pubblicazione di oggi. Questo fondo di carbone e di nebbia era un troppo grande lutto per dipingervi la Svizzera, la Spagna e l’Italia, le tre Grazie così fresche, così radiose di bellezza, di meraviglie. Ho avuto paura di macchiare di bitume questi vestiti di festa.
Se mi domandi altre spiegazioni, buonissimo lettore, ti farò osservare che la mia benevolenza non ti autorizza a prenderti con me simili libertà; – dopo tutto non sono né il tuo imperatore, né il tuo ministro, né il tuo terzo servitore; – tu sei libero di non leggermi, come io sono libero di non piacerti; – insomma che non ti devo dire nulla e se tu non sei contento la cosa non mi riguarda!
Svizzera. Addio alla Svizzera
Torino, ottobre 1854
Nulla, più nulla; tutto è passato come un sogno d’estate
Hégésippe Moreau
I
Politica losca e sorda, vecchia fanciulla che non ha mai avuto l’amore, io ti maledico! Sei insensibile alla più care passioni della natura umana e, miserabile, mi impedisci l’asilo nella patria di Tell!
Sono stato condannato all’esilio solo il 13 giugno 1849 in quanto non riconosco la Francia come patria della mia anima: non l’ho scelta io. Gli appartengo forse per lo spirito di rivolta che mi ispirano le sue recenti sommosse, le vessazioni subite nella mia infanzia, e le grandi foreste in cui si dimenticano gli uomini al suono gioioso del corno.
Per tutto il resto gli sono straniero come alla Terra del ghiaccio, come al Deserto della sabbia. Le monotone ripetizioni dei suoi pedagoghi hanno reso pigra la mia intelligenza, le lussuriose minutaglie dei suoi borghesi hanno tentato invano di disgustarmi dell’amore; quanto alla libertà, alla dignità, all’onore, non ce n’è più in questo paese ormai vecchio. Se sopravvive una natura franca e leale, essa è ben presto schiacciata nella bassezza e nell’intrigo, come la spiga di grano in un campo di erbe malvagie.
Così non rimpiango la mia contrada di battesimo. L’ho abbandonata per l’esilio come per un lungo viaggio il cui termine poco m’importava. Passando le sue frontiere non ho attaccato il lutto al mio cappello; ho preferito dirmi cittadino dell’universo.
Ma tu, natura di gloria e di amore, mia bella Svizzera, voglio conservare il tuo ricordo fino all’ultimo giorno.
Per quanto adesso sappia quello che tu vali oggi. So che i tuoi governanti sono traditori e vigliacchi, che i tuoi proprietari sono avari e duri col povero, che le tue donne sono ritrose e perfide. Ma io ti ho visto dalla sommità del Grütli, e tu hai infiammato il mio cuore del santo amore della Libertà che non si spegne mai. E ti amo, e il tuo glorioso passato mi ha rivelato il tuo splendido avvenire.
II
Mi resta soltanto un’ora da passare in queste pacifiche valli. Rive del Lemano, dirigo verso di voi i miei pensieri e i miei passi! Certo la vista del grande lago e delle alte montagne mi stringerà il cuore. Ma la nostra anima è fatta in questo modo, che vi sono pene che cerchiamo più avidamente della voluttà. Ed io ho bisogno di stendere il mio corpo su queste belle acque tanto amate, ho bisogno di dire loro un supremo addio, un lungo addio! Tutto mi ha tradito escluso la natura.
– Triste è il cuore dell’uomo che chiude la palpebra della sua adorata madre! Triste è il cuore dell’uomo quando le sue labbra mute stringono per l’ultima volta i capelli dell’amica! Triste è il cuore dell’uomo se guarda attraverso le lacrime le colline verdeggianti del bel paese che ama e da cui è cacciato via!
Sì, cacciato, trascinato, rotolato per terra come la foglia che il bestiame fa volare via! Cacciato dalle montagne, cacciato dalla valle, cacciato dal bordo dell’acqua, io il libero pensatore, tramite ufficiali con carte munite di sigillo!
...Lentamente, lentamente mi svesto. Tutto sembra così sublime all’anima mia intenerita! Amo, piango, vorrei baciare tutto, tutto rivedere! Erba fresca dei prati, bianca sabbia della riva, dolce mormorio dei salici e dei pioppi, carezze dell’onda e della brezza, nessun mortale vi ha respirato, vi ha rimpianto più di me!
Parola di bohèmien, è una bella serata. Drappeggiati nei loro ampi mantelli soffici come il velluto, i giganti delle alpi rassomigliano a cavalieri che si recano ad un incontro. Mentre le sommità grigie del Giura, nella loro umile continenza, sembrano i loro paggi, i loro piccoli paggi premurosi e discreti.
– Non troveresti troppo ambizioso il mio paragone, lettore, se sapessi passeggiare come me tra queste magnificenze, se non credessi di aver fatto tutto un viaggio quando ti sei limitato a viaggiare dodici ore al giorno su grandi strade. – Le grandi strade, sempre polverose, pettinate e azzimate, sempre banali, sempre pubbliche come le grandi città e le donne famose. –
I monti delle Meilleries chinano le nere capigliature verso le acque fastidiose. Il Giura tutto imbarazzato si tiene lontano. Non può indirizzare le sue occhiate assassine che alle piccole onde, a quelle che entrano furtivamente nelle baie e nei golfi, come nelle anticamere, per farsi abbracciare dai promontori sfacciati. Gli elementi si scambiano sospiri d’amore. La natura è calma, radiosa, felice in assenza degli uomini. – Non parlarmi, amiamoci in silenzio; l’amore è negli occhi!
Le onde leccano le pietre, i giunchi e i tronchi d’albero. Dritto su di uno scoglio, io sono nudo, fremente del desiderio di morderle, di rinfrescarmi alla loro limpida carezza. E così le chiamo:
Venite, belle vagabonde, portatemi lontano nei vostri divini concerti. Nascondetemi, conservatemi nelle vostre grotte di cristallo; che gli uomini mi dimentichino! Mi conoscete bene. Sono un uomo errante, sono il viaggiatore che viene d’Occidente e che risale al Nord, e che non saprebbe fermarsi sulla propria strada infinita, esattamente come fate voi. Sono il nuotatore innamorato delle vostre beltà, che da due anni, per vedervi, abita su queste rive, colui che fiducioso abbandonava ogni sera il corpo ai vostri capricci. Vengo per dirvi addio. Consolatemi, carezzatemi: gli uomini mi hanno spezzato come una canna.
Esse sentono la mia voce, accorrono dalle rive per abbracciare le mie mani; la loro schiuma inebriante arriva alle mie narici. Apro gli occhi, la bocca e mi slancio cantando nei loro deserti limpidi. – Libero alcione ti ho visto spiegare sul mare le tue ali carezzevoli!
Chi racconterà gli amori dell’onda e del nuotatore? Chi potrà far comprendere la nostra ebbrezza infinita quando, perduti nelle acque, rotolanti, smarriti, moriamo con esse, dimentichiamo la terra e il rude contatto degli schiavi spudorati!
III
È mezzanotte. – Salve Libertà! Nelle città popolate i governi si addormentano. Ho messo i flutti tra questo mondo e me, flutti e ancora flutti. Basta con le leggi sulla mia anima, basta con gli abiti sul mio corpo. Laggiù, sulla riva, ho lasciato cadere tutto ciò.
Salve! Libertà. Sono solo con te, l’immensità mi circonda. Sulla mia testa brilla la cupola del cielo, sotto il mio corpo gronda l’abisso delle acque. I miei piedi hanno lasciato il suolo: mi sono liberato dall’attitudine verticale che avvicina i miei occhi a quelli sempre gelosi del mio simile. Per quanto sono lungo eccomi disteso nel lago, contemplando faccia a faccia le sublimi solitudini dell’abisso, l’infinito dell’aria e l’ala rosa delle notti d’estate.
Salve! libertà. Sotto la volta stellata vedo passare la Luna. La mia anima si slancia verso la sua orbita ridente, come l’allodola che fissa i suoi occhi vivaci in un prisma ghiacciato. La mia anima diventa l’anima della natura, il mio corpo si confonde con l’acqua, i miei capelli sono granchi, i denti rocce, il respiro brezza. Sull’universo, sull’eterna durata, sulle armonie misteriose le mie contemplazioni si estendono con un dolce chiarore che copre tutto.
Oh Terra, triste prigione, bettola dove ci si ingozza col pretesto di vivere: conosco i tuoi intrighi, ho pietà per te! Gira, globo maledetto, nel sangue, nella pece, nel fango e nell’oro! Gira, rotola, traballa sul tuo asse di fuoco. Che la sabbia dei tuoi deserti, il ghiaccio dei tuoi poli, le colate laviche dei tuoi vulcani piovano come grandine sulle tue campagne devastate! Che le acque ti sommergano! Che la Guerra scuota su di te i suoi furori! Che gli uomini si armino di pugnali e vengano gettati gli uni contro gli altri dalle scosse del terreno!
Io sto bene qui. Il mio corpo è disteso, senza bisogni, senza dolori; l’armonia delle onde blu lo culla dolcemente, come la madre premurosa culla il neonato. Sogno il bel lago, il robusto rematore, questa vela che passa, la stella che fila, il maniero desolato, il grido della civetta, il canto dell’usignolo, il mormorio delle foreste, il mio essere fragile e quello di migliaia di mondi sospesi nell’etere. Salve, Libertà.
E questo me stesso, questo io ottimo conversatore, cos’è dunque? Un filo d’erba, un grillo, molto meno di una nave! Che mi colga la paura, che mi prenda un crampo, che i miei piedi s’impiglino nei ciuffi dei giunchi… e la cosa è fatta: cinque minuti basteranno. Ed inutilmente mi dibatterei, gridando di rabbia al vento! Nessuno mi sentirebbe sulla riva; non sarei più visibile di un germe nell’acqua, mentre sulla terra non si accorgeranno nemmeno della mia assenza!
Uomo, nuota dolcemente nel mare sociale. Prendi le onde per lungo, girale, montale come agili corsieri. Non cercare di berle o di fermarle. Non ti spaventare delle erbe e degli scogli. Non valutare la tua debolezza, non paragonarla subito con gli universi. Non chiamare dio che quello che puoi vedere, non cercare di penetrare che quello che combatti. Sgombra il tuo cammino passo passo, pietra per pietra. Non pretendere di arrivare allo scopo senza grandi sforzi, non contare le pene, non avere paura degli sforzi. Dolcemente, dolcemente! un movimento dopo l’altro! ogni cosa a suo tempo!
Altrimenti la paura ti toglierà nel mezzo del cammino. E fallirai, lascerai andare le braccia e le gambe e la tua testa dopo le braccia alla corrente degli abissi! La povera vita che conduciamo è una minaccia continua, e noi l’attraversiamo tremanti. Il solo mezzo che abbiamo di sfuggire alla morte immediata è di non pensarci per niente!
Salve! Libertà! L’acqua è rugiada, la pioggia benefattrice, l’iris, la neve e la fecondità. L’acqua rinnova tutto, fa rivivere la pianta appassita, il convalescente e il malato; ci accorda l’oblio del passato, la speranza nell’avvenire. È il Lete dei Greci, il Giordano dei cristiani, il Gange degli orientali. In tutte le religioni l’acqua significa limpidità, purezza, freschezza, benessere, felicità infinita. – L’acqua è la Libertà!
Salve! mia Dea. Nell’azzurro vapore sento battere le tue ali. Nasci dal fresco Lemano come l’ispirazione dei nostri esseri rapiti. Voli sulle onde e sui fianchi delle Alpi, sotto il chiaro firmamento. La terra ti è promessa, tu ne reclami il dominio per riempirci di gioia.
Non andare tuttavia, mia cara Libertà, dagli uomini traditori. Li sentirai pronunciare rispettosamente il tuo santo nome che essi aborrono. Tu vorresti amarli, slanciarti nelle loro braccia aperte. E questi miserabili ti soffocherebbero con un bacio. Perché essi adorano la schiavitù, i re sono i loro idoli e le donne i loro martiri.
... Le mie forze mi abbandonano. Il mio corpo è troppo pesante, la mia testa troppo debole per fluttuare più a lungo nell’elemento liquido.
Anima mia, svegliati alla realtà! Riprendi la catena della tristezza, rientra fra gli uomini, ridiscendi in inferno, ascolta tutti questi dannati!
IV
Essi straziano ridendo, e ridono straziando. – Qualcuno canta, la maggior parte piange. – La fame li uccide a migliaia, l’indigestione a dozzine. – Essi giocano alla sommossa, alla rivoluzione, alla repubblica, all’impero, alla guerra, all’astuzia, alla diplomazia. – Credono al valore degli scudi se li hanno in tasca. – Dicono poco di bene e fanno molto male. – Trattano della dedizione, della giustizia, della nobiltà, della generosità, di dio, del diavolo con altrettanto interesse che se parlassero di Irminsul, di Michapous o dell’istmo di Suez. – Essi si osservano sempre ma non si conoscono mai. – S’imprigionano in nome della libertà e della fraternità. – Si accorciano infine col pretesto di imparare a vivere.
Quelli innalzano contro i troni la corta scala delle grandezze; questi, col piede tremante, si arrischiano a salirvi sopra, incerti, capitombolando gli uni sugli altri, bucati dalle pallottole, uccisi dalle corone, confusi nella sporcizia... Belle facce, in verità! – Gli avvocati sproloquiano come pappagalli perfezionati, diplomati; i borghesi li ascoltano, bocca spalancata, simili a vitelli poppanti. – Per mancanza di esperienza le ragazze fanno bambini che i mariti nutriscono e i curati battezzano. Le dame elegantissime hanno fatto venire di moda lo specolo; le ostetriche conoscono tutti i segreti dell’umanità. – La Borsa vende la stima, i governanti vendono posti, la ragazza vende l’amore e i giornali la gloria. – Questa corre in piazza starnazzando senza trovare compratori. Cosa ne farebbero i banchieri dei suoi baci ardenti?
Che pescatori d’acqua sporca, che cacciatori di anitre, che imbalsamatori di rane, che ingoiatori di pesci d’aprile e tartine alla tartara! – Che bighelloni, sciocchi, baciapile, bigotti, goti, ostrogoti, scarafaggi, spie, vandali e pedanti! Che macari, mercanti, intriganti, filibustieri, sensali di commercio, di banca, d’amore e d’imene! – Che cavalieri d’onore e d’industria. Che praticanti di aborti civili e politici!
I socialisti sono spaventati del loro trionfo morale, i democratici sono più despoti dei conservatori cosacchi, i re più schiavi dei loro sudditi. – I tribunali sono obbligati a difendere gli assassini felici che si chiamano imperatori. – Sembra che si cerchi la guerra, e in fondo al cuore si prega il buon dio di non trovarla. – La rana borghese è tutta ventre, non potendosi fare uguale al bue grasso del potere, crepa di dispetto! – Gli ambiziosi fiutano più in alto del loro naso, gli intriganti saltano più veloci delle loro gambe, gli ipocriti e gli schiavi battono i piedi e le mani a tutte le vigliaccherie commesse dai loro padroni.
Il placcato brilla come l’argento, il cotone canta come la seta, 30.000 franchi vogliono suonare altrettanto forte che 100.000. – Non si sa a chi avere fiducia, a cosa pensare, cosa dire, su quale piede danzare, con quale occhio vedere, con quale orecchio ascoltare. – Quelli che hanno un’opinione la nascondono, quelli che non ne hanno per niente espongono quelle degli altri. – Gli abiti sono stretti, le coscienze larghe, i saluti molto corretti, la posa imbarazzata, la parola mentitrice: il carattere manca del tutto! – Le prime tre pagine dei giornali, i discorsi parlamentari tutti interi, si potrebbero rimpiazzare con un immenso punto interrogativo. – Si dubita di tutto, si rinnega tutto, si afferma tutto, si ha paura di tutto, si trema per tutto. Ci si smentisce e si spergiura settantasette volte al giorno. – Non c’è un borghese che non sia intimamente, profondamente convinto della decadenza del proprio paese; non ce n’è uno che darebbe volentieri un soldo per il suo vicino. E tuttavia, nessuno acconsentirebbe a confessare la propria decrepitezza. Sembra che morto lui, il globo e i cieli cesserebbero di funzionare...
V
Potenze universali, eterna giustizia, perché avermi gettato in questo formichiere dove sono divorato? Movimento di sfere, perché non mi trascini negli spazi più eteri, più vasti, nel mondo aereo e liquido degli sconosciuti limiti? Perché non mi hai dato il grido selvaggio dell’uccello acquatico, la sua grande ala viaggiatrice; oppure, le pinne dell’agile pesce e le sue scaglie dorate che attraversano senza rumore le solitudini infinite?
Oh! vivere nel seno delle acque! Avere puro il cuore e gli occhi trasparenti! Sentire scivolare il proprio corpo, soffice, leggero, rapido, da onda a onda! Su ogni flutto brillante seguire un’anima di donna, sorridere in ogni stella alla memoria di un morto, trovare un’illusione, un sogno, una gioia in ogni raggio di luce smarrito sugli alberi! Dormire, dondolarsi, rispecchiarsi, slanciarsi, tuffarsi nel cristallo mobile bagnandosi i capelli e restandovi libero da ogni obbligo, da ogni vano intrigo, da ogni conversazione, da ogni contatto umano! Oh! centuplicare la propria vita nei laghi così profondi!... Chi me li darà?
Desideri superflui! Ultima spiaggia della mia immaginazione su queste rive incantate! Ultimo bagno di mezzanotte nel Lemano così bello! Domani, sul far del giorno, sarò obbligato a partire! Domani, sul far del giorno, la Confederazione svizzera non avrebbe altro da offrirmi che le sue prigioni di Stato.
L’esiliato è solo dappertutto, dappertutto è maledetto! Tutti i cieli ripetono le meraviglie della natura e le infamie dell’uomo. Questo secolo è senza umanità, senza pudore e senza fede. La borghesia di ogni nazione si gloria di insultare la disgrazia. Più è gloriosa la tradizione di un paese, più i suoi governanti hanno margini da sporcare. Ma, coraggio! fai la strada senza paura, pellegrino dell’indipendenza. L’Avvenire vendica le ingiustizie del Presente!
VI
Il lusso al giorno che brilla, la gioia alla sveglia aurora, la collera e le vendette al rosso crepuscolo. Solo la notte sognante accoglie con tenerezza le confidenze dell’afflitto.
Il cacciatore è rientrato. Nella piangente prateria la lepre corre in pace, mordendo i giovani germogli di salvia e di lavanda.
Nella sua cella il triste galeotto s’addormenta. Il prigioniero felice ha posato il piede sicuro sulla scala di corda, discende dalle merlature che lo tenevano rinchiuso alla campagna dove il mattino presto muoverà i primi passi.
Il massacro è finito. Sotto un cumulo di morti si sveglia il soldato ferito. Nemici e amici, col suo braccio tremante egli allontana i cadaveri che lo circondano: biancore della luna – egli grida – divina speranza, paese, madre, terra, firmamento, resurrezione, amore: salve, tre volte salve!
Così anch’io, bandito dal mondo, disprezzato, inseguito, ferito dagli uomini, così anch’io, solo e libero, a quest’ora della notte, a questo grande lago che dorme, ai venti che lo carezzano, alla mia bella Elvezia, indirizzo i miei addii:
Addio! terra che amai fin dal primo momento, come si ama la propria madre o la propria amica.
Addio! fertile oasi, radice delle montagne, fonte dei fiumi, culla delle pianure, miniatura del mondo con le sue acque, i suoi popoli, le sue foreste, le sue valli, le sue rocce e le sue colline!
Addio! bandiere dei cantoni sovrani, bandiere di festa e di lotta, voi che vi spiegate nelle giornate sanguinose, nel mezzo dello sferragliare delle spade, del rumore sordo delle mazze, del fracasso delle rocce che cadono e dei nugoli di frecce che sibilano nell’aria! Addio! croce federale!
Addio! ghiacci, abissi, torrenti, siti selvaggi! Addio! abeti dei monti, pittoreschi chalet, e voi, grandi Alpi, che mi salutate da lontano, chinate le fronti calve sui vostri colli bianchi di neve!
Addio! tempio di Tell, mastio di Bonivard, ossario di Morat, cime verdi di Grandson! Addio! Grütli così grande nella memoria degli uomini! Mi avete strappato a diverse schiavitù!
Addio! gioiose milizie che marciate cantando! Addio! studenti semplici e lavoratori con cui spesso ho scambiato i miei pensieri! Addio! fucilieri addestrati, cacciatori intrepidi, robuste guide delle montagne, orologiai artisti, grandi bevitori, fantastiche ragazze che passeggiate la sera nei sentieri folti, quando la luna si china sullo specchio dei flutti. Emozione, bellezza e sogno, addio!
Addio! boschi, parchi, prati verdeggianti sotto le siepi balsamiche! Addio! ore così brevi quando ci si smarrisce in due e si danno baci parlando di stelle. Addio, felicità!
Addio! greggi felici che rientrate al tramonto da qualche parte! Io non so dove potrò fermarmi. Addio! capre, pecore, camosci, lucciole e grilli che bevono la rugiada, che brucano la tenera erba! Mi abbisogna molto più di voi per trascinare sulla terra l’esistenza, per quanto breve.
Addio! barca bianca sul limpido Lemano, brezze, uragani, rigorose gelate argentate di sole! Addio! belle estati, primavere fresche e rosee, vestito dei prati disseminato d’oro, di porpora e di vivo azzurro!
Addio! tenebroso Giura, fertili cantoni distesi sui suoi fianchi al sole del mattino: Berna, Vaud, Neuchâtel, e Friburgo, e Soleure! Addio! Valais, Schwytz, Uri, Lucerna, Zug! Ma vi rivedrò!
Addio! natura gigante, così pacifica e fresca, dove tutto parla d’amore, di calma, di felicità! Mortale impotente, nel tuo povero linguaggio non c’è una sola parola per tradurre l’estasi dell’essere davanti all’infinito. Sarebbe necessario un fulmine!
Svizzera, addio! La tua immagine benedetta è impressa nel mio animo come un celeste emblema della santa Libertà! Che importa dei tradimenti di coloro che governano, dei loro decreti di ostracismo? Io, ribelle, sono ancora di più tuo figlio, ancora di più fratello di Arnold e di Guglielmo Tell di quanto lo siano i burocrati onorati del Consiglio federale.
Svizzera beneamata addio! Guarda sull’ardente sabbia le lacrime che ho versato componendo queste strofe! Credi al mio profondo dolore, al mio infinito dolore, al mio amore eterno! E quando sulla mia pupilla poserà l’ora suprema, appariscimi madre mia, coi tuoi monti, i tuoi laghi e il tuo rosso stendardo!!
Ancora il Monte Bianco. Il culto del sole. Nelle nuvole
Alpi immense, madri di fiumi, fidanzate delle tempeste,
sovrane degli abissi, belle regine dai diademi d’argento, vi saluto!
Ernest Cœurderoy, Hurrah!
I
Il dio del giorno, l’ardente Febo, conosce la propria bellezza. Quando si alza o si corica, si guarda negli specchi di ghiaccio stesi sui dorsi delle alte montagne, grandi specchi dove può contare tutti i suoi raggi.
Meraviglioso spettacolo, splendido mistero quanto quello dei tuoi amori, Re dei Cieli con le più giovani figlie della Terra, le verdi montagne velate di bianco.
Tra l’immenso firmamento e il nostro povero globo tu compari come un messaggero di gioia, angelo di promesse, anello d’alleanza, anello d’oro e di fuoco!
In queste regioni sublimi gli elementi obbediscono a potenze soprannaturali e invisibili. Le nuvole sbrindellate chinano le teste verso i crepacci dei monti, l’aria diviene più densa, la materia più leggera; la terra si fa cielo e il cielo si fa terra.
E tu Sole, tu riunisci i loro baci come un amante vivace. Perché tu partecipi delle loro due nature; la tua impalpabile luce è dei cieli, il calore bruciante della terra. Sei tu che vaporizzi i limpidi ghiacciai, sei tu che condensi i puri vapori, sei tu che l’onnipotente Rivoluzione utilizza senza tregua per fare e disfare il suo lavoro di Penelope.
In tutte le ore della tua gloriosa carriera io ti ho guardato, Sole, ho voluto penetrare i terribili segreti che divorano la tua anima in fiamme. Ma ogni volta la mia vista ha fallito, ogni volta ho riportato vergognosamente i miei occhi verso la terra. E allora gli oggetti mi sono parsi cambiati di rapporto, rotolanti, cadenti, giranti, turbinanti, in contrasto tra loro, abbracciati in uno spaventoso disordine. Ed ogni volta ho fatto un triste ritorno nel miscuglio d’argilla e di spirito, di debolezza e d’orgoglio che costituisce il mio essere. Ed ogni volta ho fatto queste umilianti riflessioni:
A che servono la tua pena, la tua passione, la tua curiosità, la tua intelligenza? Dove vai senza tregua? Dove ti conduce la corsa a perdifiato? Quali monti puoi scalare, quali corsi d’acqua attraversare? Insetto, vermicello, frammento impercettibile della polvere dei mondi, cosa impari, cosa sai? Ti agiti, soffri, cambi una ignoranza contro un’altra ignoranza; te ne vai esplorando uno dopo l’altro tutti i vicoli ciechi del labirinto della vita; tu copri di parole e di titoli la scienza vanitosa che non sa nulla dei fatti. Ma qual è la tua origine, quale il tuo destino?...
Non avrai pietà di me, magnifico Sole? Hai tanti misteri nelle pieghe del tuo vestito, non lascerai caderne uno solo, con un tratto di fuoco, sulla strada penosa che il mio coraggio persegue?
Andrò così fino alla fine, cieco delle tue luci come il gufo delle nostre semi-tenebre? Andrò così fino alla tomba, sudore in fronte, angoscia nello spirito, dormente un cattivo sonno, anelante, sognante senza tregua, innamorato di vani miraggi? Non scoprirò mai il posto dove avanzare il mio piede destro quando avrò posato il sinistro? Discenderò in fondo alla notte sepolcrale con l’anima miope come gli occhi, ricevendo sulla mia fronte l’ironico addio della tua gloria, l’eterno chiarore che risplende sulle creazioni?
Dimmi, dimmi Sole! Le Alpi giganti sono là da molti anni. Le nozioni del tempo che noi possediamo saranno sufficienti a valutare il numero di secoli che li separa da noi? E questi ghiacciai che chiamano eterni, quando hai consentito che si formassero sotto i tuoi sguardi gelosi? Quando ti piacerà dissolverli con un sorriso? Sono essi come il ricordo di queste rivoluzioni costanti che scuotono gli elementi, li confondono e li separano alternativamente? Sono rimasti là come barriera, come barricata, segno, chiodo, pietra commemorativa posta dalla mano della natura alle pareti del suo tempio, lo splendido universo? Da dove vengono, dove vanno, si fermeranno un giorno? Hanno fatto molto cammino da quando si trascinavano come grandi vermi bianchi sulla scorza del mondo? Quante sorgenti, ruscelli, fiumi, torrenti, ribollenti cascate, improvvise valanghe, spaventosi terremoti, racchiudono nelle loro viscere, questi meccanismi di Troia? Quanto orrore e quanta fecondità diffusi sulla loro esistenza!
Quando tu Sole sorridi ai poli con i tuoi raggi obliqui, quando li fai risplendere come uno scudo d’oro, non scopri forse nei loro fianchi ghiacciati promesse di terre fertili, di vaste foreste? Non solleverai per qualche secolo il bianco lenzuolo che li copre, non li risusciterai fissandoli in faccia con il tuo terribile sguardo?
Sole, cosa vedi quando ti tuffi nei mari profondi? Vi dormono altre Alpi pronte a liberare dall’Oceano i diamanti della loro corona? Le isole, questi fasci di fiori che si conservano nell’acqua dei mari, non sono forse le immagini riflesse delle nostre verdi montagne? E gli scogli che minacciano gli audaci navigli nelle loro corse lontane, non riproducono forse, dente per dente, crepaccio per crepaccio, gli aridi picchi delle nostre rocce più alte. Non li si vede rari, acuti, isolati, scuri, minacciosi come quelli? Non c’è forse la stessa differenza tra gli scogli e le isole e tra le alte cime rocciose e i crepacci più fondi dalla capigliatura di abeti? I laghi, le oasi, le pianure, i deserti non rappresentano forse bacini che una volta formavano gli abissi dei mari? Tutto ciò che è in rilievo sotto i cieli non è forse come un’avanguardia della terra? Tutto ciò che forma avvallamenti non è forse come una retroguardia dell’acqua? La pietra, l’osso del globo, diventerebbe suolo senza il bacio dell’acqua? L’acqua, il sangue del globo, diventerebbe isola senza il contatto di rocce sempre pronte a ricevere i suoi abbracci? Le piante, gli animali, i pesci, i rettili, i cetacei mostruosi non nascono forse da questo fecondo accoppiamento? Non si completano forse l’un l’altro, questi due elementi che ci circondano, ci comprendono e ci producono. Non assistiamo forse ogni giorno alle nozze magnifiche di Teti e del dio supremo, anteriore, superiore a tutti gli altri, completa espressione della potenza creatrice infinita? E noi, la nostra terra, non siamo altro che i risultati di questa unione, manifestazioni momentanee, transitorie, dissolventi dell’eterna e onnipotente trasformazione?
Da cui consegue che la pietra e l’acqua, come l’osso e il sangue, sono i due elementi antinomici della creazione; – che le loro ultime opere sono la terra attuale e l’uomo che l’abita; che la terra e l’uomo sono nascibili, deperibili, temporanei: la prima come lo furono gli esseri agglomerati anteriori che confondiamo sotto la designazione collettiva di caos, di mondi limbici; il secondo come lo furono gli esseri individuali anteriori che noi chiamiamo verme, insetto, uccello, mammifero e scimmia.
L’isola non sta forse al continente come la mucosa alla pelle? E allo stesso modo in cui si chiama mucosa la pelle interna l’isola non può chiamarsi un continente marittimo? E allo stesso modo in cui la mucosa si cambia in pelle sotto l’influenza dell’aria, e la pelle in mucosa sotto l’influenza degli umori; così l’isola non si trasforma in terra al contatto con l’atmosfera e la terra in isola man mano che le acque l’invadono?
Per cui è una trama sempre la stessa, prodotta dal contatto degli elementi pietra e acqua, che serve da base per l’esistenza tutta. – Per cui la formazione dell’humus, attraverso il ravvicinamento della sabbia e della materie organizzate, non è che uno dei mille fenomeni accessori di una rivoluzione molto più infinita. – Per cui la grande scoperta di Pierre Leroux, rinnovellatore di Pitagora, si riduce in definitiva all’osservazione di un piccolissimo circolo nell’universale orbita di gravitazione.
Vedete in effetti come la vegetazione dell’isola è più primitiva, più tenera, più verde, più fresca, più acquosa, più mucillaginosa, più ricca di mucosa, di quella del continente; come essa presenti alla sua nascita tutti i caratteri della vegetazione sottomarina. Seguitela più tardi nel suo sviluppo ed essa si riavvicinerà successivamente alla flora continentale. Reciprocamente, man mano che si arriva al bordo dell’acqua, si possono notare i segni sempre più analoghi tra la flora continentale e le vegetazioni insulari o sottomarine.
Quale conclusione trarre da tutto ciò? Che la terra è la metà del nostro universo in rilievo, che l’acqua è la sua metà in profondità; – che in mezzo ai mari la terra comincia e finisce con l’isola; – che alla superficie dei continenti l’acqua comincia e finisce con il lago; – che l’isola, ridotta all’estremo col pensiero, è l’atomo di pietra; – che il lago infinitesimale è la goccia d’acqua; – che la sostanza fondamentale degli universi accessibili alle nostre investigazioni, dal più piccolo al più grande, dal grano di humus al globo risulta sempre dal contatto di due elementi antinomici; – che la Rivoluzione getta a volontà il vestito verde delle acque o il vestito grigio della terra su questa sostanza elementare plastica; – che per arrivarvi essa inclina più o meno gli astri gli uni sugli altri; – che rivolta il nostro universo come un guanto, facendo venire alla superficie ciò che era nelle profondità, mettendo a nudo alternativamente le vertebre della terra e gli abissi degli oceani; – che l’Armonia risulta dalla trasformazione incessante, dall’azione e dalla reazione che esercitano l’una sull’altra queste due sostanze primitive di tutti gli organismi.
... Per il momento mi fermo senza trarre altre conclusioni, non è questo il luogo, completerò l’argomento più tardi. Ciò che avete letto mi è stato rivelato dalla frequente contemplazione della natura quando l’astro della luce la fa scintillare sotto il suo divino sorriso. Io non sono sufficientemente erudito per sapere se questa rivelazione ha colpito altri spiriti prima di me, e non abbastanza paziente per farne la ricerca. Ciò di cui sono però certo è che essa non è apparsa mai a nessun altro pensiero sotto la stessa forma e che nessuno ha tirato le conseguenze che io mi propongo di dedurre.
II
Grazie, grazie Sole! fonte d’ispirazione, padre dell’amore e della forza, amante della bellezza, della franchezza, dell’abbondanza e dell’allegria, amico del povero, del libero e del profeta, mio grande amico, mio dio, mia vita, tu che dall’alto dei cieli, lasci cadere passando ogni giorno le tue benedizioni sulla mia testa!
– La mia religione è quella che dovrà assicurare la felicità dell’uomo; essa ha per principio la Rivoluzione, per dogma l’Attrazione, per appoggio la Giustizia e la Libertà per regola. Ho fede che attraverso di essa l’Umanità potrà compiere i propri destini in mezzo alla Natura. – Ma mi necessita un culto per esprimere la mia allegria in presenza delle meraviglie dell’universo diffuse sotto i miei occhi. Perché vi sono momenti in cui la società degli uomini, l’amore della donna, lo studio del nostro essere finito non mi saprebbero bastare. In queste ore di contemplazione sublime mi slancio attraverso tutti i miei sogni nello spazio, nell’avvenire, nell’immensità, nell’eternità. –
Allora, verso di te Sole, indirizzo una preghiera fervente. E ti adoro sull’esempio dei più bei popoli, dei pastori di Caldea, dei re d’Oriente, della regina di Saba, di Cleopatra, di Zenobia, di Sardanapalo, del voluttuoso Salomone, delle inebrianti figlie del serraglio e dei saggi indiani dal glorioso culto! Niente è grande, puro, divino come la tua augusta faccia. Sei tu che fai esplodere l’argilla, il legno e il marmo, con cui i pigmei della mia razza elevano statue ai loro dèi di menzogna; sei tu che riduci in polvere le loro mummie, le loro reliquie e i loro templi osceni.
Ogni ora della tua marcia trionfale è segnata sotto i cieli da innumerevoli beneficenze, da abbondanti produzioni e da inni di gratitudine.
Sei tu che al mattino, sulla cime dei monti, sul mare infinito, sulle praterie e sui laghi, nelle lacrime della rugiada, nella corolla dei fiori, sui bianchi chalet, sui brillanti campanili delle chiese rustiche, scuoti i raggi d’oro del tuo vestito fiammeggiante.
Tu risvegli le grandi greggi coi loro pastori. E i buoi, le giovenche, gli agnelli, le capre belanti. E i pastori cantano. – E il grande Universo ti saluta, Re dei Cieli!
Tu indori le ali del cardellino, arrossi la gola del fringuello, dilati il petto dell’allodola felice. E i piccoli uccelli saltano da ramo a ramo negli alberi folti. E ogni foglia che si muove sembra cinguettare le tue lodi. – E il grande Universo ti saluta, Re dei cieli!
Tu penetri le tende della casa campestre, solletichi le palpebre del cacciatore addormentato; attraversi i boschi con i tuoi tratti siderei, ti rimiri nelle sontuose pupille delle cerve e delle caprette. Riluci sulle canne dei fucili e liberi dalle umide erbe la vista ingannatrice che raccoglie gli ardenti annusamenti dei cani. E la muta vorace scopre e insegue la bestia sorpresa urlandole la morte. E questa balza stupefatta, anelante, nelle radure. E il mirino scintilla e l’occhio penetrante dell’uomo s’affonda col piombo fino al cuore dell’animale che cade per terra e si torce spirando. E il sangue ruscella allo splendore del giorno. E della sua voce di bronzo trema il corno della caccia. – E il grande universo ti saluta, Re dei Cieli.
La terra è la tua amante. E quando le spesse nuvole ti privano delle sue grazie, tu le disperdi, le strappi, simile ad un fidanzato pieno d’ardore. E gli esseri gioiosi intonano un inno di vittoria. E gli uccelli della notte sono ciechi di furore. E tu continui la tua corsa versando su tutto ciò che respira torrenti di luce. – E il grande Universo ti saluta, Re dei Cieli!
Felice il poeta che in queste ore mattinali può strapparsi alle tiepide piume del suo giaciglio! Che si smarrisce nei sentieri delle montagne, nella silenziosa solitudine dei boschi! Che tocca con la mano febbricitante la mano ferma del lavoratore dei campi, il naso fresco delle greggi! Che ammira l’agile capriolo, l’uccello che lava le sue piume sui rami bagnati! Che presta orecchio al cuore dei cani che corrono nelle profonde gole! Che respira l’aria pura che scende sulla campagna! Oppure che spiega le vele del suo battello sul mare di fosforo; che stende le sue membra sulle acque! Che percorre la pianura col suo cavallo al passo! Che si corica sull’erba lungo i ruscelli!...
Dappertutto troverà rimedio alle sue pene, riposo, tranquillità, benessere, ispirazione, felicità, salute. – E pieno di riconoscenza alzerà la voce insieme all’Universo per celebrare la tua gloria, o potente Re dei Cieli!
All’ora benedetta che divide il giorno, qual è l’astro vivente che copre d’oro la terra? Che fa ingiallire il bel grano? Che fa maturare i grappoli di uva bianca e nera? Che depone sulle guance dei frutti baci fecondanti? Che prepara bagni caldi nei laghi, nei fiumi e nei limpidi golfi? Che rende vivace il pesce, benevolo l’uomo e pigra la formica? Che vernicia l’ala delle libellule, delle farfalle e delle navi? Che brilla sui campi incolti come sulle pelli di tigre distese sotto il cielo? Che riscalda l’impercettibile insetto, la fragile lucertola, il debole, il malato, lo sconfitto, il contrabbandiere, il vecchio e il bambino? Che riunisce tutti gli esseri in un sacco luminoso di allegrezza e di vita?
Sei ancora tu, Sole, che l’Universo saluta, Re onnipotente dei Cieli!
Oh! com’è triste la terra quando l’abbandoni per il mare, suo rivale, che ti riceve la notte nel suo letto di alghe verdi! Come la gelosia la fa dapprima arrossire, poi impallidire, poi scurirsi come una vedova in gran lutto! Come ti supplica di restare sul suo seno! Un istante di più, una carezza ancora! ti grida con la voce così dolce degli esseri umili che mormorano addormentandosi. Ma per avere la tua pietà inutilmente essa tende le sue braccia verso l’amante sdegnoso.
Tu le sorridi dall’alto dei monti un’ultima volta come un vincitore felice, e la lasci, più scintillante, più seducente, più fiero che mai, arrossendo nelle siepi vive, come gocce di sangue, le bacche dei frutti selvaggi, incendiando alberi, imporporando aria e acqua, burlone, chiassoso, gran signore, insultando con lo scoppio della tua magnificenza l’amaro dolore della povera abbandonata.
Allora accorre la Luna, la saggia e prudente donna, misteriosa, sentenziosa, silenziosa, piangente, pia, levatrice che si mostra solo quando il male è già stato fatto. Essa cerca di consolare la sua amica di una perdita che niente può riparare e non riesce che a rendersi importuna, perché tu non rispondi, Terra, che facendo le fusa alle sue cure attente, e ti addormenti, felice, nelle sue braccia che ti cullano fino al ritorno del tuo incostante amico. – Quanto sono tiepide e tenere come le ceneri la Benevolenza e l’Amicizia paragonate alle tue fiamme, onnipotente Amore!
Ma prima di scomparire nei profondi abissi, l’astro voluttuoso si ferma ancora un secondo per baciare la sua cara amante sui suoi bei denti bianchi, sui ghiacciai frementi, scintillanti di tenerezza.
Eccolo passare la sua lingua di fuoco sullo smalto trasparente. Come penetra dappertutto: nelle grotte di cristallo, nelle mille onde del mare di ghiaccio, tra le innumerevoli stalattiti sospese alle rocce, nelle loro grigie caverne, sul terreno e il calcare, fino in fondo alle gole e alle valli. Tutto è bello, delizioso, soave nell’oggetto che si ama.
Guardate la bella languente ruotante i suoi grandi occhi spenti, serrante tra i denti i raggi che la carezzano, l’annegano in cascate e valanghe che piovono dalla sua bocca alterata!
Sole, Sole, un sorriso del tuo bel viso, ed eccola consolata, radiosa, felice, pronta ad aprirsi ancora per spegnere la sua sete inestinguibile di godimento e di amore!
Sole sempre attivo, sempre giovane, eternamente innamorato, eternamente nemico del sonno, tu l’affascini, questa povera terra, la tenti, la prendi nei fili della tua seduzione, la trasporti, la tuffi in un insieme di fiamma, l’attiri a te, la fai fondere, inabissarsi, annientarsi nell’infinito delle passioni. Allora delirante, spalancata, palpitante, fuori di sé, essa spiega tutte le sue grazie per piacerti, per stringerti strettamente tra le sue mammelle. E tu ti rispecchi nei suoi occhi mentre spira sotto i tuoi trasporti!
Quanto sei vecchio Sole? – Quanti globi hai visto inabissarsi nei flutti? Quante onde hai visto drizzarsi contro le terre sorprese? – Quanto sono giovani per te i nostri emisferi che ti sorridono da lontano? Vi è qualcosa di nuovo sotto la tua augusta faccia? – Sei tu il focolaio di eterne discordie tra elettricità contrarie? – Non sei forse altro che un ritratto, un grande quadrante vermiglio, un grande occhio pieno di fuoco, una finestra celeste, uno spiraglio dell’inferno? – Sei forse vuoto come una fornace o popolato come un palazzo? – Chi ti attira, ti respinge, ti passeggia, ti smuove, ti pende, ti stende, ti accende e ti spegne così regolarmente? – Risenti qualche volta della terribile caduta che tu fai nel mare insieme a Fetonte il presuntuoso cocchiere? – Quanti fratelli hai regnanti su altri mondi? – Preferisci la Svizzera alla Spagna, l’Oriente all’Italia? Preferisci l’aria all’acqua, l’Oceano alla Terra, l’uomo agli altri esseri viventi? – Stai attento ai grandi re, ai loro numerosi eserciti che bruciano tanta polvere per così povera esplosione? – Mi hai visto anche solo una volta, io che ti contemplo tutti i giorni, meravigliato come un fanciullo, quando vede passare un brillante generale?...
III
Grande Elvezia, come ti amo, terra favorita dal divino Sole! Quante volte affondato nelle erbe che crescono sulle tue rive, Lemano, lago bellissimo, quante volte ho contemplato le gigantesche Alpi scintillanti sotto gli addii della fiaccola del giorno!
Dapprima questi aghi e questi denti di neve sono leggermente arrossati. Somigliano a quelle bellezze indiane che consacrano la loro gioventù agli altari del Sole, – oppure alle vestali romane, – o alle povere ragazze che restano nubili o prendono il velo del lutto, – oppure ai boccioli nascenti nel vergine seno muschioso dei rosai. – O meglio quando tutte queste cime sono riunite nel vestito diafano, le si direbbe la ninfa delle solitudini ghiacciate distesa su di un giaciglio d’erba e di foglie di rose.
Poi tutta la catena si colora di un rosso scuro. La si prenderebbe per il tetto che protegge la terra; – per un guerriero insanguinato che si distende dopo la lotta sul suo letto di riposo; – oppure per un braciere d’argento che lascia sfuggire mille lingue fiammeggianti; – per un immenso incendio che morde la neve e frusta il vento con le sue cinghie stridenti.
Essa prende poi una tinta d’oro come se sottoposta al processo Ruolz, come se fosse il casco, la corona, lo scudo o il trono del dio delle solitudini.
Di colpo le Alpi tutte insieme diventano bianche come un letto nuziale, come un colossale pan di zucchero che le nuvole leccano con le loro lingue rossastre. – Allora sovente il Monte Bianco somiglia a un corsiero pomellato dalla cui sella si crederebbe che l’arcangelo abbia gettato qualche pezza di raso bianco. – Molte altre volte ho creduto vedere una giovane vergine coricata sotto il suo lenzuolo; – oppure una di quelle sante donne che custodiscono pietosamente la tomba del grande martire.
Qualche minuto dopo le Alpi sono verdi e cupe, come se l’Eterno dei cristiani, stanco delle salmodie dei suoi adorati fosse venuto a stendersi su queste montagne per darsi la morte e lasciare il suo cadavere in spettacolo agli uomini terrorizzati.
Ben presto le nuvole di tutti i colori si alzano intorno ai picchi come onde frastagliate. Sembra vedere scogli diffusi sul vasto mare; – oppure mausolei in un antico campo di massacro; – oppure piramidi, templi, palazzi greci nel mezzo di aride campagne; – oppure necropoli, lugubri assemblee tenute da popoli morti; – oppure monaci che cantano mattutini nella loro cappella piena di fumo santo.
L’uomo è senza dubbio il più schiavo fra gli animali. Che un essere segnali il suo passaggio sulla terra facendogli male ed egli lo sceglierà certamente per consacrarlo come suo dio. – Sacer esto!
Sapete a chi gli umani imbecilli danno il Monte Bianco per trono e piedistallo? Al soldato che getta la propria vita come una volgare moneta; al despota che opprime, taglia a pezzi, insanguina, umilia, al parassita che lascia eredi e collaterali sufficienti a spopolare un mondo, al più assassino dei Corsi, al più celebre degli assassini: a Napoleone I. Sacer esto!
Gli antichi nelle loro favole avevano raffigurato sul Caucaso un gigante incatenato. Ma Prometeo subiva la sua tortura per avere cercato di rubare il fuoco al cielo non come te, Napoleone maledetto, per avere acceso l’incendio sulla terra! Sacer esto!
Quanti pianti alle donne, sangue agli uomini, rumore, collere, spaventose battaglie è costato questo nome fatale. E quanto dovrà ancora costare una volta che è portato dalla più odiosa tra le facce d’uomo, dalla più scellerata delle anime politiche, da un miserabile gesuita coronato su un olocausto di borghesi! – Sacer esto!
IV
Sui fianchi del gigante dei monti dormono scivolando, sognando, equilibrandosi, salendo, arrampicandosi e volteggiando le nuvole dalle forme più varie, fantastiche e inverosimili.
Chi siete? Chi vi disperde, vi riunisce, vi colora, vi anima, belle e rapide nuvole? Belle nuvole del cielo a cosa servite?... Chi lo sa?
Siete le sciarpe delle fate alpestri? Vi agganciano, forse quando riposano, alle grigie dentellature della roccia? Siete forse i loro collarini o i loro merletti d’argento e d’oro? Chi lo sa?
Siete forse la mantiglia della luna, il velo delle stelle che esse lasciano cadere a terra per sorriderci. – Siete forse la camicia delle montagne che Febo sistema quando il suo biondo fratello la strappa? – Siete la loro culla o il loro sarcofago? – Siete gli ombrelli, i ventagli o i parasoli della terra? – Siete i vestiti di seta blu, rosa, scarlatto o gola di piccione che la ricca natura cambia tutti i giorni come un sultano d’Oriente?… Chi lo sa?
Siete forse i dragoni, i grifoni, le tigri, le pantere, gli avvoltoi giganteschi che riempiono l’aria di terrori? – Siete la formidabile armata degli spiriti ribelli che tentano di nuovo la scalata dei cieli? – Siete gli strascichi di polvere, i ruscelli di sangue destinati a ricordare agli uomini i disastri della guerra e a fare nascere nel loro cuore i pentimenti, i rimorsi? – Siete le mani impalpabili, le tele di lino fine distese sul globo per guarire le sue ferite?… Chi lo sa?
Gioite, soffrite, forse, quando Apollo, Diana, vi passano in rassegna, quando fulmini vi tallonano come frecce ardenti, facendo spuntare il fuoco sui vostri tessuti spezzati? – Sudate, fremete, quando vi bagnate i piedi nei fiumi, mattina e sera?… Chi lo sa?
