Titolo: Lezioni (fuori luogo) di storia della filosofia. Catania
Sottotitolo: Vol. I
Cartesio – Merleau-Ponty, 1953-1954
Note: Pensiero e azione 31
Prima edizione: maggio 2015
SKU: pensiero-000031
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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    Introduzione di Amfissa e Korydallos

      Nota editoriale

    Cartesio e le polemiche sul cartesianesimo

      Pierre Gassendi (1592-1655)

      Thomas Hobbes (1588-1679)

      Nicolas de Malebranche (1638-1715)

      Blaise Pascal (1623-1662)

      Baruch de Spinoza (1632-1677)

      Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716)

    La rivoluzione inglese

    John Locke

    L’età dell’assolutismo

    L’opposizione all’assolutismo

    Premesse della rivoluzione industriale

    L’Illuminismo. Berkeley e Hume

      George Berkeley (1685-1753)

      David Hume (1711-1776)

    L’Illuminismo

    L’Illuminismo francese. Voltaire e Rousseau

      Pierre Bayle (1647-1706)

      Voltaire (1694-1778)

      Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)

    Immanuel Kant

    La polemica sul kantismo

      Friedrich Schiller (1759-1805)

    La filosofia della fede

      Johann Georg Hamann (1730-1788)

      Johann Gottfried Herder (1744-1803)

      Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819)

      Karl Leonhard Reinhold (1758-1823)

      Gottlob Ernst Schulze (1761-1833)

      Salomon Maimon (1753-1800)

      I grandi filosofi dell’idealismo postkantiano

      Johann Gottlieb Fichte (1762-1814)

      Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854)

      Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)

    Il Romanticismo

      Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834)

      Arthur Schopenhauer (1788-1860)

    La polemica contro l’idealismo

      Johann Friedrich Herbart (1776-1841)

      Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855)

    La sinistra hegeliana

      David F. Strauss (1808-1874)

      Ludwig Feuerbach (1804-1872)

      Karl Marx (1818-1883)

      Friedrich Engels (1820-1895)

      Max Stirner (1806-1856)

    Filosofia del Risorgimento, ritorno alla tradizione

      Pasquale Galluppi (1770-1846)

      Antonio Rosmini Serbati (1797-1855)

      Vincenzo Gioberti (1801-1852)

    Il positivismo sociale

      Auguste Comte (1798-1857)

      John Stuart Mill (1806-1873)

    Il positivismo evoluzionista

      Charles Darwin (1809-1882)

      Herbert Spencer (1820-1903)

    Linee guida della filosofia contemporanea

    Benedetto Croce

    Lo storicismo contemporaneo

      Lo storicismo tedesco

      Lo storicismo idealistico

      Wilhelm Dilthey (1833-1911)

      Wilhelm Windelband (1848-1915)

      Heinrich Rickert (1863-1936)

      Georg Simmel (1858-1918)

      Oswald Spengler (1880-1936)

      Ernst Troeltsch (1865-1923)

      Friedrich Meinecke (1862-1954)

      Max Weber (1864-1920)

    Friedrich Nietzsche

    Altri grandi filosofi

      Henri Bergson (1859-1941)

      Giovanni Gentile (1875-1944)

      Charles Sanders Peirce (1839-1914)

      William James (1842-1910)

      John Dewey (1859-1952)

    Empiriocriticismo

      Richard Avenarius (1843-1896)

      Ernst Mach (1838-1916)

    Fenomenologia ed esistenzialismo

      Edmund Husserl (1859-1938)

      Max Scheler (1874-1928)

      Martin Heidegger (1889-1976)

      Karl Jaspers (1883-1969)

      Jean-Paul Sartre (1905-1980)

      Maurice Merleau-Ponty (1908-1961)

“Così, per Hegel, tutto ciò che è avvenuto e che avviene tuttora, è, né più né meno, quello che avviene nel suo ragionamento. Così la filosofia della storia non è più che la storia della filosofia, e della filosofia sua personale. Non vi ha più la storia secondo l’ordine dei tempi; vi ha solo la successione delle idee nell’intelletto. Egli crede di costruire il mondo col movimento del pensiero, mentre non fa che ricostruire sistematicamente, e ordinare sotto la legge del metodo assoluto, i pensieri che sono nella testa di tutti”.