Siete forse le lacrime delle foreste, le rugiade e il gelo per l’astro del giorno? – Siete come le seconde Alpi tra il cielo e la terra, come il nastro che le lega, come l’iride messaggera d’unioni indissolubili?… Chi lo sa?
Siete forse l’immagine della Terra, delle sue alte montagne, delle sue valli profonde, dei suoi ruscelli d’argento, dei suoi fiumi verdi, delle sue pianure fertili? – Siete l’immagine del Cielo, degli astri e dell’immensità? – Potremo conoscere i loro segreti sapendo leggere nel vostro libro aperto? – Avete come l’uomo due facce e due anime: l’una felice che guarda il firmamento, l’altra sfortunata i cui occhi sono fissi sul nostro piccolo mondo? – Siete il riflesso della neve che si specchia nei cieli, o il riflesso dei cieli che si specchiano sulla neve?… Chi lo sa?
Siete forse i calori del giorno, i sospiri della notte, il murmure degli esseri o la voce degli echi, sublimi, condensati? – Siete il corpo delle anime, il soffio delle tempeste, l’alito di Atlante piegato sotto il peso delle rocce? – Siete la fiamma e il fuoco dei vulcani, le riserve dell’elettricità, le fonti della luce e della pioggia?… Chi lo sa?
Quello che io so è che lasciando il mio corpo alla terra omicida, molto spesso m’involo sulle nostre ali leggere. E salgo, salgo fin quando posso soffiare.
Quello che so ancora è che tutto ciò che si tocca è sporcizia, disgrazia e disillusione. E che le vere gioie, la purezza, l’estasi e l’oblio di ogni male non si trovano quaggiù.
Dimenticare! Dimenticare il presente, dimenticare l’ingiustizia, dimenticare che si è vivi, che bisogna camminare, scrivere e sorridere e mangiare! Accendere un Avana, aspirarlo, carezzarlo con le labbra, avvilupparsi in una aureola di profumo blu! Nella propria mano assopita prendere una mano di donna, chinarsi sul suo collo, perdersi fra i suoi capelli, sentire battere il suo cuore! E non avere coscienza d’altro in questo mondo; non aprire le labbra, non muoversi di un soffio! Dire alla Morte: tu puoi prendermi! Dire all’Amore: sono tuo! Dire al Passato: amerei rivederti! Dire al Futuro: accorri!… Chi lo sa? Chi lo può?
È questo che chiamano sdegnosamente vivere fra le nuvole, vivere di poesie, sognare vuoto, appartarsi, delirare, diventare pazzo.
Manipolatori di cifre, torturatori di artifici, tastatori di polli, trascinatori di durlindane, portatori di aspersori, inghiottitori di buon-dio, sensali di politica, calcificatori di polemiche, usurai, clinici, ciarlatani, governanti, scorticatori di latino, pubblicani, sfruttatori, svaligiatori del popolo, miserabili prostituti del denaro! Vi compiango, voi che calcolate sempre, e vivete in media sessanta primavere in meno.
V
Oh! Monte Bianco, è proprio da lontano che bisogna contemplare la tua grandezza. Se ti si tocca col piede, troppo da vicino, appaiono le tue rughe, le tue cicatrici e le profonde piaghe che solcano i tuoi fianchi. Allora ci mostri valli di pietra grigia simili a quelle che lasciano i diluvi, le trombe e le devastazioni del fuoco. Che John Bull, il bestione vanitoso, e suo fratello Jonathan si rompano il collo per scalare i tuoi picchi, io non voglio più vederti in questo modo.
No, non voglio più vederti disteso sulla neve come macerie delle città maledette di tutti i tempi! No, non voglio più vedere questi orizzonti desolati, questi cieli scuri, queste solitudini spopolate come la notte, fredde e scarnificate come la morte! No, non voglio più vedere questi sventramenti della natura pieni di ciottoli, di blocchi di roccia e di polvere di neve! No, non voglio più vedere il regno lugubre degli Spaventi e il trono della Desolazione tremante sull’ala delle tempeste!
Ascoltate la raffica ubriaca battere con le sue grandi braccia la testa delle Alpi! Seguitela, vedetela rotolare da monte a monte, il suo vecchio corpo a brandelli, urtando contro tutti i picchi la sua corona di ferro seminata di limpidi ghiaccioli.
In ginocchio, voi siete nella valle piena di lacrime, di lamenti e di anatemi, nella valle finale che le Scritture chiamano Giosefatte. – Ascoltate! Migliaia di valanghe risvegliano col loro fracasso le ossa delle generazioni morte! I venti si levano dall’abisso e soffiano trionfanti nelle trombe del furore. I Cataclismi, i Terremoti, i Mondi, i Popoli, i Re e gli schiavi, i Poveri e i Ricchi, ancora non completamente svegli, si avanzano barcollando fino ai piedi del loro Giudice che porta nuvole di lutto e di sangue!
Bisogna morire, gridano, e poi risuscitare! E poi turbinare, elevarsi, discendere, sparire nelle sfere infinite disseminate di grandi mondi! Corriamo, fuggiamo, fluttuiamo, come grani di polvere spazzati via dall’inverno! Alla Morte! Alla vita! Per l’eterna gioia, per l’eterno lavoro riveliamoci!
Vola come il fulmine: l’avete visto passare? L’avete visto passare l’uccello delle solitudini, il bell’uccello di fuoco che si posa sul ghiaccio, l’anima di questi deserti, il canto di questi sepolcri? È l’emblema della Predizione, la sempre giovane, la valente che sopravvive agli imperi. Il suo grido penetrante, stridente, rapido come il suo volo domina il tuono dei barbari elementi. – Salve! piccolo uccello che sai costruire il tuo nido e trovare la felicità in mezzo alle rovine. Poterti imitare, o bell’uccello di fuoco!
Il “Ranz des vaches”
I
I pastori svizzeri si alzano di buon mattino. Radunano le greggi disseminate nelle montagne, le belle bestie che fanno gridare l’erba sotto i loro denti, le chiamano con la tromba delle Alpi che si sente da così lontano!
Liauba! Liauba! por aria!
“Venite tutte, piccole e grandi, giovani e vecchie, dolci e capricciose. Venite, portateci la vostra gonfia mammella.
“Venite, venite donatrici. Versateci questo bel latte che rende rosei i nostri bambini. Ne faremo formaggi appetitosi e burro più giallo del miele, più utile dell’oro.
“Venite sotto queste grandi querce, sotto questi faggi folti, tra questi rosai. Mentre che vi mungeremo, vi gratterete ai tronchi degli alberi, prendendo il giovane germoglio tra le labbra aperte.
“Liauba! Liauba! por aria!”.
Esse allungano il collo per ascoltare, bramiscono, prestano orecchio, aprono i begli occhi larghissimi e si mettono in marcia per la vecchia quercia dove le si munge.
Liauba! Liauba! por aria!
Rin tin tin! – Le sonagliere vanno avanti. Le nere vengono per ultime. Nel mezzo vanno quelle di ogni colore e di ogni carattere: rosse, grigie, biancastre, tigrate, sonnolente, sveglie, vezzose e brave.
Rin tin tin! – Sentite il gioioso carillon. Si direbbe che tutti i rami abbiano campanellini e che l’aria del mattino li agiti giocando.
Rin tin tin! – Ascoltate la bella musica dei monti! Si direbbe che tutti i fiori si abbraccino, che tutte le erbe piangano, che tutte le api volino, che tutti gli uccelli cantino intorno ai chalet dei pastori.
“Lentamente, lentamente, buone bestie! Fate un passo dopo l’altro, non correte troppo, guardate bene a sinistra e a destra, avanzate suonando il gioioso carillon:
“Rin tin tin!”
Intorno ad esse sgambettano i piccoli vitelli lesti, presti, agili, balzanti, rinculanti, capriolanti. Hanno al collo dei bei nastri rossi e delle stelle bianche in fronte.
Intorno ad esse gironzola il gran toro nero come Plutone, che le carezza e le protegge vigorosamente.
Il torrente che si rompe urla sulle rocce; gli abeti spingono la propria chioma ombrosa al di sopra delle caverne, l’eco ripete lontano le fanfare del gregge e il grido penetrante del corno.
Liauba! Liauba! por aria!
II
Ai piedi della Fronalp e del Mythen alteri, sulle ombrose pendici che discendono al borgo di Schwytz, i pastori celebrano tutti gli anni la loro solenne festa (Ælplerfest).
– In questo vecchio borgo di Schwytz, il più piccolo e il più illustre di tutti i luoghi celebri, in questo borgo che vide riunirsi ognuno sotto la propria bandiera venti cantoni sovrani, vicino al sacro Grütli che ricevette il giuramento di tre liberatori! –
Danzate grandi Alpi! Ruscelli, sorridete gaiamente! E voi, pastori, cantate, cantate la gioiosa cantilena!
Per le strade e le praterie, al bordo dei canali, nelle fresche taverne tappezzate d’abete, il sole d’Elvezia riflette i suoi raggi puri su visi animati.
Là fa mostra di sé il grave magistrato. Qui il colonnello federale alza militarmente i suoi baffi ricci. Il consigliere di Stato discute, cifre sulla punta delle dita, la questione finanziaria. Il contadino l’ascolta con occhio beffardo e mette per precauzione la mano nel taschino. Il fuciliere galante amoreggia con le belle ragazze dal nero corsetto. Tutti si divertono, bevono e fumano quanto vogliono.
Cantate, cantate la gioiosa cantilena!
I pastori, i robusti compagni dal panciotto rosso, dal berretto di seta verde, rapiscono rudemente nella danza nazionale, il valzer tedesco, la languida bionda che si piega mollemente sul braccio del cavaliere.
I bambini provano i loro passi al ritmo rustico del piffero e del tamburo. Quanto sono graziose le ragazzine dai capelli ardenti! Quanto sono selvaggi i piccoli pastori di Entlibuch!
I vecchi s’intrattengono sul tempo passato, sulle storie gloriose di Guglielmo Tell e di Winkelried. Le giovani madri tendono per nutrire le loro bianche mammelle. I larghi noci si chinano, si curvano, mormorano con le loro foglie delle favole alla brezza. Lo scricciolo piomba nel cespuglio ardente con un grido di festa, ed è più felice di un gran re. La natura è ridente come un paradiso.
Danzate grandi Alpi! Ruscelli, sorridete gaiamente! E voi pastori cantate, cantate la gioiosa cantilena!
III
Le greggi partecipano alla generale allegria. Gli Svizzeri sanno perfettamente che essi devono la prosperità del loro paese alle superbe razze di Friburgo e di Schwytz, e non arrossiscono nel mostrarsi riconoscenti.
Essi passeggiano le loro belle bestie coronate di ghirlande, danno loro il posto d’onore nel corteo affollato, le carezzano, parlano loro e si fanno amare.
Quant’è commovente l’associazione dell’uomo e dell’animale! Essa alza il secondo senza abbassare il primo. L’uomo si nobilita rispettando la forza e la bellezza dovunque si trovi, non deprimendo, non torturando le creature che condividono il suo lavoro.
La mia natura mi impedisce di capire le leggi del risparmio: tanto meglio, dico spesso nel mio cuore. Certo, non sarò io a raccomandare ai contadini francesi di seguire l’esempio dei poveri savoiardi che, non avendo che una vacca da latte, sono obbligati ad attaccarla al carretto. Non posso capire come uomini che si dicono progressisti possano acconsentire a mutilazioni di questo tipo. Domando a E. Sue, che ne fa l’apologia e la propaganda, se volesse veder lavorare così le donne che allattano? Gli domando se l’esistenza sia doppia nella sua essenza; se non se ne debba rispettare l’integrità sia presso le vacche che presso le donne; se le forze vitali hanno o meno dei limiti; e se non si è colpevoli di assassinio quando si esige da esse più di quello che possono dare? Gli domando se non sia una vigliaccheria miserabile, una spaventosa ingratitudine uccidere per eccesso di fatica animali fra i più utili e coraggiosi? Lasciate alla Fame, trista consigliera, la responsabilità di simili deplorevoli decisioni. Ma voi, uomini di lettere, rappresentanti del popolo diseredato, se volete realmente la sua redenzione, fate appello alla sua collera, non alla pazienza; alla sua rivolta, non alla sottomissione. Evitare come un delitto di mettere nelle sue mani l’arma dell’assuefazione, del non rispondere, in una parola del suicidio! Ricordatevi soprattutto che i libri di uno scrittore sono le sue opere, e che si riconosce il suo carattere leggendoli!
Ci si convinca bene, la soluzione del problema sociale non può essere data dall’economia, dal disagio e dalla sterilità. Lo scopo dell’esistenza è la felicità. E quando si viola questo principio a danno di un essere qualsiasi, la sofferenza di questo essere si ripercuote su tutti gli altri. Perché ogni solidarietà si estende sia in alto che in basso nella scala zoologica.
Moltiplicate dunque gli animali, non li diminuite; curateli, trattateli bene, non li rovinate; la vera ricchezza dell’uomo è la distruzione del denaro, la sua scomparsa totale. Quando non vi saranno più capitali né proprietà, voi bestie da soma, e voi agricoltori che prima non eravate felici, potrete alfine vivere. I ciarlatani filantropi vi ripeteranno a sazietà di sfruttare i vostri servitori e voi stessi, di stringergli e di stringere la cinghia, di aspettarvi il progresso solo dalla discussione pacifica, dalla propaganda democratica, persuasiva e conciliante. Io, non ho consigli da darvi, non sono un uomo considerevole. Soltanto vi faccio vedere che siete liberi di soffrire o di essere felici, e che non ci sono mezzi termini.
Scegliete, dunque!
Tu non berrai sangue, disse l’Uomo del Sinai!
Uomo dei campi, uomo di pace e di lavoro, tu ti attacchi alla bestia vigorosa di cui prepari la lettiera e il secchio. Tu l’ammiri quando traccia ai tuoi fianchi il solco profondo e dritto dove cresceranno le messi. Il mattino tu passi la mano sul suo pelo lucido, la sera premi le sue mammelle gonfie. D’inverno il suo alito ti riscalda, d’estate il suo latte ti rinfresca. I tuoi figli la carezzano, tua moglie la conduce ai campi dipanando la canapa profumata. È il tuo tesoro vivente, la tua miniera d’oro.
Quando la carretta del sanguinario macellaio passa nel villaggio, il suo rumore infernale ti spezza il cuore. Perché tu pensi che un giorno bisognerà vendergli la povera compagna delle tue gioie e delle tue pene. Allora essa ti abbandonerà per essere condotta al mattatoio; ma prima girerà gli occhi pieni di lacrime verso di te e t’invierà da lontano il suo muggito d’agonia.
Tu non berrai sangue, disse l’Uomo del Sinai!
Uomo dei campi, uomo di pace e di lavoro, è con dolore che tiri fuori una moneta, ma lo fai quando è assolutamente necessario. E non potresti nemmeno guardare che qualcuno aguzzi il coltello che penetrerà nel collo della bestia che, per lunghi anni, ti ha servito fedelmente. Lo vedi dunque, fratello mio, che l’amore è più gioioso dell’interesse e più forte della morte!
Tu non berrai sangue, disse l’Uomo del Sinai!
Uomo dei campi, uomo di pace e di lavoro, non nasconderti per abbracciare il tuo bue, il tuo asino o il tuo cavallo. L’amore è rispettabile quando ha per oggetto un essere dotato di sentimento, ma diventa vergognoso quando ha per scopo lo scudo, lo scudo sporco che passa di mano in mano dal despota al carnefice. Esso non ha né sguardo né voce né sangue né vita; tuttavia suonerà ben presto, se non facciamo attenzione, l’ultima ora di tutto ciò che esiste. E noi ci distruggeremo per questo simbolo!
Tu non berrai sangue, disse l’Uomo del Sinai!
IV
In questa vita non ho altro interesse che il trionfo della giustizia. E per renderle omaggio, riconosco che gli Svizzeri violano spesso il diritto d’asilo quando si tratta di uomini, ma lo rispettano sempre riguardo agli animali.
In virtù di questa considerazione perdòno loro di avermi espulso dalla repubblica. E senza astio, col cuore aperto, da lontano, senza rumore invio loro il mio desiderio:
Uomini di pace e di lavoro! Che il sole profumi l’erba delle vostre praterie! Che i buoi pieni d’ardore sollevino come sabbia il più pesante dei terreni! Che le grandini, le inondazioni, gli eserciti dei despoti, i disastri del colera vi risparmino più degli altri! Che le vostre vigne producano in gran quantità il vino che dà la gioia!
Conservate fedelmente le vostre tradizioni gloriose, restate semplici e bravi, sordi ai consigli della paura e della crudeltà. Non disboscate più le montagne, non spezzate più le valli, non ammazzate più il bestiame. Nelle vostre repubbliche sovrane non si bastoni più, non si eserciti più la sanguinosa giustizia dell’Altissimo e della spada, che non si inseguano più i proscritti, che non si faccia più da polizia per gli imperi.
Credete che al secolo di Guglielmo l’ultimo dei pastori avrebbe consegnato Melchtal come oggi ci consegna il primo dei vostri Consigli? Non l’avrebbe fatto, certamente, perché l’intera Svizzera l’avrebbe lapidato come un infame traditore, l’avrebbe rinnegato come la madre desolata rinnega il figlio coperto di disonore. E i ruscelli delle pianure e i torrenti dei monti fuggendo davanti alla sua rete gli avrebbero ripetuto:
Tu non berrai sangue!
E il giorno della sua morte, la natura soddisfatta avrebbe cantato:
Danzate, grandi Alpi! Ruscelli, sorridete gaiamente. E voi pastori cantate, cantate la gioiosa cantilena!
E fra gli alberi, la tromba del pastore avrebbe ridetto ancora più forte:
Liauba! Liauba! por aria!
Canto dell’esilio. Patria dell’Avvenire
Torino, aprile 1855
L’esilio che m’è dato onor mi tegno.
Dante
I have not vilely found, nor basely suoght,
They made an Exile – not a slave of me.
Byron, The Prophecy of Dante
Forsan et haec olim meminisse juvabit.
Virgilio
I
Sono la pietra lanciata dal sommo degli abissi in fondo ai torrenti. Essa resta luccicante e intera, non si rompe, non si rovina.
Rotola, rotola nel mondo, infelice esiliato!
Sono il seme che il vento deposita sulle rocce deserte. Esso si aggrappa e germina e copre il granito di manto verde. Soffre ma non muore. Fertilizza e fiorisce.
Rotola, rotola nel mondo, infelice esiliato!
Sono l’uccello viaggiatore che stringe il suo volo sui rami minacciosi. Da un continente all’altro porta messaggi d’amore e di felicità. Si riposa delle sue fatiche quando arriva nel porto; cerca nei due emisferi i climi temperati. I poveri, i lavoratori, i semplici di spirito l’accolgono con gioia, perché porta i giorni più belli; gli danno ospitalità nelle proprie dimore.
Rotola, rotola nel mondo, felice esiliato!
Sono il rapido vapore, il filo telegrafico, l’aerostato leggero. Ravvicino le anime e i pensieri dei popoli. Sono il midollo delle loro ossa e il sangue del loro cuore.
Rotola, rotola nel mondo, felice esiliato!
Nella mia voce c’è la fanfara delle battaglie, il clamore delle rivoluzioni, l’ineffabile armonia dei continenti e dei mari, il soffio del disprezzo, il ruggito dell’odio e il sospiro della tenerezza.
Vi sono nell’anima mia le amare disillusioni che danno l’amore tradito, l’ipocrisia, la vigliaccheria degli uomini, la venalità delle donne, il tradimento degli amici, la crudeltà della famiglia, l’abbandono, la fiacchezza di se stesso, la malattia.
Rotola, rotola attorno al mondo e non ritornare mai, viaggiatore esiliato!
Dappertutto io sono straniero e cittadino, bene e male, conosciuto e sconosciuto, disconosciuto sempre, presso gli altri e presso me. Sono studente di geografia. Sono dalla parte di tutti i popoli contro tutti i governi, per tutte le libertà contro tutte le schiavitù, per tutti i diritti contro tutti i doveri.
Salve! Indipendenza.
Ogni lingua mi piace, ogni clima mi è propizio, il mare è il mio elemento come pure la terra. Ogni uomo è mio fratello, come Abele, a caso; allora sono suo nemico. Oppure egli è amico mio, come Pilade lo era per Oreste, allora io sono fratello suo, di mia propria scelta.
Salve! Indipendenza.
Ogni donna è mia sorella: la bruna andalusa dal piede leggero e l’inglese dall’occhio blu, la tedesca sognatrice e la ragazza sentimentale della Svizzera, la nuova Eloisa.
Gloria a te, santo Amore!
Sono l’edera che si arrampica contro i vecchi muri e i tronchi d’albero, l’edera che vive dove le altre piante disdegnano di morire. Allo stesso modo io popolo la solitudine, rimedio l’aridità, rinfresco la secchezza, sostengo chi cade e rendo fertili i terreni cattivi.
Decifra il nuovo mondo, pioniere dell’esilio!
II
I miei fratelli sono decimati:
Gli uni colpiti a morte per il diritto dei popoli: [Luciano] Manara l’intrepido, Laviron il gran cuore, [Narciso] Lopez l’eroe di Cuba!
Gli altri caduti per i diritti dell’uomo: [Giovanni] Pianori, Montcharmont, Robert Blüm!
Quelli resi deliranti dal santo entusiasmo rivoluzionario: Victor Hennequin, Austen, Laure Grouvelle!
Questi falciati dalla miseria non soccorsa, da lente malattie e dagli altri mali dell’esilio: Smith le Badois, Albert Darrasz, [Frédéric] Cournet!
Altri che hanno portato sotto cieli più propizi le proprie forze nuove, le proprie incrollabili convinzioni, le proprie sante speranze nella giustizia: Frédéric Bertrand, il cacciatore Dubreuil di Lione, Joseph Déjacque, Longchambon, Combe, Lavarenne, tutti carissimi al mio cuore!
E altri ancora spezzati dalla prigione e sempre resistenti; Armand Barbès, Martin-Bernard, Jules Maigne, Dufélix, Daniel-Lamaziére, [Joachim] Kersausie!
Molti, purtroppo colpiti dalla sofferenza ma sempre indomabili: il nobile Martin-Bernard, amabile come un fanciullo, generoso, fiero, rigido nella lotta come l’antico Regolo, Blanqui così debole nel corpo e così potente nell’animo, Bernard Buorrat, il decano dei lottatori di Lione!
Ancora più numerosi quelli che trovano le ore troppo lente e il lavoro troppo raro a paragone del proprio coraggio: Faure di Givors, un vero rappresentante del popolo lavoratore, Laugrand, il coraggioso pubblicista, Duverdier, un uomo di cuore, Ledru-Rollin, l’oratore trascinante, Madier il giovane dai muscoli d’acciaio, Pardigon dalla parola facile, Cholat il solo militare libero che abbia mai conosciuto. Non potrei nominarli tutti, ve ne sono tanti scritti nel martirologio infernale!
Sfortunatamente gli uomini sedentari respingono i declassati, li impiegano solo per carità. Non abbiamo quindi come focolare che l’ospizio, l’ospedale, la caserma e la prigione, dove i venti si scatenano e il dolore è re. Su tutte le strade dove erriamo, le stelle di notte, la luna malinconica e il gioioso sole rischiarano dei pali dove i governanti fanno scrivere queste crudeli parole: “Non potranno fermarsi qui più di un quarto d’ora i mendicanti e i proscritti”.
Rotola, rotola attorno al mondo, e non ritornare mai viaggiatore esiliato!
Avete visto partire il grande volo delle rondini? Ciascuna chiama le altre con gli accordi del suo canto. Poi si disperdono, il vento torce le loro ali e le gira, leggere, nei suoi turbini. Smarrite, stanche, alla disperazione, anelanti, rantolanti, esse cadono a migliaia nei vasti mari o sulle rive dei continenti.
Così noi. Così i bei girondini che si coricano nel grano, dietro le siepi, ai piedi delle rovine, per dormirvi il loro ultimo sonno, lo spaventoso sonno della fame!
Rotola, rotola nel mondo, viaggiatore esiliato!
III
I miei fratelli producono per le nazioni e per gli uomini che li disdegnano:
Gli uni col pensiero: Pierre Leroux e Proudhon!
Gli altri con l’energia: Victor Considérant, Mazzini, Cantagrel!
Quelli col lavoro delle loro abili mani, gli operai artisti: Greppo, Morel, Xavier Charre!
Altri con la scienza: Servient, Marc Dufraisse, Eugène Raspail, il più modesto dei veri scienziati, il più libero degli artisti, il più intrepido dei viaggiatori, il più sincero degli uomini!
Ed altri con le arti: Eugène Beyer, il grande pittore bohémien, David d’Angers!
Forti come le foglie di primavera e le onde del mare, innumerevoli come queste sono coloro la cui buona volontà si consuma nell’oscurità, nel silenzio e nelle prove. Purtroppo non posso sapere quanti sono. Domandate piuttosto al deserto un censimento delle sue sabbie!
Voi che leggete la storia non comprendete il ruolo immenso che giocherà questa emigrazione nel movimento dei popoli. Eccola, più energica, più chiara, più notevole in tutte le conoscenze, più pensante, più serrata che quella degli Ebrei, dei Polacchi, dei Francesi della Riforma, degli Anglosassoni del Massachussets! Nell’Europa occidentale non c’è villaggio che non abbia la sua tribù di questi uomini liberi. A poco a poco essi si sono dispersi, hanno lasciato una traccia facilmente a mezzo le vie di comunicazione più generalizzate e più rapide. Ai limiti del mondo garrisce il loro stendardo rosso, la bandiera dei giusti e dei forti!
Salve! Indipendenza.
Gli strumenti non mancano mai al lavoro. Ogni umana trasformazione si accompagna a uno spopolamento e a una ripopolazione proporzionale ai risultati prodotti. Il Socialismo penetrerà più lontano e più profondamente delle precedenti rivoluzioni; la nostra emigrazione dovrà quindi studiare per prima cosa e viaggiare più di quanto non abbiano fatto i suoi predecessori. Italiani, Tedeschi, Francesi, Russi, Ungheresi, Polacchi e Moldavi, noi siamo prima di tutto uomini attivi, precursori. Non sospenderemo le nostre arpe inutili ai rami dei salici, sui bordi dei fiumi che bagnano i piedi delle Babilonie moderne. Canteremo sotto tutti i cieli, davanti a tutti gli uomini, per tutte le ragazze che ci chiederanno una parola d’amore. Canteremo e lavoreremo, la disperazione e la persecuzione ci faranno sognare di libertà e di speranza.
Il Lavoro è dappertutto, dappertutto è la Patria!
IV
Io non sono un partigiano dell’esilio. Ma la sua utilità provvidenziale mi è provata dalla Storia, dall’Economia sociale, dalla Geografia, dalle Scienze naturali. La leggo sotto i cieli, sulle acque, nell’armonia dei mondi: dappertutto: – Avanti Rivoluzione!
Sostengo che vi sono intelligenze generalizzatrici, anime universalmente amanti, attitudini di larga sintesi che non possono svilupparsi se non in mezzo ai cambiamenti. Che ciascuno segua la sua strada! Attraverso il duro granito, le vaste pianure, le rocce e le sabbie, il ruscello corre fino al fiume e il fiume al mare. Così vado verso il mio scopo. – Avanti Rivoluzione!
Osservo i pensieri fecondi che fanno nascere in alcuni spiriti i viaggi marittimi, la vista di panorami che si dispiegano rapidamente. Per chi vuole imparare e dimenticare molto l’esilio è un viaggio utile, viaggio di lungo corso e di immediata esperienza, durante il quale ci si scontra con molti uomini singolari, con molte situazioni difficili, con molti popoli che non si sarebbero mai conosciuti, viaggi che cominciano molto semplicemente e finiscono in modo emozionante. L’esilio è una navigazione intorno al mondo sotto le vele dello spirito gonfiate da un gran vento. Non è forse un’ottima cosa impiegare la nostra corta esistenza per renderci conto del panorama sociale per quanto scuro possa essere? – Avanti Rivoluzione!
Cito il mio esempio perché l’ho sotto la penna. Ebbene, non avrei mai concepito le mie idee sull’Insieme dei popoli e dei mondi, sulla Distruzione delle società con la spada, sulla loro Ricostruzione con il pensiero, senza l’esilio che mi ha fatto abbracciare in un colpo d’occhio tutti i tempi e gli spazi accessibili alla mia vista mortale. Senza non avrei mai compreso l’infinita Trasformazione, la Rivoluzione eterna, la Circolazione incessante, la Storia, la Vita Futura, la Creazione.
Non sono forse questi godimenti e insegnamenti? In questo mondo dell’aldilà vi sono fonti di allegria, felicità e scoperta ben più grandi di quelle che si trovano in questo ignobile piccolo mondo che brulica sotto i nostri piedi.
Ed aggiungerei tutti i vantaggi minori dell’esilio: il distacco dalla nazionalità, dal pregiudizio, dalla lingua, dalle maniere e dallo stile esclusivo; – la più grande libertà di atti e di parole; – il dono della profezia; – lo scambio delle aspirazioni, delle tradizioni, dei costumi, da un popolo all’altro, da un uomo all’altro. E se aggiungo tutto ciò non finirò forse per convincere i più increduli che l’esilio non è meno utile della riproduzione dell’uomo a spese di suo padre o della rinascita delle querce tramite polloni sotterranei?
Quanti ne hai trascinato, Rivoluzione, di più grandi e più puri nel tuo vestito di fulmini! Quanti ne hai divorato di cuori e intelligenze che facevano l’onore dell’Umanità! Cosa importa? Passi sugli uomini dalla breve vita e continui il tuo cammino eterno!… Quanto a me, voglio portare a termine il mio compito. Forse altri lo completeranno meglio? Lo ignoro! Ma dato che solo e per primo non ho paura di cominciare una lotta penosa contro l’Immobilismo e la Nazionalità, la continuerò. Ciò che mi capita a seguito della mia buona volontà, lo conservo. A ciascuna pena è sufficiente la propria volontà.
Nei terreni incolti, ai confini dei deserti, i venti apportano in gran numero delle sementi. La maggior parte germinano subito e sembrano promettere una abbondante vegetazione. Ma muoiono presto sotto il fuoco del sole, incapaci di prosperare lontano dal suolo natale. Solo più tardi, un piccolo seme che non era stato notato, seme paziente, ostinato, di quelli che si dicono cattivi, sapendo mettere a profitto la pioggia e il calore, e il tempo e la terra, un seme dalla vita dura, fa esplodere la sua scorza resistente, e si diffonde sui resti di quelli che l’avevano preceduto, si alza, copre della sua fertilità la sabbia ardente. Allo stesso modo, ho saputo prendere radice in terra d’esilio dove i rappresentanti e i portatori d’onorificenza si sono rattrappiti!
Non mi si parli di legami interrotti, di affetti spietatamente sacrificati sul proprio passaggio, di un presente sdegnato come un pesante imbarazzo, di un domani di piacere oscurato, di un passato strappato come un inutile testamento! Soprattutto non mi si parli di nobili cuori associati ad una simile esistenza. Allora non ragiono più e soffro nel vederli soffrire; mentre al loro dolore non posso mettere termine!
Un termine! Ah! l’universale cataclisma che gronda sugli imperi avrà bene una scintilla di fuoco, una goccia d’acqua dei diluvi per bruciare le mie catene per estinguere la mia sete! – Avanti Rivoluzione!
V
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
Nave senza nocchiere in gran tempesta,
Non donne di province, ma bordello!
Dante
Non è la Francia che piango, ma ogni patria. In un mondo come il nostro non ce ne sono più per me. Perché gli uomini schiavi e traditori non sono avvicinabili che attraverso gli interessi mercantili.
“La Patria attuale! non la conosco. Essa è troppo fedele ai trattati del 1815, troppo ristretta dai governi, troppo sfruttata dai partiti, troppo snaturata dal privilegio, troppo deformata dai pregiudizi, troppo assolutamente immorale, avvilita, sfiorita perché io non ne sia esiliato. Non rimpiangerò mai le fogne e le sentine della Parigi-bene, non mi prenderò mai di sùbita passione per la borghesia, ringrazio il cielo che non mi ha titolato in abilità politica. Questa riflessione sulla patria per altro l’applico a tutte le patrie civilizzate; non vorrei essere cittadino di nessuna di esse. Preferisco restare vagabondo, declassato, gitano e contraddittoriamente cittadino del mondo”. (E. Cœurderoy, Troi lettres au journal l’“Homme”).
La Patria attuale! Non mi lascio prendere a tutte le sue altalene: il suolo di Francia, le aquile francesi, la bandiera tricolore! Le parole sono leggere come l’aria che passa e le cose pesanti come sbarre di ferro. Che mi si provi che il suolo di Francia appartiene a tutti noi, che vi è posto per ciascuno sotto le ali rapaci delle aquile dell’impero, nelle pieghe sporche della sua bandiera. Allora riconoscerò i vantaggi che ci assicura la Patria francese. E correndo alla frontiera di primo mattino, supplicherò i doganieri di lasciarmi entrare sotto il tetto paterno! – Se no, no!
La Patria attuale! Una falsa circoscrizione che non tiene conto né della libertà dell’individuo né della solidarietà degli interessi né del lavoro né delle attitudini né del vecchio né del malato né del povero né della donna né del fanciullo! – Un penitenziario!
La Patria attuale! Una parola, un deposito di merci, un glorioso bazar di schiavi, un canile di mastini vendicativi, una stalla dove si sta ammucchiati come bestie da soma, dove si vive di privazioni, dove non si è nemmeno sotterrati decentemente. – Ingrato paese non avrai le mie ossa!
La Patria attuale! Per quanto mi abbiano spesso attaccato per il mediocre amore che professo per essa, dichiaro di nuovo che non posso considerare mio un paese in cui gli abitanti sono stati divisi in due parti: quelli che curvano la testa e quelli che la fanno curvare. – Non amo i primi e detesto gli altri!
La Patria attuale! Certissimamente preferisco quella dei lupi. Con questi almeno si sa da chi guardarsi, non si è divorati né di dietro, né a pezzetti. – Tutto è fatto velocemente!
Non è il partito democratico, non è la mia famiglia che piango. Tutti i partiti, tutte le famiglie di oggi sono ravvicinamenti forzati di interessi che si lacerano. L’ipocrita Odio ha vestito la maschera della candida Affezione: nella sua mano si nasconde il pugnale! In ogni società gli uomini sono solidali. Purtroppo quando non è l’Attrazione che fissa i loro rapporti, è la Forza, quando non è la Giustizia, è il Furto. Piango sulla civilizzazione, piango per me stesso che sono obbligato a viverci. Invece di consumare la mia esistenza in un simile ambiente, preferisco l’ostracismo. – Io sono dell’Avvenire, il mio paese è molto lontano!
E se fosse tutto là! Invece mi tocca piangere anche sullo stesso esilio. Coloro che più tardi leggeranno queste righe non potranno credere mai che i capi del partito e i loro schiavi non avendo osato calunniarmi mi hanno perseguitato con tutti i mezzi, mettendomi al bando dell’emigrazione, come essi dicono, a me che mi sono ammazzato di lavoro per tracciare loro un ruolo utile nel mondo.
(Vedere: tra l’altro, l’epilogo De la Révolution dans l’homme et dans la Société, e l’Introduzione di Hurrah!!! Ou la Révolution par les Cosaques. Nelle mie precedenti pubblicazioni ho spesso tratteggiato il ruolo dell’emigrazione, vi ritornerò spesso in seguito, questo soggetto è talmente mio, se così si può dire, che sono obbligato a sfiorarlo soltanto tutte le volte che l’affronto per cui sarà trattato completamente solo nell’insieme dei miei lavoro e particolarmente in questi Giorni dell’esilio).
A vostro piacere, Monsignori della demagogia, voi mi mettete all’indice dei vostri seguaci, e io vi metto all’indice dell’Umanità, della Rivoluzione, dell’Avvenire, della Giustizia e del Buon senso! Vi sfido a combattere francamente le mie opinioni su di voi stessi, di fronte a me, nelle assemblee del popolo. E vi condanno all’atroce supplizio che il grande ghibellino fa soffrire al conte Ugolino nel più nero cerchio del suo Inferno. Vi resta poco cervello e ve lo divorerete l’un l’altro senza pietà!
VI
Ho promesso da qualche parte di dire le mie idee sulla Patria futura. Eccole:
La terra promessa ad ogni scopritore la vedo all’orizzonte, sento la brezza balsamica che corre sulle sue colline, quasi la tocco ma non la raggiungerò, non passeggerò sul suo terreno coperto di fiori. Morirò qui, su questo suolo arido, tendendo le mie braccia verso di essa come Mosè morente in vista di Canan!
Allo stesso modo, il marinaio, vicino alla riva della felicità, lotta contro il mare ingrossato dalla tempesta. Attraverso le nebbie del mattino egli distingue la sciarpa blu dei monti, i venti gli portano il profumo delle piante e il canto degli uccelli. Ma sa che non approderà, sa che dovrà finire; sente gli urli di vittoria dell’implacabile tormenta felice di rompere tutto.
E tuttavia io l’ho concepita nell’anima mia questa Patria universale, questo paese sconosciuto alle persone dalle mani rapaci!
In tutte le contrade che ho percorso ho lasciato amici a cui mi legano pensieri simpatici e su cui credo di potere sempre contare. Ebbene, anche questi hanno smesso di scrivermi, hanno voluto sbarazzarsi il cammino di un personaggio compromettente. Non gliene voglio, la società li trascina, io sono libero.
E così è svanita la patria dei miei sogni, la patria di mia scelta!
Soffio impestato del mondo, contagio nero! fai perire i giovani a migliaia, li mordi al cuore come l’insetto tenebroso che rode la vigna in fiore. Perché, perché vivo in un secolo in cui tanta angoscia ne chiama altra, dove le più crudeli delusioni sono degli uomini migliori?
Ma la Patria dei miei sogni sarà realizzata dagli uomini dell’avvenire, nella forma in cui l’annuncio. Ascoltatemi:
La Patria futura è a Nord, a Mezzogiorno, al Tramonto, all’Aurora, sotto i Cieli, sopra la Terra e l’Oceano.
Essa non dipende dai capricci dei despoti, dei bramosi, degli sfruttatori, delle muraglie, degli odi, degli uffici, dei cannoni e delle baionette. Dappertutto, dove due cuori battono all’unisono, dove due intelligenze vibrano dello stesso fremito, essa li lega, incantato filo di Arianna!
A due leghe come a duemila l’artigiano, l’artista e il poeta sono associati dal pensiero. L’uomo del Nord si completa con quello del Mezzogiorno, il debole con il forte, il realizzatore con il pensatore, la donna con l’uomo, il bambino col vecchio.
Un capolavoro si abbozza a Copenhagen e si completa a Roma. Una scoperta si concepisce a Madrid, si esegue a Parigi e si perfeziona a Londra o a New York. Un’opera è scritta in una lingua e tradotta in tutte le altre lingue. Lo spirito umano immagina e completa tutto quello che può moltiplicare le sue gioie.
Che mi parlate a fare delle patrie attuali, patrie egoiste che isolano l’Umanità?
Vi dico che non ne vale la pena. L’istruzione diffonde da ogni parte le conoscenze storiche, la libertà le feconda, l’audacia le applica all’avvenire; il Progresso e la Tradizione si fanno la corte, dapprima si abbracciano timidamente, poi ci prendono gusto e si sposano. – La Società rinasce ad ogni secolo dalle sue ceneri spente. – Il Presente, il bambino che si è fatto uomo, apprende a sue proprie spese che le minoranze non han sempre torto, che il Passato non è immortale, che il Tempo non è immobile, che l’Avvenire rivendica! – La Nazione pensa: essa osserva come sia costruita sulle rovine di razze potenti e gigantesche civiltà; si rende conto che man mano che invecchia l’Umanità divora più rapidamente la vita dei popoli che conservano la propria fiamma come pietosi bramini. Da cui ne viene che la Nazione non conta più su un’esistenza eterna, che non disprezza più le sue sorelle che invecchiano o che nascono, che non ha più la strana pretesa d’essere la prima e l’ultima di tutte.
L’uomo libero dell’avvenire fuggirà la propria vita presente il più spesso possibile. Ora si rapporterà verso le epoche gloriose della Grecia e di Roma, vivrà della loro storia, attingerà utili esempi, un santo entusiasmo. Ora il Sogno verrà a sollecitarlo, allora si slancerà nell’Avvenire, il bel paese dalle verdi colline, dalle vaste pianure che egli può arredare, popolare, far fiorire a suo piacimento. Egli centuplicherà la sua esistenza col pensiero, con la memoria. Le sue idee lo renderanno cosmopolita. Vorrà vedere le rovine delle città regine e raccogliere sulla riva del mare le perle delle loro corone spezzate. Vorrà conoscere anche i costumi, le lotte, le difficoltà vinte dai nuovi popoli che dissodano i mondi vergini, li colonizzano, li fertilizzano, li intaccano e li sondano contemporaneamente da ogni lato col ferro e col fuoco, l’ascia e il vascello. Comparerà le antiche civiltà alle moderne, e più saranno lontani i tempi che ravvicinerà, più il suo studio fornirà grandiose prospettive.
Nel frattempo l’uomo estenderà la sua capacità d’azione su tutti i popoli, suoi contemporanei, e la sua capacità di affetto su tutti gli uomini, suoi fratelli, che preparano la strada o che la proseguono. Allora potrà scegliere la sua patria, sia dalla configurazione del suolo, dai prodotti, dalla posizione geografica di una zona, sia dai ricorsi o dalle aspirazioni dell’anima sua. Allora il luogo della nostra nascita non sarà altro che il primo accidente, la prima tappa del nostro viaggio terrestre, del fatto che noi abbiamo visto la luce del primo giorno in un posto non sarà più dedotta la conseguenza assurda che dobbiamo essere rinchiusi per sempre nelle frontiere e nelle leggi di un solo paese.
Si vedrà quali caratteri, quali atti, quali esempi produrrà questa nuova nozione di patria. Quando egli si sentirà fratello di Regolo, di Gracco, di Catilina, di Spartaco, di Toussaint-Louverture, di Franklin e di Bolivar, i grandi di tutti i continenti e di tutti i secoli, l’uomo si sentirà grande e capace di minacciare i cieli.
Questa sarà la patria nel futuro, nell’avvenire.
– Non c’è che questo modo di capire il dogma della Fraternità. Chi non si figura la patria nel tempo non può sapere di questo dogma che le stupide lamentele dei rivoluzionari della tradizione.
Che cos’è in effetti la Fraternità? Solo un simbolo, una risultante, l’espressione di un’armonia. Non è altro eppure è tutto. È l’arcobaleno: sembra l’effimero assemblaggio di tutti i colori, eppure è il segno della riconciliazione e della pace fra tutti gli elementi.
La Fraternità deve comprendere tutti gli uomini, di tutti i tempi e di tutti i paesi, essa non può essere staccata dall’infinito e dall’universale. Smette di avere inconvenienti dal momento in cui non comprime più la libertà dell’uomo e non si oppone alla giustizia distributiva.
La Fraternità la concepisco solo dopo che abito in un mondo infinito. È una semplice aspirazione che, presso l’ultimo uomo, avrà un’intensità maggiore che presso i suoi antenati. Per altro, è la sola religione possibile nell’avvenire, quella che non comporta più come conseguenza le caste dominanti, il culto, il furto, il fanatismo, la vergognosa ignoranza. La Fraternità è la religione generale, generosa, generica che ci comprenderà tutti lasciando a ciascuno la libertà della propria coscienza.
Io parto dall’etimologia della parola religione che significa rilegare. E sostengo che una religione è possibile solo in quanto aspirazione, perché essa dovrà legare tutti gli uomini passati, presenti e futuri. Da cui risulta che essa non potrà stabilirsi in una frazione sociale dove il dominio temporale diventa così facilmente tirannico.
In virtù della stessa ipotesi, affermo ancora che una religione è possibile solo a condizione di obbedire al principio della Rivoluzione permanente – cioè di armonizzarsi con i tempi, di non essere più irrilevante, paralizzante, immutabile, incomprensibile nel cielo, dispotica sulla terra.
Una volta radicato nella bontà di queste convinzioni che non mi si cerchi di imporre un dogma rivelato a principio, che duri usque ad semper, o un culto disciplinato, cerimonioso, forzato! Perché io sono un chirurgo e so come si può freddare il proprio uomo con la punta di uno spillo! E se le funzioni del prete differiscono da quelle del cittadino, almeno la sua anatomia resta la stessa!…
Voglio essere pio, pregare e amare di un amore ideale; ma soltanto ciò che la mia concezione, dico la mia, può abbracciare di più esteso: cioè l’uomo, il capolavoro della Rivoluzione, gravitante nel mezzo dell’immensa natura, il suo giardino dell’Eden, che ritorna feconda e ogni giorno più bella.
Se, perseguendo questa serie di contemplazioni superiori, la mia anima si abbassasse per caso fino alla concezione dell’eterna scimmiottatura dei preti, dei monaci, delle suore, dei quaccheri, dei tremolanti e altri isterici; fino alla venerazione per il dio degli olocausti propiziatori che si adora su tutti gli altari, in tutte le posizioni; fino al rispetto per questo Ercole sempieterno, per questo Priapo sfiorito che tiene la candela allo Spirito Paracleto per avere un figlio... Se questa disgrazia mi arrivasse!!
Allora, amici miei, dite che sono diventato pazzo e venite a vedermi comunicare nella chiesa parrocchiale di Tonnerre (Yonne), mio domicilio cattolico. E bevetevi una bottiglia! I devoti della zona ve ne possono trovare di buone!
La mia Religione o la mia Fraternità non è quella del Santo padre Pio IX, del Reverendo fratello Lutero, del signor Calvino, del cittadino Étienne Cabet l’Invisibile. Si tratta di un desideratum, di uno stimulus, la continuazione incessante della Scoperta, lo studio costante dell’Umanità. Per generalizzare, dell’impazienza infinita della mia anima di conoscere gli interi destini della nostra razza.
– L’innumerevole, l’amabile, l’adorabile, la venerabile, che comincia da mastro Adamo, l’arzilla dissoluta, sempre superficiale, sempre alla ricerca di ombra, di intimità, della parte inferiore delle foglie e dei letti d’erba, e che finirà con un non so quale essere freddo, quintessenziale e platonico che non si sognerà più l’amore!
Questo povero ultimo uomo! Voi parlate della disperazione di Napoleone III che non ha la fortuna di riprodursi quando l’Impero francese ne avrebbe tanto bisogno! Sarà diversamente per il nostro ultimo pronipote. Egli si taglierà... la gola!
Lui, che terrà sotto i piedi la natura vinta, che comprenderà il meccanismo degli universi e creerà, secondo la sua fantasia, lui, l’immortale, non poter dare un erede al suo impero, essere padrone di tutto e produrre il niente! L’eccesso della sua potenza non ha eguali che nell’eccesso della sua disgrazia! Sarà obbligato a mettere fine al suo supplizio con il più spaventoso dei suicidi, quello dell’uomo il cui genio non conosce più ostacoli e che sente le sue membra paralizzate! – L’uomo nato da donna non sfuggirà al suo terribile destino! –
Che mi parlate a fare di stranieri, di Sassoni, Tedeschi, Francesi e Russi?
Non ce ne sono più vi dico. L’Umanità comprende tre grosse famiglie: gli operai, gli artisti e i filosofi diventati tali attraverso una libera istruzione, per attrazione. Queste tre famiglie si rapportano attraverso innumerevoli varietà. Nei punti di contatto esse si ingranano attraverso caratteristiche ambigue: vi è l’operaio che si avvicina all’artista, l’artista che partecipa del filosofo, il filosofo che ha qualcosa dell’uno e dell’altro, ecc.
La Specialità non è più che una efflorescenza della Scienza generale e infinita, della Scienza umanitaria dai mille rami. Siamo ritornati a questi geni colossali, sublime onore dell’Italia del Medioevo, a Michelangelo, Benvenuto Cellini, Raffaello Sanzio, che sapevano tutto!
Tale sarà la Patria del Lavoro attraente e libero, nell’Avvenire.
Che mi parlate a fare di proprietà, di affitti, di canoni, di negozi, di professioni che ci incatenano nostro malgrado in un luogo, che ci rendono schiavi di un governo, di un pubblico, di una famiglia, di abitudini, di vicini?
Non ce ne sono più vi dico. Gli uomini non sono più fissati al suolo come le piante; hanno la libertà di andare e venire, di restare sempre nello stesso posto o di viaggiare spesso; secondo come preferiscono.
La locomozione diventa l’abitudine più imperiosa della vita. Le distanze esistono solo nel pensiero. I climi, le lingue e i costumi si armonizzano. Dappertutto si è presso di sé: l’estate, nelle Alpi d’Oberland e di Savoia, l’inverno a Napoli e a Cadice, l’autunno a Torino, la primavera non so dove. Quando si è indisposti si corre alle acque, quando ci si annoia si salta sul primo convoglio che passa, sull’agile naviglio che spiega le vele, ci si mette in rotta per Lisbona, Costantinopoli o New York, a capriccio.
I viaggiatori non sono più ammassati come oggi sui ponti delle navi, negli spaventosi vagoni. Il treno della gioia diventa una realtà. Nessuno è lasciato indietro, vi sono sempre posti. Si parte quando si vuole, si arriva quando piace. I convogli sono forniti di tutte le comodità, di ogni lusso, di ogni divertimento desiderabile. Vi si danza, vi si canta, vi si fuma, vi si dorme, vi si leggono i migliori libri, vi si esercita a tutti i giochi d’abilità. Non vi sono sale da ballo e da gioco più animate di quelle dei treni e delle navi. Molti Inglesi e Americani non conoscono più altra patria, e sarebbe in grave pericolo chi cercasse di strapparli da questi posti.
Le dogane sono rase al suolo, le frontiere arate, i passaporti strappati. Nei luoghi dove si soggiorna si incontra gente condotta là dalla stessa attrazione; quelli nelle città, questi nella campagna; gli uni sul bordo dei fiumi, gli altri sulle montagne. L’ineguaglianza delle condizioni non mette più ostacoli allo scambio delle simpatie, né il prezzo dei viaggi alla loro frequenza. Il trasporto è quasi gratuito; il pubblico rimborsa soltanto alle compagnie le spese di sfruttamento.
– Non vi fregate ancora le mani, non fate così presto le valigie, piccoli borghesi sporchi. Prima che si viaggi in questo modo bisognerà che ogni diritto di proprietà sia scomparso, che il Lavoro abbia ripreso i suoi diritti sovrani e che la vostra razza nociva abbia evacuato la terra. –
Così sarà la Patria della Circolazione attraente e libera nell’Avvenire.
Che mi parlate a fare di città attuali dove ci si ammassa, spinti fino allo schiacciamento, cotti, arrostiti, gelati, bagnati fino alle ossa?
– Città dai sobborghi malsani, dalle strade strette, dalle emanazioni infette, in cui si fanno spedizioni notturne in fosse inesprimibili! Città in cui fioriscono i Mali contagiosi, la Febbre, la Scrofola, la Tubercolosi, il Vaiolo, lo Scorbuto dai denti grigi, e il loro piccolo fratello, il Rachitismo, che li segue zoppicando sulle sue gambe storte! Città dove i polmoni sono stretti, le gambe stanche, le voci spezzate, i genitori tarati, la pena centuplicata, la morte precoce! Città dove i quartieri, le strade, le piazze sono disposte secondo le fantasie dei governanti o degli stupidi capitalisti! Città dove i capolavori di architettura portano i nomi del più miserabile degli usurai, del più briccone dei ministri e sono consacrati alla memoria dei fatti più insignificanti della storia! –
Di questo genere di città non ce ne sono più vi dico. Le abitazioni degli uomini sono disperse in mezzo alle campagne in gruppi determinati dall’analogia dei lavori e dei costumi. Esse sono sul bordo delle acque, sulla china delle colline, sull’orlo dei boschi, dovunque si trovi un sito gradevole e sano. Non vi sono più villaggi né metropoli. L’Isolamento e l’Agglomerazione si sono distrutti integrandosi. Il mondo offre l’aspetto dei ridenti cantoni di Vaud e di Zurigo, meno le divisioni, le siepi, i muri, le griglie, i cocci di bottiglia, le guardie e i cani dei proprietari. È un gran tappeto verde disseminato di case bianche, rosse, verdi, gialle, fresche come fiori di prato.
Le abitazioni degli uomini sono disposte a cerchio, a croce, a piazza, a canestro di piante, ad eremitaggio, a caso o in linea retta. Vi sono alberghi per gli individui che amano vivere in associazione, giardini ombreggiati, stanze di studio per i lavoratori. Essendo gli uomini divisi in base ad una eguale distribuzione di ricchezze, basata sulle loro facoltà e sui loro bisogni, importa poco come produrranno e consumeranno il dividendo sociale.
Un dato gruppo di costruzioni prenderà la propria designazione da una grande fase storica, da un secolo importante. Tutte le divisioni di cui si comporrà ricorderanno gli uomini e i fatti che hanno reso importante questo secolo. – Un altro gruppo prenderà il proprio nome da una regione lontana, quanti paesi questa regione conterrà altrettanti saranno le suddivisioni del quartiere in questione. – Un altro gruppo si chiamerà col nome di un genere zoologico o botanico, sottogeneri, specie e famiglie si ritroveranno nell’ordine delle dimore. – Un altro ancora riceverà la sua denominazione da un mestiere, le sue piazze, le sue strade, i suoi meandri ricorderanno gli strumenti, le invenzioni e gli inventori appartenenti a questa professione. – Un altro sarà battezzato secondo la pittura, la scultura o la letteratura di un’epoca e diviso secondo le stesse utili indicazioni. – Altri gruppi riuniranno senza apparente ordine tutti i rami delle conoscenze umane. – Ciascuno può completare il quadro di queste libere dimore, igieniche e gradevoli. Eccetto i borghesi che non hanno più cervello delle cicale!
Le risorse dell’umanità diverranno ogni giorno più grandi in conseguenza della solidarizzazione degli interessi, per cui questi gruppi saranno collegati per mezzo di magnifici giardini, di portici splendidi, caldi e rischiarati prodigalmente. In questi posti si esporranno le realizzazioni e i capolavori di ogni scienza, industria, lettere e belle arti.
In questo modo, i bambini potranno completare la propria educazione all’aria aperta, passeggiando, soddisfacendo la propria curiosità, senza che il loro sviluppo fisico o morale soffra a causa delle necessità della loro memoria. – Così gli uomini si ricorderanno le conoscenze acquisite nell’infanzia, perché niente imprime i ricordi nello spirito come la vista degli oggetti. – Così saranno sconfitte le vicissitudini dell’atmosfera e i rigori delle stagioni. – Così l’Inverno, il vecchio nemico, sarà sconfitto, sotterrato vivo sotto la sua neve, fuso nelle sue piogge ghiacciate. – Così sarà moltiplicata l’esistenza umana dal benessere e dalla felicità!
Saranno così le belle dimore degli uomini nella Patria dell’Avvenire.
Che mi parlate a fare di unioni perpetue tra l’uomo e la donna, del matrimonio legale, della monogamia, della poligamia forzata, dell’adulterio, del concubinaggio, degli incidenti e degli omicidi causati dalle alleanze sessuali?
Non ve ne sono più, ve lo dico io. Si resta insieme fin quando conviene, eternamente se lo si vuole; in più uomini, in più donne, se se ne ha il coraggio; si coltiva l’amore del pensiero e l’amore della carne. Si comprende in questo modo il ruolo della baccante e quello della signora Roland. Riguardo ai bambini, la loro sorte è assicurata dalla stessa organizzazione delle società che non riconoscono più altro valore che il lavoro e che possono consegnare gli strumenti a chiunque dia prodotti in cambio.
Bisognerà pure che coloro che lo vorranno possano rinchiudersi in conventi di lavoratori. La vita monacale è nella natura di molta gente; ben compresa essa sarà molto utile ad alcune funzioni, per esempio, quella della conservazione e dell’erudizione nell’interesse di tutti.
Tutto è nel giusto, nel vero e nel bene dal momento che non ci saranno più rendita, eredità, interessi opposti ai desideri della natura. Oggi la nostra felicità è inquadrata nei tristi mezzi di esistenza. Ed è tutto il contrario di quel che dovrebbe essere. Che l’uomo regoli al fine la propria vita sui suoi desideri di felicità!
Sarà così la Patria dell’Amore attraente e libera nell’Avvenire.
Che mi parlate a fare di sistemi, di sette, di scuole, di università, di accademie, di diplomi, di brevetti, di sordide pergamene?
Non ve ne sono più, ve lo dico io. Le scoperte della scienza sono abbandonate all’iniziativa di ciascuno, gli spiriti originali sono finalmente compresi, stimati, incoraggiati. Mille nuove prospettive sono scoperte, gli orizzonti più lontani si illuminano di grandi fuochi. La Follia del genio, la Follia dei profeti cammina con la testa cinta da un diadema d’oro! Dappertutto un infernale rumore di macchine da stampa, dappertutto la scintilla della discussione. Gli avvocati, i tribuni, i letterati alla giornata, i pedagoghi, i demagoghi, i capi di setta, di claque e di partito, i pretesi dittatori dell’opinione ricevono un colpo mortale.
Sarà così la Patria della Scienza attraente e libera nell’Avvenire.
Queste patrie dell’avvenire saranno sottomesse ad una sola legge, quella della Trasformazione; esse si modificheranno ininterrottamente. Il dogma salvatore della rigenerazione continua sarà così profondamente inoculato nell’organismo umano che questi sviluppi successivi non lo faranno più soffrire. Che cosa è più naturale in effetti dell’applicazione del principio rivoluzionario alle società la cui produzione e il cui consumo sono divenuti immensi, le quali si equilibreranno attraverso uno scambio sempre libero, sempre equo, mentre non vi sarà più possibilità di accumulazione o di risparmio, di alto o di basso, di troppo pieno o di carestia, in una parola di colpi di Borsa? – Tempo e Spazio, Immensità e Infinito, Scambio e Rivoluzione non sono forse sinonimi?
E come sarà grande il numero e la portata delle scoperte che farà l’Umanità nuova quando tutti gli uomini lavoratori seguiranno la loro passione; quando l’operaio, quale esso sia, sarà certo di raccogliere felicità e gloria come prezzo dei suoi servizi; quando tutte le razze, le conoscenze e le affezioni umane si sosterranno, si presteranno concorso?
Ah! ma non oso sognare troppo! Sarebbe da suicidarsi, da diventare pazzo! – Disgraziata civiltà, mi ripete una voce interiore, putrida al tuo interno, non ti dare la febbre, non pensare; vegeta come puoi la tua vita quotidiana. Non potrai salvarti che con l’audacia del pensiero.
Sia quindi temerario e rapido il mio pensiero come lo sparviero nel suo volo! Sgorghi dalle mie vene come la lava ardente dal vulcano lacerato! Salga, plani, nuoti, si tuffi nell’aria senza limiti! – E tu, mio corpo, mio povero corpo, alla catena, alla catena! A tavola per mangiare, a tavola per scrivere, a letto per riposare! Ribadito, ribadito sempre alla materia inerte! Sempre bandito, sempre senza terra, sempre stanco di te stesso, sempre pesante come un pontone alla vela tesa dell’anima tua che ti trascina a tutti i venti!
Non mi parlate della patrie di questi tempi! Io sono, io sono l’esiliato felice: il mio soggiorno è in cielo!
VII
Mi hanno spesso fatto lo stesso rimprovero della signora de Staël, di Châteaubriand, di Byron; mi è stato detto che avevo lo stile, i pensieri e le passioni di un proscritto, di un uomo estraneo alla sua nazione. Tengo come un grande onore a queste maldicenze, e prego il pubblico di rinnovarle.
Dite, dite ancora, vi prego, che mi senta chiamare esiliato! Ripetete che non conto più nell’illustre popolazione che brulica sotto il campanile del mio villaggio, subendo i capricci del sotto-prefetto, dell’ufficio delle imposte dell’Impero e delle signore guardie preposte alla sua custodia! Dite sempre che non vi rassomiglio, che non rassomiglio a nessuno dei vostri autori! Mi oltraggereste paragonandomi anche ai più illustri: io sono altra cosa. Fatemi l’onore di crederlo per voi e per me.
Il bagliore del fulmine è differente da quello degli astri, l’ala dell’anatra selvaggia è diversa da quella del passero, l’uccello predone delle città. Così il mio stile che non ha avuto modelli e resterà senza imitatori; così la mia esistenza senza atteggiamenti capricciosi o abitudini mutevoli.
Ho preso ad amare l’esilio. Ho voluto dimostrare che se ne poteva trarre utilità, che affrancava gli uomini dalle meschine vanità nazionali, municipali e politiche, che li staccava dai pregiudizi del presente, che svelava loro gli orizzonti dell’avvenire, che li confondeva con l’umanità. A quelli che mi dicevano perduto, ho provato che una volontà di ferro può dominare tutto, che una voce di bronzo può farsi sentire dappertutto, che non c’è deserto per il profeta, che egli ritorna da molto lontano e vede da molto in alto.
Avevo i popoli come ascoltatori: quindi mi è stato necessario parlare più forte che se mi fossi indirizzato soltanto ad uno di essi. Le dogane si oppongono alla diffusione dei miei pensieri: mi è stato quindi necessario gettarli a tutti i venti; a Bruxelles, a Torino, in Svizzera, a Londra, nell’ambiente dei proscritti, nei terreni più sterili. I nemici della Libertà mi avevano colpito di buon’ora, all’età in cui le opinioni non sono ancora mature; quindi mi è stato necessario acquistarle più difficilmente attraverso lo studio delle nazioni di cui ho attraversato il territorio. Ne è risultato che le mie idee, la mia dizione e la mia propaganda hanno preso un carattere più generale, meno attuale di quello di molti autori che vegetano nel loro paese, sputando sui propri tizzoni, guadagnando in questa attività gotta e reumatismi: rendite molto pesanti per l’agile pensiero.
Ho sostenuto che si poteva creare una letteratura con la Franchezza per regola, la Giustizia per principio, il Mondo per sostegno, i Popoli per lettori, la Sofferenza per stimolo, l’Armonia per compagna, la Libertà, la santa Libertà per ispirazione e per scopo! E l’ho chiamata la Letteratura dell’esilio.
E l’ho sognata suonante il rintocco della morte del privilegio, battente il tamburo delle rivoluzioni future, con nella mano ferma la torcia, la falce e il pamphlet stridente, spiegante davanti ai diseredati lo stendardo della Vendetta, corrente, col suo libero piede, sui monti e sulle onde!
L’ho concepita scorrente dalla penna di un giovane senza reputazione, senza impegno con i partiti, senza libri, senza incoraggiamenti, senza risorse, senza altra motivazione che la propria coscienza.
E senza esitare, sentendo la mia risoluzione santa, la mia decisione irremovibile contro tutti gli intrighi dell’ambizione venale, gettai al mondo tutte le verità che mi vennero allo spirito e che stimai ottime a dirsi, irrefutabili, invincibili, per il semplice fatto di essere vere!
Da quel giorno giurai di non lasciarmi stornare dal mio compito: né dalle privazioni né dai piaceri né dalle prevenzioni dalle calunnie, dai rancori. Giurai di restare fermo contro i re, i proprietari, i tribuni e i settari, contro lo stesso popolo che tanto spesso si sbaglia! Giurai di non credere che alla ragione, di non riposarmi che alla morte, di marciare sulla mia reputazione della vigilia a favore della giustizia dell’indomani, di dimenticare salute, benessere e la vita stessa, di sacrificare tutto, come un figliuol prodigo, alla felicità di dire il vero!
Io non chiamo letteratura dell’esilio le misere elucubrazioni dei capi rivoluzionari, i loro attacchi monotoni e nauseanti contro il nominato Bonaparte imperatore, terzo della razza. – Un terzo ladrone molto più sveglio dei democratici e dei realisti, che cambiando di posto con loro, li ha inviati a Londra ad apprendere un po’ d’inglese e di politica. Un ragazzo senza genio in fede mia! che deporta, trasporta, decapita, mitraglia, s’ingrassa per conto suo, non facendo né più né meno quello che hanno fatto gli altri e che farebbero ancora se fossero capaci di ritrovare il proprio passato.
Il Due Dicembre è la festa del Terrore rosso e del Terrore bianco, è la settembriade del bonapartismo.
Non chiamo così le piccole polemiche, le riedizioni, contraffazioni, gli imbrogli, i falsi, i plagi puerili, derisori, piatti, esumazioni delle vecchiezze politiche del ’93.
Non chiamo così i giornali che si tenta di fare nascere in esilio e che sono tutti miseramente abortiti nel loro meschino nazionalismo sotto la stretta crudele del partito strangolatore.
Non chiamo così i discorsi, brindisi, sermoni, ululati, canzoni da birreria frrrancesi, discorsi pepati eminentemente democratici che si urlano davanti a pochi partigiani e a molti bicchieri.
Non chiamo così tutti i piccoli pamphlet dolci-amari che non scorticano nessuno, non scuotono nulla, negano e affermano meno ancora, e che ci insegnano solennemente che la terra è rotonda. Ledru-Rollin bell’uomo, Napoleone brutto, Joinville sordo e Chambord afflitto.
Non chiamo così questa farragine di decreti, manifesti, proclami, professioni e confessioni di fede, ordinanze, avvisi, programmi: poveri feti abortiti usciti dai mille crani rivali dei nostri moderni Giove.
Chiamo tutto il mucchio insalate, insalate democratiche e sociali in cui ciascuno apporta la propria foglia, nelle quali si mette poco aceto e molto olio, di cui tutti mangiano per educazione tenendosi il cuore a due mani; insalate che stancano sia a digerire che a fare, che non eccitano, non infiammano, non dissetano, non nutriscono, nessuno: composizioni analoghe in politica al famoso tè della signora Gibou in gastrosofia!!
Riservo il titolo di Letteratura dell’esilio per una concezione in cui un uomo dispensa tutta la sua forza, tutto il suo lavoro, che gli costa veglie, meditazioni, angosce, che fa comprendere i costumi, le emozioni, le occupazioni, le vicissitudini della vita del proscritto, che sia come il giornale, lo specchio, il grido, il canto adatto ai grandi popoli dell’avvenire, ancora erranti.
Lo riservo per un’opera giovane, fresca, vergine, verde, semplice e selvaggia come il primo fiore di un mondo nuovo; per una raccolta di pensieri abbondanti, flessibili, simili alle liane della foresta che tendono le loro piccole mani affettuose ai grandi alberi allo scopo di unirli e preservarli dai rigori delle stagioni.
In questo modo, ho teso le mie braccia alle nazioni future, ecco ciò che ho cercato di fare per eterno obbrobrio dei despoti e dei prevaricatori, per l’eclatante rivendicazione dei deboli, per l’estrema volgarizzazione dei problemi sociali più ardui e più pressanti, per la soddisfazione dei bisogni intellettuali del lavoratore dei nostri giorni. – In secondo luogo, anche per la confusione dei famosi che riempiono l’esilio del rumore delle loro polemiche inutili e della loro tracotanza. –
Ecco cosa ho cercato di fare per tutti i popoli, tutti gli uomini, tutte le età, tutte le situazioni della vita, per la causa del proletario, della donna, del bambino, ed anche dell’animale che si maltratta e malmena. Perché io voglio che non manchi nulla allo spirito della mia protesta, nulla di ciò che dipende dal coraggio e dalla buona volontà di un uomo giusto.
Ecco cosa ho tentato di fare esplorando le nuove strade, trasalendo ad ogni rumore di armi, di penne o di parole, leggendo poco, riflettendo molto, profetizzando di più ancora.
Sono certo in effetti che esiste una scienza dell’Avvenire, positiva, immensa, sorella e figlia della Storia, più utile, più consolante, più attraente per l’umanità. Sono certo che alcune intelligenze sono incapaci di decifrare i caratteri del presente e sono invece meravigliosamente adatte a leggere senza esitazione in quelli dell’avvenire.
Per quanto mi riguarda, nelle mille strade così complesse dell’attuale civilizzazione non vedo nulla, non comprendo nulla eccetto l’ingiustizia e il disordine. Quanto ai dettagli, non so trovare la pena di preoccuparmene. Mi è impossibile prevedere uno solo dei risultati probabili dello scontro di tanti interessi che hanno per legge soltanto il caso. Mentre che nel futuro tutto mi appare chiaro, semplice, preciso, esente da controversie per così dire. È una scrittura netta, ferma, diritta: dove posso leggere a grande distanza. Che i miopi e i guerci affondino fino al naso nel libro della vita per distinguervi le lettere una dopo l’altra! Gli uomini dalla vista lunga lo percorrono per capitoli al fine di cogliere l’insieme con un colpo d’occhio.
Figlio di un paese in decadenza, vittima dell’ingiustizia sociale, non è sorprendente che io cerchi la felicità nelle età che ancora non esistono. Ah! potessi trascinare con me tutti gli esseri che mi sono cari! Potessi salvarli dai pericoli del presente, metterli al riparo nell’arca dell’alleanza che galleggia sul diluvio, tra il Vecchio e il Nuovo Mondo!
L’Avvenire dirà se le mie forze mi hanno tradito, se sono riuscito nella mia impresa, se ho potuto colmare i vuoti, se ho portato a termine il lavoro. Rifiuto il giudizio dei contemporanei. Essi sono troppo affaristi, troppo tremanti per i loro interessi, troppo minacciati nella loro esistenza, per ascoltarmi e vedermi. Essi non sanno più dove sbattere la testa; sul suolo che si muove segnano il passo come uccelli sul ferro infuocato; non osano dire una parola né avanzare di un passo. Gli avvenimenti superano la portata della loro intelligenza.
Essi si chiudono a chiave nelle loro case, si mettono a tavola, mangiano come quattro, bevono come dieci, crepano di benessere. E tanti saluti agli amici, ai nemici, alla politica, alla guerra e alla spaventosa demagogia. E felicissima notte! [in italiano nel testo]. Danza Napoleone! Difenditi Sebastopoli! Morite che vi piace, Caini in abiti rossi, poveri soldati di Francia, guerrieri della miseria e della fame! Bruciate fuochi d’artificio! Pagate popoli, danari e sangue. Noi digeriamo: quindi tutto va bene. – Così fanno e dicono i borghesi.
Durante quel tempo i topi, i grossi topi di fogna, sono usciti; hanno fatto toletta al chiaro di luna, si sono installati alle Tuileries e si danno importanza. Suonate trombette e cornamuse! i decembristi sono uniti.
Tutta questa brava gente di Francia tira, acchiappa, ruba, mastica, trotta, spazza, accumula, ognuno per sé. – Più presto dunque! Rientrate il fieno, rientrate le bestie! Si salvi chi può! Il Raccolto è fatto! Ecco l’uragano, ecco la guerra! L’invasione è alle porte!
Hurrah! borghesi. Siete presi come ladroni in fiera, con le mani nel sacco. Sarete impiccati e ci chiamerete fratelli solo quando sgambetterete, ciascuno per suo conto, sul legno dei patiboli.
Ah! ottimi violatori di diritti, sotterratori di denaro, sfruttatori d’immondizie, surrogati d’amore, borghesi! volete isolarvi dall’universo? Ebbene l’Universo aprirà sulle vostre facce i suoi abissi e vi scorticherà vivi tra i denti delle sue rocce.
E adesso danzate, come dice quel brav’uomo di Lafontaine!
VIII
Se per caso dovessi ricadere nel buco dove sono nato, ecco cosa accadrebbe:
– “Corriamo a vedere lo strano viaggiatore, dirà la gente. È bello come gli astri, nei loro abiti di festa, essi si accalcherebbero al mio passaggio.
“E da dove vieni? Come diavolo hai impiegato questi lunghi anni di assenza? Quale strade hai seguito sul globo terrestre?”.
– Cosa v’importa, specie di funghi? Eravate forse inquieti per me quando ero senza alloggio? quando avevo sete di tutto ciò che fa vivere?…
“Corriamo a vedere lo strano viaggiatore, dirà la gente. E curiosi come le civette miopi mi sbarrerebbero il cammino.
“È bella, non è vero, è veramente bella la Spagna e l’Italia, i prodigi delle arti, delle opere dei grandi maestri, gli immensi musei, i templi magnifici, i circhi, le tombe: Roma, Granada, Madrid, Venezia, Napoli, Alhambra, il Vaticano dei papi!?
“Il mare è molto grande, non è vero? Le Alpi bianche sono alte? L’Olanda è veramente verde? L’Inghilterra è veramente nera? Dicci qualcosa”.
– Leggete ciò nei vostri romanzacci, chiacchieroni a molle! Io non so come questi raccontare con grazia e fare allusioni politiche.
– “Non importa! Ora siamo liberi, veramente Frrrancesi, veramente repubblicani! Puoi dire tutto. La nuova polizia ci permette di cianciare e di cantare: e così ci comportiamo!”.
– Fate quello che volete ma fatelo da soli, borghesi raffreddati, pantofolati, calzati, imbacuccati, bolsi! Chiedete anche per questo la graziosissima autorizzazione dei vostri governanti! Perché, a dire il vero, voi mi uscite da tutti i pori come un sudore di coltello. Mi avete ben compreso?…
– “Ma hai corso per tanto tempo? E ciò non ti è stato utile a nulla? A cosa ti è servito allora tutto il denaro speso dalla tua cara famiglia? Sai bene anche tu che sono delle vere anime battezzate!”.
– Che cosa volete, bei signori così saggi e belle dame così scaltre? Ho la testa dura a quanto sembra. Un turista francese apprenderà certamente molto di più in sei settimane dallo sportello della sua vettura che io in sei anni, fra il popolo di ogni paese.
– “Che imbecille personaggio”, diranno, voltandomi le spalle!
– “Corriamo a vedere lo strano viaggiatore”, dirà la gente. E balzanti, festanti, facendo boccacce, danzando e ridendo si raduneranno davanti alla mia porta.
– “Caro amico, non sei poi molto cambiato! Hai qua e là qualche ruga, qualche capello grigio, ma ciò non si vede per niente. E poi, non si corre il mondo senza divertirsi, eh!? Ti avremmo riconosciuto nella valle di Giosefatte come il nostro buon compagno! In effetti, hai conservato lo stesso viso, le stesse maniere avventate! (Essi diranno). Abbiamo sempre pensato bene di te, i nostri occhi sono stati sempre girati dal tuo lato, ti siamo stati eternamente simpatici. Ah! abbiamo preso certamente parte a tutte le tue pene e non sei mai uscito dal nostro cuore!”. (Essi diranno ancora!).
– Virtuosi ipotecari, onorevolissimi usurai, barbieri, medici e cancellieri, uomini onesti e moderati che avete cari i meloni, le prugne e l’aurora! Vedo con soddisfazione che non siete dimagriti durante la mia assenza, la qual cosa avrebbe alterato considerevolmente l’espressione intelligente delle vostre fisionomie. Ma chi vi ha pregato di occuparvi di me, di lacerarmi a pieni denti, di applaudire a tutto quello che è stato fatto contro la mia libertà, di rendere i miei nemici più accaniti, i miei amici più indifferenti, i miei genitori più soggetti a particolari attenzioni? Chi vi ha pregato di ciò? Non avete abbastanza lavoro nel rubare, far sanguinare e tormentare il povero mondo? Perché non mi lasciate in pace? in pace, perdio! Non ero forse morto secondo le leggi che fanno il vostro onore? Forse una sola volta mi sono occupato del vostro mormorio d’insetti? Che cosa abbiamo in comune, vi prego!...
– “Brutale personaggio”, diranno voltandomi le spalle!
Perché rientrare tra questi provinciali dal ventre gonfio? Quale bisogno c’è di subire i loro ipocriti sguardi, le loro risa d’ippopotamo, le loro eterne digressioni sui grandi interessi locali, i loro apprezzamenti politici, filosofici, teorici, pratici, critici, diplomatici, strategici soprattutto? Come ascoltarli, parlare loro, rispondere loro. Come vivere un solo giorno in mezzo a questi mangiatori, golosi, cantanti da leggio, pescatori di preventivi e di progetti?… No, non direi affatto!
Questa gente s’immagina che un vagabondo come me passi sotto i cieli azzurri per appuntare le sue relazioni di viaggio, scivoli sulle verdi acque per leggere la guida del viaggiatore, si unisca al popolo per descriverne i costumi senza sapere nulla delle sue aspirazioni.
Io contemplo le stelle viventi e la trasparenza dei flutti; mi intrattengo con tutti gli esseri e non voglio disseccarli come ho già fatto con i cadaveri. Se guardo le onde limpide è per tuffarmi. Se amo il prato e l’ombra è per stendermi quanto sono lungo. Se adoro la natura è per non sporcarla d’inchiostro!
Se seguo l’operaio nei suoi lavori e nelle sue feste, non è per insultare la sua dignità, per toccare il suo lavoro con la punta delle mie dita bianche, per descriverlo come un soggetto di storia naturale, una macchina di produzione! No! è per prendere lezioni di perseveranza, di coraggio, di utile sapere e di uguaglianza d’umore; è per sentire la sua mano nella mia, per leggere in fondo ai suoi occhi e al suo bicchiere; è per osservare l’uomo nel solo posto dove si può ancora conoscere.
Anima mia raccogliti sempre davanti all’infinito!
Questa gente, i borghesi della mia zona, mi riceveranno amichevolmente sulla punta delle labbra, mi inviteranno ai loro tè economici, alle loro partite di lingua e di calunnie. Ah! quanto vi amiamo, diranno. E sul colpo, soprattutto le donne, saranno prese da qualche nervosa scimmiottatura. – Un secchio d’acqua fresca, per favore!
Ma, cosa singolare, perché mi guardano in questo modo? Perché fanno cerchio intorno a me? Perché mi indirizzano la parola? – Uomo! sospetta della loro gentilezza. I borghesi sono astuti come faine. Ti parlano, dunque ti ingannano; ti salutano, dunque ti detestano. Questi assiomi sono irrefutabili come quello del più corto cammino per la linea retta.
Sì, sbirciatemi bene, lumaconi. Non vedrete assolutamente nulla; voglio restare impenetrabile a tutti. Vi conosco, dunque vi disprezzo, e vi sfido a sorprendermi. Per farvi vergognare della vostra bruttezza vorrei quasi consentire a condividerla. Siete marionette e marionetta mi vedreste. Vivrei della vostra stupida vita: avrei lo stesso contegno, uguali gesti come i vostri, farei gli stessi saluti; e tuttavia non vi rassomiglierei. Vi perseguiterei, vi ossessionerei dappertutto, come un’ombra, come un incubo. Non è certo stato un giorno fortunato per voi quello della mia nascita!
– “Satanico personaggio”, diranno, voltandomi le spalle!
Se la mia franchezza, la mia estrema selvatichezza, potessero ancora piegarsi alle maniere del bel mondo, vorrei ritornarvi un anno solo. Ciò allo scopo di vendicarmi delle sciocchezze milionarie e legionarie che mi hanno imposto nella mia infanzia. Per essere sprezzante, tracotante, insolente, impertinente con tutti questi valletti! Per far pagare loro lo sdegno in un modo ancora più sanguinoso di quanto non abbia fatto l’uomo di Dicembre! Per dipingerli nel migliore dei modi: paurosi, schiavi, ladri, prevaricatori, mentitori, mangioni, rendendo loro stima per stima, visita per visita e pranzo per pranzo! Allo scopo di fare ridere a più non posso diverse generazioni per più secoli a spese di coloro che hanno gioito dei saturnali del potere, che li hanno incoraggiati, benedetti, pagati, che hanno cinto con la corona d’oro una testa di fanatico illuminata di sangue e di vino!
Cuore mio affaticato! poiché non puoi dilatarti nella stima, restringiti nel disprezzo, il Disprezzo dai capelli di serpente che ti farà sanguinare con mille spaventose ferite!
IX
E non solo le persone, ma anche le cose della tranquilla Borgogna non avranno per te attrattive!
Scorri troppo pacificamente per la mia impazienza, fiume delle valli, tra giunchi e myosotis che rendono belle le tue rive. Ho visto troppi torrenti, grandi laghi, onde salate per piacermi ancora il corso dell’Armançon:
“Un piccolissimo ruscello, scorreva a lato
un gigante assetato lo berrebbe d’un fiato.”
Cosa mi direbbero il martin pescatore, il passero arrampicatore, il picchio dalle ali forti che grida e che vola attorno ai pioppi? Cosa mi direbbero l’ape, il grillo, il tordo vendicatore e il perniciotto camminatore, e il capriolo della foresta?
Niente. Niente la lucertola, il coniglio che lustra i suoi baffi nelle lacrime della notte, né i passeri vandali che si abbattono sui campi di canapa; niente mi direbbero il mio cane e il mio fucile.
Quando godevo di tutto ciò la mia anima non era ancora consumata dagli sfregamenti degli uomini, da sei anni – un intero secolo – di concubinaggio con la mediocrità. – La Mediocrità, la vecchia ragazza magra, rossa di capelli, scura di carnagione, tutta ossa, piena di rughe, di graffi e di denti, sempre affamata, sempre fedele, che tutte le sere mi portava al suo giaciglio abborrito! –
Allora ero semplice, nuovo alla felicità. Ora… ora sarei uno spettro nel mezzo della verde natura! E se andassi a sedermi sull’erba, vicino alle acque, assomiglierei a un cadavere rigettato dalla tempesta che per lungo tempo ne ha fatto oggetto del suo furore!
Spagna. Hasta! Hasta!
Madrid, dicembre 1853
“Behobie! – L’ultimo gendarme, l’ultimo doganiere francese! Le ultime facce di schiavi insolenti, di valletti grossolani, di cani da guardia con baffi e pizzetto tagliati come quelli del loro padrone! – Compagna di viaggio tirate la tendina che non veda più nulla dietro di me. Grazie a dio ho passato la metà del ponte della Bidassoa: non siamo più in Francia!”.
Così dicevo attraversando la frontiera nel mese di novembre del 1853...
E adesso, aggiungevo, respiro la tua aria, il mio cuore batte nel tuo petto, i miei piedi toccano il tuo suolo tre volte benedetto:
Salve, Spagna, salve!
Salve, sentinella spagnola! Mi sono scoperto con rispetto davanti al tuo maestoso pantalone blu cielo! Salve, reale strada spagnola! Sei spaventosa, terribile, ma mi inchino profondamente fino alla tua carreggiata. Salve sierre spoglie, pianure calcificate! Salve visi di bronzo, orgoglio di rame, braccia di ferro, garretti d’acciaio: buoni e gioiosi bambini!
Salve Spagna, salve!
Salve, mayoral, delantero, coperti d’oro e di seta! Arre! Collegiala, Generala, Capitana, Carbonera, Beata, Leona, Vieja, Revieja, e tu, Boticario, re dei caballos! Hasta! Caete, Caete! Colpisci, zagal! Trasportami senza troppi sbalzi, rapido equipaggio della Compagnia Peninsulare! Che io possa rendere fedelmente le mie impressioni di strada!
Salve, Spagna, salve!
Esco dalla Francia-caserma, dalla Francia-convento, dalla Francia-mummia, dalla Francia-tomba! Ho messo fortunatamente fuori pista i molossi guardiani di questo eroico impero. Metto piede su una terra in cui gli stessi governanti sono obbligati a tollerare la gioia. Descrivere la Spagna significa cantare continue feste. Così spero la mia voce risuonerà fresca, viva, animata come quella dell’uccello liberato dalla sua gabbia.
Salve, Spagna, Salve!
Salve, paese in equilibrio tra due mari innamorati, arcobaleno radioso che il sole vivente fa brillare tutti i giorni! Salve, contrada fertile che dà buoni frutti, il grano e a chi vuole abbassarsi l’argento e l’oro! Salve cielo blu scuro dove dormono tante stelle! Salve ai canti, alle danze che non finiscono che per ricominciare!
Salve, Spagna, salve!
Salve! Bilbao, San-Sebastian, Santander, Vigo, La Coruña, porti fiorenti di Cantabria e di Cadice, che ingrandiscono così velocemente! Barche commerciali, voganti, nuotanti, leggere come giovani baschi, intrecciati come loro dalla testa ai piedi, con delle belle frasi negli attrezzi marittimi.
Salve, Spagna, salve!
Salve! Tutti i fanciulli sono poeti: i Pirenei fanno cantare il basco, il guadarrama, il madrileno, il mediterraneo, l’andaluso.
Salve, Spagna, salve!
Salve, nobile terra concepita dall’Europa e dall’Africa in un ardente trasporto. Da lontano sento sulle tue montagne le grandi voci di Riego, di Padilla, di Mina, di Valdes che chiamano i popoli alla libertà.
Salve, Spagna, salve!
Evviva le contrade del mezzogiorno che si bagnano nei flutti del sole, nelle meraviglie dell’arte! Viva l’Oriente, l’Italia, la Spagna! Li amo senza pensarci, io che non amo l’Inghilterra che mi fa violenza. Ogni volta che arrivo in una grande città del Nord: Londra, Parigi, Colonia, la stessa Basilea, mi prende una stretta al cuore. Mentre sono sempre contento passando la puerta de Bilbao en Madrid.
Salve, Spagna, salve!
Los passages
Sotto l’alto cielo di Spagna sempre chiaro, sulle rive della Biscaglia animate dalla tempesta, nel mezzo delle libere e fertili province che costituiscono il Nord della penisola, tra San Giovanni di Luz e San Sebastian, alcune case bianche sono posate sulla groppa di una gran roccia la cui faccia intrepida guarda l’Oceano e tiene testa alla sua rabbia.
Nel corso dei secoli questo bastione naturale è stato vinto, il mare muggente, avido di libertà, l’ha bucato in mille punti con le sue lame erranti. Dalla breccia aperta, come da una finestra, ha sbirciato la terra, l’ha trovata di suo gusto ed è avanzato, si è esteso sulle pianure, ingrandendo ogni giorno la sua porta d’ingresso, formando un lago azzurro davanti al villaggio che sorride al sole. – Questo luogo si chiama Los Passages.
Là il grande Atlantico accarezza teneramente la ferita che ha fatto in un giorno di furore. Là le onde ripetono la loro eterna lamentela alla roccia che l’ascolta con la sua compiacenza eterna. Là la rondine bianca getta il suo grido penetrante che fa arrivare l’uragano. Là le brezze rinfrescanti, le nuvole dei cieli, i ritornelli monotoni dei marinai vi si tuffano in sogni senza fine. Là non sbarcano gli uomini della città tranne quando i loro navigli si trovano in difficoltà. Allora nella baia tranquilla essi trovano un rifugio contro la tormenta, una bella terra dimenticata dalla natura nel mezzo della Civilizzazione.
Quando vi passai era di primo mattino e io cantavo come un fringuello. Mi sorpresi ad amare quella case bianche, questi flutti dorati, questi pescatori baschi in magliette rosse, le loro vecchie barche, le loro donne robuste e i loro bambini abbronzati. Mi dissi che due esseri amanti dovevano per forza essere là nelle lunghe sere di giugno, occupati ad affondare i piedi nel mare e i loro sguardi nei cieli!
E sapevo su che cosa fondavo il mio pensiero...
La corrida a Madrid
Madrid, luglio 1853
Gli animali, secondo la corrispondenza, significano le affezioni,
gli animali utili, le affezioni buone.
Swedenborg
I
Il genio di un popolo si può osservare soltanto nelle grandi manifestazioni della sua vita pubblica. In Francia bisogna vedere una rivoluzione; in Svizzera una festa civica; in Inghilterra una corsa col sacco; in Italia i musei e i teatri pieni di folla; in Spagna la corrida de toros.
Mentre l’uomo si spoglia facilmente del proprio carattere davanti alle esigenze del progresso, la nazione resiste molto di più. Ogni sua festa si collega con profonde radici alle sue tradizioni e alla sue tendenze. Appartenendo a tutti, le solennità nazionali non sono proprietà di una persona precisa; solo il tempo può farne giustizia quando esse sono cadute in disuso. Da ciò deriva che molto tempo dopo che gli usi della vita quotidiana sono stati cancellati, le lingue modificate e i costumi trasformati, le feste del popolo si conservano ancora, come una testimonianza che la storia può consultare e come un culto che la presente generazione accorda a quelle che l’hanno preceduta.
È ciò che accade per la Spagna, trascinata da qualche tempo, a tutta velocità, sulla china rapida della civilizzazione. Mentre il vento della rivoluzione spazza senza pietà i suoi costumi, la sua lingua, le sue abitudini, i suoi canti e le sue danze, le feste tauromatiche invece si conservano ancora molto brillanti.
In effetti, tutto il carattere spagnolo si trova là. La corrida è il più grande godimento, mille volte più preziosa al cuore del popolo di tutte le preoccupazioni politiche che esso disdegna, dei balli, del teatro e delle preoccupazioni religiose che si pongono appena al secondo posto nelle sue più care distrazioni.
Per assistervi l’operaio non mangia un’intera giornata, vende i suoi abiti, fa digiunare la famiglia, dimentica tutto. La più feroce virtù non sa resistere all’attrazione di un biglietto offerto gratuitamente. Il più vecchio vi si fa portare e la madre vi conduce i bambini dal momento che si reggono in piedi. Quel giorno non ci sono interessi, affari, amicizia o piaceri che tengono; per quattro ore secondo quanto dura la funzione, sembra che il cuore della capitale si ritiri dal suo centro per andare a battere con tutta la sua forza in un’arena all’estremità dei sobborghi.
Il vero re di questo paese è l’uomo che sa meglio di tutti affondare la lunga spada tra le spalle della bestia; il vero trono è il cadavere di un toro. Ai matador famosi, a Montes, Cuchares e Chiclanero vanno le simpatie del pubblico, i favori dell’opinione, i sentimenti più teneri, omaggi reali e nomi che i posteri ripeteranno quando avranno perduto la memoria di tutti gli altri.
Sono convinto che il mezzo più sicuro per sollevare una rivoluzione in Spagna sia quello di proibire le corride dei tori. Questo popolo sopporterà tutto: la miseria, la fame, il colera, sette anni di guerra civile atroce, commozioni e prove senza fine. Ma disgrazia al governo che porterà la mano sui piaceri e il lusso che sono l’anima della sua vita!
Bisogna comunque convenire, per quanto si possa essere avversari di questi divertimenti sanguinari, che nessun altro spettacolo al mondo può dare un’idea della magnificenza di una corrida di tori nella molto eroica capitale di tutte le Spagne; nessun’altra cosa può fare nascere nell’anima umana emozioni più forti, più terribili. Il grande genio di Shakespeare non riuscirebbe ad immaginare un dramma più complicato.
II
Ascoltate e vedete! Le trombette suonano. L’eccellentissimo ayuntamiento occupa, nel mezzo dell’arena una tribuna riservata che espone i colori spagnoli, oro e porpora. L’arena è immensa. Glorioso Anfitrione delle feste del mezzogiorno, il sole scintilla sugli anfiteatri che rigurgitano di spettatori. Nemmeno un posto vuoto, nemmeno una faccia triste. Che lusso! Che profusione di colori brillanti sui vestiti della festa! Che parasoli e ventagli graziosamente mossi! Quanti frutti d’oro nelle mani dei fanciulli! Quanta seta, quanti diamanti, quanto bianco e scarlatto!
È un’impazienza, un delirio, un entusiasmo, un tuono di esclamazioni brucianti, una gioia, una follia che non si trova in nessun altro posto; è la frenesia. La febbre percorre questo recinto più rapidamente della scossa elettrica. Chi potrebbe raccontare le conversazioni, i proverbi, i frizzi lanciati a caso, a proposito di tutti i dettagli seri o insignificanti di questo dramma?
Per tentarlo bisognerebbe sentirsi animati da una certa verve castigliana così piena di ironia e ben centrata; bisognerebbe possedere una scienza tauromachica. Soprattutto bisognerebbe essere iniziati a tutti i segreti di questa lingua così espressiva, così elegante, così ricca, così soffice e musicale che sembra non se ne possano parlare altre una volta che la si è sentita risuonare tra i denti bianchi delle ragazze di Madrid. Bisognerebbe vivere, sentire, amare come questo popolo fiero, nello stesso tempo il più sobrio e il più artistico di tutti quelli che l’Europa nutre nel suo seno fecondo.
Lascio agli scrittori dominati da un ristretto amor proprio nazionale di risollevare l’oziosa ed eterna discussione che dovrebbe decidere della superiorità della Spagna o della Francia. Queste rivalità hanno fatto il loro tempo, esse sono per lo meno ridicole nel mezzo alle nazioni che cercano di unirsi. Non hanno più interesse oggi che i costumi e le lingue si confondono, che gli uomini corrispondono da un capo all’altro del mondo, grazie alle scoperte del secolo, alle incessanti relazioni commerciali e industriali, al gran numero e alla rapidità delle vie di trasporto.
Per me, gitano del socialismo, figlio della Francia per nascita, ma figlio dell’umanità per gli atti, io penso che non vi sia popolo superiore, inferiore o eguale ad un altro; ma che tutti sono differenti e che l’armonia dell’insieme risulta dalle diversità. Se esistesse una nazione che non fosse diversa dalle sue sorelle, essa non avrebbe né genio né ragione di esistere; sarebbe inutile e condannata, perché i popoli inutili non vivono.
Oh! per il coraggio, lo spirito, le arti e l’amore è una grande patria questa terra di fuoco dove combatté il Cid, dove Cervantes pensò, dove dipinse Murillo, dove Byron concepì l’idea del più immortale dei suoi poemi! Che i suoi figli ne siano fieri, essi non hanno nulla da invidiare agli altri!
III
Ma perché tutta questa pompa? Perché la calle d’Alcala rigurgita di folla, di militari, di cavalieri e di vetture, come nei giorni della rivoluzione? Perché questo apparato da grandi cerimonie?
Involontariamente lo spirito si riporta a quei tornei medievali dove la lancia si spezzava contro la lancia, dove il nobile cavaliere cercava tra le grandi dame la bellezza che portava i suoi colori. Oppure il pensiero vola ad uno di quegli scontri a singolar tenzone in cui dio pronunciava il proprio giudizio tra due illustri campioni.
Purtroppo! nulla di tutto questo; si tratta soltanto di un compito da mattatoio. In questa lotta, una decina di macellai ammazzeranno un povero animale, e dio sarà dal lato dei colpevoli. Quanto a questi piccoli borghesi vestiti da castellani, essi vi apparterrebbero, come tanti altri, se potreste pagarli. Qui il ruolo migliore è quello del bruto: tutti gli esseri umani riuniti in questo recinto sono più feroci del toro che sta per morire.
IV
La fanfara scoppia di nuovo. Due alguaziles vestiti di nero si avanzano sopra dei corsieri d’Andalusia, si scoprono e s’inchinano davanti ai membri della municipalità. Che cosa chiedono? Il permesso d’introdurre nell’arena la laida Morte di cui portano i colori.
Come una muta di cani senza museruola al seguito degli alguaziles, sfila la banda sanguinaria. Questi uomini sono vestiti con i più ricchi costumi spagnoli, alcuni portano su di se più di duemila franchi di seta, di velluto, di pagliuzze d’oro e di argento.
Ecco i matador pieni di sangue freddo, i banderilleros agili, i picadores sopra ronzini scheletrici e veloci come il lampo. Ecco le mule con le stoffe fluttuanti e le loro mille bubbole risuonanti. Poi vengono i conduttori che si sforzano di trattenerle e infine la massa dei toreri confusi con i mastini avidi di sangue. – Tutti hanno premura e bruciano della voglia di ammazzare.
Infine le chiavi del toril sono date agli alguaziles; tutte le formalità legali sono compiute perché l’uomo possa in tutta coscienza cominciare ad uccidere. I torero si disperdono nell’arena, agitando pezzi di stoffa scarlatta, speronando i cavalli, aspettando il nemico.
V
Una porta si apre. Eccolo! Eccolo! È il toro. In un salto l’animale è nel mezzo dell’arena...
Mille grida l’accolgono: “Com’è grande! Com’è forte! Com’è bella la sua pelle! Un buon toro! Un toro da battaglia!”. – Si ripete il suo nome e il nome dell’allevatore e quello degli animali della stessa razza che si difesero validamente. – Gli si mostra il pugno, lo si arringa, lo si fischia, lo si provoca: voci di odio e di morte lo perseguono. In questa folla immensa non c’è una donna né un bambino che verserebbero una lagrima per salvare la vita della povera bestia, che volontariamente si priverebbero dello spettacolo della sua morte.
L’animale si è fermato. Si meraviglia, abituato com’è a correre libero nelle praterie, di trovarsi solo in mezzo a tanti uomini riuniti in uno spazio così stretto. Ascolta confuso tutti quei rumori; aspira l’aria carica di elettricità, di caldo e profumi; le sue orecchie si drizzano, le sue narici sono apertissime, si batte i fianchi con la coda.
E poi, a poco a poco, si irrita a causa di tutte quelle esclamazioni furiose, di quei colori sgargianti e del suono straziante degli strumenti di rame. Freme sui suoi forti garretti, gli occhi rossi di sangue fa volare la polvere con gli zoccoli anteriori.
Attenzione, attenzione! Infelice chi attaccherà!
Perché fuggite toreri avidi di diventare famosi? Perché saltate dietro la barriera e non lo aspettate? Adesso sarebbe glorioso farlo inginocchiare davanti al vostro valore.
Il nobile animale è degno di voi. Chiedete ai rudi pastori che lo custodivano sui bordi della Guadiana se indietreggiava davanti all’uomo; domandate se è vigliacco se mai rivale poté avvicinarsi alla sua bianca innamorata.
Essi non l’attaccano. Davanti ai suoi piedi biforcuti spiegano qualche stoffa brillante per eccitarlo e sapere quello che vuole fare. Come uno sciame di mosche multicolore essi turbinano attorno all’animale, lo pressano da ogni lato, lo punzecchiano davanti e di dietro avanzano, rinculano e fuggono quando si sentono minacciati.
VI
Nel frattempo il picador ha bendato gli occhi del proprio cavallo e lo sperona senza tregua per portarlo di fronte al toro.
Ahora! Ahora! L’animale rincula di un passo, si chiude in se stesso, si slancia sul gruppo vivente. Ma l’uomo è ben in sella e il legno della picca è molto solido. Il toro cede; ha sentito il ferro mordergli il collo.
Il primo sangue scorre. Furioso il toro balza sugli stracci che gli presentano. Uomini e bestie si animano fino alla rabbia.
Ahora! Ahora! Di nuovo gli avversari si scontrano, di nuovo l’animale si slancia sull’uomo, una seconda volta scorre il sangue. Ma la picca si spezza nella mano del cavaliere, uomo e cavallo sono sollevati con un colpo di corna e il toro fruga nella carne viva.
Tutti sono in piedi, tutti tendono il collo e aprono la bocca. Gli uomini applaudono; le donne giudicano opportuno lanciare grida strazianti. – Com’è bello, com’è sublime, questa è della vera emozione, abiti strappati, ferite e sventramenti! Senza dubbio morirà un uomo: non c’è una buona corrida senza che ciò accada.
Ma no! tutto si aggiusta. Il toro smette di colpire prima che le donne siano stanche di guardare. Il corsiero sfugge, galoppando sulle proprie budella, marcando il passaggio con una striscia di sangue. Il picador, bardato di ferro si è rimesso pesantemente sui suoi piedi; gli si conduce la sua cavalcatura, la farà andare fino alla morte.
Due volte, tre volte ancora il toro si slancia sui cavalli. Ogni volta è ferito, ogni volta affonda fino alla radice le sue corna nei loro fianchi: ogni volta l’arena risuona di clamori appassionati.
Qua e là, senza briglia, un cavallo si dibatte nelle convulsioni dell’agonia.
VII
Si aguzzano i ferri delle banderillas, si decorano con carte colorate, si immergono in polvere da sparo!
Ahora! Ahora! Questa volta sono gli uomini che corrono davanti al toro, che lo chiamano, e questo piomba su di loro, fuggendo gli affondano nel collo due dardi gemelli.
Il toro urla e si torce su se stesso scuotendo il ferro e il fuoco. L’impressione della sofferenza è penetrata fino al suo cuore, tutte le sue membra sono scosse; la schiuma esce dalle narici; salta in tutte le direzioni radendo con le corna i petti dei torero che passano veloci come frecce.
Chi dirà i suoi trasporti di furore e i suoi istinti di vendetta? Chi dirà le passioni assassine da cui è spinto?
“Che vogliono da me questi uomini? Che gli ho fatto, e perché mi straziano così? Che cosa ho in comune con loro? Quando finirà questo supplizio? – Che fare? Vendere a caro prezzo la mia vita, abbattermi sul gruppo più compatto e uccidere tutti al mio passaggio senza contare i nemici?”.
È quello che vuol fare il toro; lotterà fino a quando sarà abbattuto. Ma i suoi assalitori sono inafferrabili; quando li avvicina essi fuggono lasciandogli i loro dardi per ricordo.
Ansante, stanco, rantolante di dolore, irto di frecce e tutto coperto di sangue, il toro fa il giro della barriera, cercando di scuoterla con la testa o di saltarla d’un balzo.
Oh! gli uomini, i vigliacchi, dicono che gli animali non hanno un’anima! Ed eccoli che rispondono agli ultimi muggiti della bestia con lunghi scoppi di risa! Eccoli, più barbari delle fiere, che la respingono a colpi di bastone dal recinto dove si è rifugiata per morire!
De muerte! De muerte! Mai il toro è uscito vivo dalle arene spagnole. Qui credono che la pietà disonori.
VIII
Il tamburo rimbomba come un convoglio funebre. Un uomo si avanza davanti i magistrati. Nella sua mano sinistra tiene un pezzo di stoffa scarlatta tesa su di una lunga spada. Alza la mano destra per prestare questo spaventoso giuramento: “Io ucciderò questa bestia feroce per la regina Isabella II, o questa bestia feroce mi ucciderà: lo giuro davanti a dio!”.
Ma se il dio che tu prendi a testimonio fosse giusto, imbecille matador, tu moriresti!
Molti uomini vanteranno il coraggio e il sangue freddo di questo famoso macellaio, molte donne si appenderanno al suo collo taurino, molta gente celebrerà il suo facile trionfo. Io dico che il suo portamento e la sua faccia sono ignobili; dico che egli va a commettere un atto infame e che è altrettanto ributtante del carnefice.
Guardate piuttosto questa fronte bassa e stretta, questi zigomi sporgenti, questo cranio depresso e sfuggente, questi piccoli occhi infossati nelle orbite; guardate e ditemi se questa bestiale organizzazione potrebbe avere altro che sete di sangue, stupida vanità e istinti feroci.
L’atroce giuramento è prestato, il corregidor l’ha ricevuto, pieno di deferenza. Adesso l’espada è più di lui, più del re, più del vero carnefice, è tutto ciò che si rispetta sulla terra.
Il matador ha gettato la moña sulla sua testa. Adesso avanza nell’arena presentando al toro pieno di rabbia la sua sciarpa rossa. L’animale si slancia. Diverse volte l’uomo lo evita attirando il suo impatto sulla muleta risplendente. Infine, approfittando del momento in cui il toro abbassa la testa gli attraversa il petto.
Il colpo è stato buono; gli organi essenziali della vita sono stati colpiti; il sangue sfugge a fiotti di schiuma dai denti dell’animale. Il toro fa ancora qualche passo piegandosi sui garretti come se fosse ubriaco. Poi fiuta il suolo come se cercasse un posto dove riposare in pace, dà un muggito straziante, si accascia su se stesso e muore... Il vincitore pulisce la sua spada.
Urlate fanfare! Che si suoni l’hallali! Gloria al gran Montes! Per lui gli applausi, i sigari e i fiori! Per lui i sorrisi delle donne graziose! Lunga vita alla lunga spada!
IX
Restano le vittime da portare via. Di già l’insaziabile pubblico chiede altri sacrifici. L’orchestra diffonde sulla folla torrenti di allegria. Sento le campane delle mule che sono portate a piccoli passi presso il primo cavallo morto. Si passa la corda attorno al suo collo.
Hasta! Hasta! Le fruste vibranti risuonano, i colori nazionali fluttuano sulla quadriga che si precipita al galoppo dalla porta principale dell’arena.
Hasta! Hasta! Il toro esce per ultimo; eliminate le tracce di sangue che lascia, scomparso anche l’ultimo segno della sua presenza. Adesso l’arena è pulita, tutto è a posto. Ma la coscienza degli uomini conserva il ricordo dei delitti molto più a lungo della sabbia.
X
Se tutto si fermasse là. Invece no; quando l’uomo ha lasciato per una volta invadere la sua anima dagli appetiti del bruto, egli mette della logica nella sua ferocia e quasi del genio nelle torture che infligge.
Vi sono dei tori, – il numero è ristretto, – che si rifiutano di attaccare il cavallo, sia perché il loro umore del momento non è battagliero, sia perché portano un buon ricordo dell’animale che pascolava con loro.
Questi sono i vigliacchi: cobardes! cobardes! E muoiono della morte dei vigliacchi, de la muerte ignominiosa!
Volenti o nolenti bisogna che essi lottino e che ne consegua la morte.
Sette otto bulldog sono scatenati nell’arena. Essi corrono contro il toro, lo assalgono alcuni alla gola, altri ai fianchi, altri ai garretti. La maggior parte guidati da un sicuro istinto passa tra le sue gambe di dietro e lo strazia alle sorgenti stesse della forza e della vita.
È un dolore spaventoso. Fuori di sé il toro getta in aria due o tre cani, li sventra quando ricadono, poi cade vinto dal numero. Allora arriva un uomo che gli affonda l’espada tra le ultime costole e lo stende morto.
Esiste una tortura ancora più spaventosa. Bisogna esservi stati testimoni per farsi un’idea della barbarie dell’uomo spinta fino al delirio.
Quando l’espada non arriva a sacrificare il toro tanto presto da soddisfare l’impazienza generale, si alza un grido, dapprima qua e là, lanciato dagli afecionados più scrupolosi: la media-luna! la media-luna!
– La media-luna è una specie di lunga falce curva tagliente nella parte concava.
A poco a poco il clamore ingrossa e diventa sinistro, immenso, imperioso. Il corregidor finisce per cedere ai reclami del pubblico e i torero, confusi della loro impotenza, devono ubbidire all’ordine che ricevono.
D’un colpo l’animale è piegato. Non gli restano che tre gambe. Ma anche così mutilato fa ancora faccia al nemico.
Si accascia di nuovo. Due volte, tre volte ancora colpito dalla falce nelle articolazioni spezzate.
E tuttavia ecco la nobile bestia che si trascina sul moncherino e si difende valorosamente.
Niente irrita più l’uomo che la contemplazione della propria vergogna. Fin quando quel toro non sarà uscito dall’arena il matador vi vedrà la causa del proprio disonore.
“Che lo si finisca”, grido anch’io. Questo macello è di quelli di cui non si può sopportare la vista.
Ancora un rullo di morte! È la volta del cachetero. – Qui ogni scena d’assassinio è una specialità che deve essere eseguita da un abile attore. – L’uomo nero sale sul dorso del toro; con mano ferma gli pianta tra le due prime vertebre una lama stretta con la quale non si colpisce mai due volte.
Quando si è visto ciò si può vedere di tutto!
XI
In questo secolo di decente materialismo, in cui le più ingloriose tirannie e le più fastidiose mode hanno forza di legge grazie all’apatia generale, vi sono abiti che non si possono portare e sentimenti che sarebbe ridicolo fare conoscere quando si sono concepiti.
Che un uomo si atteggi a tribuno nel recinto di un’assemblea; ciò si vede tutti i giorni, è originale ma parlamentare. Che acquisti un’influenza nella pubblica piazza ancora lo si tollera; si tratta di una posizione temibile che dà diritto agli omaggi di una paurosa borghesia. In questo ruolo l’ambizione trova il suo interesse; si trascina un partito dietro di sé, prima o poi simili abnegazioni trovano la loro ricompensa.
Che ci si inscriva per l’emancipazione del sesso debole, è galante e alla moda; i prodi falansteriani sono gente di mondo e, grazie a dio, vi sono ancora delle bellissime donne che sanno essere riconoscenti. Che ci si interessi alla sorte dei bambini, e allora si può invocare il padronato di S. Vincenzo da Paola che li raccoglie, del signor Dupin che fa ridurre le loro ore di lavoro e del signor Carnot che ha sempre delle buone intenzioni liberali per la riforma dell’istruzione pubblica.
Ma che si faccia appello alla sentimentalità degli uomini a favore delle bestie più grosse e più selvagge, che si abbiano simpatie per le sofferenze di un toro; per fare ciò bisogna essere privi di senso comune come il povero Jean-Jacques o le società filobestie di Londra.
– Per quanto mi riguarda ho sempre disprezzato l’opinione generale, questo tiranno dalle mille teste che i più umili non disarmeranno mai. Sempre mi è sembrato che non avere il pubblico contro di sé rende colpevoli delle sue ingiustizie. E se qualche volta l’ho consultato non è stato per mendicare i suoi favori ma per procurarmi le emozioni di cui avevo bisogno. Non lo nasconderò oggi più di quanto abbia fatto in passato.
Io sono diverso dagli altri e sarebbe desiderabile che quello che dico non sembri pretenzioso o inverosimile. È tempo infine che gli uomini non si rispecchino sul glorioso modello che si chiama saper vivere, opinione moderata, uso, convenienza… o che so io.
Io simpatizzo per il toro; è bestia, ma è giusto. Io rivendico per lui perché non parla la nostra lingua, perché possiamo affermare che non comprendiamo i suoi muggiti di dolore. Mentre l’uomo che soffre può alzare le braccia, mentre la donna e il bambino possono intenerire con i loro singhiozzi, per cui è impossibile che i lamenti umani non siano compresi in quanto umani.
In ogni caso non mi si accuserà d’ambizione, perché essendosi l’uomo aggiudicato in virtù del diritto divino il dominio sugli animali, tutti gli effetti del mio intrigo non potrebbero elevarmi ad una più eminente dignità.
XII
Non amo scrivere di cose che non conosco. E siccome volevo scrivere sulle corride di tori, ne ho dovuto vedere parecchie durante il mio soggiorno in Spagna.
Ebbene! tutte le volte che sono uscito dall’arena ero molto seccato di avere aumentato il numero dei curiosi e ho considerato quei giorni tra i peggio impiegati della mia vita. Perché ho sempre pagato queste ore di emozione con sogni spaventosi in cui vedevo cavalli sventrati, cani che si dibattevano in aria, uomini morti e tori amputati.
Certamente se io provo questi sentimenti significa che essi sono umani, perché sono nato da donna e molti altri li avranno sentiti come me. E quand’anche fossi il solo a sentirli vorrei esprimerli lo stesso.
Domando soltanto cosa vi sia di straordinario che un uomo, le cui impressioni non siano state falsate dall’abitudine, si chieda vedendo una corrida di tori:
“Sì, sono feste splendide, e questo popolo ha il genio delle grandi pompe! Sì, questi uomini sono temerari, queste donne incantatrici e la gioia dei fanciulli è contagiosa. Sì, questi costumi sono brillanti, quest’arena immensa, questo sole radioso, questa folla entusiasmante e felice!
“Ma è tutto là? Queste grandi qualità sono dirette verso uno scopo che si possa approvare? Io rispondo di no”.
No, non è una buona cosa abituare i fanciulli a questi spettacoli, non è buono far loro toccare con le dita le viscere fumanti che sporcano la sabbia insanguinata.
L’odore del sangue inebria e questa ebbrezza è follia. Quando un uomo arriva a sacrificare un animale senza riflettere, senza rimorsi, si abitua ben presto a fare poco caso alla vita nel suo insieme. Colui che si è abituato a maneggiare la spada pesante troverà più tardi molto leggero il coltello nella propria mano.
Si dice che le corride dei tori mantengono l’energia del carattere spagnolo, la sua indomabile foga, l’odio potente contro ogni forma di dominio straniero che batté nel petto di Viriate e nelle donne di Saragozza l’indomita.
Non è così. Ne passa tra l’audacia vanitosa di un istrione da circo e il freddo coraggio, l’eterna resistenza di un Pelagio o di un Padilla.
Il primo sa a che cosa si espone, conosce il terreno dove cammina. Il colpo che dà oggi lo riporterà domani e se è abile nell’arte di uccidere, morirà tranquillamente nel suo letto. I secondi, al contrario, affrontano ogni giorno nuovi pericoli; le ferite, la disgrazia e l’assassinio li seguono; la loro testa è messa in gioco nella ruota della Fortuna la cui rotazione dà le vertigini, che alza, abbassa e scortica tutto ciò che trascina.
E poi chi sarebbe così stupido da paragonare l’uomo salariato che uccide animali che non gli hanno fatto nulla a colui che combatte per il proprio paese oppresso?
Nelle arene spagnole si prendono lezioni di meschino interesse e di crudeltà; non vi si apprende il patriottismo e la sublime ambizione. È nelle arene che i migliori d’Iberia convertirono il proprio coraggio in quella specie di empio furore che poi spiegarono nelle ultime guerre civili.
Non vi fanno orrore questi soldati che amputano uomini come lo fu Abelardo, che tagliano le teste dei bambini, che fucilano le donne, che gettano vecchi ai cani e inseguono Mina, Torrejos e Valdes come bestie selvagge? Non fremete alla lettura di queste rappresaglie sempre ingiuste, sempre atroci e sempre rinascenti? Vi piace la Spagna di Isabella la grande e Carlo V retrocedente verso la barbarie e la carneficina in questo modo? E non c’è un uomo tra coloro che hanno fatto questa esecrabile guerra che domanda perdono a dio nelle sue preghiere di ogni sera.
Ecco cosa producono i giochi dell’arena. Il sangue chiama sangue. È funesto per l’uomo giocare con la vita di cui non conosce l’essenza. Se le esecuzioni dei tori sono necessarie per mantenere il coraggio in Spagna, allora disgrazia su di essa! La vista di uno spettacolo barbaro ha sempre fatto nascere istinti detestabili.
Ma non è così; vi sono troppe gloriose tradizioni in questa terra ardente, troppa forza nelle braccia e passione nei cuori perché gli Spagnoli abbiano bisogno di apprendere il valore alle scuole di tauromachia.
XIII
Dopo tutto la Guerra, la nobile guerra, la guerra brillante e rinomata, ricca di sangue e di bottino, è forse altra cosa di una lotta da circo avente la terra per arena e per tori gli uomini di cui i despoti sfruttano la demenza e la vanità? Una vecchia Minerva che ancora oggi l’Europa civilizzata incensa e ammira, consunta dal vino, smagrita dalla carneficina, che si torce disperata su uno scudo arrugginito!
Che senso hanno difatti questi tronconi mutilati che popolano gli ospedali degli invalidi di tutte la nazioni, disgraziati strumenti di un’ambizione gigantesca? Che senso hanno i settari ignoranti di una tradizione feroce, gli imbecilli adoratori di emblemi che raffigurano il sangue, gli idolatri del cappello frigio e del tricorno imperiale davanti ai quali la Francia voleva fare inginocchiare i popoli?
Certo, i nostri padri furono grandi e audaci quando pensarono di aprire la strada della Libertà col ferro del terrore! Essi seppero pagare le loro false opinioni con la propria testa e non spetta a nessuno dubitare della sincerità di uomini che muoiono per la propria fede. Certo, i popoli coalizzati contro la Francia furono ammirevoli anche per patriottismo e pazienza, quando per ventidue anni difesero le proprie frontiere contro la furia della nostra ambizione uscendo vincitori da questa lotta di Titani!
Ma lasciamo alla storia, la becchina del passato, la cura di rendere giustizia alle morte generazioni. Che faccia la parte della fatalità, della coscienza, dell’ignoranza dei tempi, della buona volontà degli uomini, dell’amore di Patria e della dedizione alla Rivoluzione.
Sia lodata la pace. Siamo lontani da quei tempi di volontaria carneficina. Che il suolo d’Europa venga pulito da ogni sua traccia. Pionieri dell’avvenire storniamo gli sguardi dal sangue e non ci facciamo spingere dall’odore dei cadaveri verso esecrabili rappresaglie.
La scienza cammina. Accanita nella sua lotta contro dio, l’Umanità raggiunge rapidamente le altezze che la condurranno fino al suo trono, essa si dirige nell’aria, devia i torrenti, scarica le nuvole, oscura i fulmini. Non indietreggerà mai…
Nella prosperità come nella sfortuna i cittadini di tutti i paesi si sono dati la mano. Tra la Spagna e la Francia i Pirenei si sono abbassati, non per l’alleanza dei re ma per quella degli uomini. I privilegiati allo stesso modo dei proscritti delle due nazioni sono solidali; alla fine hanno compreso che non si tratta di fissare dei limiti tra i popoli, ma diritti tra gli individui. Nello stesso tempo in cui la guerra internazionale diventa impossibile, si generalizza la guerra civile. Non vi saranno lotte decisive in avvenire che tra la Reazione e la Rivoluzione universali.
So bene, e per primo l’ho anche scritto, che al Nord vi è una nazione che non ragiona in questo modo e alla cui invasione le altre non potranno resistere. Ma la guerra degli imperatori non sarà che un incidente nella grande lotta sociale; dal momento che la Russia si confonderà con i popoli d’Occidente, la loro vita diventerà la sua vita, le loro polemiche e i loro interessi le sue polemiche e i suoi interessi. Anch’essa spinta dagli imperiosi bisogni del suo organismo s’impegnerà nella guerra civile, la guerra per il pane e la libertà, e sotto la sua mano selvaggia la vecchia Civilizzazione salterà in aria.
XIV
Amo vedere combattere due animali di uguale forza, quando arricciano il pelo e sollevano i fianchi, quando si precipitano l’uno contro l’altro superbi di corruccio. La natura ha dato loro le stesse armi, lo stesso coraggio e le stesse astuzie; tra di loro le possibilità sono uguali. Questo spettacolo mi emoziona senza sollevare in me l’impaziente collera che prova ogni uomo giunto davanti a una lotta ineguale in cui uno dei rivali è sicuro di vincere e l’altro di morire.
Lo confesso, può essere cinicamente, ma nelle corride spagnole tutte le mie simpatie sono per i cavalli e per il toro, tutto il mio odio per l’uomo. Io non soffro quando il provocatore di questa carneficina è ferito, e piango quando il cavallo trascina dietro di sé le proprie viscere, quando il toro vomita la sua anima guerriera con fiotti di sangue.
Sono animali, dite voi, sono destinati ai sacrifici e ogni giorno i macellai li abbattono e li tagliano per soddisfare i bisogni della nostra esistenza.
Purtroppo ciò è vero! La scienza dell’uomo non ha ancora trovato il mezzo di risparmiare la carne saporosa delle bestie e quindi le sue mani sono sporche del generoso liquore della vita. Ma il tempo è un gran maestro; il seno della terra è sempre fecondo, e la nostra intelligenza perseverante se non altro. Sono vicini i giorni in cui la nostra costituzione sarà talmente modificata che i vegetali potranno formare la base del nostro nutrimento. La nostra specie si rimpicciolisce nel corpo ma diventa più grande nello spirito man mano che la cultura eleva, abbellisce, fortifica le piante e versa al loro interno succhi più animalizzati. Il nostro regime è più vegetale di quello delle generazioni che ci hanno preceduto, e di già si discute seriamente dappertutto l’opportunità della temperanza e la compassione per gli animali. Ogni concezione arriva al momento giusto, quella che ci occupa commuove l’Inghilterra e denuncia una irreversibile tendenza del secolo.
Se non vedremo queste epoche fortunate e se siamo obbligati a massacrare per vivere, cerchiamo almeno di liberare le nostre vittime da inutili sofferenze. Soprattutto non gioiamo tagliando i loro muscoli, segando le loro ossa mentre sono ancora vivi. Non cerchiamo di persuaderci che non soffrono mentre muoiono sotto il coltello, il piombo o la mazza, quando invece si dibattono e gemono nelle convulsioni supreme. Non abusiamo più a lungo della nostra crudeltà.
Che si alzi davanti a noi il fantasma della morte coi capelli incollati sulle tempie, spingendo gli agnelli al mattatoio e gli ostaggi dei campi di battaglia sotto la canna del fucile. Che il nostro genio si applichi quindi a scoprire processi che rendano la morte meno penosa agli animali. Sappiamo di già esentare l’uomo dai dolori delle grandi operazioni, perché non estendere questo beneficio alle bestie che immoliamo? Ciò costerebbe di più in tempo e denaro, ma acquisteremmo a questo prezzo la pace della coscienza.
XV
Quando la cura della nostra conservazione esige che ingoiamo animali non siamo certo liberi di non farlo; abbiamo ancora muscoli rossi e denti da carnivori. Ma quando questi sacrifici servono solo ai nostri piaceri, non esitiamo a sopprimerli. Il paganesimo immolava per i suoi dèi anche esseri umani, così gli uomini cadevano sotto il suo coltello sacro. Tutto ciò non esiste più; lo stesso sarà per le corride dei tori.
Non saprei dire quanto mi fanno male queste crudeltà inutili. Io sono chirurgo, posso senza emozione tagliare la gamba di un uomo che spero di salvare, ma non posso vedere ammazzare un animale senza una grande tristezza.
Si ripete che la vita di qualche toro non può paragonarsi con le gioie che la loro morte procura a tutto il popolo. Domando a mia volta se queste gioie siano naturali; – se la prima volta che i fanciulli sono testimoni di queste scene barbare non si mettono a piangere; – se non sono necessari tutti gli insegnamenti dei loro genitori, il rispetto umano e l’abitudine per far loro superare il disgusto; – ed infine se è vantaggioso combattere ripugnanze così istintive?…
Ci si scusa per altro con ragioni che si sanno infondate. Si pretende che il toro non soffra per niente in quanto non può prevedere la sorte che l’attende e che solo l’apprensione della morte sia terrificante.
Che ne sapete delle ultime angosce degli animali? Avete tenuto nelle vostre mani una pernice ferita, avete visto gli uccelli piccolissimi snidati da un fanciullo crudele, avete avuto modo di fermarvi davanti al mattatoio quando i pastori vi fanno entrare le loro greggi?… Non vi è sembrato che tutti questi esseri fossero annientati dalla paura della morte? Non tremavano forse? Non lanciavano lamenti, avvertiti da un istinto che non inganna mai?
Con tutti i suoi studi e la sua filosofia che cosa sa l’uomo della morte più degli animali? Prevede la sua venuta molto tempo prima? Può scongiurarla? Non la teme come tutti gli altri esseri del mondo, lui che dovrebbe invece vedere in essa una fonte inesauribile di vigore e di fecondità?
Egli pretende che gli animali non hanno anima. Chi glielo ha detto? Parlano forse la sua lingua? Comprende forse la loro? Chi ha mai potuto intrattenersi con loro e conoscere l’idea che si fanno dell’uomo, della natura e di se stessi? Chi potrebbe dire quanta poesia vi sia nel canto di un usignolo nella notte, quanto amore nel tubare della tortorella, quanta tenerezza nei lamenti della capinera privata dei suoi piccoli, quanta fedeltà negli urli del cane perduto, quanto valore nel ruggito del leone, e quanto coraggio nel grido della rondine marina? Siamo iniziati ai misteri che l’aquila apprende al di là delle nuvole, ai segreti che il suo occhio superbo legge nel disco bollente del sole?
Nel suo orgoglio di autocrate l’uomo si pone in un mondo superiore ai mondi conosciuti, si isola dagli animali, e sotto il pretesto che essi non comprendono, rifiuta loro ogni libera partecipazione ai suoi lavori, ai suoi pensieri. Ma lui li comprende forse di più per distruggere le loro opere e la loro esistenza secondo come gli piace? A simili iniquità egli non pretende di essere trascinato dal suo diritto ma dalla sete di dominio e dall’orribile necessità del vivere della morte degli esseri, necessità contraria alla giustizia e che la scoperta dovrà fare sparire ben presto.
La vita è sacra dappertutto. Essa descrive attraverso i mondi un’immensa spirale che comincia con la pietra e si ferma all’uomo; – almeno per quanto sappiamo fino a questo momento. – Vi fu un tempo in cui il marmo era capolavoro della creazione. Tempo verrà in cui l’uomo conterà sopra la sua testa ben altre sfere d’esistenza. Conosce egli quando si completerà la catena delle trasformazioni universali di cui è un semplice anello? Potrebbe affermare che un giorno terminerà?…
Che l’uomo sia l’ultimo nato tra gli animali; che egli abbia la facoltà di riflettere e di comparare i suoi atti; che possa migliorare la sua sorte e vivere secondo le leggi dell’equità; che la sua organizzazione sia la meno incompleta tra tutte: ciò mi sembra vero. Ma sarebbe meglio guardare più da vicino la fraternità che regna tra di noi prima di dichiararci assolutamente soddisfatti del nobile uso che facciamo della nostra natura d’élite.
Ma arrivare da una superiorità così problematica alla conclusione che sia nostro diritto e nostro interesse distruggere gli animali, disboscare le montagne, disseccare i corsi d’acqua, sterilizzare la terra, rendere insalubri i climi e sostituire la morte, l’uniformità, il vuoto e il deserto all’abbondanza, alla fertilità, al troppo pieno, alla vita che la natura semina sotto i nostri passi: ecco cosa è falso e ciò su cui si compiace l’orgoglio dell’uomo che diventa in questo modo la prima vittima del suo stesso vandalismo:
Non ci priviamo delle risorse che ci possono salvaguardare; non giriamo contro di noi l’arma così pericolosa dell’industria; non alteriamo l’ordine delle cose se non quando i nostri bisogni lo esigono imperiosamente e solo quando abbiamo delle nuove scoperte da mettere al posto delle rovine che accumuliamo ogni giorno intorno a noi.
È veramente uno spettacolo ridicolo vedere l’uomo forte fare continue rivoluzioni contro i suoi re e poi basarsi sull’impero assoluto che gli è stato dato sugli animali per sacrificarli senza discernimento e senza pietà.
“Assassino contro natura, se ti ostini a sostenere che essa ti ha fatto per divorare i tuoi simili, esseri di carne e d’ossa, sensibili e viventi come te, respingi dunque l’orrore che ti ispirano questi spaventosi pasti. Uccidi gli animali da te stesso e con le tue proprie mani, senza ferri, senza coltelli, dilaniali con le tue unghie come fanno i leoni e gli orsi, mordi questo bue e fallo a pezzi, affonda le tue grinfie nella sua pelle, mangia vivo questo agnello, divora le sue carni ancora calde, bevi la sua anima assieme al suo sangue. Fremi? non osi sentire palpitare sotto i tuoi denti una carne viva. Uomo tu fai pena! Uccidi l’animale e poi lo mangi, ciò significa come ucciderlo due volte. Ma non ti basta, la carne morta ti ripugna, le tue viscere non possono sopportarla, bisogna trasformarla col fuoco, bollirla, arrostirla, condirla con droghe che la mascherino; ti bisognano salumieri, cucinieri, arrostitori, gente di ogni tipo per attenuare l’orrore dell’assassinio e abbigliare dei corpi morti al fine che il senso del gusto ingannato da questi mascheramenti non rigetti ciò che gli è estraneo e accetti con piacere cadaveri che l’occhio stesso ha pena a sopportarne la vista”. Così diceva Jean-Jacques.
Vi è in me stesso un sentimento innato di giustizia che i pregiudizi ricevuti dall’uso esasperano ancora di più. Mi immagino l’uomo spoglio dei mezzi di dominio che ha conquistato sulla natura; lo vedo nudo, senza armi, senza il soccorso di animali domestici. Una nuova rivoluzione si è operata nell’universo, una razza superiore si è sostituita alla nostra; l’uomo occupa soltanto il secondo posto tra gli esseri. In questa ipotesi tutto è razionale in quanto le razze si succedono come le generazioni, in quanto nulla nel tempo e nello spazio si sottrae alla forza trasformatrice.
Allora, se gli spettatori sanguinari esistono sempre, sarà la volta dell’uomo di figurare nelle arene come i tori che noi vediamo oggi. Allora il re dell’universo detronizzato si ricorderà del suo impero e si pentirà della crudeltà che espia così duramente. Pertanto, dato che egli è mosso solo dal proprio interesse, che rifletta sul fatto che un giorno sarà soppiantato da esseri meno imperfetti e che servirà nei loro lavori e nei loro piaceri!
XVI
Che l’uomo insegua il bufalo nelle savane, che getti il forte laccio tra le sue gambe agili, che attacchi alle sue corna dei rami di alloro e lo porti in trionfo nella sua casa. Che ne faccia il compagno dei suoi lavori, senza eccedere nella fatica, che non lo mutili e che sappia eccitarlo in modo diverso che con cattivi trattamenti e che si mostri riconoscente verso di lui per le ricchezze che il suo lavoro fa nascere.
Allora l’animale, trattato con bontà, diventerà più robusto e più buono; ai tesori dell’uomo esso aggiungerà ogni anno la sue giovani generazioni; ben curato, godente di una tranquilla sorte, non rimpiangerà la sussistenza precaria che a mala pena trovava nello stato selvaggio. Senza mostrarsi barbaro l’uomo avrà acquistato dal destino un alleato che gli è indispensabile.
Che si lascino dei tori in mezzo all’immensa pianura, che degli arditi cavalieri li inseguano e li blocchino; che queste corse siano seguite da un gran numero di amatori: sarei molto contento di simili lotte che mettono in rilievo la destrezza, l’agilità, il sangue freddo dell’uomo e le astuzie naturali dei tori.
Che la corsa seguente mostri gli stessi animali meno nemici dell’uomo, meno indomabili e io celebrerò l’ascendente che esercita il nostro genio sulla selvatichezza del bruto.
Più tardi li si attacchi a due a due a dei carretti di legno di quercia, li si faccia scavare un solco nella buona terra, e sarò fiero delle capacità e della perseveranza dei miei simili.
Che si rivestano due tori di scarlatto, che si introduca una bella giovenca nel recinto che essi percorrono; che essi si eccitino, si misurino con lo sguardo e si accaniscano l’uno contro l’altro; e sarei felice di attendere la conclusione della lotta piena di incertezza.
Che i pegadores portoghesi, vestiti di rosso, si slancino risolutamente alla testa del toro, che l’arrestino sostenendosi alle sue corna spuntate; io ammirerei il loro coraggio e la loro forza.
Ma che a ogni costo non si versi più sangue, che non si rivolti più la nostra coscienza con queste vigliacche carneficine dove, più barbaro della bestia, l’uomo avanza contro di essa sicuro di ucciderla. Sarebbe esasperante per il nostro buon senso e la nostra immaginazione pensare che non siamo capaci di trovare altri spettacoli più grandiosi, più ricchi e meno rattristanti di questo.
Che si interrompano tutte le forme di corride di tori simili a quelle di oggi. La Spagna non sarà né meno grande né meno gloriosa. Non ha le sue danze nazionali così affascinanti che soltanto a vederle le ore fuggono come secondi? Non ha i suoi canti popolari, il suo inno di Riego, le sue poesie, i suoi romanceros, il suo teatro? Non raccoglie a Nord i prodotti dell’Europa e a Mezzogiorno quelli dell’Africa? Non è stata cullata tra gli oceani e i cieli con la sua verde cintura di oliveti, le sue ragazze brune, i suoi giovani nervosi, i suoi corsieri eleganti, i frutti dell’aranceto, i fiori del granato? Quali ricchezze di fecondità, di succo e di sole risplenderebbero sulla sua esistenza!
XVII
Mi rappresento la Spagna così favorita dalla natura, così voluttuosa, così grande per le sue pompe, dopo una rivoluzione che non incatenerà più lo slancio delle passioni umane.
Allora la mano del popolo farà giustizia di questi recinti troppo stretti dove il privilegio racchiude per sé solo i capolavori e le cerimonie che sono di tutti. Allora biblioteche, teatri, musei, circhi, chiese e monumenti pubblici saranno convertiti in veri bazar artistici accessibili alla folla. Ognuno vi si potrà istruire e divertire. I libri, i dipinti, le statue e le orchestre saranno diffusi a profusione. Che teatri, che scenari! Che processioni musicali e danzanti! Che cori immensi! Che armonia, che entusiasmo nel mezzo di questo popolo così profondamente ammiratore del bello! Che luci, che splendore, che lusso! Che vigore e che gioia nelle giovani generazioni! Che feste accompagneranno, precederanno e seguiranno il lavoro messo in rapporto con le attrazioni più diverse!
Allora lo studio sarà ricompensato, sostenuto e incoraggiato dappertutto perché la scienza e il lavoro contribuiscono alla felicità di tutti. Allora non si vedranno più giovani autori morire di miseria all’ospedale e poveri attori suicidarsi per essere stati fischiati da un uditorio di borghesi. Allora gli artisti saranno pieni di gloria e di onori e occuperanno nella società il posto che loro appartiene. Allora i giovani lavoreranno con passione per farsi una reputazione che risuoni nel mondo. Allora le vocazioni più differenti saranno riconosciute e rispettate e non le si schiaccerà più come si fa oggi. Allora i grandi talenti, a migliaia, continueranno l’opera di gloria nazionale, cominciata da Cervantes, Lope de Vega, [Pedro] Calderón de la Barca, [Bartolomé Esteban] Murillo, [Leandro Fernández de] Moratín, [Pedro] Berruguete, Velasquez e Garcia.
E quando questo popolo avrà gustato queste gioie, quando saprà quali ricchezze vengono prodotte dall’associazione degli interessi, dall’attrazione per il lavoro, dalla produzione e dal consumo liberi di ostacoli, dalla diversità delle funzioni e dalla giustizia nella ripartizione dei beni comuni; quando tutto ciò sarà là, proponetegli di andare a vedere il meschino spettacolo di una corrida di tori o di una processione religiosa, cercate di appassionarlo per un matador o per una reliquia. Allora le corride avranno fatto il loro tempo e le ardenti immaginazioni meridionali non saranno più obbligate ad esaurirsi sulle figure mistiche che il cattolicesimo presenta loro e che esse cercano di animare a forza di poesia e di amore.
XVIII
L’assassinio, di qualsiasi specie sia, testimonia una profonda divisione tra gli esseri. Ciò non accade nella natura; qui dipende da una cattiva organizzazione generale i cui effetti nascono, ingrandiscono e sono abbattuti in un sol colpo.
Se si guarda più da vicino ci si convince che le corride dei tori sono in via di decadenza e che sono minacciate da una prossima scomparsa malgrado tutto il lusso che ancora spiegano. Allo stesso modo sotto i suoi splendidi orpelli la civiltà nasconde la sua miseria e l’imminenza della sua rovina.
Di già la scienza della tauromachia è tacciata di barbarie e di ridicolo. Di già il giornalismo l’attacca per l’immoralità. Di già molti Spagnoli hanno fondato sulle loro letture e sui loro viaggi una ragionata avversione per simili massacri. Di già le donne non osano più confessarsi aficionadas come per il passato, ciò potrebbe far dubitare del loro sentimento. Di già, sintomi ben più gravi, una sola corrida per settimana è sufficiente alle esigenze della popolazione e i buoni matador mancano.
Oggi non è tanto il desiderio di vedere uccidere che attira la gente alla funcion, ma l’inoccupazione, la curiosità, la magnificenza dello spettacolo, la presenza delle donne, il movimento e il rumore. Soltanto i Castigliani di vecchio ceppo si appassionano completamente alla lotta, la giudicano, la seguono da un capo all’altro con attenzione scrupolosa e si mostrano inesorabili per gli errori commessi. Ma le vecchie generazioni muoiono e non sono più rimpiazzate da loro simili, esse portano i vecchi divertimenti nelle tombe mute.
La forma si armonizza con il fondamento. Spesso una profonda modificazione nei costumi è generata da una semplice riforma nelle mode. Ciò si nota soprattutto presso i simpatici popoli del Mezzogiorno. Imprigionando la sua testa bruna nel tubo di stufa britannico e la sua taglia forte nell’abito borghese, la Spagna ha preso l’impegno di adottare i costumi regolari del bottegaio europeo. Da quel giorno essa ha spuntato la sua grande spada da combattimento. Qualche anno dopo essa ha avuto gli ippodromi, i teatri italiani e francesi, i caffè, i concerti, i balli altrettanto fastosi di quelli delle altre nazioni civili. È la gioventù che ha portato i suoi divertimenti dall’estero, che ha messo tutto il suo amor proprio per renderli popolari, che vive di attività, di speranza, d’amore e d’avvenire.
Si può affermare che le nostre feste siano generali, grandiose, animate e gioiose come quelle dei nostri antenati? Che non dobbiamo rimpiangere le distrazioni che li rendevano felici? Certamente no. Noi viviamo tristi, mesti, filosofi, parsimoniosi e impregnati di un endemico spleen; nel nostro cuore c’è un ferro che ci rode e ci intristisce. Siamo uomini della transizione posti tra le società del passato che erano meno divorate dai bisogni e le società dell’avvenire che saranno più ricche di risorse.
Ma bisogna essere quello che si è. Una voce imperiosa spinge l’umanità sulla sua strada seminata di rovi e la fa camminare fino all’esaurimento, fino alla morte. Avanti dunque, e periscano le corride dei tori, come i toreri, le arene, le battaglie e tutti quei giochi che fanno ruscellare il sangue!
XIX
Matador, carnefice, uccisore di bestie, assassino d’amore, insieme di muscoli, di ossa e di sangue che sogni ricami d’argento e d’oro! Non ti parlerò di sensibilità, di crudeltà, dell’universo, dei rapporti degli esseri tra loro, dei diritti dell’uomo e di quelli dell’animale, del principio della tua esistenza e della loro. Tu non sai nulla di tutto ciò, il tuo mestiere è di distruggere per vivere!
Esiste un terribile proverbio, ripetuto in tutte le Spagne: il miglior torero è il toro. Ecco ciò che è vero, ecco ciò che dovrebbe andare fino in fondo alla tua anima volgare. I più abili sono caduti nell’arena, come loro finirai con un colpo di corna.
E questo pubblico che ti fischia, che ti applaude, ti paga e ti considera come un suo giocattolo, questo stesso pubblico è contento della tua morte perché gli fornirà un’emozione ancora più forte delle altre.
Cammina per adesso, raddrizzati nella bruciante arena: tu sei venduto! Quando il gladiatore combatteva nel circo, quando la vergine cristiana spirava sotto gli artigli della tigre, almeno l’amore della patria, dell’indipendenza o della religione santificava la loro morte. Ma tu, carne comprata, tu morirai come il toro dei tuoi sacrifici, senza un rimpianto, senza una lacrima!
Ah! se senti nel tuo petto battere il cuore di un uomo, se vi passa col sangue un nervo, un soffio divino, un raggio di tenerezza, getta questo costume d’istrione, getta lontano da te questa spada sanguinante, inizia qualche buona professione che ti renda utile ai tuoi simili e non consumare più le tue forze a distruggere quello che non sapresti rifare.
Presidenti degli ayuntamientos di Spagna smettete d’incoraggiare e di autorizzare con la vostra presenza simili carneficine. Se la nazione vi dà il mandato imperativo di presenziarvi, se ciò fa parte necessariamente del vostro incarico: rifiutatelo! Si inganna il popolo e ci si inganna, dato che si tratta di una riunione di uomini tutti soggetti ad errore. Ma ogni magistratura cessa di essere onorevole se assume attribuzioni contro le quali la giustizia si ribella. Il colmo della malizia umana è di umiliare i suoi governanti fino a renderli complici dei suoi atti e dei suoi capricci più mostruosi e ciò fa applaudendoli.
E voi, figlie di questa terra immortale, donne dal portamento slanciato, dagli agili movimenti, dai lunghi capelli neri, dagli sguardi pieni di fuoco: tenerezze selvagge, orgogli ribelli, civetterie spontanee, i vostri fieri ardori non saprebbero scatenarsi altro che alla vista del sangue? Non amate di più vedere un uomo baciare il vostro piccolo piede che un toro mordere la polvere? Le vostre mani non saprebbero meglio tendere una scala di seta che applaudire al momento giusto ai colpi di stocco di un matador? E queste veementi esclamazioni che sprecate nelle arene non sarebbe meglio usarle per l’amante che vi muore tra le braccia? Tutto ciò è possibile, tutto ciò è benedetto, tutto ciò ci eleva per un istante da questo soggiorno di dolore per trasportarci nei cieli!
L’amore consola, fa più grandi, migliora. L’insensibilità vanitosa fa più agri, rimpicciolisce e ci appiattisce la testa come quella del serpente. La donna appassionata comunica al suo amante una nuova vita. La donna insensibile scoppia a ridere quando il toro muore. L’amore è pieno di lotte, di pericoli e di ostacoli che lo rendono caro a tutti i cuori generosi. Il macello dei tori è vigliaccheria ed è privo di pericoli imprevisti. Donne, angeli guardiani dell’umanità, amate la vita e non andate a vedere coloro che sanno soltanto uccidere.
Così la donna, così la nazione. Disgrazia ai paesi in cui le più nobili ragazze si sentono attirate dalle forme atletiche di un matador! Disgrazia ai paesi in cui le donne preferiscono le emozioni sanguinose ai profondi affetti della vita di ogni giorno! Ogni uomo sembrerà loro disprezzabile, piccolo e indegno se non avrà la ferocia del macellaio, gli abiti brillanti, anelli alle dita, una spada nella mano e lo sguardo di una maledetta fissità. Che queste donne adorino uno spadaccino, un artigliere, un valletto, un Vitellio, un cavallo come la reale Pasifae; che si chiudano insieme a dei caproni! Questi animali possono sostituire gli uomini, hanno tutti gli attributi del vigore e della bellezza che loro cercano.
Ma delle strette di mano, dei lunghi sospiri nei quali due anime si scambiano, dello spirito, del colpo di fulmine, del vero, eterno dio delle illusioni e dei sogni, degli amori che attraversano i tempi e i mondi, che si ritrovano da secolo a secolo e da sfera a sfera, sempre più grandi, più eterei e più soavi: no! non parlate di tutto ciò alle donne a cui la vista dei matador accende la carne e il sangue!
Consento a veder morire ancora un toro, ma che trascini con lui l’ultimo dei toreador e che non si facciano più corride da un capo all’altro della Penisola!
El Prado
Madrid, luglio 1853
L’aquila che plana sulle acque aspira a un’altra aria
e guarda, inquieta, il vecchio Oceano.
Lo stesso l’uomo che si trova in mezzo alla folla dove ha pochi amici.
Il canto supremo – Poesia d’Islanda
I
Questa sera, come tutte le altre, il firmamento indosserà il suo più bel vestito azzurro, le stelle si accalcheranno nei cieli, la folla mi stancherà col suo anonimo rumore e la luna abbaglierà i miei occhi come un vero sole.
Ma fino all’arrivo di queste ore di riposo il frumento brucia nel solco, il cielo è brillante come piombo fuso, le bestie dei campi urlano di sete, la cicala grida al fuoco, il legno si spacca, il succo si guasta, la sabbia e la polvere s’abbracciano e la vergine vigna muore sotto i trasporti del sole. Nel Manzanares scorre appena un filo d’acqua per piangere la sterilità delle sue sponde. Il fiore si china sui ruscelli e dal fondo degli abissi la terra spaccata grida: acqua, acqua!
Inesorabile matrigna, natura avara, sarai sorda alle preghiere del lavoratore, ai muggiti dei tori, alla disperazione degli uccelli e delle piante? Non ascolterai la mia voce?
Respiro zolfo e brace. Darei la mia vita per una goccia di pioggia, per un rombo di tuono. Vento onnipotente non puoi rompere le tue catene? Uragani e tempeste non sentite questa pioggia di fuoco?
Felici i pescatori che vivono tra i flutti! Felice l’inglese, il norvegese dagli occhi blu, tutti gli uomini biondi che lavorano sotto i cieli scuri! Qui il cranio è vuoto, il pensiero difficile, il sonno interdetto, il braccio senza forza; qui il cuore aggranchito quasi fallisce.
Quando sfogliavo le prime pagine del libro dell’esistenza, quando le sfogliavo con la stessa avidità dello studente che percorre l’introduzione dell’opera che più tardi maledirà, quando ero bambino, mai avrei creduto che ci si potesse stancare delle carezze del sole.
Mai avrei pensato che si potessero indirizzare alla natura questi amari rimproveri: tu sei sempre troppo bella, troppo adorna, cortigiana senza pudore, avida degli elogi del pubblico. Prendi il lutto perché sono triste e sono il solo che ti sa amare. Più presto, fai imbiancare più presto i tuoi capelli, rendi tenera la mia pupilla e tu stessa, per finire, chinati, chinati sui tuoi vulcani in fiamme! Così ci abbracceremo nel seno della morte! A che servono infatti la mia gioventù e la mia bellezza?… L’esiliato non è di questo mondo.
Fanciullo avrei considerato insensato chi mi avesse tenuto simile linguaggio. Ed ora che sono uomo non so rimproverarlo.
Oh! fatica, bambina addormentata che ti stropicci gli occhi come se fossero pieni di sabbia, che ti impigli col vestito a tutte le spine del mio cammino. Fatica, come sei pesante da portare dietro!
II
Noi vediamo gli oggetti al microscopio dei nostri sentimenti intimi. Il dolore legittima la bestemmia. Quando la nostra anima è triste, le gioie dell’universo non saprebbero strapparci un sorriso, esse non servono che ad irritarci.
Così dirò: ad ogni clima i suoi frutti. Che la canuta noia resti nell’Inghilterra brumosa, essa non ha bisogno di sole, di feste e di consolazioni. – Che viene a fare qui?
Da cinque anni la Noia mi perseguita, la Solitudine dorme al mio fianco, la Mediocrità mi colpisce l’anima a colpi di spillo. Imparo ogni giorno a maledire; il mio occhio e il mio pensiero si abituano a leggere alla luce attenuata, nelle tenebre che un tempo mi spaventavano.
Allo stesso modo in cui la pupilla degli uccelli ciechi si dilata nella notte, così l’anima dell’uomo si distende nelle avversità. Non sono gioioso, amo i paesaggi tristi. Mi si mostrino le coste dell’umida Bretagna, le insenature lacerate della Svezia, le steppe della Russia, i deserti, le tombe, le chiese, una esecuzione a morte, il colera, la carestia... ma non il gran sole, il sole glorioso!
Devo confessarlo? Mi sorprendo spesso a rimpiangere le nebbie di Londra, le nuvole che sfiorano i tetti con le loro lingue grigie, la casa di mattoni affumicati, la finestra senza orizzonti, la povera camera di lavoro.
Almeno là potevo agevolmente carezzare le mie ferite. Là gli altri e la gente non sono curiosi. Confortabili partigiani della libertà at home, si guarderebbero bene dal gioire in pubblico o di disturbare, nell’esecuzione dei suoi progetti, l’eccentrico insulare che abbia deciso di tagliarsi la gola per liberarsi dalla pena di farsi la barba.
Mentre che a Madrid tutto brilla d’un chiarore che stanca, mentre gli Spagnoli mettono in mostra la gioia e un lusso impudenti quanto quelli dell’eterno nei cieli. Ah! siano maledetti i paesi del sole! Maledette le loro beltà e le loro magnificenze, maledetta la gaiezza dei loro abitanti!
… Così parlavo camminando quando al mio fianco una voce fresca e divertita mi disse: Chi si lamenta che la natura sia troppo bella nelle belle Castiglie? Senza dubbio uno straniero, un uomo dal fegato grosso e dall’occhio di lontra! – Forse señorita! ma che possiate non provare mai quello che provo io! E con ciò, vaya V. M. con dios, andate con dio!
III
Tuttavia quella voce mi strappò dal mio sogno. Ero al Prado, al Prado di Madrid, la passeggiata fantasmagorica così agognata dai parigini.
Qui il pubblico si attende forse una qualche descrizione del tipo corrente in Francia, uno di quei racconti che ogni giorno gli servono i giornalisti che viaggiano a sue spese.
Niente di simile si troverà in queste pagine e per diversi motivi. Il primo è che i romanzieri francesi, i più ingegnosi degli uomini, hanno detto troppe menzogne su questo argomento. Il secondo è che io non sono più Francese e tengo a provarlo. Il terzo, che mi dispenserà da tutti gli altri, è che il Prado non ha qualità. – No, veramente, non più della barriera della Chopinette. –
Sento i lamenti dei più intrepidi lettori della “Revue des Deux-Mondes”: “ma è una abominevole eresia, è un sacrilegio sostenere un paradosso del genere! Tutti sanno, noi che non abbiamo visitato la Spagna sappiamo da fonte sicura che si trova al Prado una collezione estremamente varia di hidalgos, di toreador, di contrabbandieri, di mantiglie, di mulattieri, di nacchere e di sombreros. Sappiamo che sotto i balconi si sentono suonare le chitarre e i mandolini; che due fra le più grandi strade del mondo conducono a questo Eden incantato; che vi splendono i migliori vestiti; che le danze locali si sviluppano al soffio della brezza; che gli alberi sono verdi, la luna pallida, il cielo blu, le stelle brillanti. E sappiamo molte altre cose ancora che non si dicono davanti alle signore. – Queste sono le convinzioni che si fondano sulla più notevole autorità, quella che fa la nostra gloria agli occhi dell’universo letterario”.
Stimabili abbonati, conservate le vostre convinzioni, divorate nelle serate letterarie gli illustri scrittori che vi preparano cose ancora più ridicole. Quanto a me, in espiazione dei miei peccati, ho camminato molto a lungo al Prado tanto vantato da tutti e non ho visto altro che una chiassosa parodia degli Champs-Elysées.
Di tanto in tanto qualche mantiglia, nessuna veste di raso, nessuna serenata, nemmeno il minimo bolero. La danzatrice, l’asturiano, l’elegantone, gli ultimi spagnoli dei romanzi muoiono su questo terreno calpestato dagli stivali imitati alla foggia britannica.
Soltanto due volte all’anno, quando la vile multitude invade la piazza, ricacciando con la sua gioia la piatta calca della gente di buon aspetto, due volte all’anno soltanto, a carnevale e nelle vervenas si possono ancora trovare al Prado i costumi castigliani. Ma bisogna sbrigarsi a vederli perché spariscono ogni giorno di più.
A Madrid, come dappertutto, ho vissuto tra i lavoratori, perché amo l’uomo la cui lingua è pigra e il braccio diligente; amo colui che non ha pensieri doppi, doppia parola, doppia faccia, e due tavole, due bicchieri e due strette di mano; colui che riconosce gli amici nell’avversità come nella fortuna; colui che non calcola, non si risparmia, non nasconde, non ruba; colui che vive alla grande nella sua povera sfera; colui che si veste, canta e danza secondo come vuole la natura. Solo questi sono Spagnoli, gli altri sono scimmie. Ciò che si può imparare ad osservarli non vale la pena di vederlo.
Le passeggiate delle capitali si rassomigliano tutte. Non voglio dire che sia uguale dappertutto la configurazione del terreno. Ognuno sa che a Londra c’è una grande strada molto regolare, a Vienna un giardino inglese, a Parigi un grande viale, a Madrid una passeggiata senza ombre.
Ma in una passeggiata le caratteristiche del suolo sono faccende accessorie. Ciò che bisogna osservare sono i passeggiatori, questi attori senza brio che ripetono ogni sera il breve ruolo che domani reciteranno sulla scena del mondo. Ora, da questo punto di vista il Prado non differisce per nulla dalle altre passeggiate borghesi.
Venite a vedere coloro se credete il contrario. Ciò non riguarda i signori Gauthier, Dumas e altri burloni che vi comunicano impressioni di viaggio raccolte in qualche giorno dalle finestre del loro albergo, intimamente persuasi che non andrete a verificare le loro asserzioni mentitrici.
IV
Ecco cosa si trova al Prado, niente di più e niente di meno:
Polvere e folla; – guardie municipali che si chiamano civili, cosa a cui non credo; poliziotti e stradini. – Vetture pressate l’una sull’altra che passeggiano la finanza, la nobiltà, la fama e l’ozio della classe dominante tutte le Spagne. – Due magnifiche fontane che potrebbero avere acqua, sulle quali rantola l’infortunato Nettuno come un pesce sulla paglia, e Cibele, la nostra madre divina, che tira fuori la lingua quanto è lunga come una lupa sterile e ardente al gioco d’amore. Vi vedrete ancora molti cavalli inglesi, ma nemmeno uno andaluso perché questi sono più graziosi ma infinitamente più cari.
Qualche pallido becco di gas scintilla su migliaia di teste esteriormente curate con un’attenzione che testimonia molto di più a favore dei parrucchieri che dei gesuiti incaricati dell’istruzione pubblica. I corpi che sopportano queste teste ricciute si accalcano in un viale lungo circa cinquecento passi, largo dieci e cocente, soffocante, che fa svenire con un calore di trentasei gradi e tutto in nome della suprema gloria della Civilizzazione.
È questa calca, questa polvere, questo sudore, questo borbottio indescrivibile che si è convenuto di chiamare il Prado. Al di fuori di questo salotto di gusto compito e di belle maniere, dove la gente come si deve lotta a colpi di saluti e di repliche sorridenti, soltanto lo spazio volgare, la luna meschina e l’aria vagabonda sono abbandonate alla plebe delle Castiglie.
Niente di più! Al Prado polveroso affluisce la sera, da tutte le parti della città, questa società monotona e cerimoniosa che si incontra in tutti i paesi e che, annoiata dal lavoro d’ufficio, viene a fare là un poco di movimento. Vi si sbrigano alleanze, intrighi e affari più o meno loschi. La madre vi cerca un partito per la figlia; docile alle lezioni materne, la figlia risponde con aria indifferente alle stupide cerimonie che le vengono indirizzate. L’anziana signorina si affatica in sforzi disperati per far valere le sue grazie di seconda freschezza. La donna maritata si china tristemente sul braccio coniugale. Lo sposo bonario sogna le prossime emozioni del glorioso dominio. La semi-virtù tormenta la pupilla. Il collegiale si crede il punto di riferimento del sesso incantatore. L’ufficiale trascina la sua grande spada, muove militarmente le anche e cerca un grano di sabbia che possa risuonare sui suoi brillanti speroni. Gli hidalgos passeggiano in bande numerose, sigari in bocca, bastoni nella mano, correndo sdegnosamente alle conquiste venali.
– Povera gioventù spagnola, come tutte le altre atrofizzata nel cuore, depressa nell’intelligenza! Si crede virile perché porta i baffi bruni e ha visi abbronzati. È finita così miseramente la razza del Cid? –
Quanti vestiti con strascico, belletti, merletti, piume bianche, abiti blu con bottoni di rame! Quanti ventagli graziosamente agitati! Quanti piccoli piedi stretti come preziose piante in un giardino reale! Quante mani bianche, colli slanciati, seni tentatori, fianchi voluttuosi! Quanti risi forzati, parole inutili, complimenti ipocriti apprezzati nel loro giusto valore! Nemmeno una falda di cappello che supera le altre, nemmeno una figura di donna che non sia stata distorta a forza di braccia prima di affrontare gli sguardi del pubblico!
Per brillare un istante in questo teatro così piccolo, molte persone hanno digiunato per diversi giorni! Quante privazioni è costato questo fiammeggiante avana fumato preziosamente! Quante pulizie ha subito questo paio di guanti! Quanti calcoli economici sono stati necessari per diventare proprietari di questi ciondoli! Quante impazienze per la posa corretta di questo falso-collo e per la piega irreprensibile di questo pantalone!
– Ho sempre vivamente desiderato di rendermi conto, per esame diretto, della quantità di cervello che può contenere una qualsiasi di queste scatole di futilità che essi chiamano teste. Ma con che mezzo procurarsi un borghese morto?! Oggi si sfugge alla dissezione, come alle altre miserie, con i soldi. All’anfiteatro degli ospedali il borghese è sconosciuto, come il coniglio della Garonne sulle tavole tradizionali degli avvelenatori del Quartiere Latino. –
Mio dio! se potesse pensare, quanta vergogna avrebbe di sé questa società parsimoniosa e mendicante, in cui l’abito si compra a spese dello stomaco. Imbecilli, stringete lo stomaco per comprare il fieno al cavallo che vi romperà il collo! Strisciate tutto il giorno per raddrizzarvi la domenica in una vettura d’affitto! Che le vostre mogli si mostrino nude ai vegliardi affinché questi abbiano pietà e coprano di seta le loro miserie senza pudore.
Marionette viventi! vedete quest’uomo disteso in una fossa; vale molto più di voi, perché è fiero. Dovunque il sogno lo culla, egli si allunga; dovunque il sonno lo prende, egli s’addormenta. Quando passate vicino alla sua augusta persona in stracci, egli continua tranquillamente ad avvolgere il suo tabacco in un pezzo di carta e a guardare il vostro vestito senza mai girare gli occhi. Vi disprezza e ne ha diritto. Sono per lui lo spazio, le praterie, le foreste, le danze nazionali sotto il fuoco del sole. I suoi movimenti sono liberi, i suoi abiti e la sua pelle non temono le rudi carezze del clima del Mezzogiorno. Egli è figlio della natura e voi siete figli della Civilizzazione del diciannovesimo secolo, stretta di sentimenti come di abiti.
Borghesia! razza prostituta, va a gettare imposte e corone sulla strada dei re, consuma i tuoi ginocchi nelle loro anticamere, nel lastrico delle chiese; menti, prega, curvati, miserabile venduta che non credi né a dio né al Diavolo, e sputi sulla faccia di Cristo appena ti si getta un soldo!
V
Terra del fuoco, patria degli amori e delle gelosie che uccidono, Spagna amata dal cielo: di tutti i paesi del mondo quello che l’artista rimpiange di più! Tu scomparirai sotto l’inevitabile stretta della rivoluzione!
Che le tue indomite sierre chinino la fronte sotto le rotaie di ferro; che le tue superbe figlie si umilino sotto i baci infami della prostituzione; che i tuoi corsieri dai lunghi crini, i tuoi tori muggenti e i tuoi frutti di porpora siano consegnati a tutte le bramosie sui mercati dell’universo!
È necessario. Fra qualche anno sarà scomparso tutto ciò che resta della Spagna. Fanciulli, i vostri brillanti vestiti saranno strappati dal soffio della moda. Madrid la battagliera, Madrid la gioiosa, prigione di Francesco I, rimorso di Napoleone, tu diventerai come le tue sorelle dell’Occidente, un covo di mercanti che venderanno la tua gloria, il tuo onore e il tuo nome. Ardente Andalusia, danzerai gravemente sulle tue nacchere rotte e il Guadalquivir non sentirà più risuonare sulle rive i divini accordi del fandango!
Rompi le corde della chitarra, vecchia Spagna! Piangi sull’oro delle Americhe, sui tuoi monaci pii, su Domenico di Guzman, il santo fondatore della Santa Hermandad, su Carlo V il padrone del mondo, su Filippo II, l’uomo bilioso e su Torquemada suo amabile compare! Piangi il tuo teatro, i tuoi cavalieri erranti e le tue vergini brune! Ancora piena di vita eccoti condannata a morte, rattrappita nelle ceneri della tua gloriosa tradizione.
È la legge del Progresso. Che il suo pesante livello si abbassi rapidamente su di te. Dal seno della morte raggiungi giorni più potenti di quelli del tempo celebre della tua storia! – E felici coloro che vivranno per vederti!
VI
Per altri sono intrecciati i crini dei neri corsieri, per altri le belle ragazze arricciano i capelli, per altri risuonano le feste notturne. Per altri scoppietta il generoso Jerez, per altri è calzato il grazioso piede delle streghe di Siviglia. Qui, come altrove, sono di troppo.
L’esiliato non è di questo mondo.
Sotto cieli splendidi un misantropo orgoglio mi bastava; bambino di vent’anni ero orgoglioso d’essere più saggio degli anziani. A Londra tutta la notte mi riscaldavo contro la griglia del caminetto, la testa sulla pagina che marchiava con un ferro rovente le spalle borghesi. Febbricitante cantavo:
L’esiliato non è di questo mondo.
Oggi, scrivo che la vita è la ricerca della felicità, e ne sono alterato...
E ne sono alterato. E quando sotto i balconi freme la serenata, soffio di dispetto, mi vesto e la seguo. E volentieri raccoglierei la polvere che porta l’impronta d’una scarpetta di seta. E così mi consolo.
L’esiliato non è di questo mondo.
Ieri ero filosofo, oggi sono saggio. Ieri consumavo la vita sui libri e sui cadaveri, oggi ho il sigaro alle labbra e sogni di felicità in testa. Soltanto sogni!
L’esiliato non è di questo mondo.
Oggi sono veramente saggio, mille volte di più dei compilatori di biblioteche, dei rivoluzionari della tradizione e dei bigotti del socialismo, tutti questi scarafaggi pedanti che fanno detestare lo studio, la libertà, l’amore. Amo la scienza e la Rivoluzione, ma mi avvicino a loro solo quando il mio cuore trasale di allegrezza. Lavoro senza addolorarmi: è la cosa che mi manca di meno.
L’esiliato non è di questo mondo.
Se fossi ricco e potente, avrei palazzi di cristallo, farei bagni di latte e fumi d’incenso, mi riposerei su fiori d’arancio, monterei corsieri focosi e farei risuonare i boschi col concerto delle mie mute. Uri e baccanti mi verserebbero il Cipro bruciante in coppe dorate. Scrivendo vorrei essere circondato da tutte le meraviglie del lusso e delle arti. Alle porte della mia regale dimora alzerei a Fourier e ad Epicuro statue di diamanti la cui nudità farebbe arrossire i falansteriani ufficiali.
L’esiliato non è di questo mondo.
E indirizzandomi agli uomini scriverei:
“Nella prima età del mondo, sul trono più alto della terra sedeva un gran monarca. Il suo nome era Sardanapalo. Mai giovane guerriero o vecchio filosofo possedettero come lui la scienza della vita. I vostri padri lo lasciarono detronizzare da un prete artificiale e da un brutale soldato. Se fossi vissuto in quell’epoca avrei difeso il regno di Sardanapalo”.
“Figli d’Adamo! dopo diecimila anni che le vostre generazioni lavorano la terra con fatica, non avete vissuto un solo giorno. Se vi piace soffrire, cessate di lamentarvi, perché la vostra miseria è il vostro lavoro. Dipende da voi essere felici”.
“Avanti! la vita è breve, la felicità è bella. Le spine sono di tutte le stagioni i fiori soltanto di qualcuna: affrettiamoci a raccoglierli. Avanti! l’accetta sulle banche, la torcia sugli altari, la dinamite nelle viscere del suolo accaparrato! Ognuno ha diritto alle ricchezze del globo. La terra è sufficientemente feconda per nutrire tutti i suoi figli”.
Ma io non sono né potente né ricco.
L’esiliato non è di questo mondo.
E solo i ricchi, i potenti hanno il diritto di parlare agli uomini. Essi non dicono ciò che direi io, e si fanno ascoltare. – Maledizione!
E va bene! era povero, solo come diogene il cui umore nero si rallegrava tanto della commedia di questo mondo. Era povero, solo come Dante la cui anima poetica soffriva tanto componendo la commedia divina. Come loro riderei e piangerei di rabbia non potendo né ridere di gioia né piangere d’amore.
L’esiliato non è di questo mondo.
In questo mondo la più graziosa fanciulla trova delicato, affascinante, il bottegaio frettoloso che getta veloce un pezzo d’oro sull’angolo del suo comodino.
In questo mondo, l’artista più capelluto martella il suo cervello per trovare il posto per una stella sulla stretta fronte di Bonaparte-Animale!
In questo mondo, una notissima autrice di tragedie declama la Marsigliese o la Clemenza di Augusto secondo i tempi e i luoghi, proporzionando l’ispirazione al salario. E la folla l’ammira e copre di corone i suoi piedi gonfi d’orgoglio!
In questo mondo, profanazione! i poeti si riducono a mendicare gli elogi delle teste coronate. Più eunuchi degli antichi schiavi, cantano la servitù e la vergogna!
L’esiliato non è di questo mondo.
In questo mondo i ramoscelli di lauro e di quercia sono colti dalle mani brutali dei valletti dei pretendenti. Chi non è buffone o vigliacco è messo al bando, come chi non porta all’asola l’infamante livrea degli uomini venduti.
L’esiliato non è di questo mondo.
Poiché è necessario vivrò in questo mondo, ma l’attaccherò e lo stancherò senza tregua. Come il contrabbandiere, come il povero, la cui miseria arma il braccio vendicatore, opporrò la mia coraggiosa rivendicazione al furto attuato dalle leggi.
L’esiliato non è di questo mondo.
Società che mi perseguiti, ti restituirò disprezzo per disprezzo, ingiuria per ingiuria, proscrizione morale nell’avvenire per la proscrizione fisica che mi imponi al presente. Occhio per occhio, dente per dente, è la parola del Vangelo, la legge delle rivoluzioni, il grido degli oppressi.
L’esiliato non è di questo mondo.
Società tu hai paura degli scheletri. Bene! passo in mezzo a te come un morto in un ballo, appaio nelle tue orge, agitando pagine sanguinanti, per mostrarti con la punta della mia penna l’abisso di fango dove ben presto scomparirai.
L’esiliato non è di questo mondo.
L’odio, l’odio! ho solo questo amore. Lo respiro e lo erutto. Sono la polvere che dà mille morti per una scintilla. Sono il seme di elleboro che dà una coppa di veleno. Ah! tutti gli oltraggi che mi avete prodigato, uomini di partito, vi ricadranno sulla testa; tutti i lieviti di collera che avete messo nel mio seno sono sulla buona terra. Perché sono il precursore dei Tempi, il supremo Vendicatore.
L’esiliato non è di questo mondo.
Las noches de vervenas a Madrid
Madrid, agosto 1853
I
Spagna, patria di ogni grazia e di ogni bellezza, madre da me scelta da quando appresi ad amare! Non soffri troppo per la pressione del mio piede venuto dal Nord? Non sei forse ricca a sufficienza, anzi la più ricca della terra, per adottare un figlio straniero?
Straniero non sono da nessuna parte e meno che mai qui. Non cerco come fa un medico grossolano di sfruttare questa terra feconda, vengo qui come un poeta che domanda per cantare solo un raggio di sole!
Era forse straniero ai popoli quel vecchio cieco che si chiamava Omero e che percorreva la Grecia, bastone in mano, senza sapere dove avrebbe dormito la sera? Era forse solo, straniero in Spagna, quel divino pensatore, quel nobile cittadino del mondo, l’immortale don Juan: Byron!?
Il sognatore non accetta la patria dalle mani del caso. Egli la sa distinguere tra le nazioni e si slancia verso di essa, dal momento che può amarla come un giovane celibe ai piedi della sua amante. Fin quando non avrà trovato il suo paese, il suo lavoro, il suo amore e il suo dio, la consunzione lo smagrirà e lo divorerà.
Io abito in Spagna perché ne sono innamorato. Se qualche volta ho desiderato rivedere la Francia è stato soltanto a seguito di una riflessione.
II
Notti spagnole, notti di vervenas, canterò di voi!
Notti in cui la terra brucia, i ferri dei balconi sono tiepidi, notti in cui l’acqua gelata non rinfresca!
Notti d’amore e di feste, belle notti di Castiglia e d’Andalusia! L’uomo che vi ha visto non dovrebbe morire!
Notti di lapislazzuli e d’oro in cui le stelle sono felici e libere, vi ho respirato, vi ho amato come se fossi nato sotto la vostra dolce luce!
Notti d’estate durante le quali si rimpiange di dormire, quando le ragazzine hanno colori d’arancio, selvagge come le gazzelle appena nate, vive come le acque dei torrenti, annodano e sciolgono le ghirlande del girotondo chiaccherino!
Quante ore ho passato a guardarle! Quanto avrei dato per prenderne una e abbracciarla almeno una volta! Ma si ritraevano, spaventate dalla mia gran barba e dal mio aspetto straniero. Come mi sentivo brutto sotto il cielo delle Castiglie!
Oh! le piccole fate di otto anni, com’erano fresche e rosee, di già civette e imperiose!
Ragazzine di Madrid, dubito che a sedici anni possiate rendere un uomo più felice di quanto lo sono stato io quando danzavate il girotondo intorno alla fontana di Neptuno, dios de las aguas.
III
Com’erano felici le bambine, piccoli folletti! I loro bei capelli ondulati giocavano col vento della notte mentre così cantavano:
“Le notti sono fatte per danzare. Il sonno è un vecchio dai capelli bianchi, molto cattivo, molto sgradevole, che le nostre madri ci danno come guardiano quando vanno a ballare.
“Le notti sono fatte per danzare. – Danziamo!
“A mezzanotte le nostre governanti si mettono al balcone. I giovani del vicinato vengono lungo i muri fin sotto le nostre finestre. E poi... è molto difficile dormire quando si sentono chiacchierare le chitarre.
“Le notti sono fatte per danzare. – Danziamo!
“I nostri piccoli innamorati sono molto simpatici. Ci dicono che ci adorano, ma noi non ci crediamo. ‘Le carte sono carte, le lettere sono lettere, ma tutte le parole degli uomini sono false’.
“Le notti sono fatte per danzare. – Danziamo!
“Quando avremo quindici anni, gli uomini ce ne diranno altre e noi finiremo per ascoltarli. Come difenderci quando lo specchio ci dirà che non mentono? È ridicolo essere modeste. Le donne sono fatte per essere servite e gli uomini per servirle.
“Le notti sono fatte per danzare. – Danziamo, danziamo!”.
IV
Per le notti d’estate la civetta Madrid riserva le sue più splendide feste. I suoi muri bianchi brillano sotto la luna come veli delle fidanzate sotto le candele degli altari.
Quando suona mezzanotte, essa chiama i fanciulli alla danza con la voce di mille chitarre e con i tamburi di Biscaglia.
È l’ora in cui bande di ragazze discendono la calle d’Atocha, leggere come caprette che saltano nelle radure sotto gli sguardi delle stelle. I giovani bruni le precedono guidando verso il Prado la marcia saltellante, risonante di ritornelli talmente gai che non si nota la loro eterna monotonia.
Cantano perché sono felici. Cantano come il grillo delle praterie, il fringuello e la quaglia che ci rallegrano sempre. Possano cantare così per lungo tempo!
Felici gli Spagnoli che sanno appisolarsi ai piedi di un sicomoro, avvolgersi nella capa bruna, riempire i polmoni di fumo di Manilla e sognare simili notti!
Felici gli Spagnoli che sono amati nelle notti di vervenas, quando le niña commosse premono la testa nelle loro mani frementi per poi addormentarsi sulle loro ginocchia carezzate dai merletti delle mantiglie!
Felici gli Spagnoli dall’occhio fulvo, dal garretto nervoso, dal braccio soffice, che si slanciano nei turbini del bolero!
Girate, girate, figli della Castiglia!
Cercate la felicità nei grandi occhi delle vostre amanti, stringete i loro esili fianchi, unitevi, separatevi, conducete, riconducete il gioioso bolero!
Saltate, girate come le onde; fermatevi per respirare un istante, e riprendete sempre; passate, ripassate davanti ai miei occhi che vi ammirano! Consumate la terra, moltiplicate le ore, fate mille leghe in una sera, vivete molto in una volta: il tempo è breve! Animo! la vita è buona e saggi coloro che sanno spenderla gaiamente!
Spagnoli, fratelli e figli dei Mori; voi siete veri artisti, veri poeti, voi che potete ridere, cantare, sognare e danzare e non diminuire i vostri piaceri descrivendoli.
Purtroppo! io non so fare altro che sporcare della carta. Sono ancora giovane e di già morto alla gioia. Per cui la vita reale mi sembra un’amara derisione di esasperante lentezza. Ma voi...
Danzate, danzate, figli della Castiglia.
V
Chi potrebbe restare triste quando Madrid è in festa?
Andiamo chitarre di Castiglia, pandereta di San Sebastian, cornamusa d’Orense, flauto delle montagne di Santander! – Ole!
Viva la seguidilla madrilena, la jota d’Aragona, il fandango di Cadice, il bolero, la gallegada, il ialeo di Jerez, la malageña e la cachucha, l’innamorata! – Ole! Ole!
Lanciatevi sorelle spagnole! Tarchiate di Jerez, virili Aragonesi, agili Basche, nere di Madrid, bionde di Burgos e di Pamplona, ragazze di Marcia, di Valencia e di Granada, e quelle di Cadice, amate da Byron. – Ole! Ole!
Calzate i vostri piccoli piedi con le scarpette di seta, legate i cordoni rosa sulle vostre curve, lasciate fluttuare sulle vostre spalle le ondulate mantiglie; che i vostri fianchi si disegnino sotto le gonne rosse e le sciarpe dai mille colori! – Ole!
Alzate i lunghi capelli, liberate le tempie in modo che si vedano gli orecchini; fissate i capelli con un nastro luccicante e con spille dorate! – Ole!
Vamos! – Reginette dall’andamento fiero! Avanzate con il pugno sui fianchi, con le braccia arrotondate che sembrano raccattare la sabbia, piede teso, testa inclinata, vispe, sorriso provocatore! – Ole!
E poi indietreggiate, tastate il suolo, scalpitate, giratevi, piegate i fianchi come delle bisce, morbide, ardenti, scapigliate, rapite, piene di estasi e di languore; svenevoli, divine, figlie della grazia e della voluttà, vergini dalle labbra rosee e dai denti bianchi! – Ole! Ole!
Anda con ellas! – Con loro, con loro volano i magri danzatori che portano berretti frigi, monteras vellutati, berretti baschi, sombrero castigliani, turbanti, fazzoletti e fajas di seta, vesti scarlatte, bottoni d’argento e d’oro! Sollevate nuvole di sabbia bruciante! – Ole! Ole!
Alante! – Avanti anche il guerriero caro a Marte, la spada al fianco, le dita alla cintura dei pantaloni, il collo tagliato dal guinzaglio di crinolina. È il re del ballo, la sua danza è la più scientifica, le sue maniere le più distinte, le belle sono tutte per lui, fin dalla gioventù si è rotto le dita sulle corde della chitarra! Ole!
Viva! Viva! – Ecco gli Asturiani, i plebei della montagna, con i loro bastoni bianchi. Essi formano un monotono girotondo e si tengono per i mignoli. Si direbbero monaci che recitano il mattutino. Invadono la piazza: eccone più di trecento! È così che si riunivano nel cuore delle montagne i figli di Pelayo vincitore dei Mori, gli uomini di ferro e di bronzo per come dice la leggenda. Viva Gijon! Viva Pradia! – Ole!
Oiga V. M.! – Le rive disseccate del Manzanares risuonano del terribile richiamo delle cornamuse. La luna passeggia il suo disco tranquilla tra le strisce bianche lasciate dalle nuvole di calore. La Virgen del Puerto è coperta di pietre. Gli angeli, suoi paggi, hanno spiegato le ali. Il cielo sembra sorridere alle danze della terra. – Ole! Ole!
Las coplas de los ciegos
Madrid, agosto 1853
I
Il ciego fa danzare la gioventù agli accenti della chitarra. Egli recita coplas sempre applaudite. Canta:
“Ole! Paquita, Dolores, Ysabel! la piccola Carmen; Iñes, Lola e Pepa le biricchine! Ole! Concha, indifferente, e tu, Ramona, infaticabile, che non lasci mai dormire il tuo amante! – Ole! Ole!
“Legno vecchio e giovane uomo facilmente s’infiammano. Temete il fuoco della resina e le pupille delle ragazze di quindici anni, più ardenti dei carboni. – Ole!
“Che l’acciaio diventi rosso nelle forge di Burgos. I gentili uomini di Valencia, los ricos hombres, i compagni del Cid sono partiti per la guerra. Ognuno di loro ha promesso due teste di Moro di Granada all’amante del cuore. Abbiamo visto lo splendore delle loro armi, esse oscurano il sole. Ritorneranno vincitori con le spade aguzzate sulle ossa degli infedeli! – Ole!
“Il sultano – el rey chico – il sultano Boabdil ha fatto un sogno, un sogno spaventoso. Le volte dell’Alhambra si sono aperte sulla sua testa. Ha letto la perdita del suo califfato nei tratti del fulmine. La forte mano di dio si è abbattuta su di lui. – Ole!
“Dopo questo sogno la sua grande scimitarra è meno tagliente della conocchia delle nostre nonne; non la si è più vista sporca di sangue. – Ole!
“Il Califfo di Granada ha molte bellezze nel suo harem, ma l’ultima pastora delle Asturie è più degna d’amore della cortigiana favorita del sultano Boabdil. – Ole!
“Disgrazia alla vergine cristiana che cercherà l’amore negli occhi di un Moro, vi troverà la punta di un coltello catalano. – Ole!
“Il privilegio più prezioso delle nostre regine è quello di scegliere i loro amanti fra i bei ragazzi delle Spagne. La reale figlia di Napoli, Maria Cristina la bella, ha preso per sposo l’eccellentissimo signor Muñoz ed ha messo l’anello ducale al dito. La regina Cristina ha buoni occhi, vi sono pochi uomini plasticamente altrettanto belli del duca di Rianzares. – Ole!
“Il sole trova più bella delle altre la terra di Spagna. Apre grandi occhi per guardarla durante tutto il giorno, l’incendia per meglio provarle il suo amore. – Ole!
“Terribile al mattino, si riflette sulle guglie dei monti e le punte delle onde che fa arrossire come ragazze. La sera invece impallidiscono, diventano verdi e sembrano morire stanche come sono del suo amore. – Ole!
“È tanto ricco e bello il re del mondo che gli bisognano diverse amanti all’anno. D’inverno si distende sul mare di Cadice, baciando con le sue labbra brucianti la magnifica città. In primavera s’inebria del profumo dei fiori d’Andalusia. D’estate ama prendere bagni di neve sulle bianche gole delle Sierras. Durante l’autunno si rilassa nelle passeggiate delle Fontane castigliane, sorridendo alle figlie dei grandi di Spagna, più fiere dei più fieri hildagos”. – Ole!
“I vini di Francia sono verdi come l’aceto. Le inglesi sono fredde e bionde come la progenitura d’Albione. Versatemi lo Jerez dai flutti dorati! che io morda le criniere degli jacas andalusi, neri come il reale mantello della notte. – Ole!
“La madrilena è fiera e sdegnosa. Quale sguardo di disprezzo lancia su tutti quelli che l’ammirano! Ma come ama colui che sa guadagnare il suo cuore! Un raggio di sole si è smarrito nei suoi occhi. È la donna che si segue e si adora malgrado tutto. – Ole!
“Vola sovrana dell’umanità. Stringiti, freddolosa, nella tua mantiglia. Cammina sola, avanti, che il tuo amante ti segua come può, gli uomini non sono degni di portare il tuo ventaglio”. – Ole!
“Per tutta la notte i serenos cantano sotto i balconi, i gatti ruzzano nelle grondaie e le quaglie innamorate si rispondono da finestra a finestra. Ciò risveglia i mariti e se le mogli non si lamentano non allontanano i serenos. – Ole!
“Il cavaliere e il suo cavallo vivono la stessa vita. Il mio cavallo rosso nitrisce dietro una giumenta bianca. Ed io che sono il suo padrone nitrisco dietro la ragazza dai begli occhi. – Ole!
“Durante tutto l’anno i pastori e i portatori d’acqua galiziani attendono l’arrivo delle nuvole. E quando viene il giorno dell’Epifania corrono a tre a tre come invasati. Corrono da una piazza all’altra, da la plaza de la Costitución a la plaza del Oriente, a la plaza San-Bernardo per vederle arrivare. Corrono con torce, corrono a perdifiato. E quando si fermano nel mezzo di una piazza alzano la loro scala in aria; il più credente invoca i re magi dal lato dell’Oriente; i due che lo sostengono gridano: i re vengono, i re vengono con i loro vestiti d’oro – vienen los reges! – Ole!
“Niña! I tuoi grandi occhi scintillano sotto la mantiglia come lampi nel seno della tempesta. Credo di vedere una goccia di sangue nella tua capigliatura d’ebano, ma è un garofano più rosso del liquore delle arterie. Voglio mettere la mia vita nello splendore dei tuoi occhi, e se muoio che i tuoi capelli mi servano da lenzuolo! – Ole!
“Corre per Madrid un’atmosfera femminile che affascina l’uomo spinto dal desiderio. Al primo chiarore del giorno, quando si svegliano le palomas carezzanti, la manola compare al balcone. Gli uccelli d’amore conoscono la sua voce selvaggia e rispondono col loro tubare. La sera ritorna allo stesso posto per inebriarsi dei sospiri della serenata”. – Ole! Ole!
“In estate cerchereste invano il Manzanares nella campagna di Madrid. Solo gli imprenditori dei romanzi francesi l’hanno scoperto e descritto. Il povero ruscello si nasconde vergognoso nelle sabbie per sfuggire alle prese in giro dei castigliani. I magnifici ponti di Toledo rassomigliano a un vecchio azzimato che non trova la sua bella all’appuntamento”. – Ole! Ole!
“Ieri il gran toro di Navarra brucava la salvia amara sulle rive dell’impetuoso Ebro. Oggi eccolo che muggisce nell’arena. È fiero delle sue corna, del suo pelo luccicante, del suo largo petto. I suoi grandi occhi pieni di coraggio non fanno paura alle ragazze non più di quelli dei loro novios. – Ole!
“Il toro, il bel toro, il toro rosso si precipita sulle spade brillanti come il temerario guerriero sulle moltitudini nemiche. La morte l’attende. Le mule sono impazienti di trascinare le sue spoglie. In questo modo i domestici ossequiosi fanno valere i propri servigi quando muoiono i coraggiosi”. – Ole!
“Adesso il sudore copre la vostra fronte, non avete più fiato. Andate a distendervi sui fiori dei prati o nelle coppe di marmo delle fontane. È la stagione dei frutti deliziosi, delle pesche di Saragozza, delle chufas di Valenza, delle sandias acquose; le acque ghiacciate scorrono sotto i platani. Sognate in pieno sole come gatte voluttuose: è così che si sogna in Spagna. Con la punta delle dita prendete l’azucarille e giocateci immergendolo nell’acqua... Da parte mia, io canterò”.
II
“Canto, canto e tuttavia sono privo della luce degli occhi!
“Date, date al povero ciego!
“Sono il vecchio menestrello, l’Apollo dai capelli bianchi intorno a cui si stringono ragazzine e giovanotti nei giorni di festa. Sono la Disgrazia che fa danzare la Gioia, la tristezza che rianima la Felicità, il cieco che conduce quelli che ci vedono.
“Date, date al povero ciego!”.
“La fedele chitarra è la mia amante e mia figlia, il solo bene che mi resta sulla terra, la sensibile, la sonora che mi permette di scambiare i miei pensieri con gli uomini, la sola corda che ancora mi lega alla vita!
“L’armoniosa, la meravigliosa! faccio ripetere tutto quello che voglio alla mia fedele chitarra: le prediche dei curati e le dichiarazioni degli innamorati, la verità e le favole, le novelle e le leggende. La faccio ridere e piangere; presso i grandi modero la sua franchezza, presso i piccoli rendo i suoi accordi più brucianti e più liberi. Annuncio la buona ventura alle ragazze e la cattiva ai mariti.
“Date, date al povero ciego!”.
“Canto le lotte e l’astro del giorno che le rischiara. Canto gli amori e l’astro della notte che presta loro la sua discrezione benevolmente. E voi ragazze adorabili, io vi canto. E voi margherite dei prati, giunchi in fiore, flutti del Gudalquivir colorati dalle fate. E tu mia bella Andalusia, terra di grazia e di felicità che non rivedrò mai più. E tu bruna Siviglia, io ti canto.
“Date, date al povero ciego!”.
“Re dei re, sole che tanto ho amato, quando nacqui tu eri al sommo della Sierra delle nevi e brillavi sulla mia fronte. Mia madre vi vide un presagio di fortuna e tutto il giorno seguì la tua corsa nei cieli. Quando fosti al sommo della volta sognò che ero già diventato grande. Quando cadesti, tranquillo, nelle onde del mare, sperò che la mia morte fosse esente da dolori.
“Sole, tu non mi hai portato la gloria. La dea sdegnosa non gradisce gli omaggi del povero che quando ha guadagnato palazzi per riceverla. Ma mi hai accecato, ed io trascino con me la più crudele delle morti!
“La Morte che non ha più né riso né pianto nei suoi occhi bianchi! La Morte che si assopisce di giorno e veglia la notte! La Morte che canta la sera per guadagnare il pane del mattino! La Morte del cieco maledetto nella sua persona, in quella di sua moglie e dei suoi figli! La Morte del cieco che cammina a tastoni verso la tomba che sempre rincula.
“Date, date al povero ciego!”.
“E ti sento, sole terribile! Tu sei là, sui miei occhi, sul mio cuore, corri incontro alle mie braccia, sulle corde della mia chitarra. Tu che abbracci le nuvole, calcini la polvere, spacchi le pietre e la terra; tu che dissecchi i torrenti e fai scoppiare l’olivo: riapri i miei occhi, sole! i miei occhi sono meno duri del ferro.
“L’alcool è forse diventato freddo come il ghiaccio dei poli? Forse la scintilla non accende più l’esplosivo? Mentre che tu nuoti nel tuo mare di fuoco, sole! soltanto io, il più ardente degli esseri, t’invocherò forse invano?
“Nessuno dovrebbe essere cieco nella Spagna dorata, perché i nostri occhi bruni sono lo specchio dell’astro della luce come gli occhi verdi del Livoniano sono lo specchio delle acque. Perché le mie folte sopraciglia e le mie lunghe ciglia non sono state bruciate allo stesso modo? Purtroppo! perché non si strappano i cipressi che proteggono le tombe!
“Date, date al povero ciego!”.
“Ragazze che potete leggere negli occhi dei vostri amanti, approfittate dei bei giorni! Le nuvole corrono veloci nell’atmosfera limpida! La Disgrazia ricerca le esistenze sorridenti per rallegrare la sua cupa tristezza. A me come agli altri, le vergini più fresche dell’Aurora hanno teso le loro avide labbra! Ed ora...
“Date, date al povero ciego!
“Ragazzi, spezzate i coltelli dalle lame assassine. Sono armi troppo corte per raggiungere il nemico nelle battaglie, e sempre troppo lunghe quando vi dirigete contro un amico. Credetemi so maneggiare molto bene la navaja. E sono rimasto come il Colera: cieco, stupido e pieno di rimorsi!
“Date, date al povero ciego!”.
“Date quello che avete con voi: argento o rame, fiori o nastri di seta. Conservate l’oro per la regina, e la moneta falsa per i Gitanos. Date un bacio a mio figlio, un pezzo di pane al cane che mi guida. Sugli altri uomini ho questo vantaggio, che non posso vedere ciò che brilla, per cui comprendo meglio la pressione delle mani e il linguaggio del cuore.
“Date, date al povero ciego!”.
III
“Ole! Ole! riprendiamo la danza. E vi dirò ciò che dicono i fiori.
“I fiori non mentono mai, quando cambiano colore hanno cessato di vivere”.
“Coglieteci, dicono i fiori. Siamo belli a vedersi e il nostro alito è balsamico. Amiamo molto che la nostra bellezza sia messa in risalto dalle donne che ci portano. Quando siamo chiusi non abbiamo più nulla da attingere dal seno della terra, e i baci del vento ci disperdono ben presto lontano da quelli che ci hanno visto nascere.
“Coglieteci! La morte ignorata ci spaventa. Portateci alle vostre feste, ammirateci soltanto un istante. Nasciamo a migliaia sotto i passi dell’uomo e le lacrime della notte ci riproducono in numero ben più grande di quelli che si possono distruggere.
“I fiori non mentono mai, quando cambiano colore hanno cessato di vivere”.
“Amateci, dicono le ragazze. Siamo splendide, e la regina delle siepi, la rosa, non è più profumata dei nostri capelli. Quando abbiamo quindici anni non ne vogliamo più sapere di crescere sotto le gonne delle nostre madri; ci bisognano amanti che facciano passeggiare la nostra bellezza in paesi lontani. Ogni morte ci sembrerebbe spaventosa se non ci cogliesse nel trasporto d’amore!
“Il mondo ci impedisce di parlare, ma noi sappiamo far cianciare anche i fiori. Sfogliamo la margherita e la margherita risponde sempre secondo i nostri desideri. Promettiamo molto amore a chi sa comprenderci. Portiamo mazzi di pervinche e garofani rossi, il garofano rosso significa passione e la pervinca speranza: non lasciateci sfiorire!
“I fiori non mentono mai, quando cambiano colore hanno cessato di vivere”.
“Nella stagione benedetta della primavera, quando l’amore fa fremere la terra, i ruscelli, i fili d’erba, i rami balsamici del pioppo e la gola dell’usignolo; quando Febo il cacciatore rispecchia i suoi dolci occhi nel fogliame del salice, suo albero favorito, quando l’aria è mossa dai sospiri dei mondi...
“Noi, povere figlie degli uomini, inebriate dal suono dei concerti, dal lusso dei vestiti; noi che veniamo soffocate dall’incenso dei complimenti, ci vorrebbero veder morire senza essere amate! No! nulla cade di primavera, né le foglie né i tubercolosi. Soltanto il succo piange, padre dei fiori. E sono lacrime di gioia!
“I fiori non mentono mai, quando cambiano colore hanno cessato di vivere”.
“Le pianure polverose di Castiglia sono care alla dea delle messi. Le mele d’oro più belle crescono sulla terra andalusa e le donne si disputano il premio della bellezza. Nelle montagne basche si alza l’abete, primo nato dei figli d’Europa e il castagno i cui frutti nutrono gli uomini forti. Le piante, gli alberi e i fiori celebrano le armonie universali.
“I fiori non mentono mai, quando cambiano colore hanno cessato di vivere”.
“Il grano vuol dire oro e ricchezza; la rosa, la beltà; il giglio, la grazia; la ruta, il delirio dei sensi; l’anemone, il capriccio effimero; la violetta, la modestia ingannatrice; il narciso, la vanità; il tulipano, la fredda bellezza; la quercia, la forza e la semplicità; l’olivo, la pace; il melagrano, passione e costanza; l’alloro, gloria; l’arancio, bianchezza, verginità, primizia d’amore; la bella dei giorni è splendente e fiera, la bella delle notti è sognatrice e tenera. Lo splendore e il profumo dei fiori ci invitano a raccoglierli.
“I fiori non mentono mai, quando cambiano colore hanno cessato di vivere”.
“I petali di mandorlo appaiono nei primi giorni d’aprile. La loro essenza fa penetrare l’amore nell’essere. Il sole sorride alla terra che si sveglia. Così l’amore delle Spagnole nasce quando hanno quattordici anni e riempie il cuore dell’uomo di divine speranze. L’amore è il sole della vita. Il ramo del mandorlo è la promessa della nuova stagione.
“I fiori non mentono mai, quando cambiano colore hanno cessato di vivere”.
“Sulle rive dei fiumi del Nord nasce il myosotis che cerca l’ombra tra le erbe glauche e non diffonde alcun profumo. Così le ragazze di Germania. Sulle rive dei fiumi del Mezzogiorno cresce la menta che si slancia verso gli astri e attira col suo odore. Essa alza fieramente la sua bella capigliatura al di sopra delle piante che la circondano. Così la figlia di Spagna porta la sua testa altera sul collo grazioso. Quali scegliereste dei due fiori azzurri?
“La menta è blu come l’occhio delle vergini, le sue foglie sono setolose come le loro mani. La menta è il fiore delle notti di vervenas, quello che i ragazzi offrono alle ragazze guardandole fino in fondo all’anima per apprendere i loro segreti.
“I fiori non mentono mai, quando cambiano colore hanno cessato di vivere”.
“Sapete cosa raccontava l’altra mattina Lorenza a sua madre quando andavano tutt’e due, come brave matrone, a cercare la saggina nei cespugli? E ciò che gli rispondeva sua madre, la vecchia Iñesilla, che mai si lascia mancare nulla? Ascoltate la loro interessante conversazione:
“ – Madre mia, madre mia! sono incinta!...
“ – Figlia mia, figlia mia! e di chi?...
“ – Del signor curato, Vergine santa!...
“ – Figlia mia, figlia mia!... anch’io!...
“Ecco cosa sanno fare nos padrones!… Due sfortunati di più in questa valle di lacrime!
“Felice lo studente che alla sua amante mette nell’occhiello il primo ramo di biancospino! Il biancospino è propizio agli appuntamenti della sera. E se vi piace siate felici e non tenete conto di ciò che vi si dirà. Andate stringendovi sotto il braccio, andate a passeggiare sotto i tigli del Retiro reale! Que V. V. M. M. se divierton muy bien! Ma state attente alle guardie di Paquito, il più moralista degli uomini, e non calpestate troppo i poveri fiori!
“Perché i fiori non mentono mai, quando cambiano colore hanno cessato di vivere”.
Las coplas de los majos
Madrid, agosto 1853
[Pues, si va a decir las verdades sin invidia,
él es] el más ágil mancebo que conocemos,
gran tirador de barra, luchador estremado y gran jugador de pelota;
corre como un gamo, salta más que una cabra,
y birla a los bolos como por encantamento;
canta como una calandria, y toca una guitarra, que la hace hablar,
y, sobre todo, juega una espada como el más pintado.
M. Cervantes
Il majo di vent’anni, bel ragazzo dai baffi neri, ha gettato sulle sue spalle la veste ricamata di preziosi galloni. La sua amante ne è fiera. La danza comincia e lui canta sulla sua chitarra:
“Belle e soavi contrade, Spagna, Andalusia, vi canterò fino al mio ultimo giorno. Siano benedette le canzoni!
“Lo spagnolo è troppo ricco per risparmiare. – La Natura lavora per lui! Benedetta sia la Natura!
“La nostra terra è prodiga di tesori. Sotto il sole tutto nasce e muore presto. Un secondo di piacere non vale di più di un secolo di fatica? – Ave Maria santissima! – Benedetto sia il piacere!
“Nei primi giorni di maggio tutti i nostri fiori sbocciano in una volta. A quindici anni tutte le nostre ragazze sono amate. A vent’otto anni le nostre donne sono vecchie, i nostri uomini a trenta non contano più. – Viva l’hermano Christo! – Benedetto sia l’amore!
“Presso di noi, quando il sole si nasconde è per un istante. Le stelle non mancano mai più di una notte nel cielo. La collera, la gelosia, la vendetta, il delirio d’amore, tutte le passioni colpiscono come il fulmine, piangono come l’uragano, gridano come la tempesta. Poi il cielo si rasserena e i raggi risplendono di nuovo. Niente di triste può sussistere presso di noi. – Deo gratias! – Benedetta sia la Gaiezza!
“La cicala canta. L’ombra è buona. Il lavoro è indegno degli uomini liberi. Abbiamo pane per tutto il giorno, domani dio ce ne donerà, se così gli sembra. – Si dios quiere! – Benedetta sia la Libertà!”.
“Abbandoniamo l’opera. Accordiamo le chitarre, accendiamo il sigaro. Seguiamo il filo dell’ombra e cantiamo le coplas alle belle signorine che passano: – Salero!
“La mia capa mi serve da letto; il sole è la mia camicia, il firmamento il mio tetto. Compro un pane bianco, una fetta di sandia, un vasito d’aguardiente. Ne ho per sei cuartos al giorno. La domenica faccio provvista di tabacco per la settimana. Cosa mi bisogna di più? Così attendo il ritorno delle stelle nei cieli e della mia amante al balcone. – Salero!
“La ragazza di Granada ha nascosto la fronte sotto la mantellina. Vedete come corrono i suoi piccoli piedi. Disdegna i majos che l’ammirano. Ma sua madre che la segue raccoglie i loro complimenti. – Salero!
“Salero! graziosi, divini, tesori di capriccio e di spirito, miei cari amori! La parola dice tutto ciò: – Salero! Salero!
“Splendida Rosa fiorita, amo di più la tua figura bruna che si stacca nella notte chiara che le figure d’oro della regina sonanti sui tavoli delle banche. Disgrazia agli avari! Disgrazia ai giovani ambiziosi. Il risparmio e l’intrigo fanno morire nei paesi dove tutto abbonda. – Salero!”.
“La nostra è una terra rude per chi non vede che i prati secchi e i terreni spaccati. Siamo uomini rudi per chi non vede che i nostri visi rossi, i capelli duri e tratti spigolosi. Siamo donne rudi per chi non sente che la nostra parola alta e ferma, per chi ci segue alla passeggiata e raccoglie il nostro sdegno! – Salero!
“Ma terra amata per chi sa scoprire ruscelli sotto le pietre, frutti soavi nel cuore delle rocce, uomini sensibili sotto la maschia scorza, e donne appassionate sotto la fierezza glaciale! – Salero!”.
“Sii umana mia bellissima! Vedi sbocciare i fiori dell’aranceto. La pastorella ha cantato sulla sabbia del Jenil, gli amanti hanno sentito la sua voce. Da sei mesi passo le notti sotto il tuo balcone, ti addormenti sempre cullata dalla mia chitarra. Per te stacco ad una ad una le perle del melograno dal loro amaro involucro. Per te chiudo le migliori caramelle in una carta rosa ornata di nastri verdi. Per te sfido il toro. Comanda ancora, ordina sempre... Ma vieni questa sera, sotto le stelle, alle fontane di Alhambra! – Salerito!”.
È il canto di majo.
Los gitanos
Madrid, ottobre 1853
[Los músicos eran los regocijadores de la boda,
que en diversas cuadrillas] por aquel agradable sitio andaban,
unos bailando y otros cantando,
y otros tocando la diversidad de los referidos instrumentos.
M. Cervantes
I
Lungo le case spagnole imbiancate dalle stelle essi [i gitani] passano la sera guardando disegnarsi sui muri l’ombra dei loro cavalli prediletti. Sotto gli scuri oliveti essi passano chinandosi sugli occhi delle loro donne ardenti. Nelle immense savane delle Castiglie passano arrestandosi qua e là sotto un cespuglio di ginestra o su un altopiano di granito levigato dai diluvi.
Le notti d’estate, le notti più belle dei giorni, le belle notti di Spagna sono propizie agli amori.
II
Ed io, io li seguo, i banditi-poeti dal divino linguaggio, dai neri capelli luccicanti. L’uomo libero è così bello!
Io li seguo, le streghe abbronzate dai grandi occhi di tigre, dalle forme di gazzella, le selvagge dalle braccia d’acciaio che spezzano i denti bianchi dei cavalli andalusi e che addormentano l’uomo in slanci amorosi senza fine.
Io li seguo. Corrono nel cielo gioioso per milioni di stelle e ciascuna si riflette sulla terra in un essere pieno di grazia e voluttà. – Spagna, Spagna, bel paese di sogno, adesso comprendo perché tutti i tuoi esiliati ti piangono!
Io li seguo. L’Armonia non abita nel nostro mondo di schiavi; la Poesia, la Verità si spaventano dell’inutile fracasso del nostro orgoglio. Tutto ciò che è grande è fuorilegge, tutto ciò che è grande è febbrile, selvaggio, agile e magro. Amo trovare sotto la pelle l’arteria della donna del mio cuore, voglio cogliere la sua anima nel suo sguardo di fuoco!
Io li seguo sempre. Se queste donne potessero amare gli uomini del Nord! Una notte nelle loro braccia darebbe più scienza che vent’anni di scuola! Voi che non credete alla vita futura, alle infinite trasmigrazioni, alle visioni, ai sogni profetici, andate a vedere la gitana di Granada fremente d’ispirazione sotto il suo vestito di tela rossa. Mai l’idea divina si è nascosta in così poca argilla.
Le notti d’estate, le notti più belle dei giorni, le belle notti di Spagna fanno sbocciare il dono della profezia.
III
… Io li seguo sempre. Arrivai sulle loro tracce ai piedi di una montagna dalle aride pendici. Essi discesero dai cavalli, tolsero le selle e i corsieri liberi andarono per le praterie.
Là vicino scorreva il Jarama dalle rive scoscese, dal corso capriccioso. Misero la sua acqua blu negli otri, raccolsero rami di sicomoro, foglie di agrifoglio, bacche di pino, erbe profumate. Poi ridivennero gioiosi. Avevano una chitarra e la loro chitarra aveva due corde! – Ole! Ole!
Le donne misero insieme i rami secchi e con le mani sottili scavarono il terreno tutto intorno. Sembrano gatte graziose stanche di fatica e pressate dai più teneri istinti.
Li vidi abbassarsi, accendere le foglie e ben presto la fiamma si alzò. Nel fuoco ardente gettarono l’anice, l’odorosa pampinella, il finocchio e l’incenso. Tutto crepitava, scintillava e le voci che cantavano erano altrettanto brillanti del magico fuoco.
Le notti d’estate, le notti più belle dei nostri giorni, le belle notti di Spagna sono favorevoli alle predizioni!
IV
Oh! quanto è tenace la tua impronta, pregiudizio, vecchio chiacchierone, anche presso coloro che ti sfidano! Non osavo fare un passo verso queste teste di moro che rispondevano al riflesso delle fiamme come nel Sabba degli inferni.
Mi avvicinai tuttavia alla più giovane di queste donne, la venerata, la profetessa, la regina, quella il cui piede portava la scarpetta d’oro, e portando alle mie labbra una treccia dei suoi capelli lunghi fino a terra dissi:
Gitana, guarda le linee della mia mano, la radice dei miei capelli, le pieghe della fronte, il mio occhio cerchiato, la bocca. Applica sul mio cuore il tuo orecchio dai begli orecchini d’oro, e dimmi, gitana, quello che diventerò.
– “Uomo del Nord – rispose – guarda il corso del Jarama. Tra i suoi rapidi flutti ve ne sono di quelli che sembrano avere più fretta degli altri, si slanciano contro tutti gli ostacoli ed evaporano in una pioggia di schiuma. Così fai tu nella tua vita.
“Tu sei troppo agitato, hai teso troppo forte le molle del tuo essere, tu rompi troppo facilmente gli ultimi rapporti che ti legano al mondo. Tu soccomberai come quelli che sognano troppo, inquieto, stanco, malcontento di te stesso, tormentato dal desiderio e dai progetti appena abbozzati.
“Lavora, tuttavia, lavora! Gli anni dell’uomo sono brevi, per quanto pesanti da portare, passano come la freccia e il lampo che ci colpiscono di una morte immediata.
“Lavora, lavora! Che le difficoltà non ti fermino. Gli astri, miei fedeli oracoli, incontrano le nuvole e le disperdono per seguire il proprio cammino, e tu, piccolo verme di terra pieno d’orgoglio, avresti paura a lottare contro i ciottoli della tua strada?
“Lavora! Ad ogni esistenza l’opera sua. Io non rivelo mai tutto l’avvenire in una sola volta. L’uomo non fa tutto il suo lavoro in un giorno. La nostra vita terrestre è un giorno nell’Eternità!
“Lavora! Metti a profitto il mattino e la sera, le tue meditazioni, i sogni, le aspirazioni, i ricordi, la calma e la tempesta, il lampo e la stella, la scia del vascello nel mare trasparente e il canto degli uccelli. Tutto è nella natura, tutto ne esce, tutto vi rientra; essa ha mille spettacoli e mille voci per rilevare i disegni della sua potenza a chi sa comprendere.
“Lavora, lavora! Te lo farò ripetere costantemente da una voce di emulazione e di rimprovero, la voce sonora della tua coscienza. Lavora, e tu sarai posseduto dal fuoco che mi divora, fuoco di entusiasmo e di divinazione!”.
V
Così disse e prendendo nelle sue mani brune la pandereta di velluto scarlatto l’alzò in aria al di sopra della testa e fece tre volte danzando il giro dei rami selvaggi che si torcevano nel braciere di fuoco.
Dopo di che, chinandosi sulla fiamma viva, vi avvicinò i suoi denti bianchi che sembravano sorridere ironicamente e le sue labbra sottili, nere di sangue e di già frementi all’avvicinarsi dello Spirito.
Poi sputò, gettò sui carboni tutto il soffio dei polmoni, si rialzò e ripeté tre volte ancora la sua danza, animandosi, balzando, schiumando, snodando i bei capelli, portandoli sul viso tremante, vedendo attraverso le fiamme come foreste incendiate, e gridando:
“Bruciate, bruciate, mille dardi del dio dell’abisso! Abbracciate l’Universo: piante, animali, uomini, città e villaggi, tutto salvo i rettili; disseccate i grandi mari, fate bollire i loro flutti come schiuma di sangue! Bruciate, bruciate! Rantolate, sublimatevi, salite, assediate il cielo, arrostite le ali degli angeli e il trono di dio che questi adorano! Sommergete tutto con le vostre onde minacciose, portatemi il Niente, il Caos su cui regnava il mio padrone, l’Eterno!”.
Poi fermandosi, accelerando l’infernale giuramento, scavando col piede la terra, baciandola e rinculando di un passo disse:
“Sotto il mio piede che ti chiama alzati, alzati dio dei miei padri e dei miei figli, dio vendicatore e terribile che ti lamenti nella resina, nello zolfo e nella lava dei vulcani! Sotto il mio piede ricurvo, alzati!”.
Mai il dio dei ribelli ha saputo resistere ai richiami della bellezza. Dal momento che la Profetessa ha cantato la sua invocazione, la terra fa sentire un ruggito di voluttà, poi trema e si apre ai suoi piedi, avviluppandola con una nuvola di polvere e di fuoco. Nel frattempo la strega copre di baci le fiamme sibilanti che escono dal suolo, trasportata dall’amore e dal furore vedendo il dio della sua razza e svenendo nelle sue braccia!
Oh! quant’è bella! Nel fuoco bluastro i suoi tratti sono trasparenti d’un soprannaturale splendore. Vedo correre nelle sue vene le passioni indomite che la mettono in delirio. È seducente, temibile, incantata, satanica. Così immagino la bruna Eva uscente dall’abbraccio del bel Lucifero, l’arcangelo detronizzato.
Le fiamme più ardenti leccano la sua pelle, la fanno gonfiare e diventare rossa, e tuttavia si sente nel suo fiato la freschezza dei ghiacciai. È il fulmine fatto donna, è il fuoco d’amore, brillante, fosforescente nei suoi occhi di gazzella, è la divinità delle notti palpitante di voluttà, luce e ispirazione divina.
Ed io, povero piccolo borghese, mi sono sentito tremare di estasi, di paura e di non so quale amore ghiacciato. Mi sono sentito i capelli intrisi d’un sudore diffuso, i denti serrati, un fiotto di saliva che mi soffocava e la cravatta che si strappava sul mio collo. Con un supremo sforzo, stendendo le braccia verso la fata degli elementi, le dissi:
– Gitana, bella gitana, ebrea, araba, moresca, abencerrage, figlia delle più belle razze che siano nate sulla Terra, donna di Oriente, sposa del Sole! Se fossi re del mondo, padrone dei cieli e delle acque, se fossi il più potente ed eterno dei sovrani che un’anima mortale può immaginare, ti farei sedere alla mia sinistra. Ti vorrei nuda su un letto di fuoco di Bengala, sotto un lenzuolo di nubi tempestose. Perché io ti amo e voglio il tuo amore...
VI
Non so se ebbi il tempo di articolare queste parole il cui pensiero correva sulle mie labbra. Prima ancora di parlare mi ero lanciato verso il braciere ardente e le sue mille lingue viperine mi mordevano la carne, mentre sentivo le risa di scherno dei compagni della Profetessa e le loro voci infernali:
“Uomo dei paesi piatti – dicevano – amante delle luci sognatrici, del sole raffreddato, delle stelle al cloro, vai a fare sonetti alle bionde di Francia, di Germania o d’Inghilterra. Qui si canta e si danza, si beve l’aguardiente che bucherebbe il tuo stomaco di passero, qui si respira l’aria abbracciata dal sole, l’amore e il sigaro. Soltanto camminando sulla punta del tuo piede, soltanto starnutendo nell’atmosfera che ti circonda una donna del genere ti farebbe morire”.
Ed essi avevano acceso torce di resina e facevano il girotondo dell’Erebe. Mi avevano messo nel mezzo e non mi sentivo certo a mio agio, dovevo sembrare un pesce fuori dell’acqua. I pallidi luccicori mi sembravano simili ai consiglieri che Satana riunisce quando scatena la sua guerra contro il dio dei cristiani.
Le loro gesta, le contorsioni erano quelle dei posseduti, e tuttavia le facce restavano calme e serene e ricordavano quelle dei saggi della Grecia. Erano ansanti, rapiti, deliranti e tuttavia i loro passi restavano legati al ritmo con una incredibile precisione. Sembravano privi di carne e di grasso; sotto la loro scorza di fuoco mi apparivano ben distinte le due essenze infernale e divina che si disputano l’uomo.
La regina entrò nel cerchio, avanzò fin nel centro e li fermò con un gesto poi disse: “Alla paglia adesso, la notte è chiara e le stelle benevolenti, domani farà caldo e sarà un giorno favorevole al commercio. Andate a riposarvi, schiavi della donna, fin dall’aurora lavorerete per lei e col sudore della fronte guadagnerete l’oro dei suoi ricami”.
Simili a fantasmi essi disparvero in un istante. E non vidi più nient’altro che le loro gambe magre e le loro lunghe braccia disegnarsi all’orizzonte come le tracce del fulmine.
VII
Quando fummo soli, la Profetessa ed io, mi disse:
“Ti conosco da molto tempo, ti aspettavo questa notte sulle rive del Jarama ed ero certa che tu saresti venuto perché seguivo con gli occhi la splendida stella che ti guidava verso di me. Dalla tua nascita sono legata al tuo destino. Non ignoro chi sei, da dove vieni, perché hai lasciato le pianure della Francia, so più di questo perché so dove vai.
“Non ti rimprovero lo slancio vitale che tu porti alle mie ginocchia. Tu non sapevi quello che facevi; nessun ribelle si avvicina al fuoco senza che il cuore s’infiammi. Non sono quindi né sdegnata né fiera. Ma se il mio corpo è al suolo, la mia anima è a colui che, nelle viscere della terra, accende i laghi di salnitro, arrossa l’oro e liquefà il diamante. Cessa quindi di desiderarmi per le tue brame mortali. Io posso vivere solo con uomini liberi da ogni costrizione. Ascoltami soltanto e raccogli le parole che lo spirito mi ordina di dirti:
“Ti ricordi dei giorni della tua gioventù? Ti ricordi delle cacce che tu facevi in campagna con gli uomini dal fucile sonoro e con i cani dai denti crudeli? Allora avevi la gamba agile, la voce estesa, la pupilla penetrante, non temevi né il chiarore di mezzogiorno né le tenebre della sera. Ti ricordi che vedevi accorrere da lontano gli uccelli dei campi sulle loro ali rapide, che giravi verso di loro la tua arma implacabile, che facevi scoppiare sotto il tuo dito la polvere e il tuono, e che i poveretti capitombolavano nello spazio, crivellati, mutilati come pezzi di stoffa? Ti ricordi di aver così dato molto spesso alla vita gioiosa il terribile aspetto della morte?”.
– Me ne ricordo, donna, e lo rimpiango amaramente.
– “Tuttavia non eri crudele, non amavi per niente l’assassinio, e quando i cani ritornavano a te con la faccia piena di piume insanguinate li respingevi indietro con collera. Tu non eri modificato nel soffio della vita, non eri destinato all’orribile mestiere della guerra, inventato dagli uomini per distruggersi più presto. Perché cacciavi allora? Perché nel paese avevi il soprannome di Nimrod assiro, il forte davanti all’Eterno? Perché fino ai villaggi e alle fattorie perdute il sole s’irritava di vedere sempre il tuo magro profilo e le canne del tuo fucile scintillante di luci e di fuoco?”.
– Non lo so, donna, e vorrei ardentemente saperlo.
– “Ed io te lo dirò, ascoltami:
“Una sera che tornavi scontento dei successi della giornata, vedesti da lontano, alla luce del crepuscolo, un corvo centenario che si era fatto un trono sanguinante di un agnello che ancora respirava, aveva affondato le sue zampe forcute negli occhi della povera bestia, e a tutto becco, in pace e tranquillità, gli dava sepoltura a scapito dei vermi e degli insetti.
“Tu lo guardasti un istante, poi spazientito dalla sua sazia tracotanza, abbassasti nella sua direzione il tuo punto di mira e premesti macchinalmente il detonatore assassino. Vedesti l’uccello vorace battere le ali, abbandonare il festino e trascinarsi in fondo ad un solco. Tu non lo perdesti di vista, di tanto in tanto l’uccello si girava come per schernirti, poi si pulì sull’erba il becco ripieno di carne che sembrava assaporare con delizia.
“Il tuo cane si slanciò sulle sue tracce; ma quando gli fu vicino si fermò, i suoi peli si drizzarono e cominciò a lanciare penosi ululati. La bestia nera gli tenne testa e gli soffiò nelle narici. Fu allora che temendo per gli occhi del tuo bracco prendesti un enorme ciottolo vicino all’agnello morente e schiacciasti la testa del corvo.
“In quell’istante la luna guardava con gli occhi addormentati al di sopra delle colline dei vari colori dell’autunno e passeggiava il suo dolce chiarore sui frutti scarlatti che dondolano sui rami dei pometi”.
– Dici il vero, bella gitana, vedo ancora gli occhi di questo imbalsamatore di guerrieri, sento ancora le sue grida di angustia. Ma perché mi racconti questa storia ormai vecchia? Sono passati sette anni.
– “Ascolta e comprenderai:
“I corvi sono gli uccelli di malaugurio che volano nei manieri deserti, vicino le fattorie desolate, sui comignoli delle cattedrali dove ancora si incensano le religioni morenti, a Roma, Ginevra, Strasburgo, Colonia, Basilea, Friburgo e Berna. – Sulla Torre di Londra, al di sopra di tutte le città buie, nelle guglie e le torricelle, nei muri cadenti, essi si abbattono in voli numerosi. Nel mezzo dei rondoni e dei topi, tra i saccheggiatori notturni essi celebrano i loro amori e depongono le uova. Il corvo è il vecchio puritano di tutti i culti, il canonico spione che mangia sempre bene, l’uccello che vive vicino ai religiosi e agli avari, la bestia vorace, tenace, rapace, coriacea che le vecchie mettono nel loro lesso. Il corvo è l’immobilità, la longevità, la tristezza che segue il Tempo contando i passi e lo ritarda come può, aggrappandosi col becco ai panni laceri del suo vestito, trattenendolo ai bordi del precipizio dove la Rivoluzione lo chiama. Il corvo è l’autorità che vive a spese dei deboli, li tortura, affonda loro negli occhi spade e baionette; l’autorità che provoca gli uomini di cuore, li insulta, si crede invincibile, e finisce tuttavia per cadere, raggiunta da qualche mano temeraria, perdendo sangue, battendo le ali, morendo al colmo della rabbia e del dispetto.
“L’agnello è il popolo, il buon popolo che il potere tosa, sbrana, vende, compra, pesa, ripesa, appende come vuole; il popolo pasquale di cui i governanti bevono e mangiano il sangue e la carne col pretesto di comunicare un più grande vantaggio a tutti; il popolo grullo, pappagallo e scimmia che balla, si raduna, si soffoca, spalla contro spalla, petto contro petto e non riconosce mai la strada del mattatoio.
“Il cane è l’uomo di partito che salta, abbaia, loda, lecca, sa aggredire e mordere a proposito, il valletto che fa molto rumore e poco lavoro. Spinge l’uomo d’audacia ad imprese difficili, e quando viene il momento del pericolo non lo difende ma fugge urlando.
“Tu hai ferito il corvo, gli hai fatto lasciare la preda, hai sostituito il cane che non osava assalirlo; ben presto lo raggiungerai. Capisci che la tua caccia non è stata cattiva e che devi un bel cero a Sant’Uberto, il dio delle brave persone? Capisci che è meglio sezionare i vivi che i morti, i cattivi che i buoni, i re che i poveri? Capisci che è meglio studiare la scienza sociale che l’anatomia?
“Devi restare te stesso, persistere nel compito intrapreso, non preoccuparti dei cacciatori che si accaniscono su una preda più facile e meno colpevole. Se ti dicono che non hai nulla da guadagnare in questa impresa ingrata e che questa bestia non è buona a nulla; rispondi che è nociva a parecchi e che nessuno sarà danneggiato dalla sua morte. Rispondi che ti irrita, che vedi nei tuoi sogni le sue zampe scagliose, il becco lucente, gli occhi duri, vivi, neri, sempre svegli per la carneficina. Rispondi che lo incontri dietro gli eserciti mentre i lupi e gli avvoltoi lo incoraggiano al massacro. Rispondi che è tempo di stagnare il sangue versato a causa della tirannia, di curare le ferite, di far chiudere le piaghe, di dare ai cadaveri opportuna sepoltura, di finirla con le razze barbare e oziose, con gli uccelli di rapina che sugli altari, sui troni e sulle barricate frugano nelle viscere degli uomini per trovarvi il nutrimento per le loro odiose covate.
“Ti accuseranno di superstizione, d’illuminismo, di rivolta: lasciali dire. Le attrazioni comandano i destini, il bue segue il solco, il cane resta alla catena, il banchiere genovese non si preoccupa per nulla dell’avvenire. Ma il toro salta sulla spada, il lupo vive di caccia e il profeta considera il tempo che è capace di attraversare come una goccia d’acqua sul mare.
“Se ti sembro bella e degna di un amore violento, guadagnami allora. Cammina, scrivi, dispensa la tua esistenza nelle lotte civili, sii vincitore delle tue proprie sconfitte che paralizzano i tuoi sforzi. Se hai visto brillare nei miei sguardi il fuoco sacro delle pitonesse, assorbi questo ardore nella tua anima sensibile e gettati nella folla brillante dello splendore che fa notare e temere quelli che abbraccio col mio soffio.
“Impegnati sui miei passi, seguimi, confida nella via difficile in cui ti conduco. Quando sarò soddisfatta dei tuoi sforzi, ti apparirò nella notte, chinerò la mia testa sulla tua, inquadrerò il tuo viso tra i miei capelli; sentirai passare sui tuoi denti i miei denti così bianchi e il mio alito immortale. E se un giorno ti riterrò degno della gloria mi vedrai velata di una mantiglia sanguigna, più eterea, più estranea, più divina che mai. Ed allora leggerò fino in fondo nella tua anima e con le mie labbra brucianti bacerò le tue labbra per la prima e l’ultima volta!
“Attraverso di te gli uomini capiranno quale influenza eserciti sui loro destini la donna libera e bella. Attraverso di te le donne prenderanno coscienza della loro superiorità relativa, e approfittando del legittimo impero che a loro è dato sull’uomo, lo trascineranno verso tutto ciò che è buono, verso tutto ciò che è grande. Esse preferiranno diventare le amanti di coloro che si chiamano Tasso, Byron, Hoffmann, che le mogli, le prostitute a vita degli imperatori e dei banchieri che come solo merito hanno le piume d’oro”.
– Incantatrice dai piedi erranti, ascolta la mia promessa d’amore:
Che gli uccelli prigionieri sporchino le loro piume sulle sbarre delle loro gabbie; che vi prostituiscano i loro amori, che vi nutrano i loro piccoli; che vi muoiano come vi sono nati, ignoranti che nell’universo esistono i cieli e le foreste... Io canterò come gli uccelli liberi; essi s’inebrino dell’aspetto delle campagne ridenti, salutano il mattino colpendo col loro volo i raggi d’oro dell’astro glorioso, salutano la sera prendendo sulle loro ali il primo sguardo di luna; essi amano, sono amati, costruiscono i loro nidi negli alberi folti, sotto i fiori di lillà. Prima che la Fortuna, la grassa borghese, mi veda salire sul suo carro di trionfo, un’arpa in mano per cantare le sue lodi; prima che io mi stenda nei suoi lenzuoli di cotone... Prima di ciò il gran Reno tedesco risalirà verso la Svizzera, l’usignolo diventerà nero come il merlo chiacchierone, il leone abbandonerà i suoi piccoli senza difesa ai trappolieri del deserto, e le strade dell’esilio non saranno più calpestate dai sandali dei pellegrini dell’indipendenza.
VIII
“Amigito, riprese la bruna di Granada, qualche ultimo consiglio per darti il discernimento e la scienza. Perché io ti voglio ancora più diavolo di quanto sei.
“La tua mano è piccola, le tue vene sono dilatate, ramificate come una rete; il sangue vi passa troppo presto e si evapora, febbricitante, in un così lungo percorso. Non moltiplicare troppo le occupazioni del tuo spirito; ricordati di non allargarti troppo per meglio abbracciare.
“Il cardo penetra nei campi fertili, l’agrifoglio dai denti barbari trova il suo posto in mezzo ai noccioleti, tra i mughetti bianchi scivola la vipera. Così tra i tuoi capelli neri sono scivolati dei fili d’argento. Stai attento. Alla tua età i capelli non imbiancano che per le preoccupazioni, come il fieno sotto la pioggia. Accetta gli uomini come sono e il tempo come viene, e le idee quando passano. Il filosofo si deve armare di pazienza come il cacciatore in agguato.
“Chiaro è il tuo occhio, ma nere le occhiaie che lo circondano. E noi, quando passiamo vicino alle sorgenti di acqua viva, quando vediamo gli equiseti o i crescioni troppo folti, li strappiamo. Perché sappiamo che la fontana canterina sparirebbe ben presto sotto il loro fogliame e che i campi attorno ne sarebbero disseccati. Conserva la luce dei tuoi occhi, se dovessi perderla non troveresti sulla terra la scintilla per riaccenderla. E privo dalla sua guida il tuo spirito non saprebbe più figurarsi né la bellezza degli universi né la bruttezza degli uomini. E tu non vedresti più né il fiore del frumento né il colore del vino!
“La tua bocca si contraddice, le tue labbra sono sdegnose; aprile raramente nelle assemblee. Troppo grattare cuoce, troppo parlare nuoce. L’uomo si fa più torto con qualcuno dei suoi discorsi che con tutti i suoi atti. Dì poche parole, riesci nelle tue imprese, pervieni al tuo scopo e fissalo sempre. Il negoziante americano raccomanda a suo figlio: fai soldi, non importa come, non importa con chi. Tu vivi e muori libero, a qualsiasi prezzo, su qualsiasi terra tu ti trovi. E passa attraverso gli uomini di lettere e di politica come un cavallo al galoppo passa in uno sciame di vespe ronzanti”.
IX
– Bella, tre volte bella, ti supplico: cosa sarà dell’Europa?
– “Una distesa di sangue!
“Lo stelo dell’aconito ha portato i suoi fiori e i suoi frutti. I venti hanno disperso i dolci fiori, le bacche velenose sono rimaste sul fusto e il calore del giorno li fa maturare. Ecco! la Guerra raggruppa i suoi steli in fasci; con la sua mano di ferro colpisce i popoli e li spinge in avanti, come lo spazzino spinge avanti la polvere della strada.
“Il frumento ha portato i suoi grani d’oro. Subito è venuto il mietitore, ha messo il suo acciaio tagliente vicino alle radici, ha legato i covoni ed ha abbattuto tutto, tutto steso. Bisogna che i raccolti siano fatti, in caso contrario si perderebbero nei campi. Ecco! gli uomini sono riuniti in spessi battaglioni; nelle pianure sanguinanti le palle cadono come falci sulle spighe. Tutti questi pantaloni rossi sono tagliati come paglia. Ma il sangue scorrerà sulla testa di coloro che portano tanti soldati nelle lontane carneficine: il loro nome sarà scolpito nelle schiume degli oceani e nelle cime delle Alpi perché i popoli li anneghino e li lapidino.
“Senti, senti! Il Vesuvio grida con tutte le sue viscere; apre il suo più largo cratere, vuol essere sentito più lontano. Un generale invasore ripassa le Alpi come quel Brenno, quel Carlo, quel Borbone, quel Bonaparte che riempirono l’Italia di battaglie. I despoti d’Occidente tremano. Il trono di Napoli barcolla sotto gli sforzi dei pretendenti in stivali, vi salgono in molti. Ma dal Nord una grande mano si stende verso i paesi del Mezzogiorno, essa ne contiene altre tre, una mano vuol dire re legittimo. Salve! Montemolin che regnerai sulle Spagne! Salve principe reale di Napoli! E tu, il più piccolo dei reucci, Enrico V! La Russia ti restituirà l’eredità dei Capeti, tuoi genitori, qualche piccola signoria nell’île de France, in mezzo a un grande impero”.
X
– Bella, tre volte bella, ti supplico: cosa sarà del Mondo?
– “Vedo un robusto vignaiolo che vendemmia grappoli maturi, bianchi e rossi. Li riunisce in un tino di quercia, li mescola, li pressa, e fa uscire un liquore generoso e lui stesso s’inebria dei vapori che si liberano. – Quando ha finito il suo compito, getta sul tino un lenzuolo bianco e si addormenta.
“Vedo un conquistatore di una forza soprannaturale che comprime le vecchie società, i popoli d’Oriente e i popoli d’Occidente, sotto lo stesso giogo. Li mette sotto i piedi, li tiranneggia, li confonde, trae dai loro vascelli sangue rosso e sangue nero, e si inebria del suo odore. – Quando ha finito il suo compito, copre il mondo con un lenzuolo, e si addormenta.
“Orrore! il vignaiolo e il conquistatore sono rossi dalla testa ai piedi.
“Vedo il vino, il vino torbido che bolle e rigetta al di sopra del tino tutto ciò che contiene d’impuro. Questa fermentazione dura molto tempo. Poi il liquore nuovo diventa limpido e fa la gioia degli uomini che bevono insieme.
“Vedo l’Umanità che si dibatte, si agita e caccia dal suo seno tutti i tiranni che ostacolano la sua marcia. Questa confusione di razze e di idee dura soltanto un secolo. Poi le società libere e felici fertilizzeranno la terra e si svilupperanno pacificamente su di essa.
“Vedo il vignaiolo che si sveglia e si meraviglia di trovare il lavoro finito. Dissemina al suolo i graspi rimasti nella pressa, e questi graspi hanno dei grani, e questi grani riprodurranno nuove vigne. E i graspi e le bucce servono come concime per i campi.
“Vedo il conquistatore alzarsi al mattino, mettersi i suoi pesanti stivali, i suoi speroni e la spada che risuona. Poi è sorpreso che l’umanità sia rigenerata dalla guerra. Bisogna nascondere sottoterra le ossa umane spezzate nel naufragio della Civilizzazione. E sottoterra tutti questi resti germinano e sviluppano nuove esistenze.
“Figlio dell’uomo, grida con quanta forza hai:
“Bisogna che le razze umane si incrocino, che il loro sangue coli con la spada e l’ascia, che i loro elementi sociali: forza, industria, scienza, letteratura, belle arti, siano calpestati e messi sotto un lenzuolo.
“Poi l’Umanità rinascerà da questo cataclisma. Tre donne giovani e belle usciranno dalla sua morte, prenderanno l’uomo per mano e lo condurranno alla felicità. La prima è bionda e fragile, la Poesia. La seconda è bruna e forte, la Scienza. La terza è ricoperta da un’armatura di ferro, l’Industria. Salve! nostre sorelle nell’avvenire, salve!”.
… Il mattino si svegliava sulla Sierra grigia, i cavalli brucavano l’erba amara e nitrivano. I bruni gitani uscivano dalle loro tende, ciascuno portando sulla testa la sella della sua cavalcatura. Ole y Viva! cantavano.
“Addio! mi disse colei che non ho più visto se non nei miei sogni. Non ho mai detto ad un uomo vivo tante parole e non sono stata tanto chiacchierona nemmeno con mio marito la notte delle mie nozze”.
Poi rapida partì col piccolo piede lasciandomi con gli occhi spalancati e lo spirito dominato come se uscissi da un sogno.
Gitana, gitana bella, ti rivedrò un giorno?
XI
All’ora in cui ci si mette in marcia con coraggio, dove il valente sole comincia risolutamente la sua carriera, vidi la banda gioiosa sfilare sulla strada scintillante di biancore.
dio vi conservi, uomini liberi, e prosperità!
In testa marciavano i più portanti, i più belli, i più alti. Sui fianchi dei cavalli neri brillavano i pantaloni di velluto ornati di belle frange d’oro, di verde e di scarlatto. Portavano lunghi speroni, le camicie con guarnizioni che le loro mogli ricamano nelle lunghe marce, fini camicie profumate dai bottoni preziosi che fanno morire d’invidia il più bel figlio di famiglia.
dio vi conservi, uomini liberi, e prosperità!
Dopo veniva il grosso della truppa: i meno forti, i più piccoli, i ragazzi, le donne e i vecchi. Questi montavano rozze dalle code false, mule dai denti limati, asini zebrati da strani disegni; avevano fatta la loro toletta durante la notte per condurli l’indomani alla fiera di Arganda.
dio vi conservi, uomini liberi, e prosperità!
Li guardavo ancora con ammirazione quando due gendarmi che passavano mi dissero sotto forma d’avvertimento:
“Quando un gitano lascia dietro di sé un cavallo o una mula, non raccoglierli. Quando non può far camminare il suo asino, quando non riesce a venderlo o a ringiovanirlo, non cercare di trarne qualcosa. Quando ti offre un oggetto in cambio non prenderlo. Quando sua moglie ti tende la guancia, fatti indietro. I gitani sono gli incaricati d’affari di Satana in Spagna. I nostri avvocati non possono loro insegnare qualcosa con i bei discorsi e i cattivi processi. E noi stessi, guardiani del trono e della Costituzione, abbiamo paura di toccare l’ultimo capello della loro testa, perché è un pelo strappato dalla coda del diavolo.
“dio ti conservi, uomo libero, prosperità!”.
Essi passarono e per qualche minuto le loro grandi spade sbatterono contro le gambe dei loro cavalli trottatori. Ed io mi dissi:
Felici, felici gli uomini che non sono protetti dalla gendarmeria reale! Felici i bufali delle savane e la capra dei monti che i cani non conducono nei grandi pascoli! Felice il cavaliere che cavalca senza scorta! Felici gli amanti che vivono al di fuori delle leggi!
Felici i gitani che non pagano né l’imposta dell’aria né quella del sangue né quella dell’onore ancora più costosa! Felici i loro figli che si slanciano giovanissimi sui dorsi dei puledri e li conducono come montoni. Essi non appartengono a nessuna famiglia reale, crescono robusti esenti da ogni paura.
dio vi conservi, uomini liberi, e prosperità!
Famiglie venute da lontano e dappertutto straniere, famiglie dai piedi di cervo, dai lunghi capelli, famiglie dai costumi sconosciuti e quindi che fanno paura! Felici voi di cui non si conosce né il nome né la dimora, che non siete registrati al controllo della schiavitù, che potete nascere, morire e passare nel mondo, come sul mare la schiuma, come sulla terra la foglia, leggere e libere, seguendo il cammino delle stagioni!
dio vi conservi, famiglie libere, e prosperità!
Los estudiantes de España
Madrid, febbraio 1854
Era el bachiller, aunque se llamaba Sansón, no muy grande de cuerpo,
aunque muy gran socarrón; de color macilenta,
pero de muy buen entendimiento;
tendría hasta veinte y cuatro años, carirredondo,
de nariz chata y de boca grande,
señales todas de ser de condición maliciosa
y amigo de donaires y de burlas.
M. Cervantes
I
Discendono, discendono! Sentite il richiamo tonante delle nacchere, delle panderetas e delle chitarre? Vedete i loro brillanti costumi di cavalieri, i loro speroni d’oro, le piume scarlatte dei loro sombreros e le bandiere di fuoco? Sono loro che cantano:
“Ole! Ole! Viva il Carnevale di Madrid e gli studenti delle due Castiglie!”.
Dal seno di questo grande popolo amico delle feste si alzavano così mille voci gioiose. Ed io, come un trovatore, seguivo la folla fremente che correva davanti agli studenti ed ascoltavo con felicità i loro canti improvvisati.
– Mi ero meravigliosamente acclimatato nel paradiso della terra, nelle belle Spagne! Passeggiavo altrettanto coscienziosamente di un gitano, arrotolavo il sigaro de papel senza perdere tabacco; sapevo passare due ore alla Virgen del Puerto seguendo con interesse le danze degli asturiani, inghiottendo firme sole e polvere; mi facevo di già notare tra gli aficionados delle corride dei tori. Ero arrivato fino ad arrischiare opinioni ragionevoli sul taglio di un costume di majo, sulla qualità di un bicchiere di agraz e sul merito di un espada. Infine non facevo sentire molto il mio accento francese quando me ne andavo braccio sopra e braccio sotto con Xavier Charre e gli operai nostri amici, ripetendo:
“Ole! Ole! Viva il Carnevale di Madrid e gli studenti delle due Castiglie!”.
Amico lettore, se sapessi quanto questo caro popolo sia fiero, bravo, nobile e generoso, tu mi perdoneresti di consacrare al suo ricordo due povere righe di ammirazione!
II
Gli studenti scendevano la grande strada della Montera.
Quando li sentirono arrivare le señorita sistemarono le mantiglie e le spille d’oro, poi si affacciarono ai balconi posando le piccole mani sui ferri luccicanti pronte a cogliere al passaggio i cortesi complimenti.
Il gruppo si fermò davanti ad una casa di grande apparenza a forma di semicerchio e riprese il suo eterno ritornello:
“Ole! Ole! Viva il Carnevale di Madrid e gli studenti delle due Castiglie!”.
Molte ragazze sono alle finestre. Alla prima una piccola bruna di nobile aspetto che segue qualche pensiero d’amore nella distesa dei cieli. Alla seconda un’alta navarrese ben formata che mostra ridendo i suoi denti d’avorio. Alla terza una povera fanciulla e un vecchio pieno di amabilità, coppia tenuta insieme da catene d’argento. Alla quarta manolas e majos dalle risa brucianti, dalle forme sottili, risplendenti di gioia.
L’oratore della banda, l’elegante, grazioso improvvisatore Felipe Garcia, esce dai ranghi, accorda la sua chitarra e canta per la bruna sognatrice:
“Tu guardi la stella d’Oriente, bella Dolores! Vorresti forse diplomarti in astronomia? Cosa ti dice, Dolores, la pupilla tremante della stella d’amore? È fedele agli appuntamenti lontani il perduto innamorato? Ritornerà presto? Essere ingrato!
“Hermosa! guardami. Gli astri guardano anche l’ultimo degli insetti perduto nel verde e il pesce nell’acqua.
“Maravilla! Vi fu un tempo in cui le vostre nobili madri non credevano di fare una deroga cercando la felicità nelle nostre mansarde, un tempo in cui un grande di Spagna si vedeva rifiutato per un povero studente. Oggi voi preferite i titoli, gli onori, le caramelle, l’oro e i vestiti. Non amate più l’amore. Almeno fateci la carità, la riceveremo fieramente.
“Morenita! getta un cuarto nel mio tamburo di basco, se ne ha spesso bisogno per quanto piccolo sia. Io ti dirò quello che fa l’amico del tuo cuore. E il dono della tua mano lo utilizzeremo per le nostre prove di sangrador o per il curato. Giammai si perde una beneficenza”.
Quando finì Dolores mise qualche maravedises in un pezzo di carta azzurra, vi aggiunse due pastiglie di menta e lasciò graziosamente cadere il tutto nella sonora pandereta.
“Ole! Ole! riprese il coro. Viva il Carnevale di Madrid e gli studenti delle due Castiglie!”.
L’oratore continuò:
“A te adesso una strofa galante, Ramona, dolce amica che ridi di così buon cuore. Porta se vuoi le frange della tua mantiglia sulle labbra di corallo. Ti riconosco, nulla sfugge ad uno studente mascherato.
“Come lo chiamavi il bruno cavaliere di Granada che passeggiava con te nei mattini di primavera sotto le foglie del Prado? E cosa ti diceva quando vi serravate così stretti, capelli nei capelli, quando tu fremevi, poveretta, e tutti e due guardavate i pettirossi costruire i loro nidi?
“Tu lo sai Ramona, io ho il diritto di dire tutto o di tutto nascondere…
“Getta quindi un cuarto coronato nella pandereta del tuo fedele servitore e poeta. E noi andremo a bere alla tua bellezza qualche bicchiere di vino di Jerez, l’elisir delle fiere anime delle nostre Spagne”.
E Ramona la bionda staccò dai suoi lunghi capelli un bel nastro rosa vi mise la sua offerta e la legò ad un ramoscello d’arancio in fiore lanciandola graziosamente. E il dono della navarrese fu abilmente raccolto dallo studente che s’inchinò profondamente.
“Ole! Ole! Viva il Carnevale di Madrid e gli studenti delle due Castiglie!”.
La coppia del terzo piano avrebbe voluto lasciare il balcone ma era necessario ascoltare il discorso del trovador che così traduco:
“Hola! bell’amoroso di altre primavere, non restare così a lungo sotto la casta luna. Non vedi che inargenta i tuoi capelli e che ti rende ancora più casto di essa?
“Le nostre giovani donne rassomigliano ai corsieri andalusi. Sfortuna al cavaliere che le fa languire nella mollezza e nel riposo, nel mezzo di rastrelliere di marmo e coppe di cristallo. Non credete di domarle con redine d’oro.
“A loro bisogna il pungiglione, i denti contro i denti, la gamba sui fianchi, la mano nei capelli. Cercano la minaccia che promette la carezza, la disputa che riconduce la pace tanto desiderata. Date loro mattinate d’amore e serate di festa, di canzoni e di danze, di profumi e di fiori. Se no...
“Vedi la mia panderata vuota, hidalgo venerabile. Cerca di riempirla ed io rispetterò la calma della tua fronte. Inviamo qualche bel douro per il più grande onore della Scienza, mia amante.
“Perché i padri sono avari, i professori esigenti, i libri cari e lunghi gli studi. Tutto si compra finanche l’amore: lo sai bene hidalgo!”.
E il douro cadde nel tamburo che vibrò ancora. E l’improvvisatore lasciò il nobile gentiluomo continuare il suo incontro interrotto.
“Ole! Ole! Viva il carnevale di Madrid e gli studenti delle Spagne!”.
Allora Felipe Garcia, il bel cantante, alzò lo sguardo al quarto piano e riprese più contento:
“Manolas fastidiose, che non abbandonate la mantiglia né per il sole né per l’ombra, rose fresche dei balconi, accogliete i miei canti di festa. – Ole!
“Siete le nostre sorelle, le beneamate, le belle, le capricciose. Alle magnifiche Corridas dove salta il toro, nelle jotas stordenti, nelle tertullas dove si ride e si canta, siete le nostre compagne. – Ole!
“Come noi, siete veramente filosofe; disprezzate il denaro che non serve ai piaceri; temete il ripugnante lavoro, le tristezze e le pene che abbreviano la vita. Per tutto il giorno cantate, il vostro è un dono di gioia, la vostra è un’ebbrezza d’amore. – Ole!
“Non siamo qua per chiedervi le vostre povere economie, vi costano troppo care e vivete appena. Ma inviateci, dal fondo del cuore, preghiere e canzoni. – Ole!”
Sulle ali dei venti leggeri inviarono allora canzoni e preghiere. Man mano che le cantavano, gli studenti riprendevano in coro il ritornello:
“Ole! Ole! Viva il Carnevale di Madrid e gli studenti delle Spagne!”.
III
Gli studenti gioiosi sono arrivati alla Puerta del Sol tutta brillante di luci, alla Puerta del Sol tanto nota.
“Ole! Ole! Viva il Carnevale di Madrid e gli studenti delle Spagne!”.
Canta Pedro Perez, Pedro Perez di Segovia:
“Siamo gli studenti della eroicissima città di Madrid, fratelli cadetti di quelli laggiù, di Santiago di Compostela e di Salamanca la rinomata. – Ole!”.
Vicino di Pedro Perez passò un mulattiere chiaccherone.
“Amico borrico, disse all’asino del suo cuore che voleva riposarsi al suono del liuto, vi è più talento in una delle tue belle orecchie che in tutta la testa di un laureato di Salamanca. – Ole! Ole!”.
Ramon Alvar riprese, Ramon Alvar di Burgos, questa vecchia capitale della Vecchia Castiglia, Ramon Alvar, concittadino del buon Cid Campeador. Ascoltate quel che disse:
“Siamo studenti della sapientissima università di Madrid, i galanti, i gelosi, gli intrepidi, arditi con gli uomini dalle mani larghe, timidi con le fanciulle dai piccoli piedi. – Ole!
“Questi piccoli piedi li baciamo cento volte al giorno, la notte li teniamo nudi nelle nostre mani. – Ole!
“Nostra ambizione è di avere un buon cavallo, armi brillanti, donne dal forte cuore, dal cuore forte come quelle della Bibbia, come Maria Padilla, come le vergini indomite, le brune di Saragozza in Aragona. – Ole! Ole!”.
Alla fine di questa strofa, Ramon Alvar si sentì rudemente gomitato da don Jose Sevilla, il bel picador:
“Tu abiti nella calle de Hortaleza, Ramon Alvar, disse il picador, dormi sotto i tetti, vicino al cielo la cui veste capricciosa cambia tante volte di colore quanto cambia il cuore della donna innamorata. E ti addormenti tranquillo ogni sera, Ramon Alvar!
“Nel frattempo donna Carmen la bella, riposa nella stanzetta dalle pareti verdi, distesa sotto il copripiedi azzurro, davanti all’armadio a specchio. Dorme senza rimorsi, Ramon Alvar, le donne non hanno più coscienza!
“Ed io ti dico che tu hai morso Carmen sul seno sinistro l’altra notte. Ciò non è giusto, Ramon. Perché le donne mostrano certe ferite all’amante che prediligono e gli chiedono sangue per sangue. M’intendi Ramon, Ramon Alvar? – Ole! Ole!”.
Anche Ramon Alvar fu quindi obbligato a interrompere il suo canto come aveva fatto Pedro Perez. È con la rabbia in cuore che andò a parlamentare con don Jose Sevilla, il bel picador.
Poi fu la volta di Manuel Cordova, hijo di Madrid, la città bianca. Così cantò Manuelito:
“Noi siamo gli studenti, la speranza delle grandi Spagne.
“Negli anni di pace e di felicità passeggiamo spensierati. Seguiamo l’astro d’oro che lascia cadere le ore. Facciamo cigaros e canzoni.
“Perché amiamo la vita. – Ole!
“Ma quando il nemico, nel suo orgoglio, avanza contro le nostre vecchie Spagne!… Gli andremo incontro, lo aspetteremo. E il nemico sarà respinto, come sempre, da questo libero paese. – Ole!
“Gli andremo incontro attraverso la polvere, le spine, i sassi e le gole della Sierra, nel sangue e nella carneficina. Gli andremo incontro sui vasti mari. – Ole!
“Sui flutti dei vasti mari, sotto l’ala della tempesta, nel turbine, nella notte, nel mezzo dei fulmini e dei vascelli che affondano. – Ole!
“Attraverso i battaglioni coperti di ferro, sui dragoni pesanti e i lancieri leggeri, e gli ussari dai ricchi costumi, sui petti corazzati, sui tiepidi bronzi e i corsieri ansanti, passeremo. – Ole!
“Perché non conosciamo il pericolo e non temiamo la morte. – Ole! Ole!”.
“Viva il carnevale di Madrid e gli studenti delle Spagne!, riprese il coro”.
IV
Poi passarono davanti al gran soborgo di Toledo, così popolare. E andarono tra la folla cantando.
“Compañeros, compañeros! Ole y Viva!!
“Viva i bravi mulattieri delle Castiglie, della Mancia e del regno di León! – E le eloquenti lavandaie che fanno discorsi così galanti a coloro che passano sui ponti del Manzanares! – Viva i Serrano agili nelle danze; i Maragato dai sombrero a forma di parasole, i figli di Pelayo, ottimi giocatori di palla asturina; i gitani dal corpo di serpente; quelli della Murcia che ci portano i frutti dorati; quelli d’Aragona che ringiovaniscono le nostre mule! E quelli di Siviglia che potrebbero parlare una giornata senza bere!”.
“Amigos, Amigos! risposero i bordigiani: Ole y Viva!!”.
“Viva San Jago di Galizia, il vecchio patrono sul suo cavallo bianco! – Viva Granada e l’Alhambra! Valenza e Salamanca! Burgos e Valladolid! – Viva Cadice e i suoi cannoni! Toledo, castello del Tago! L’eroica Bilbao! Saragozza l’imprendibile! E Jerez dai verdi pampini! – Viva la bella Siviglia! La fortificata Pamplona! E Madrid la disseccata. Fino alla Tierra sul mare! (Cerco soprattutto in questa strofa di imitare la cadenza delle arie popolari spagnole. Questa misura trascinante si è impressa così profondamente nel mio spirito che mi sarebbe impossibile costringermi ad un altro ritmo ripercorrendo le scene della vita madrilena. Questa annotazione si applica peraltro a tutti i capitoli in cui tratto della Spagna).
“Ole! Ole! Viva il Carnevale di Madrid e gli studenti delle Spagne!”.
V
Seguiti da molta gente essi arrivarono infine alla piazza del palazzo delle Cortes e si raggrupparono intorno alla statua di Cervantes l’immortale. – Gloria ai grandi!
Allora Francisco Gomez de Alcada si staccò dai suoi compagni e scoprendosi la testa disse:
“Oh! Miguel Cervantes! primo fra noi Spagnoli, grande ombra il cui riso di scherno è salito fino al cielo,… quando lottavi senza speranza contro la miseria e l’oblio: quanto dovevi soffrire!
“Tu che hai capito così bene l’ironia castigliana,… mentre il popolo di questo paese passava sotto la tua finestra, splendente di verve e di gioia, ignorando il tuo nome – questo nome che l’universo oggi ripete: quanto dovevi soffrire!
“Quando la tua penna mordeva la carta, quando la tua testa bruciante partoriva cose meravigliose, quando eri al settimo cielo!… E quando li sentivi nella strada, cantare e magnificare qualche vecchia ballata, senza spirito, senza amore: quanto dovevi soffrire!
“Vivere così, sconosciuto tra il popolo che si contribuisce a far diventare famoso! e tuttavia respirare il soffio del suo genio, il delirio della sua febbre; sorridere delle sue gioie; rattristarsi delle sue pene; vedere solo questo popolo ingrato! E consumarsi, da un crepuscolo all’altro, nel lavoro divorante del pensiero! È l’inferno quaggiù! Quanto dovevi soffrire!
“Oh! vivere in questo modo! Vivere sconosciuto fra il popolo che si illustra! E non respirare tuttavia che il soffio del suo genio, il delirio della sua febbre; non sorridere che alle sue gioie, non indurirsi che alle sue pene, non amare, né vedere che lui, questo ingrato popolo! E consumarsi, da un crepuscolo all’altro, nel lavoro divorante del pensiero! È l’inferno quaggiù. – Quanto dovevi soffrire!
“Aver conosciuto la propria forza, sapere che si sta facendo un’opera, sapere che si sarà grandi! E morire immortale, ignorato, miserabile, mentre si sente la gloria battere le ali sulla propria tomba! È l’inferno quaggiù! – Quanto dovevi soffrire!
“Mancare del pane del corpo e del pane dello spirito! Contare gli anni, i giorni, i minuti così lunghi quando si attende la Gloria all’appuntamento. Dibattersi come un’aquila nella ristretta prigione della realtà; senza fuoco, senza vino, senza libri, in una nuda soffitta! È l’inferno quaggiù! – Quanto dovevi soffrire!
“Oh! Miguel, quando la Gloria crudele ti lasciava in equilibrio tra il cielo e il caos, quando t’inviava la Sofferenza e le Disillusioni, suoi demoni precursori, quando ti chiedevi: sono pazzo? sono grande?… e non sapevi cosa rispondere. – Quanto dovevi soffrire!
“Quando il sole sorrideva alla terra, quando i fiori d’arancio facevano evaporare l’incenso delle loro corolle, quando l’uccello cantava felice sulle palme, quando il pesce dorato si slanciava fuori dalle onde, quando le ragazze si mettevano al balcone...
“Quando le vedevi sottobraccio ai vanesi e tu te ne andavi triste! Nessuna che avesse saputo capirti, che avesse saputo dirti: consolati don Miguel Cervantes de Saavedra, versa nei nostri capelli le tue preziose lacrime. Perché ti amiamo, noi donne ti ammiriamo e ti adoriamo! E sempre l’avvenire conferma le predizioni del nostro cuore.
“Quando neanche un angelo ti guardava, Miguel!... Quanto dovevi soffrire!
“Colpevoli le donne che lasciano spegnersi nell’abbandono anime così grandi! Colpevole Laura! Colpevole Eleonora! Sono certo rari sulla terra uomini come Petrarca e Tasso, ma vi è un solo Cervantes al mondo!
“Quando uomini del genere si degnano di elevarvi fino al loro cuore, principesse o grandi dame; quando essi perdono con voi ore di un prezzo inestimabile; quando trasmettono alla posterità i vostri nomi insignificanti con i loro nomi illustri...
“Dovreste piangere, voi che non avete altro che un cuore e un’intelligenza ordinari, per salvarli e comprenderli. Dovreste gemere, e riscattare con una infinita tenerezza l’imperfezione delle vostre nature!
“Studenti delle Spagne! Fratelli miei, intrecciamogli corone con i rami degli alberi d’Iberia; conserviamo la sua grande immagine nelle sale delle nostre università, che egli sia la nostra ispirazione, la nostra vita, il nostro amore, il nostro dio!
“Ritorniamo tutti gli anni ai piedi della sua statua per insegnare agli uomini a rispettare la gloria, riscaldiamo con i nostri omaggi il cadavere d’un grande che i nostri padri, nella loro ignoranza, fecero scendere nella tomba prima del tempo!
“Sulle mura della sua casa scolpiamo il suo nome; scolpiamolo nel marmo in caratteri d’oro. E facciamo della sua soffitta un tempio di luce scintillante nell’avvenire davanti agli occhi in lacrime delle nazioni!!”.
“Ole! Ole! Viva Cervantes dai tratti critici, l’angelo dell’ironia! Viva la verve castigliana, il Carnevale di Madrid e gli studenti delle Spagne!”.
Io esule, consacro queste pagine alla tua memoria, soldato di Lepanto, lavoratore sublime; raddrizzasti i torti del tuo secolo ipocrita! Amo i tuoi tratti aperti e la tua franca ironia, e il tuo divino linguaggio, e la tua anima intrepida; amo i costumi, le conversazioni, gli stessi aspetti ridicoli di un popolo che si riassume in te. Tu mi hai dato gioia nella solitudine, consolato nella tristezza, sostenuto nell’avversità, ispirato nella lotta intrapresa contro gli uomini del mio tempo, meno nobili di cuore, più deliranti di lingua dell’ingegnoso hildago della Mancia. Dovunque tu sia, Cervantes, nella penna di Proudhon o nell’anima di Toussenel, ti saluto, ti benedico!
Una festa universale a Lisbona. Trionfo di Venere
Settembre 1855
Magnificat!!!
I
Conoscete il giardino d’Europa, la bella Lusitania? È la fidanzata dei due oceani: l’uno che viene dal Nord e si riscalda al suo sole; l’altro che, dal mezzogiorno, scorre sotto i suoi alberi splendidi per rinfrescarli con onde di porpora e d’azzurro.
È il paese in cui il pomodoro ha la carne vermiglia come il sangue; dove il sapore dei frutti fa desiderare la sete; dove la tenerezza delle acque fa benedire il sole; dove la vigna, simile alla donna robusta, non ha le foglie sufficienti per nascondere le sue inebrianti attrattive.
Oggi vecchia, delusa, gettata come zavorra sui gloriosi vascelli che portano sul mare la superba Albione, la gente portoghese non è stata sempre così. Essa era grandissima quando i colori dei suoi vascelli facevano conoscere lontano il suo nome; quando l’Africa, le Indie e le due Americhe tremavano al solo rumore dei suoi remi; quando aveva per capitano Albuquerque, Cabral e Vasco de Gama; quando aveva per bardo il grandissimo [Luís] Camoëns, alcione che si esaurì per cantarla!
– Lezione molto adatta ad abbassare l’orgoglio delle potenze terrestri, se qualcosa potesse guarirle dal loro incurabile male! Esse si dicono grandi, dispongono della sorte delle nazioni secondarie con una maestà veramente buffa. Poi arriva uno degli eroi di Huns o dei Cosacchi, oppure un mercante di cotone che dice: mi chiamo leone o avvoltoio, mi si paghi il tributo della gloria e delle ricchezze che dio riserva ai suoi eletti! Perché in queste forme di rapina, dio, il buon dio, il dio giusto e potente, il dio delle guerre e dei congressi, tiene sempre la folle bilancia che fa scorrere il sangue di cui le spade grondano!
È una favola che i pastori di uomini insegnano ai loro piccoli fin da quando fanno crescere i denti e le unghie, quella del lupo ricoperto degli abiti del pastore. E tuttavia i popoli-greggi trasaliscono d’allegria tutte le volte che una di queste belve fa un balzo di voluttà. –
… Lasciati condurre da me lontano dal presente, supponi lettore che venticinque anni sono passati da quando la proprietà ha smesso di essere un privilegio, da quando l’interesse si confonde con la felicità, da quando la Spagna e il Portogallo hanno formato, con la loro unione la Repubblica d’Iberia, da quando tutti i popoli sono fratelli, leali e fedeli confederati.
Vedete il movimento e l’attività che regnano a Lisbona! Non è più per festeggiare la Vittoria e la Carneficina che gli uomini si preparano. Sbarazzatisi dei re, dei curatori e dei burloni consacrati all’altare, liberi come l’aria viva e l’onda gioiosa, celebrano l’anniversario della Santa Alleanza dei Popoli.
L’Autunno riflette la sua salute, la sua faccia rossa sui pampini e le nuvole. Il vento libera nell’aria i mille colori delle nazioni. Il palazzo di Bélem, ricordo del passato, i nuovi monumenti dovuti al genio dell’indipendenza, i marciapiedi, la città intera, tutto è annegato nell’armonia, le delizie delle arti e i fasci fiammeggianti delle luci.
Oh! tutto ciò vale molto di più delle astuzie tenebrose dell’interesse, dei tradimenti dell’odio, delle provocazioni della vendetta, delle urla di agonia dei soldati mutilati, del tuono del cannone e dei diluvi di sangue!
Cantate dunque e danzate, figli dell’Iberia! Cominciate tintinnando i bicchieri, mescolando i profumi dei vostri sigari fumanti. E poi pensate ai deboli; alle donne, ai bambini, ai buoni vegliardi; siate loro protettori, loro amanti, loro amici, loro fratelli. E poi pensate ai morti: portate fiori sulle loro tombe, offrite loro le primizie della splendida festa. Così che si possa dire:
Felici i morti! I loro corpi hanno riposo, le loro anime l’amore, guadagnato con lunghe fatiche. I loro eredi, nella felicità, non sono ingrati, li riscattano e li rialzano dal sepolcro! – Alleluia!
II
Il mattino ha sorriso. Trasportati dall’amore il cielo e il mare si guardano fino in fondo all’anima con i grandi occhi dei loro abissi. I raggi del sole corrono nell’aria che separa i loro bei visi come un’effusione dei teneri pensieri. Mentre il grido acuto dell’uccello marino e il canto monotono del pescatore sembrano sospiri ansanti di monti che si abbracciano.
– Arance e melograni, arrossite! Maturate uve! Fremete ruscelli delle pianure! Montagne e colline, piangete abbondanti fonti! Fanciulli e donne, inteneritevi, intrecciate corone. Non vi sarà mai troppo vino, fiori, frutti, lacrime di allegria per celebrare la bontà della Natura e dell’Uomo infine riconciliati!
Preparate fin dalla vigilia, le barche gioiose escono dalle insenature delle rive, baciano le acque salate col becco della prora e si abbattono su di loro, come i gabbiani quando salutano l’aurora.
Appaiono sull’Oceano come la coorte di trombe precede l’esercito sulla terra. Appaiono sull’Oceano come nel cielo le prime stelle del mattino e della sera, quelle che ci annunciano il ritorno della notte e del giorno. Come le stelle brillano dei più vivi colori, come la coorte di trombe elevano nell’aria accordi eclatanti. L’abbiamo detto, questa volta si tratta dei canti della felicità.
– Ole! Ole! Colpite le onde in cadenza; abbassate, sollevate i remi leggeri; inclinate i vostri berretti rossi sull’orecchio attento; bevete, ridete, danzate bei pescatori lusitani! Non saranno mai troppe le canzoni per celebrare la bellezza della Natura e dell’Uomo finalmente riconciliati!
Da tutti i porti del mondo, da quelli vicinissimi a quelli lontanissimi, sono partite le belle navi cariche di passeggeri! Ed ora penetrano nelle acque del Tago, le bianche vele al vento, agli alberi i bei stendardi. Fra le sartie, i marinai sono più felici dei re. Poiché mai celebrano festa più bella, sotto l’ardente Equatore, per il buon Tropico, il grande bevitore che conserva tutto il suo buon vino per i suoi ragazzi e regala ai passeggeri l’acqua verde del mare.
Agli accordi dei loro canti, le carene sollecitano muovendosi il grande fiume dalle acque dorate. Sul suo fine letto di sabbia, fra i mille fiori delle sue rive incantate, esso si allunga e si contorce, simile a un sultano che sollecita una dopo l’altra le bellezze delle sue odalische.
Brucia, arrossisce, scoppia, polvere sorella dei lampi. Tuonate bombarde e scialuppe! Vecchi baluardi di San Giuliano rendete loro mille saluti! Godete, cantate la gloria come ai tempi in cui i vostri potenti squadroni tornavano dalla conquista dei grandi continenti! Bianche creste dei flutti, sollevatevi per sentire e poter vedere! Voi, contadini e cittadini, bruciate querce e lecci sugli alti monti! Ragazzi e ragazze, accendete le fiaccole d’amore! L’immensità può contenere i sollazzi di tutti gli esseri! Mai fuoco, luci e tenerezza saranno abbastanza per celebrare la bellezza della Natura e dell’Uomo finalmente riconciliati!
III
Primi nati di Teti, agili corridori, gli Inglesi hanno superato tutti gli europei. Sentite l’armonia soffusa dei pifferi! Vedete i loro stendardi scarlatti rigati di bianco e di blu, quegli arditi stendardi, simboli di speranza, di perseveranza, di libertà, quegli stendardi che rispettano i popoli!
Welcome to Saint-James! Rule Britannia!
Ma prima degli Inglesi, sono approdati nel porto i prediletti dal mare, i suoi figli più giovani, i più forti, gli Americani dell’Unione. Salute alle strisce di porpora delle loro bandiere, alle loro stelle d’oro! Salute alla grande Repubblica che seppe mantenere la sua indipendenza in mezzo alla schiavitù del mondo antico! Onore ai Titani dell’industria!
Long life to Liberty! Further and for ever!
Aquila nera di Russia! Per molto tempo il mondo ha temuto per la stretta dei tuoi artigli, per lungo tempo ha tremato sotto le tue ali tese come un vivo sudario! Ora non occupi più che un angolo delle bandiere in cui la Croce brilla trionfante! – Gloria al Cristo portatore della forca! –
Gloria all’immenso popolo che passò sugli altri come un turbine di furore, annullò le loro controversie, risolse i loro litigi e, nel suo seno ardente come una fornace, forzò le loro diverse qualità a venir fuori in tutto il loro splendore!
Ora la razza slava è entrata nella corrente delle nazioni. Essa vi sviluppa il suo amore di giustizia, d’indipendenza, la sua audacia e la sua bravura. Per lungo tempo schiava e per lungo tempo conquistatrice, essa poté godere della pace solo dopo aver vissuto la sua penosa carriera!
Hurrah! Grazie ti siano rese per il tuo grande lavoro, o popolo delle savane così spesso misconosciuto!
Tutto intorno al golfo, alla portata del carbone, brontolano i pesanti vapori, simili a ruminanti che digeriscono. Ascoltateli, questi grandi serpenti del mare! Hanno il fuoco nel ventre e acqua fino al collo! fumano schiuma ed eruttano fumo, i mostri partoriti nel diciannovesimo secolo! Lasciano dietro di loro lunghe scie: una nera nell’aria, una bianca nell’onda; tutto trema al loro passaggio!
Tutto, eccettuato l’uomo fieramente piazzato sul loro dorso, come i valenti cavalieri della Tavola rotonda sugli ippogrifi.
Tossite, sputate, sbuffate vapori! L’uomo eccita e modera la vostra rabbia impotente secondo la sua volontà!
Così sono arrivati i popoli d’Oriente, i vecchi mariani i cui padri gettavano l’ancora nei porti di Cartagine, di Sidone e di Tiro, quelli che fecero le prime circumnavigazioni dell’Africa e raccolsero a piene mani nelle vergini miniere di Golconda!
Sono questi gli uomini più belli e più artisti di tutti. Perché essi adorano la donna, l’usignolo, i profeti e gli astri, tutto ciò che vi è di più benevolo e di più dolce al mondo. Perché essi si addormentano per sognare la strada profumata d’incensi. Perché amano sognare cullati dai flutti scintillanti dei mari felici o sulla sella dei corsieri che nutrono l’Arabia.
Allah! Allallah!
Contateli tutti:
Ecco i Persiani. Ecco i Turchi, popoli poeti che cantano la notte e prendono per emblema la Luna crescente.
Ecco le potenti tribù dell’India. Esse avanzano con i ricchi vascelli usciti dai cantieri di Calcutta, di Bombay, di Madras.
Ecco i patriarchi dei navigatori, i Cinesi sulle loro giunche scintillanti d’avorio, di porcellana e di pietre preziose, brillanti nel mare come grandi alcioni.
Per vederli arrivare tutto tace di colpo. Il mare è infuocato. L’aroma dell’autunno mescola i suoi dolci profumi ai sentori dell’arancio, all’alito delle rose, alla pura voce dell’allodola le cui ali scintillano come una stella viva. Oh! Natura, Natura, non c’è niente più grande di te! Possano gli uomini lasciarti parlare il più sovente possibile il linguaggio delle tue armonie!
Alleluia!
Opera di Bolivar, o belle repubbliche che prosperate finalmente dopo tante discordie, Plata, Cile, Venezuela, Nuova Granada [antico nome della Colombia, n.d.t.], Equador, Bolivia, accorrete per rivedere le spiagge degli imperi da cui partirono i vostri padri! Che l’Amore riavvicini ciò che l’ambizione separò! Che i flutti siano rossi di vino, non più di sangue. L’olivo tende agli uomini i suoi rami flessuosi.
Vayan, vengan las naciones hermanas!
E tu, razza nera, da secoli diseredata, da sempre asservita, tu non vieni a queste feste, incatenata come sei nella stiva dei vascelli stranieri. Che tu sia libera e grande, rigenerata dal tuo incrocio con tutti i popoli del Sud. E dalle belle rive dell’Africa, le tue navi risplendano di topazio e d’oro e portino i tuoi uomini nuovi in tutti gli angoli del mondo.
Salute Indipendenza!
Dalla riva dorata, governate, ammarrate i vostri numerosi bastimenti, uomini del Nord, Danesi, Norvegesi, Svedesi, Scozzesi, Tedeschi! Cantate per noi i canti dei vostri bardi: quelli di Ossian e di Schiller, quelli di [Christoph Martin] Wieland e d’Herwegh! Andiamo! fate risuonare l’eco sotto il suono del corno delle montagne e il rullio dei terribili tamburi!
Oberon! Oberon!!
Voi, Italia, Francia, celebri nelle arti e nella letteratura, quali capolavori apportate all’Olimpiade dei popoli riuniti per cantare la felicità e il genio degli uomini?
Cosa portate loro? Voi avete per teatro i posti più belli dell’universo, e i migliori artisti di ogni paese sono pronti a mettere in luce le creazioni degli autori drammatici.
Viva! Evviva!
Agili come pesci, rapide come frecce, le fregate delle isole passano fra le navi dei popoli che galleggiano sull’abisso profondo. Messaggeri dei continenti, schiuma di mare, esse portano ciò che hanno pescato e sono accolti da tutti i porti con grida di gioia.
Libere sono le isole verdi! L’Universo è senza padroni, l’Universo si appartiene!
Avanti! Alante! È il grido d’alleanza dei fanciulli d’Iberia.
Ora essi formano insieme un popolo di cavalieri e di eroi. Nella guerra contro gli elementi, nelle grandi solennità che riuniscono gli uomini, dappertutto dove si trova il pericolo e il piacere si trovano in prima fila.
Eccoli, eccoli sulle pesanti barche che portarono in terre lontane Colombo, Vasco da Gama, Cortes, Cabral, Pizarro, tutti questi illustri capitani di mare, e quello ancora più grande, il poeta omerico, Camoëns!
Li hanno conservati questi resti gloriosi, per ricevere le nazioni. Alle salve d’artiglieria di tutto il mondo, mille volte ripetute, li vedete uscire dalla rada! Le bandiere si inchinano rispettosamente davanti ai loro colori oro e porpora. La Confederazione dei popoli rende gloria ai morti.
Gloria, gloria ai grandi nei secoli dei secoli!
IV
Quale soave melodia riempie l’aria? Verso dove volano le allodole e i colombi selvatici? Perché le nuvole accorrono da tutte le direzioni dall’orizzonte, attirate da una corrente irresistibile? Cosa saluta la folla con le sue acclamazioni?
Sono gli aerostati che discendono sulla città gioiosa, sono i grandi omnibus dell’atmosfera che trasportano le popolazioni da un punto all’altro del globo.
Tutta questa gente arriva cantando alla festa magnifica. Dall’alto dei cieli, i bambini e le donne lasciano cadere sulle navi e sulle case valanghe di fiori.
Discendete rugiade del mattino, nuvole umane, dorate, argentate, azzurre, rosse, verdi e bianche, scendete! La brezza è bella! La voce tonante dei cannoni, i cuori degli uomini, i brillanti fuochi d’artificio vi chiamano sulla terra. E le labbra, le anime e le braccia sono tese verso di voi!
Gli angeli del cielo, sono le donne e i fanciulli dell’Avvenire belli della felicità!
Fra tutti questi aerostati, gli uni rappresentano navicelle, lampadari, corone, corone di gigli, recipienti di cristallo. – Altre, il sole, la luna, le stelle, o il globo terrestre imbandierato con tutti i suoi stendardi, brillanti sotto l’arcobaleno. – Altri, Mercurio e Amore, che portano cesti pieni di bouquet e regali. Fra i regali alcuni sono pesci volanti, uccelli, animali favolosi. – I fiori sono disposti per rappresentare gruppi di isole, le Ionie, le Cicladi, le Antille, le Molucche, i più belli arcipelaghi dei mari.
Già da molto lontano, i loro emblemi e i loro colori dichiarano i differenti paesi da cui vengono, ma, man mano che si avvicinano alla terra, i canti delle persone che portano i loro variati costumi li fanno riconoscere ancora meglio.
Da tutte le parti della Penisola, seguiti da lunghi convogli, arrivano le locomotive sbuffanti, sputanti vapore, soffianti. Esse sono talmente ardenti, rapide, pronte a virare, ad evitarsi, ad incrociarsi, che sembrano animate di un’esistenza propria. Sui loro candidi fianchi, portano nomi d’artisti celebri o di animali utili. Questo perché l’uomo si sforza di far vivere la materia, di poetizzarla, di formare con essa un essere a sua immagine al quale possa legarsi come alla sua creazione.
Tutto è stato preparato per ricevere coloro che arrivano, un cerchio cosparso di petali di rosa, circondato da ghirlande, da foglie e da nastri, bordato di scritte che celebrano il loro benvenuto. Migliaia di tamburi e di trombe li annunciano. Sulla strada che dovranno percorrere, dall’imbarcadero alla città, su due pedane sono sistemati i bambini portoghesi che distribuiranno al loro passaggio fiori, arance, sigari, versi, incenso e acque profumate.
Angeli dei cieli, angeli custodi e ospitali, questo sono i bambini. Ci accolgono con la gioia nel cuore e la grazia sul volto, ci domandano carezze e baci; quando li si viene a trovare, essi sono sempre felici.
V
I popoli si riuniscono nelle immense sale verdi; si riposano della fatica del viaggio; vi trovano piatti squisiti, bevande ghiacciate, i più bei frutti degli alberi.
Poi viene annunciato che le solennità del giorno sono inaugurate da cinque grandi escursioni nella natura.
Gli eserciti lavoratori sono convocati per l’assalto a una roccia sotto la quale è stata scoperta una miniera d’argento, per l’irrigazione d’una pianura, per il taglio di una foresta, il varo d’un vascello d’alto bordo, per una lotta contro i tori lusitani.
Brillanti equipaggi condotti da corsieri andalusi attendono gli spettatori che devono partire per diverse destinazioni.
Hasta! Hasta!
– Ho detto che la giornata di festa sarebbe cominciata con dei lavori. In effetti, ormai non c’è che una sola parola per designare il lavoro e il piacere messi insieme. Tutte le occupazioni della vita sono divenute attraenti per l’uomo. I più rudi lavori vengono eseguiti in mezzo a concerti d’allegria. L’umanità non concepisce più divertimento che non si accompagni all’utilità, più impresa utile che si compia con fatica. –
VI
Nella pianura, sotto mille brillanti bandiere, sono riunite le legioni dei lavoratori che si preparano alla loro grande opera al suono degli strumenti guerrieri.
I minatori portano un’uniforme grigia come la pietra; hanno a fianco il martello, la torcia e la leva pesante. Gli agricoltori vestono una blusa a fondo bianco sulla quale sono disegnati rami di alberi e piante rare; alla cintura hanno la vanga, la zappa e le forbici per potare. I tagliaboschi indossano la tunica verde, scura come foglia di quercia; la sega e la scure pendono dal loro fianco. I marinai sono coperti dalla loro blusa scarlatta, simile alle acque colpite dal sole al tramonto; portano l’ascia sulle spalle e all’anca sinistra la grande sciabola dalla lama affilata. I toreri indossano il giustacuore di cuoio fino; hanno i capelli ornati di piume di fagiani e di pavone, i loro fucili luccicano come argento: essi sono i più numerosi e i più animati.
Quando suona la prima fanfara, tutti gli operai saltano in sella e conducono i loro cavalli con una grazia perfetta. Ognuno possiede il suo, e i più grandi generali civilizzati non ne avevano di simili nei giorni di battaglia.
– Quando il lusso non sarà più privilegio della fortuna, il cavallo diventerà il compagno inseparabile dell’uomo. E questo non faticherà più senza utilità, senza piacere, a fare a piedi lunghi tragitti, utilizzerà le sue forze solo per animare i suoi gioiosi lavori. Allora, le razze dei cavalli si moltiplicheranno, diventeranno sempre più belle, all’infinito, con gli incroci e le buone cure.
Dietro ogni gruppo di operai partono approvvigionamenti e le pesanti macchine che devono aiutarli nel loro lavoro. I furgoni che le contengono sono trascinati velocemente da zebre e da asini dai piedi sicuri.
Quando suona la seconda fanfara, ogni truppa si lancia nella sua direzione con tutta la forza di cui sono dotate le gambe dei suoi corsieri. Le strade sono annaffiate, scopate, i cavalieri non sollevano più nuvole di polvere ed esse spariscono davanti a loro come per incanto.
Arrivate sul teatro del loro lavoro, le armate sono accolte dalle acclamazioni degli spettatori disposti nel miglior modo possibile per seguire le operazioni di ognuna. Niente può dare l’idea dell’emulazione che viene eccitata dalla vista delle donne che devono incoronare i vincitori di questi grandi tornei.
– Ah! quando l’uomo sarà liberato dagli interessi mercantili e ingiusti che comandano oggi tutte le sue relazioni; quando la grazia, la benevolenza, la bellezza, l’amore della donna gli sembreranno meritorie più che un capriccio o l’insulto di un salario; quando egli si onorerà d’essere galante e generoso come lo erano Ercole, Teseo, Ettore, Antonio e i prodi del Medioevo, come lo furono in ogni tempo i più intrepidi e i più forti: allora comprenderà quali promesse, quali comandamenti, quali punizioni e quali ricompense vi sono nello sguardo della donna, soprattutto di quella che non siamo abituati a vedere e che viene alle nostre feste, da un paese molto lontano.
Le donne non saranno allora smorfiose, ritrose, frenate come quelle di oggi, per non so quali ristrette convinzioni; esse testimonieranno francamente, ingenuamente, la loro ammirazione, la loro indifferenza o il loro sdegno a coloro che l’avranno meritato. In tal modo che la vista della donna diventerà per l’operaio la più piacevole attrattiva del lavoro, e più le resistenze o i pericoli appariranno invincibili, più egli si sforzerà di vincerli per ottenere la ricompensa dalle mani della bellezza.
I minatori si sono sistemati ai piedi della montagna che devono distruggere.
Dura è la pietra, solidi i suoi attacchi e scuro il suo aspetto. Ma l’ingegnere ha fatto attentamente l’esame degli accidenti della sua superficie, ha concepito il piano d’attacco e dà ora il segnale per l’azione.
Immediatamente risuona il formidabile accordo dei tamburi e degli strumenti di cuoio. Su diversi punti contemporaneamente, gli operai avvicinano alla polvere le torce accese. Rinchiusa in un cerchio di fuoco, la roccia si stacca in enormi blocchi, scoppia nell’aria come l’eruzione di un vulcano. I martelli e le leve continuano l’assalto cominciato dal fuoco. Il minatore che si è più distinto in questa pericolosa impresa riceve la corona del trionfo.
Il coro canta:
“Nessuna cosa resiste all’uomo; la terra e i suoi tesori sono suoi. Pietra avara che racchiudi nelle tue viscere un metallo prezioso, ti abbiamo fatto saltare, nostre sono le tue ricchezze. E la polvere volando portata da tutti i venti del cielo andrà a testimoniare molto lontano il potere dell’uomo sulla natura!”.
Da parte loro, gli agricoltori entrano nella pianura sulla quale vogliono spandere il doppio bene della freschezza e della fecondità.
Fino ad allora non erano cresciuti che rovi rampicanti da cui i pastori coglievano sdegnosamente i frutti, oppure erbe gialle e dure, o ciuffi di ginestra e di erica in mezzo ai quali viveva indisturbato tutto un popolo di conigli, flagello della contrada.
Il piano delle operazioni è già tracciato in precedenza. Si importano i bufali d’allevamento dall’Europa, i forti tori allevati sulle rive dell’Ebro e della Guadiana. Questi sono legati a dieci a dieci a carri ornati di tutti i simboli dell’agricoltura. La legione lavoratrice si divide in tanti gruppi quanti sono i carri da tirare, e ognuno nella sua direzione traccia un solco profondo e largo come un ruscello.
Nello stesso tempo i trombettieri si disperdono nella campagna; suonano marce vivaci e si rispondono a grande distanza.
Le fruste sibilano e schioccano; i tori muggiscono, ansimano, si gettano qua e là con scatti furiosi. Ma sono condotti da guide abili e davanti al vomere che trancia il suolo, si leva come una sabbia leggera.
Quando la pianura è così arata, gli uomini e i carri si riuniscono al centro al suono della tromba. Poi l’orchestra imita il rumore delle acque che scorrono, si alzano le dighe che impedivano il loro scorrere, e rumorose, rapide, quelle si lanciano nei canali destinati ad accoglierle.
Il coro canta:
“Niente resiste all’uomo. L’aridità, la siccità sono bandite dalla terra che esse affliggevano. I terribili tori dal grugno selvaggio tendono, ai nostri gioghi leggeri, le loro teste così forti. Pianura infeconda dove si riunivano bestie nocive, ecco che diventerai bella sotto le nostre mani. I grandi alberi ti copriranno con la loro ombra, i fiorellini ti riempiranno del loro profumo, le ragazze verranno la sera, sui tuoi sentieri, agli appuntamenti d’amore, e nei ruscelli chiari numerose greggi calmeranno la loro sete”.
Quando si avrà la sicurezza che l’acqua percorre senza problemi tutti i canali scavati nella pianura, non resterà nient’altro da fare che rifinire il lavoro. Questo sarà compito dei bambini. Si porteranno carri di erbe, di garofani, di margherite, di violette, di malva, di ranuncoli e di myosotis fioriti. E per diverse ore le loro numerose bande tappezzeranno, cantando, i bordi delle acque correnti.
– Gli uomini osserveranno infine le attitudini e i gusti dell’infanzia e sapranno trarne partito per i loro lavori. –
Ai margini della foresta che deve cadere si sono distribuiti i lavoratori dei boschi.
Alti sono i fusti, folte le chiome, vecchi gli alberi; ma la perseveranza e il genio dell’uomo non conoscono ostacoli. Sui tronchi delle grandi querce le scuri rimbombano, le seghe scivolano, le piccole e le grandi, quelle che tranciano filari di alberi tutti in una volta. Si fa avanzare nei viottoli una immensa fornace la cui fiamma imprigionata brucia all’altezza voluta. Nelle valli e nei poggi si sono sparsi i suonatori che soffiano a più non posso nei corni appuntiti, i corni delle guardie svizzere e dei cacciatori di camosci.
È un’immensa ecatombe. Gli alberi dei druidi, i bei castagneti, le fascine nodose, i frassini, gli olmi e le betulle, i sugheri e i lecci tremolanti sulle loro radici impotenti a prevenire la loro caduta, scricchiolano e inclinano tutti insieme il loro fogliame che presto sarà avvizzito. Questa volta non è più la foresta del divino Shakespeare, la foresta che marciava contro Macbeth l’omicida, ma è la foresta vinta dal lavoratore; essa lo riconosce suo padrone e si inginocchia davanti a lui.
Quando le spoglie della natura arrivano al suolo, si leva un trono di edera e di pervinca su un moncone di tronco abbattuto. La donna del Nord, la Velleda gallica vi monta in tutta la sua bellezza. Nella sua mano bianca tiene una corona fatta con rami di faggio dalle foglie sanguinanti e con rossi frutti del sorbo amato dagli uccelli. Con una voce sonora, essa chiama il vincitore e lo incorona davanti al popolo.
Il coro canta.
“Niente resiste all’uomo. Quando i boschi sono cresciuti, quando il vischio si attacca alle cortecce, quando il nocciolo non porta più frutti, quando le spine voraci prendono forza, quando i giovani alberi sono soffocati dai vecchi... noi passiamo in mezzo, simili a quei geni distruttori di cui i popoli scandinavi fissarono il soggiorno fra i grandi abeti che bordano i loro mari cupi!”.
Le onde deliranti navigano sul mare come orsi bianchi di cui si indovina la testa in mezzo ai ghiacci. Sulle rive dalle pietre grigie, gli spettatori occupano gradini disposti a ferro di cavallo. Tutti i belvedere del paradiso di Cintra sono animati dalla presenza di famiglie felici.
In alto sulla montagna russa, incerata come un parquet, che dovrà percorrere per arrivare al mare, sta in equilibrio l’Impavido [in italiano nel testo, n.d.t.], il bel vapore, così forte che a paragone quelli che vi sono adesso arriverebbero appena al volume di una noce.
Lungo i suoi cordami coperti di ghirlande e frutti, si abbarbicano i piccoli muschi verdi e grigi come lucertole. L’immensa nave viene sollevata da macchine formidabili, così come una balena presa al perfido uncino; sotto il suo ventre, i marinai rotolano enormi tronchi di abeti. Gli equipaggi e i forti dispiegano i loro segnali di benvenuto; con tutti i rintocchi delle loro campane, essi chiamano al mare il loro nuovo compagno.
L’Impavido si bilancia un istante sulle sue anche come un danzatore di valzer che cerca di ritrovare il passo, poi, maestoso, discende nell’Oceano, così come il lottatore nel circo. Dalla riva, dai cantieri slanciati, dall’alto della costa e dal seno delle acque si alza il coro:
“Felice viaggio, o bella nave uscita dalle nostre mani! Visita tutti i paesi, attracca in tutti i porti, passa sotto tutti i cieli, sorgi vincitrice dalle terribili bufere! Porta i nostri uomini, le nostre merci e il nostro nome presso tutti i popoli, nostri fratelli maggiori, soccorrili nelle angustie, partecipa alle loro feste, scopri passaggi, isole e continenti! Porta da tutti i climi i prodotti della terra e dell’industria, sii messaggera di pace, di felicità e d’amore! Che tu sia salutata da lontano quando arrivi in vista delle coste come un parente, come un amico che si desidera rivedere.
“E tu, mare ruggente, fremi sotto il vapore, corrodi le tue rocce, ma non aprire più, non aprire più le tue avide fauci per inghiottire una prora fatta da noi. Quando sarai troppo irritato dal nostro orgoglio ti flagelleremo con le nostre ruote di ferro. Niente resiste all’uomo. Nel suo grande impero, l’Oceano è un lago su cui egli cammina con le sue gioie e le sue tristezze!”.
Per las llanuras ruggiscono venti tori non domati, venti tori di Lusitania, – los chicos y valientes – che mai rifiutarono il lavoro o la sfida. Da molto lontano hanno visto i cacciatori. Sono pronti.
Questi sono pronti. Nel gancio delle loro selle, gli uni, hanno arrotolato il laccio resistente; attraverso i loro busti, gli altri, hanno passato il pesante filo a piombo, simile allo sparviero da pesca; altri hanno spiegato la muleta di porpora sul collo delle loro cavalcature; altri hanno caricato le loro carabine con bei pezzi per fuochi d’artificio che fanno partire in un istante insieme al loro grido; altri ancora conducono una trentina di molossi incatenati a due a due. Nei bassi fondali sono stati creati stagni, fossati, trappole e barriere.
Ed ecco. Le mille campane dei dintorni fanno rimbombare nell’aria un frastuono formidabile. Gli animali fuggono e i cacciatori vi si lanciano appresso con accanimento. – Qui l’animale salta una siepe molto alta; il cavaliere arresta il suo cavallo, e un colpo di carabina lancia fiamma e luce nel posto in cui il toro ricade. Quando si sente il fuoco sotto il petto, l’animale muggisce e galoppa in tutte le direzioni, portando il terrore fra gli altri. – In un punto differente, nel momento in cui la bestia prende lo slancio per saltare un fossato, il cavaliere lancia con destrezza il laccio attorno alle sue zampe, lo stende per terra e diviene il suo padrone. – Allora, un toro preso da paura si getta in uno stagno. Un cacciatore lo copre con una rete rapidamente dispiegata, gli altri accorrono, poi tutti insieme lo riportano alla riva. – Altrove, un altro finisce in una trappola ricoperta di stoffa scarlatta nella quale si rotola per farsi passare la rabbia. – I cani ne seguono molti altri; ma hanno le museruole e gli allevatori coprono con palle le corna dei tori, di modo che né gli uni né gli altri possano ferirsi. I cani li spingono, li respingono, li stancano in mille giri e rigiri.
Quando i tori sono stanchi per la fatica, si cessa di cacciarli. I pastori lasciano nella pianura i grandi branchi dediti al lavoro che si confondono con gli altri. Poi vengono portati tutti insieme nelle belle stalle loro destinate. Lungo la strada il coro canta:
“Niente resiste all’uomo. Animali coraggiosi che abbiamo vinto, rientrate con noi nelle nostre dimore. Non temete più. Le nostre donne laveranno il vostro bel pelo lucente, le nostre figlie vi porteranno erbe profumate in recipienti di marmo. Ameremo i vostri piccoli e li cresceremo con i nostri in piena libertà. Venite, venite da noi; sarete felici!”.
– Le bestie feroci e nocive sono state distrutte. L’uomo non mutila più le altre, né le deforma più con eccessi di lavoro, non le sacrifica più. E gli animali, dal momento che non si sentono più minacciati di morte, si avvicinano all’uomo con fiducia, partecipano ai suoi lavori e alle sue feste. Non devastano più le sue colture, perché l’uomo le ha modificate insieme alla sua alimentazione, in modo che i vegetali destinati al suo uso non piacciano più agli animali che quindi girano al largo.
Le specie che restano sulla terra sono tutte suscettibili di educazione; esse rendono tutte grandi servigi all’umanità che in cambio ha per esse le migliori cure. Anche per gli animali, il lavoro è divenuto la più grande delle attrattive, poiché essi amano per natura far valere la loro forza e il loro coraggio e si mostrano sensibili all’ammirazione che si testimonia loro nei brillanti concorsi. Si rifiutano solo davanti alle fatiche assassine per le quali non sono sufficienti né i loro muscoli né la loro lena.
Le passeggiate a cavallo e in vettura, i lavori d’agricoltura e d’industria, i trasporti, i rimboschimenti, i disboscamenti, le irrigazioni, si sono talmente moltiplicati, che gli animali che vi sono non bastano mai per fare tutto. Ai grandi equipaggi di campagna, ai pesanti aratri si attaccano per dieci o per venti i tori e i campioni li guidano senza sporcare i loro bei vestiti col sudore della fatica. I princìpi fecondi dell’attrattiva del lavoro, della sua divisione, della sua continua variazione sono applicabili a tutti gli esseri.
I montoni portano solo
la loro lana, le capre e le giovenche danno solo il loro latte; l’uomo odia la carne. Ogni terreno è seminato secondo le sue prerogative particolari; i coltivatori non si ostinano più a denudare le rocce, a disboscare le colline per farvi crescere solo cereali. Tutto è al suo posto ed è molto meglio così; la fecondità dei territori è centuplicata da colture appropriate.
In questa epoca, gli animali saranno molto utilizzati per l’educazione dei piccoli degli uomini, e questo sarà il loro compito più importante nell’armonia generale. Secondo la loro forza o il loro carattere, le differenti specie domestiche giocheranno con i bambini di diversa età e li renderanno agili, robusti negli esercizi del corpo. Le bande gioiose di bambinetti e di bambinette si disperderanno nelle praterie in mezzo ai montoni che offriranno i loro dorsi pazienti. Più tardi giocheranno con i cervi nei luoghi scoscesi dove svilupperanno le loro tendenze e il loro sangue freddo. I gatti, cui correranno appresso, insegneranno loro ad arrampicarsi sugli alberi; e quando i cani si getteranno nel nuoto, essi li imiteranno. Nell’età della virilità ameranno seguire i giovani tori e i puledri capricciosi, lottare contro la loro forza con prodigi di scioltezza e di coraggio. Ognuno può moltiplicare all’infinito questi esempi. –
Io sostengo che gli animali devono entrare significativamente nell’educazione. Sostengo che essi hanno molta più forza, fierezza, grazia e affetto dei maestri di scuola. Essi almeno non insegneranno mai ai disgraziati bambini a insudiciare il loro corpo, a degradare la loro anima, i soli risultati che si ottengono nei collegi, con l’eccellente sistema dell’illustrissima università di Francia.
I padri sanno tutto questo altrettanto bene quanto me; ma sono pigri, abitudinari, routinieri, paurosi, schiavi, senza idee, senza umanità, senza risorse. Rideranno delle mie osservazioni utopistiche, e sul più bello affideranno i loro piccoli fenomeni, le loro più care speranze, ai Signori dei convitti e dei seminari che glieli renderanno, ornati di corone d’alloro, ma senza iniziativa, senza originalità, molto idioti e stupidi, molto corrotti, molto ipocriti, per farne dei borghesi!
VII
Suonano le dodici al campanile di Nostra Signora dei Dolori, questo vecchio convento così oscuro al tempo dei monaci, così brillante oggi che serve da faro alla marina. Si direbbe l’anima ghiacciata della Madonna cattolica levatasi dalla tomba per turbare un’ultima volta le feste umane. Ma il carillon di mille campane gioiose soffoca subito la voce coronata della regina dei sepolcri.
Magnificat! – Le vecchie chiese sono conservate solo a ricordo di un disgraziato passato. Ciò che è morto, non rinasce mai sotto la stessa forma.
Sotto un cielo che farebbe resuscitare i rossi fuochi d’Egitto, i re mummificati che dormono sotto le Piramidi, sotto un cielo che restituisce l’amore ai religiosi, nella più bella città della bella Lusitania, gli uomini hanno dispiegato tutti gli splendori delle loro pompe, il lusso d’Oriente e d’Occidente!
Magnificat! – Il Risparmio è scomparso.
In tutte le strade di Lisbona sono stati costruiti archi di trionfo di altezze prodigiose; essi sono ornati di scudi, trofei, motti; ve n’è per tutte le glorie dell’universo. Dappertutto vi sono statue, lampadari, orifiamma, vasi in cui bruciano l’incenso e le delicate essenze, veri cesti di fuoco. Le case, le finestre, i balconi, sono ricoperti di magnifiche stoffe sulle quali sono stati fatti dei ricami, delle iscrizioni in oro, argento, metalli rari, preziosi diamanti. Tutte queste sostanze sono talmente tante che non hanno più valore dominante; le si ricerca per il loro splendore, non per il loro prezzo fittizio. È veramente l’età dell’oro della favola, quella che deve assicurare la felicità dei popoli, non l’età dell’oro della civilizzazione che faceva la loro disgrazia.
Magnificat! – L’oro è comune quanto la sabbia; i rubini scintillano nella corona delle belle pastorelle, come in altri tempi nella corona delle regine più laide.
Sotto i vasti portici pavimentati di marmo, o con parquet di palissandro, bordati di fiori, tappezzati di broccati meravigliosi, sotto questi vasti portici, il genio dei pittori e degli scultori ha rappresentato tutte le scoperte umane, dal secolo del vigoroso Tubalcain e del buon Triptolemo fino a quello di [Robert] Fulton, di [Joseph] Jaquard, di [Richard] Arkright e di [Benjamin] Franklin. Esso ha fatto rinascere tutto un popolo di eroi, di dèi, di dee, di folletti di sogno che respirano, parlano, si muovono per così dire, che sono là come deputati dei secoli passati e futuri a queste solenni feste. I più eminenti virtuosi, i più ispirati, riempiono i colonnati di sublimi armonie. La folla chiassosa, felice di non essere più divisa da interessi di casta, la bella folla multicolore, vestita con i più eleganti e più diversi costumi, passa e ripassa in mezzo a tutte queste meraviglie delle arti, una volta che l’educazione permette di apprezzarne il valore. È il sogno di Boccaccio, alla fine, realizzato, è l’ebbrezza del Paradiso!
Magnificat! – I giovani amanti recitano a bassa voce sonetti di Petrarca, pezzi del Tasso, capricci di Byron.
I canali e i binari serpeggiano e si incrociano in tutte le direzioni; passano al di sopra e al di sotto delle dimore umane; i vagoni rotolano su ruote d’ametista, i fianchi delle gondole sono incastonati di perle e di corallo. L’arte e l’industria si completano, si sposano, si fanno valere l’un l’altra.
Magnificat! – L’uomo ha riconosciuto l’utilità del gradevole. Il lusso si allaccia al solido come il legame di grosse catene.
Nei giardini immensi in cui si contendono il sole, l’ombra, l’odore degli arbusti e la freschezza delle sorgenti, in questi giardini crescono cespugli di clematite, gelsomini, quadrifogli, biancospini. – Chioschi dalle forme bizzarre, turche, cinesi, giapponesi, italiane, sorgono da tutti i lati; le piante rampicanti li coronano con i loro flessuosi rami.
Sotto questa spessa pelliccia, Diana cacciatrice trascina con fatica i suoi levrieri restii. – Ai bordi di questa darsena, Venere è distesa fra i ranuncoli; le Nereidi asciugano i suoi piedi con i loro lunghi capelli e intrecciano per lei corone con i fiori che hanno vicino. – Su questa terrazza sabbiosa, in mezzo a pampini ed edere sta il venerabile Sileno che fa gioire i cuori degli uomini con la sua tazza fiorita. – Al centro di immensi parchi sono raggruppati i Centauri che corrono e volteggiano, si impennano, hanno scatti furiosi come se volessero divorare lo spazio. – In cima a questo poggio è stato disegnato il simbolo del dolore profondo, la Niobe che gli dèi trasformano in pietra, quando ha pianto tutte le sue lacrime, la povera madre ha meno da lamentarsi ahimè! nella morte che nella vita. – In questo boschetto, Dafne la bella sente le sue graziose membra bianche allungarsi in foglie e rami. – Su un grande lago, trascinato da otto cavalli marini, Nettuno conduce il suo carro al suono della conchiglia, levando in aria il suo tridente. – In fondo ad una grotta oscura, su un trono di stalattiti è seduta la triste Proserpina prigioniera del suo padrone, il nero imperatore degli inferi. – Sui rami dei roseti sbattono gli amori che inseguono le ninfe, le driadi, i daini, gli usignoli, le farfalle e soprattutto le ragazze che essi feriscono senza pietà. – Nelle chiare acque di questa fontana si rimira il vanesio Narciso, lo sciocco esempio della bellezza fatua e vanitosa che nasce e muore con uno sciocco sorriso. – Al sole del Levante è esposta la statua di quel vecchio fortunato di cui l’Aurora copre le tremule membra col suo vestito verginale. – Nella finestra di una torre penetra il re degli immortali, vergognoso, trasformato dall’amore, sotto forma di pioggia d’oro. – Storia, ahimè, troppo reale, delle buone fortune umane nelle fasi sociali inferiori, a partire da quella ebrea della Bibbia fino a quella della Comédie-Française. –
Magnificat! – Le ragazze hanno gettato tante pietre contro questa torre dell’obbrobrio che oggi sono rimaste solo le più alte merlature.
In un palazzo d’argento, cosparso di sabbia rossa come il fuoco, fra colonne di cristallo, di smeraldi e di giacinti, su divani di velluto dai ricchi riflessi, riposano, fra armonie, profumi e acque zampillanti, cinquemila bellezze più brillanti della luce. Le une sono rosee come l’Aurora quando saluta la terra con la sua mano graziosa; le altre brune come i frutti del pesco di Spagna, altre ancora più bianche del latte e dell’avorio. Sono le fate dai dolci sguardi, dai vestiti meravigliosi, dalle lunghe trecce nere e bionde, le divine, le preferite, le sognate, le Uri create dalla profonda osservazione di un grande legislatore, quello che comprese e fece valere le ardenti passioni degli uomini d’Oriente.
Ed esse, non solo sono belle, ma anche amabili, vivaci, piene di spirito e di grazia, versatili in tutte le conoscenze umane, desiderabili per chiunque può creare e sognare. Sono votate al culto del bello e del grande; hanno deciso di infiammare l’immaginazione degli artisti, di far produrre loro capolavori per amore, di non accordare i loro favori che agli uomini di genio. Leggono, meditano, studiano, sognano; si entusiasmano per i versi di un poeta, le melodie di un compositore o i quadri di un pittore: esse inseguono un ideale. E regine della grazia, ammettono in mezzo a loro solo i re del genio, ad essi accordano l’ammirazione, promettono l’amore, ed aprono il cielo con le braccia, quando li reputano degni nell’ebbrezza dei loro cuori!
– Oggi, sulla terra, tutto è contro natura. La bellezza fisica è spesso accoppiata alla bruttezza morale, spesso il talento si nasconde sotto spoglie senza grazia. Questo non accadrà più nei tempi futuri. Perché la bruttezza fisica e la semplicità di spirito sono creazioni della società; sono il risultato di unioni sproporzionate troppo feconde, ahimè, di educazioni viziate, di tenaci e deplorevoli giudizi, della divisione dell’umanità in caste e fortune; l’essere è di già deformato sin dai reni di suo padre, dal seno di sua madre; in seguito, i nostri costumi finiscono il compito di deturparlo.
Ma in un mondo armonico, dove non si vedrà più un uomo considerevole per intelligenza che non abbia la sua bellezza, la bellezza del suo animo che si riflette sul suo viso; non si vedrà più una donna esteriormente bella che non abbia anche una grandezza morale. Ogni viso assumerà l’espressione che risponde ai suoi tratti, e ogni carattere lo sviluppo che gli conviene. Allora la bellezza cercherà l’intelligenza, la grazia della fisionomia tradirà la bontà del cuore, le simpatie nate a prima vista non saranno più ingannatrici. La donna indovinerà il fisico di un uomo conoscendo le sue opere, l’uomo saprà l’animo di una donna penetrando i suoi occhi. Allora i trasporti del genio si ispireranno a dolci sguardi del languore, si rinfrescheranno con le tiepide lacrime d’amore, moriranno e rinasceranno nell’infinita tenerezza e nella voluttà!
Magnificat! – Le Uri sono le muse dell’avvenire, le dee dell’ispirazione e della speranza; e inginocchiandosi ai loro piedi, l’uomo si sentirà di una grandezza soprannaturale.
In cima a una montagna scura, coperta di querce e di abeti, si alza una cittadella di pietre annerite dal tempo. Nei suoi anfratti risuonano il ferro che viene martellato e il rame che viene polito. Là lavorano senza fermarsi Vulcano lo zoppo, dalla faccia dolente, il virtuoso sant’Eligio i cui saggi consigli aiutarono moltissimo il buon re Dagoberto nei dettagli della sua toletta, e i Ciclopi il cui occhio insanguinato dalle fiamme rassomiglia alle rosse lanterne delle locomotive e delle macchine che li hanno rimpiazzati.
Al di sopra di essi, in una sala antica, tappezzata d’armature, di stendardi, di fasci di lance, di clave, di corazze, di asce, di leve, di tenaglie, di martelli, di tutti gli attributi della guerra e del lavoro, è rappresentato il gigante Odino, il forte guerriero che tranciava le montagne e riuniva al suono dei tamburi gli eroi del Settentrione. Ma il genio della guerra non è più che un ricordo dentro queste mura. Il lavoro troneggia sovrano sulle mitraglie fumanti; col suo terribile arsenale domina la natura che ha sottomesso: la terra da cui si estrae il fuoco, la luce, il metallo, i minerali; il legno e i raccolti, il mare che gonfia il suo seno per trasportare i suoi prodotti da un mondo all’altro e l’aria dove i leggeri aerostati trovano un punto d’appoggio.
– In nessun paradiso ci si dimentica della donna, nemmeno in quello del papa. Secondo i loro costumi, i popoli l’hanno rappresentata, venerata, amata: quelli del Nord come quelli dell’Oriente, i fedeli di Odino come i fanatici di Maometto. Dappertutto l’uomo è galante, obbediente, carezzevole, ardente, amante della bellezza.
Le Valchirie d’altronde, le dee della forza e del coraggio, sono donne dalle forme perfette, dalle braccia potenti, dalla voce sonora. Feconde di mammelle, ma sobrie di pensieri, senza capricci di cuore, senza scatti, senza ardori nei loro affetti, piuttosto attaccate che amanti, notevoli per le loro qualità più che per la loro bellezza, amano gli uomini robusti, bravi, risoluti e perseveranti. Sono sedotte dall’aspetto pieno di salute, di vigore, dalla fermezza di carattere, dalle imprese audaci; sono le vostre discendenti, repubblicane di Sparta e di Roma il cui maschio coraggio sorrideva ai guerrieri che partivano per il combattimento!
La Valchiria dell’avvenire renderà spirito il corpo e farà poemi sulla forza se questo sarà necessario per il suo amore; sarà la compagna dell’operaio, lo sosterrà nei suoi lavori, lo incoraggerà nel pericolo, nelle sue prove, gli prodigherà tutte le cure più attente quando egli rientrerà la sera, distrutto dalla fatica. Non lo ecciterà a bere il sangue dei suoi nemici, a farsi dei loro teschi coppe ancora fumanti del calore della vita; essa verserà nel suo bicchiere il vino, la birra e l’idromele che ristorano, farà scivolare nel suo letto i lenzuoli di bianca tela il cui odore rinvigorisce, e lo farà rilassare con i suoi discorsi.
I più valenti dei lavoratori, coloro che si distingueranno nelle grandi battaglie contro la natura, saranno ammessi nel Walhalla alla presenza delle belle Valchirie, e queste sceglieranno liberamente fra loro i più cari al proprio cuore!
Magnificat! – L’uomo non fa più la guerra all’uomo; non versa più il suo sangue per i litigi dei re; non si gloria più di quei ciechi trasporti di furore, di quel coraggio senza riflessione, senza principio, senza interesse proprio, coraggio del cane o del soldato che difende il suo padrone: il suo padrone, capite, grandi eroi delle battaglie!
Per rispondere ai bisogni della loro immaginazione, gli uomini non ricorreranno più unicamente alle religioni antiche; se ne ispireranno solamente per le loro cerimonie, per le loro feste, per l’architettura dei loro monumenti, le loro arti e la loro letteratura. Ma sapranno anche dare forma ai loro sogni, creeranno dèi a loro immagine, e la loro mitologia risponderà esattamente alle loro aspirazioni.
Magnificat! – L’uomo si affranca dalla sterile imitazione del passato; con le sue proprie ali tenta l’avvenire.
Il dio della terra è rappresentato su una locomotiva ardente, che attraversa le campagne a tutto vapore, tracciando profondi solchi col vomere del suo gigantesco carro. Gli uomini accorrono in massa al suo passaggio. Gli gettano spighe, uva, frutta di ogni specie. Le madri gli tendono i loro piccoli da benedire, i vecchi gli domandano di accordare loro ospitalità nelle sue terre nel giorno ormai vicino della loro morte. Gli animali lo salutano, ognuno nel suo linguaggio. Le montagne s’abbassano, le colline si sollevano per vederlo. Le riviere e i mari gioiosi portano, rotolando ai suoi piedi, le loro docili onde. Le rocce, i ciottoli, le erbe, gli insetti mormorano, sotto il suo carro, il loro ronzio di felicità. I cieli si inchinano, depositano sulla sua testa una corona di stelle e di luce.
E questo dio che distribuisce tutte le ricchezze della terra, che riceve gli omaggi di tutti gli esseri, questo dio potentissimo e buonissimo di cui tutti possono sentire la voce e toccare il vestito, questo dio è l’Uomo meno quadrato di spalle, meno grande di misura di quanto non lo sia oggi. – Magnificat!
Il dio del Mare lancia sul suo vasto impero un’immensa quantità di vascelli d’alto bordo. E quando vuole manifestare il suo potere, tutte queste navi si incontrano come onde agitate; poi gettando le loro ancore sul fondo degli oceani, e assicurati da forti catene, si addormentano, le une vicino alle altre, cullate dal concerto delle onde. E il Sovrano del mondo marittimo percorre i suoi possedimenti sul ponte dei battelli. Egli è venuto in uno splendido costume da marinaio, sale su un corsiero bianco come la schiuma che scuote nella brezza la sua lunga criniera. Avanza, trionfante, in questo magnifico viale creato sugli abissi. Tutto il popolo dei marinai agita stendardi al suo passaggio. Le isole fiorite danzano sulla liquida pianura, come ragazze in una sala da ballo. I gioiosi delfini, i pesci e le balene battono le pinne in segno di gioia.
E questo dio che cammina sulle acque non vi è arrivato per la fede, ma per il coraggio, la pazienza e la lotta contro l’Ignoto. E questo dio, è l’Uomo meno quadrato di spalle, meno grande di misura di quando non lo sia oggi. – Magnificat!
Il dio del Fuoco si mostra nelle sere di temporale. Quando il sole si corica, drappeggiato di nuvole scure che buca come un colpo di granata, allora il dio del Fuoco dà inizio al suo lavoro di notte. Aspira con la sua bocca la lava dei vulcani, la fiamma e il calore degli abissi, e li sparge sulla terra nei mille canali delle officine. Il suo corpo è formato di ferro rosso, le sue mani e i suoi piedi del bronzo più scuro, i suoi occhi di diamanti, i suoi capelli di scintille. Spesso si tuffa senza paura nelle fornaci del globo, e ogni volta risale alla luce più potente e più puro.
E questo dio che nasce dalle tempeste e dalle rivoluzioni, questo dio che ravviva la fiamma alle viscere della terra e la distribuisce durante la notte per i bisogni del giorno, questo dio è l’Uomo meno quadrato di spalle, meno alto di quanto lo sia oggi. – Magnificat!
Il dio dell’Aria appare sulle alte montagne. Con il suo soffio instancabile sparge all’infinito migliaia di aerostati con tanta facilità quanto un bambino le sue bolle di sapone. Li riunisce come brillanti nubi i cui strati si ammucchiano, si sovrappongono. Poi, col suo piede superbo, si alza su di loro lasciando lontano e indietro l’aquila e la rondine. È così ch’egli si avvicina agli astri scintillanti e, più felice di Prometeo nella sua rivolta altera, li spoglia dei loro eterni bagliori.
E questo dio che riesce nella scalata del cielo, questo dio che trattiene o scatena i venti secondo la sua volontà, questo dio che, visto dalla pianura, sembra più leggero dell’etere, più minaccioso del fulmine, questo dio è l’Uomo meno quadrato di spalle, mano alto di quanto lo sia oggi. – Magnificat!
In cima alle colline, lungo i freschi ruscelli che percorrono le valli, la Dea della Felicità conduce il suo carro. Le ore ch’essa sceglie per uscire dal suo eremo sono quelle dell’Aurora, della Luna e d’Iride. Allora le pieghe del suo mantello si confondono con la tinta soffusa dei cieli; sono rosa come lei. Rosa è anche la sua bocca; bianco il suo collo, il suo viso, e bianche sono le sue spalle, di quella bianchezza da donna, sicuro segno di salute e di riposo. Il suo occhio è dolce, vellutato, nero come quello dei cavalli e delle gazzelle. Sulla seta del suo vestito la brina distende, come un velo, la sua capigliatura dorata. I suoi riccioli sono così lunghi che li trascina con i talloni, così profumati che spargono attorno divini sentori.
Ha sedici anni; è grande, slanciata, flessibile come un gambo di giglio. Le sue piccole labbra vermiglie fremono di tenerezza, invia baci con la sua piccola mano nervosa, maculata da vene azzurre:
“Venite, prendete, raccogliete, bevete, dice agli uomini; è l’aspirazione del mio animo, è l’essenza della mia vita: comunicate con me!”.
– “Oh! fata dei nostri sogni, bella dai lunghi baci, le rispondono gli uomini, amiamo evocarti il mattino e la sera! Allora stringiamo nelle nostre braccia assopite le tua immagine così cara; ci addormentiamo, ci svegliamo, aspirando il tuo alito! Mai il tuo amore è fatale al nostro destino, mai tu versi nei nostri cuori rimpianto o tristezza, tu spargi sui giorni ineffabili delizie. Noi non adoriamo che te!”.
E questa Divinità piena di grazia, la sola davanti alla quale l’Uomo onnipotente fletterà il ginocchio, questo essere superiore a tutto ciò che respira, sarà la Donna più fragile, più graziosa, mille volte più eterea di quanto lo sia oggi! – Magnificat!
VIII
Sulle piazze circondate da grandi alberi da frutto, da padiglioni e da colonne, tutti i mercati del mondo hanno esposto magnifici prodotti.
Ecco i lingotti d’Australia, le pietre preziose di Lahore, l’argento e la cera di Spagna, i superbi cachemire della fiorente India, le pellicce di Russia, il tè, le porcellane, i mosaici della Cina accessibile a tutti i vascelli. – Ecco le graziose opere in legno scolpite durante i lunghi inverni dai boscaioli della Foresta Nera, dai montanari della Svizzera e della Savoia. – E poi la forte tela che le donne della Bretagna, di Cantabria e del Galles tessono per i loro amanti, i corridoi del mare.
Vedete i frutti del dattero, del cocco, dell’igname delizioso, della canna da zucchero di Bourbon, il caffè Moka, le grappe vermiglie e dorate di Borgogna, di Oporto, di Champagne e di Cipro; tutti tesori che il sole matura sotto i cieli che ama visitare di più!
Ascoltate i muggiti delle belle greggi d’Elvezia, i nitriti dei cavalli dell’Ucraina, dell’Arabia, della Sardegna, dell’Inghilterra e dell’Andalusia. – Là sono riuniti i montoni della Galizia, le capre del Tibet. – Qui stazionano le grandi carovane di cammelli e di dromedari. – Più lontano si riposano le giraffe dal lungo collo, gli elefanti di Birmania che portano sul dorso intere famiglie.
Sui rami dei tigli e dei platani, nelle aie, sulle corde tese, dondola la biancheria le cui mille evoluzioni fanno gioire l’infanzia. Mentre, liberi da qualsiasi ostacolo, i cervi e le gazzelle saltano attorno alle donne che li carezzano e prendono in braccio i loro piccoli. – Magnificat!
All’ombra, al ritmo di una musica trascinante, gli installatori, i lottatori, i corridori, i giocatori di pallacorda, di birilli, di palla e di cricket, i tiratori di carabina, di pistola; i saltimbanchi, gli acrobati, gli atleti, i gladiatori, sbalordiscono il pubblico con le loro forme meravigliose, la forza dei loro reni, la dolcezza dei loro movimenti, l’elasticità dei loro corpi, l’arditezza delle loro diverse evoluzioni.
Essi fanno rivivere l’Ercole-Farnese, l’Apollo Pizio, Achille figlio di Teti, Bellona la vendicatrice, la Venere di Milo, Frine, Loretta, la Vergine Maria, il dio del Gange dai dolci occhi di loto, il grande Reno dalla barba di canne, Antino, Adone dai profumati capelli, e il disgraziato Laocoonte col suo bracciale di serpenti.
Galanti trovatori recitano canti amorosi alle giovani ragazze nubili. Le ragazze d’Egitto, di Spagna e d’Italia, Esmeralda la Bella, la gitana di Granada e Vanina la veneziana, danzano tutte intorno con le loro braccia voluttuose. – Magnificat!
Tutto intorno, nel pergolato di vigna spontanea e di gelsomino della Virginia si esibiscono i negromanti, i prestidigitatori, i declamatori, gli improvvisatori, le streghe di Scozia e d’Irlanda, gli zingari, i clown inglesi, gli Arlecchini milanesi, gli avvocati frrrancesi, i giudici della Santa Vehme austriaci e spagnoli, i giocolieri, gente abile nel parodiare tutti i linguaggi e tutti i movimenti, nel far vedere marionette, ombre cinesi e panorami, domatori di animali, imitatori del canto degli uccelli. Essi divertono gli uomini più severi con la loro inesauribile verve, con la sbalorditiva destrezza delle loro mani, con la grottesca enfasi delle loro parodie, dei loro gesti e delle loro sentenze.
– Oggi, i disgraziati artisti di questo tipo si trascinano nella più degradante miseria; trattati come paria, essi hanno rapporti solo con i più brutali agenti di polizia. Al contrario, nell’umanità futura, essi saranno tutti considerati come gli altri lavoratori. Perché gli uomini, esenti da pregiudizi, non daranno più un valore convenzionale alle differenti arti e sapranno onorare con la loro stima chiunque procura loro svago e godimento.
Queste righe faranno male ai personaggi austeri che sorridono solo per cortesia, che non ballano mai, che cercano le signore loro spose solo per un buon motivo; ai signori Reverendi delle scuole e dei giornali. Tanto peggio per loro; sarà così più tardi. Quanto a me, l’uomo che mi fa ridere mi sembra più utile di quello che mi fa piangere, e il saltimbanco di piazza altrettanto rispettabile del giocoliere di palazzo.
Guardiamo, occidentali che disprezzate la forza, la delicatezza e la grazia, ciarlatani pietosi e maligni, robusti come mosche, abili come porci e graziosi allo stesso modo… credete che questi uomini che fanno grandi salti non abbiano alcun merito, come chi solleva enormi fardelli o sfida i cavalli da corsa?
Pensate che gli artisti di questa tempra, incoraggiati e applauditi, non saprebbero dispiegare un grande vigore, un’agilità soprannaturale negli incendi, nei naufragi, riunendoli dove vi sono disastri, in tutte le situazioni drammatiche in cui l’uomo è in pericolo? Non vedete che danno ai vostri bambini utili lezioni di forza, d’emulazione, di abilità e di coraggio? Ahimè, i Borghesi di oggi sono talmente comme il faut che se il grande Ercole, il semi-dio dei Greci, ritornasse fra noi, non troverebbe di che vivere nelle più grandi città.
Non dico tuttavia che ci siano grandi vantaggi per l’uomo a perfezionarsi, a sacrificare la vita del suo corpo alla vita della sua intelligenza. Affermo al contrario, l’uno a spese dell’altra guadagna solo febbre, delirio e convulsioni. L’individuo è notevole solo se è completo, è intelligente solo se è robusto. Sono dell’avviso del poeta: Mens sana in corpore sano. Quando il corpo deperisce, lo spirito cade subito nel marasma; quando le sensazioni si smorzano, i sentimenti che prima si erano elevati sul loro silenzio, ricadono ben presto nell’atonia; quando manca il succo, il soave fiore avvizzisce in poche ore. Sacrificare la propria forza è perdere il proprio pensiero: l’Avvenire svilupperà l’una e l’altro. – Magnificat!
Nei vasti circhi dalle forme orientali, tappezzati di tende di porpora, adornati con insegne e gonfaloni, cavallerizzi famosi mettono in atto le risorse della loro arte su superbi cavalli.
Il fiero cavallo dalle forme slanciate, dalla criniera fluttuante, dalla testa decisa, dagli scatti capricciosi, comprende la voce dell’uomo e, libero dal freno, lo asseconda in tutti i suoi sforzi, perché fa a metà delle glorie del trionfo.
In questi magici circhi sono rappresentati gli avvenimenti della storia, le finzioni delle favole, i tipi e i personaggi più considerevoli delle lontane contrade. Vi si può vedere la guerra degli dèi, la caccia di Diana, l’ultimo giorno di Atteone, le battaglie delle Amazzoni, l’assedio di Troia, il trionfo di Achille, la fine di Ippolito e quella di Icaro, il rogo di Sardanapalo, il combattimento delle Termopili, la morte di Epaminonda, quella di Filomeno; – il ratto delle Sabine, la caduta di Tarquinio il Superbo, il popolo di Roma sul monte Aventino; – la grande disfatta dei Teutoni e dei Cimbri, le imprese di Spartaco nella rivolta degli schiavi, i trionfi di Cesare; – l’esercito di Attila, il sacco della Città Eterna da parte delle orde dei Vandali, la giornata di Châlons-sur-Marne; – la partenza dei crociati per la Terra Santa, i tornei, Giovanna d’Arco, l’Ispirata, che guida i guerrieri di Francia contro l’inglese pallido di terrore; – la San Bartolomeo; – la cospirazione del Grütli, la morte di Gessler, Guglielmo Tell, la Croce federale; – lo sbarco di Colombo su rive sconosciute, la rivolta del suo equipaggio, l’incoronamento di Carlo V imperatore e re; – le battaglie di Fontenoy, di Bouvines; – i Puritani di Scozia, Olivier Cromwell; – la corte di Luigi XIV, Trianon sotto Luigi XV; – la guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti, Washington; – l’esecuzione capitale di Luigi XVI, la festa della Federazione, le quattordici armate della Repubblica, la resistenza di Santo Domingo, Toussaint Louverture; – il passaggio del ponte d’Acole, le campagne di Francia e di Russia, i Cento giorni, Waterloo; – la liberazione dell’America del Sud, Bolivar; – l’invasione, l’occupazione della Francia da parte degli eserciti alleati; – 1830, 1848. Dicembre 1854, l’assedio di Sebastopoli: il molto illustrrre generalissimo certo Canrobert!... ecc., ecc.
Vi si rappresenta la Pace, la Guerra, la Libertà, la Giustizia, l’Amore; – la Bellezza, la Natura, le Stagioni, i Climi, i Continenti, i Mari; – tribù indiane, africane, americane, le colonie di Europei nei nuovi mondi; il piantatore, il mozzo, il soldato, il vignaiolo, i grandi buoi da lavoro, le bianche greggi, le bande di vendemmiatori, i pastori e i mietitori.
I costumi, gli usi di ogni tempo sono resi in modo che l’illusione sia il più possibile vicina alla realtà. Si fanno passare rapidamente sotto gli occhi del pubblico le differenti fasi dell’umanità. In questi circhi, i ragazzi acquisiscono istruzione, gli uomini coraggio, gli artisti ispirazione; tutti traggono lezioni di destrezza e sangue freddo. Ma mi fermo qui. Non voglio intaccare l’importante soggetto delle rappresentazioni teatrali e degli insegnamenti che il popolo ne sortirà. Vi ritornerò un giorno; mi farà passare alcune buone settimane in questa vita monotona. – Magnificat!
Per viali, giardini e boschi, attraverso viottoli e prati, sono sparse le numerose società di bambini, di giovanotti e di ragazze.
I primi coronati d’alloro, agitando emblemi e bandiere, si ravvicinano, si dividono, si girano, si inseguono cantando e gridando in tutte le lingue: Magnificat! Bravo! Gloire! All right! Fahr zu! Alante! Vamos! ecc., ecc.
I giovani portano attraverso le campagne la processione danzante, bruciante, assordante. – Nel valzer sognante eccellono i ragazzi della Germania e della Svizzera. – Gli Slavi, gli Ungheresi, i Polacchi sono eleganti, agili nelle polche e nelle mazurche dalle variate figure. – Il marinaio di Bristol danza tutto solo la giga nazionale, la sua consolazione di ogni sera sul ponte della nave. – I Napoletani e gli Andalusi ballano con amore la tarantella e il fandango. – Le figlie d’Oriente, le almee, volteggiano nei boschi come foglie di rosa. I Francesi si fanno notare per le quadriglie di carattere piuttosto parlato che danzato. En mesure! En mesure! – Magnificat!
Il Tago offre lo spettacolo più animato che possa sognare l’immaginazione. Nei suoi flutti di cristallo, sulle sue fertili rive, i bagnanti e le bagnanti si rincorrono gioiosamente fra le carezze del sole e quelle dell’acqua. Gli uomini audaci fendono le correnti con i loro petti valorosi e le risalgono senza perdere terreno. Le donne delicate, abili negli esercizi natatori, si stendono sul fiume blu come su di un sofà, si lasciano andare con fiducia ai capricci dell’onda che le solleva, le trascina e le fa muovere come piume leggere. I ragazzi non hanno più paura dell’elemento perfido; nuotano in modo naturale; si gettano nelle profondità trasparenti, la testa in avanti, da altezze considerevoli; se ne vanno a perdita d’occhio, ritornano, nuotano, cercano piante marine; riportano trionfanti fra le labbra le spille d’oro che vengono gettate. L’uomo canta sulle acque come lo smergo gioioso. – Magnificat!
Da una riva all’altra, sono allineate cento barche leggere, slanciate, esili e fini, sensibili al minimo vento.
Viene dato il segnale. Cinquanta discendono verso il mare abbandonandosi sulle loro bianche ali, cinquanta risalgono verso la città con tutto il vigore dei loro remi, sollevano al sole piccoli spruzzi di onda, brillanti come lustrini d’argento.
Verdi, blu e rosse quali saranno le prime alla fine? Guardateli osservarsi, incrociarsi, evitarsi, sorpassarsi! La superficie del fiume è lavorata come un campo nella stagione autunnale; lo spirito del movimento sembra animare tutto questo mondo liquido; ogni barca è l’anima di un’onda; ogni marinaio è sollevato dal battito del cuore del grande Oceano. – Magnificat!
I popoli approfittano di questa riunione per mettersi d’accordo sui loro interessi generali. Per questo motivo, il Palazzo dei consigli pubblici è aperto tutto il giorno. Appositi manifesti fanno sapere, in maniera precisa, le ore consacrate a tal o tal’altra deliberazione. I lavoratori di ogni professione si recano alla seduta a seconda degli avvisi dati e si rendono edotti su tutto quanto concerne la loro arte.
Queste assemblee hanno il solo scopo di comunicare idee, esperienze, osservazioni, risultati e scoperte, in poche parole di trattare di tutte le questioni di cui si occupa l’umanità. Nessuna opinione è sanzionata da un voto; poiché il suffragio universale non esiste e non prova niente, nessuna maggioranza viene constatata. La Legge, l’Autorità sono distrutte per sempre. Da quanto sente, da quanto vede, ognuno prende quanto gli conviene in tutta la libertà della sua ragione, non subendo altre influenze che quelle che egli stesso ricerca. Il Centralismo governativo, quello che opprime le persone, non è più praticato, non è più possibile. Tutti i cittadini sono funzionari e tutte le funzioni sono realizzate con lo Scambio: nessun’altra solidarietà si può stabilire; essa è stata riconosciuta nociva alla libertà dell’individuo, nociva all’organismo sociale. – Magnificat!
Nelle conversazioni, nelle relazioni personali, gli uomini imparano a conoscersi, quali che siano le distanze che separano le loro dimore. Non è più permesso ignorare la storia, la geografia, la statistica e gli usi dei diversi popoli, come succedeva spesso quando l’istruzione si faceva con i libri e i corsi. I bambini crescono in scienza, in abilità, frequentando uomini, donne e vecchi; il gruppo sociale è completo; la curiosità che ci è naturale è la sola pratica della vita che dà la chiave di tutte le conoscenze. L’uomo è emancipato nel pensiero e nel corpo; l’immaginazione rende poetica la materia e rivela l’infinito. – Magnificat!
IX
Quando il sole avrà dato l’addio alla terra, prima che gli astri della notte siano arrivati per illuminarla con le loro flebili luci, nell’ora in cui ci sentiamo soli e tristi sotto il cielo senza stelle, in quell’ora l’uomo sentirà il bisogno di animare la natura con splendori ancora più grandi di quelli del giorno.
Numerosi sono i divertimenti che si offrono all’umanità nuova per passare questi lunghi crepuscoli della sera. I freschi prati invitano alla danza, le foreste silenziose alla contemplazione, i sentieri sabbiosi alle passeggiate, l’ondeggiare dei flutti a dolci sogni nel fondo di una barca mollemente sollevata.
La brezza è propizia ai voli, i flutti cantano accarezzando la riva; essi chiamano l’uomo sospirando. Un grande concerto sarà dato sul Tago da tutti i musicisti del mondo.
Le acque ripetono la gloria dell’Uomo!
Rosso, è gioia, felicità, passione, amore, esuberanza di vita! Dunque, che si accendino le luci! Che tutto brilli, scintilli, dalla cima delle montagne all’abisso delle onde! Gettate sul bel fiume come un velo di fuoco, di sangue, di vino e di sole! Che i più dormiglioni si lancino sulla pianura incostante, che nessuno gusti le dolcezze del riposo! Che l’universo venga abbracciato dalle luci create dall’uomo! E che gli uccelli non possano distinguere se cantano il giorno o la notte!
La terra ripete la gloria dell’Uomo!
Migliaia di barche si staccano dalla riva; sono sparse sulle acque in così gran numero che la rondine non potrà bagnare le sue piume.
Le une disposte in cerchio, in quadrato, in triangolo, sollevano i loro remi e si riposano, simili a stormi d’uccelli di passaggio dopo lunghe attraversate. – Le altre, solitarie, non sembrano più, nell’immensità, che gusci di noci che trasportano insetti. – Parecchie si mettono in fila, a due a due, a tre a tre, come nuotatori, lottano con destrezza e con agilità; i loro voli li trasportano simili a festuche.
I venti ripetono la gloria dell’Uomo!
E come sulla terra, quando gli esseri dormono, la voce di ognuno si distingue fra il mormorio di tutte, anche in questo mondo che fluttua sulle acque, l’idioma di ogni popolo si ritrova nella confusione generale delle lingue.
Là è l’accento a scatti, breve, pressante, imperioso, dell’inglese, l’uomo d’azione e di costanza continuamente in lotta con gli elementi. Qui il duro linguaggio del tedesco, quel linguaggio che sembra fatto per rendere ancora più oscure le sottigliezze della metafisica, e più drammatici i suoi canti. – Su questo sottofondo monotono scoppia la viva fraseologia dei Francesi che s’interrompono ad ogni istante con discussioni e scoppi di risa. – L’insieme è dominato, riallacciato, forato dall’intonazione musicale degli uomini dell’Oriente e del Mezzogiorno, così melodiosa che sembra venire dal cielo. – Quanto agli Slavi, essi sono gli interpreti di tutte le nazioni che già cominciano a capirsi.
Le Lingue dei popoli ripetono la gloria dell’Uomo!
L’esplosione di centomila fuochi d’artificio dà il segnale della festa. Nello stesso momento l’incendio si accende da tutte le parti, scoppietta, si acuisce e si spande lontano. Lungo le rive del fiume risplende il gas da illuminazione i cui tubi svettano come liane sui rami degli alberi. Si arrampicano, serpeggiano e si suddividono in un’infinità di bracci che seguono tutte le biforcazioni delle foglie e dei fiori. La luce penetra fino al cuore delle piante marine e getta nelle loro corolle tutta l’esplosione della vita.
Le barche si illuminano di svariati colori. – Le une, hanno riflessi verde pallido, simili al dolce chiarore delle lucciole. – Le altre, sono di un rosso come il fuoco delle fornaci; quando scivolano sulle acque, si potrebbe credere che a navigare sia il grande Leviatano di cui parla il Profeta. – Molte di esse portano sui loro ponti fulgidi fuochi di Bengala; assomigliano alla folgore che rotola tra le acque, come un astro che affonda, come non so quale terribile potenza che creerebbe il terrore degli abissi. – Queste, sospendono alla cima degli alberi scoppiettanti falò; guardandoli dalla riva, li si direbbe staccati dal fiume e brucianti sulla montagna opposta come un fuoco di Natale. – Quelle, illuminate da un luccicore dubbio, sembrano esattamente la scura imbarcazione del vecchio nocchiero dello Stige o il fragile battello che portava sui ghiacci Thor, il potente dio che non aveva paura di niente. – Una buona parte contiene tanti lampioni scarlatti che la fa sembrare, sull’acqua verde, come nei cespugli i rossi frutti che maturano in autunno. – Su molte brillano stelle, rose, fenici, farfalle, insetti dorati che sbattono nei cordami. – La maggior parte sono coperte da ghirlande, da mezzelune, cupole, scintille, emblemi nazionali e federali, da fiamme bizzarre come quelle dei bastimenti corsari.
Quando tutte le navicelle sono illuminate in tal modo, si accende la luce elettrica. Essa colpisce gli oggetti con il suo bagliore siderale, produce effetti fantastici riflettendosi sui visi abbronzati dei marinai, sulle delicate figure delle donne, sui biondi capelli dei bambini. Si ha l’impressione di avere gli angeli delle tenebre confusi con gli spiriti della luce che nuotando si dibattono in un mare di fuoco.
Il Tago appare come tutto quello che l’immaginazione può sognare di più ricco: come una pianura di spighe d’oro al tempo della mietitura; come un insieme di diademi importati, puliti, smussati, erosi, scalfiti dal flusso delle sommosse; come il sole che tramonta sui monti che nascono; come uno specchio ardente; come un vaso di vive fiamme che minaccia di divorare tutto. I remi tinti di sangue si levano come larghe spade che hanno appena colpito.
La Luce e il fuoco ripetono la gloria dell’Uomo!
In mezzo a tutte queste barche si avanza la galea d’armonia, la galea capitana incrostata di conchiglie, bordata d’urne d’alabastro che versano costantemente nel fiume fiotti di schiuma, di acqua blu, verde o rossa, pesci di tutti i colori, perle d’oro, coralli, lustrini d’argento. Essa trasporta ventimila musicisti celebri e gli artisti che hanno organizzato i godimenti del giorno. Al centro si alza un trono sostenuto da onde schiumeggianti perfettamente rappresentate e sul quale si dovrà sedere la divina regina di questa festa. Rimorchia cinquanta gondole dal collo di cigno talmente cariche di piante marine che sembrano altrettante isole che avanzano sui flutti.
Le Armonie ripetono la gloria dell’Uomo!
La festa deve rappresentare la nascita di Venere, dea dell’amore. Il coordinatore del programma ha scelto il momento in cui l’immortale sorge dalla schiuma delle onde fremente di passione.
Come preludio, l’orchestra suona un’armonia soave e sognante, simile a quella che producono gli uccelli nei primi giorni di primavera. Durante tutto questo tempo, le barche avanzano lentamente, si dondolano, si avvicinano, si sfiorano per imitare le carezze delle onde amorose.
I cuori si sentono presi da un fremito indicibile; la bruna testa di un giovane si appoggia sul seno palpitante della sua dolce amante. È lo stesso movimento, lo stesso accordo, la stessa passione che corre nelle vene dei rematori, dei musicisti e degli amanti.
A poco a poco, il ritmo diviene più trascinante, la melodia più voluttuosa; essi risvegliano emozioni divine che ravvivano lo spirito. Tutti coloro che assistono partecipano all’esistenza universale e uniscono la loro anima al movimento dei mondi che culla l’armonia.
La brezza della sera agita dolcemente le erbe e le foglie. La luna si è elevata e si specchia sulle acque; il suo sguardo curioso sonda il letto del fiume come una colonna di fiamma. Gli elementi gioiscono nel vedersi in splendori così puri; nessuna nuvola turba la serenità dell’atmosfera.
Allora tutto tace; nessun remo fende l’onda, nessuno strumento vibra, non una voce interrompe il raccoglimento generale.
I Cieli ripetono la gloria dell’Uomo!
L’orchestra riprende con lunghi sospiri, rapide esclamazioni, versi appassionati. Si direbbe l’esplosione della tenerezza, l’impeto dei desideri, la sete dell’anima innamorata, la rabbia insoddisfatta dei sensi. Il ritmo accelera, si trattiene, tempesta, si impenna, simile a un corsiero che lotta di petto contro gli sforzi del suo padrone. Nello stesso tempo, l’agitazione delle navicelle si accelera, raddoppia. Esse si ribellano come fossero afferrate dal furore; scivolano sulle acque, s’incrociano e si trascinano, languidamente, come gli amanti a cui il bacio non è sufficiente.
Il Tago ripete la gloria dell’Uomo!
Infine l’orchestra scoppia con tutte le sue voci di bronzo, di campane, di tamburi e di cannoni. L’intervallo dei suoi silenzi è riempito da formidabili cori. La violenza dell’amore non può più essere compressa, la feconda Anfitrite non resiste più ai trasporti furiosi dell’amante che la spinge: è arrivato il supremo attimo in cui è necessario che due esseri muoiano d’amore!!...
Allora le barche si serrano, si ammucchiano, si penetrano; formano come il seno gonfiato del mare che sta per aprirsi. Venere la bella si concede in un ultimo bacio!
La strofa musicale diviene penetrante, rantolante, struggente di voluttà. Con una brusca scossa, i battelli si separano a metà, lasciando tra loro la galea capitana che fa balzare l’increspatura delle onde. Su di esse appare nascente la Dea adorata, l’Afrodite che fa girare la testa ai poveri umani.
In suo onore l’incenso fuma da tutte le parti; immensi soli spiegano le loro nuvole di porpora formando la sua aureola e la mostrano ai mortali nell’esplosione della sua soprannaturale bellezza.
L’Amore ripete la gloria dell’Uomo!
Non appena è nata, le Ninfe e le Nereidi accorrono attorno ad essa sulle cinquanta barche piene di fogliame; cantano:
“Salve! madre d’amore e di grazia, sorgente inesauribile di fecondità, di felicità e di gioia! Salve! tutti gli esseri ti adorano, e quando ti pregano, la loro estasi è così grande che credono di morire! Noi siamo le tue sorelle, le tue figlie e le tue compagne; noi gioiamo per i tuoi amori, tu proteggi i nostri. Tu sei la nostra regina, più bella e più amabile di noi tutte. E siamo felici quando ci permetti di baciare i tuoi piedi!
“Oh! Venere! amante eterna, eterna giovane, oh! divina andalusa, lascia che mettiamo nella tua mano lo stelo del guscio fiorito, lasciaci cingere il tuo corpo così fine con sciarpe azzurre o verdi, più impalpabili delle nuvole e delle acque. Che attorno a te volteggino come uno stormo di bengalini sagaci i chiaroveggenti amori, così docili ai tuoi ordini! Che l’aria porti lontano inebrianti profumi! Che la schiuma che ti ha fatta ringiovanisca per sempre le tue bellezze! Che tutto canti, che tutto si animi di nuova vita!
“Che l’Universo ripeta sempre le gioie dell’Uomo!”.
Esse parlano e formano attorno a Venere un girotondo saltellante. Sono belle, giovani, incantevoli, le Nereidi, le innamorate! Promettono agli uomini gioie senza fine.
Ne sono arrivate da tutte le rive: sognatrici di Mecklembourg dagli occhi verdi, profondi e calmi come sogni felici; – bianche del Lancashire e dei Paesi del Galles; – fresche dell’Armorica e delle Fiandre, quelle che Rubens drappeggiava abbondantemente nei ricchi colori usciti dal suo pennello, – brune di Valencia, di Napoli, di Venezia, le preferite da tutti i pittori e da tutti i poeti. Tutte rendono omaggio alla figlia del Cadice, alla Vergine spagnola così come la sognava il grandissimo Murillo.
La Bellezza canta la gloria dell’Uomo!
Le fanfare chiamano; a grande distanza il coro risponde al coro. I marinai stanchi si abbandonano sui loro remi. Una molle estasi s’impadronisce di tutti gli esseri. Venere e la sua corte passano in rivista le squadre gioiose. Passano e ripassano attorno alle navicelle, i loro sguardi s’infiammano, i petti si sollevano, i fiati e le voci mancano man mano che riconoscono i felici amanti che preferiscono per la serata.
... È fatta: la febbre li divora, essi cedono ai desideri che li fanno impazzire. Le luci si spengono; le ultime scintille volteggiano sull’acqua come fuochi fatui. Ognuna delle dee salta sulla barca di colui che ama e lo stringe fra le braccia. E ogni barca parte a tutta velocità, portando a riva il suo dolce fardello.
Gloria! Gloria! Nelle ville che costeggiano il Tago, i cotogni, gli aranci spandono per tutta la notte i loro sentori balsamici; i teneri colombi tuberanno fino all’alba. Mentre fino al tardo sole, l’uomo, ancora più felice, s’inebrierà d’amore.
Oh! soffia nella brezza, divina Venere! Gonfia le vele delle barche dove ci si adora, accendi le passioni in tutti i cuori sensibili! Ordina all’Eco di parlare di carezze, a Cinzia di velare i suoi occhi di levatrice, dici all’usignolo di incantare la sua cara compagna, comanda alle stelle di prestare alla terra una parte dei loro vivi ardori! Cresci l’uomo con la poesia e i sogni! Che implori da te, dalla donna perfetta, la più dolce delle morti! – Una morte che lo sorprenda nel colmo della felicità e lo trascini, pieno di attività, d’illusioni, nel lontano torrente delle future esistenze! – E che, animato dal tuo soffio, percorra i suoi impegni futuri, sempre felice, sempre libero, infaticabile nell’amore, nel lavoro e nel pensiero!
Gloria! Gloria! Quella che piangeva rigioisce, quella che era sopraffatta dall’ingiustizia s’è innamorata del diritto, quella che non partoriva più è divenuta feconda; l’Umanità fortunata rivive di secolo in secolo, raggiante d’amore!
Ho raccontato il sogno che diverse volte mi ha reso felice quando vivevo sotto il tuo bel cielo, Iberia amatissima. Ma povero il poeta che deve rivelare tutti i segreti della sua anima; non realizza mai il suo sogno; se lo tenta, è vergognoso e fiero allo stesso tempo, come il giovanotto che ha posseduto la donna che le sue illusioni rendevano bellissima.
Tuttavia, non ho potuto abbassare sui tratti radiosi dell’Avvenire il velo dei vapori che li nasconde ai miei occhi; non ho potuto conservare solo per me rivelazioni che interessano enormemente tutti gli uomini.
Apprendete dunque, o miei contemporanei, che la mia predizione si confermerà nel prossimo secolo, e che la sua realizzazione sarà mille volte più splendida della visione incompleta di un disgraziato civilizzato. – Visione sempre turbata dalla salute precaria e dai bisogni quotidiani della vita!
Senza dubbio allora i popoli non saranno designati con i nomi di oggi; senza alcun dubbio le frontiere attuali saranno scomparse; senza dubbio il principio di solidarietà si estenderà all’umanità tutta intera, e quello di libertà anche agli individui più originali; senza dubbio le divisioni di comuni e di patrie non saranno più fissate come le vediamo oggi; senza dubbio non vi sarà più centralismo possibile; senza dubbio alcuno la Rivoluzione farà e disfarà, modificherà continuamente i gruppi sociali, etnici e amministrativi.
Ed è in ragione di queste stesse modificazioni continue che mi è impossibile prevedere tutte le organizzazioni, classificazioni, divisioni, suddivisioni in dettaglio che comporterà questo nuovo ordine di cose più conforme alla natura, alla felicità e alla libertà. Sono dunque stato costretto ad impiegare ancora le denominazioni che servono a distinguere gli uomini di oggi.
Adottando l’ipotesi di una nuova etnografia possibile, sarei certamente caduto nel doppio pericolo di essere incomprensibile per i miei lettori e poco certo delle mie profezie.
Ora lo ripeto, i profeti sono, fra tutti i filosofi, quelli che devono sbagliarsi di meno perché sono svincolati da ogni interesse attuale; sono, fra tutti gli scrittori, quelli che devono esprimersi il più chiaramente possibile per convincere la folla degli increduli; sono, fra tutti gli uomini, quelli che devono abbandonare meno le loro osservazioni al caso.
Ho guardato il cielo. Tutto ciò che fa felici gli uomini vi brilla senza nuvole: gli astri, le stelle, l’oro e l’azzurro. Tutto ciò che li affligge è sanguinante, scialbo, grigio, buio, nero come la morte, confuso, senza norma, senza riposo, in continua guerra, trascinante con sé delle atrocità. Che il profeta si ispiri alla purezza dei cieli! – Magnificat!
* * *
Fine del secondo volume
I giorni dell’esilio Volume I
Introduzioni di Alfredo M. Bonanno Ernest Cœurderoy
I giorni dell’esilio Volume II Ernest Cœurderoy
I giorni dell’esilio Volume III
Postfazione di Raoul Vaneigem
Questo sito, oltre a informare i compagni sulle pubblicazioni delle Edizioni Anarchismo, archivia in formato elettronico, quando possibile, i testi delle varie collane.
L’accesso ai testi è totalmente libero e gratuito, le donazioni sono ben accette e servono a finanziare le attività della casa editrice.