(K. Marx, Miseria della filosofia)

Introduzione di Amfissa e Korydallos

L’asimmetrica disposizione di questi due volumi abbisogna di una spiegazione biografica. Avendo finito di studiare, nel 1951, i tredici volumi della storia della letteratura vallardiana, decisi di studiare filosofia. Non seguendo i corsi regolari di un liceo classico, questo studio mi era istituzionalmente precluso – ma l’occasione mi venne offerta da una sedia che si trovava in via Etnea, a Catania, di fronte all’Eden bar, ai Quattrocanti, dove comincia la salita che porta in Piazza Santa Nicolella, sede, allora, della Banca d’Italia e oggi della Questura.

Dietro la sedia, all’impiedi, un uomo che si chiamava Bessola, che divenne poi amico di mio padre, con cui condivise sconfitte certe e improbabili vincite al lotto. Era un libero rappresentante dell’UTET e sulla sedia troneggiavano i tre volumi della Storia della filosofia di Abbagnano. Me ne innamorai subito (del libro) e convinsi (facilmente) mio padre a comprarmelo a rate.

Aprii a metà il secondo volume e decisi di cominciare a leggere Cartesio. La decisione era gratuita e casuale, niente poteva suggermi quella scelta, la quale invece, come scopersi poi, ha un fondamento logico, iniziando da Cartesio la filosofia moderna.

Ecco quindi il motivo della ripartizione. Per fare queste lezioni (fuori luogo) ad alcuni miei compagni del corso di ragioneria, scegliemmo uno degli autobus SITA che all’epoca stazionavano in Piazza Roma, proprio davanti all’Istituto Tecnico De Felice Giuffrida, pronti a partire per i diversi paesi etnei. Per queste lezioni utilizzavamo mezz’ora al giorno che ci veniva concessa per la ricreazione.

I frequentatori erano una ventina – attenti e per niente sospettosi nei riguardi della mia improbabile sapienza – e non ho avuto spesso uditorio così interessato e partecipe.

Io preparavo la lezione il giorno prima, rileggendo il testo di Abbagnano e rinforzandolo con la Storia della filosofia di Windelband e con quella di De Ruggero, letture già fatte, successive alla mia iniziazione abbagnaniana.

Dovevo avere l’aria piuttosto esaltata all’epoca, se si tiene conto che, oltre a queste lezioni, le quali mi prendevano non poco tempo per la preparazione, lavoravo la sera al quotidiano “La Sicilia” come cronista e preparavo, da privatista, gli esami per il liceo classico. Aria esaltata e stanchezza erano le mie caratteristiche permanenti in quegli anni ma, come ho constatato poi più volte, sono proprio queste le migliori condizioni di studio.

Presentavo i filosofi in forma essenziale, senza perdermi in riferimenti critici eccessivi, che per altro non sarei stato in grado di fare, viste le mie competenze specifiche piuttosto modeste. Ecco perché queste lezioni presentano una radicale diversità di stile con altri miei scritti successivi. Non solo per motivi di ovvia immaturità culturale e tecnica (lo scrivere è un mestiere che si apprende, per l’appunto, scrivendo), ma anche per la fretta che si intravede sullo sfondo delle singole argomentazioni. In più mi adeguavo all’uditorio, ancora più digiuno di me, in fondo fiducioso e abbandonato alle mie infondate pretese dottrinarie. Al momento di riprendere in mano questi miei vecchi scritti mi sono posto il problema della loro revisione. Ho cercato di limitarla il più possibile, lasciando la formulazione non dico così come stava, ma quasi. Se avessi gravato troppo la mano avrei riscritto oggi una storia con una lingua di certo più accurata, ma in contrasto con l’avventatezza e la spensierata forza giovanile che ormai non mi competono più.

Peraltro penso adesso, a distanza di più di mezzo secolo, che la storia della filosofia non può essere separata dalla presenza umana dei filosofi che in essa vivono, ed è proprio questo che cercavo di comunicare ai miei coetanei discenti, non un insieme di notizie e di teorie disfatte e accozzate alla rinfusa.

Ecco perché i singoli pezzi, spesso isolati e difficilmente riconducibili a un insieme organico, hanno anche oggi (forse oggi più di allora) una loro integrità autosufficiente, senza che al senno del poi possa essere consentito dilagare con una violenza facile e superflua.

Ecco perché queste lezioni mi appaiono oggi come libere, o liberate, da ogni supporto o sostegno di fondo, da ogni saccente precisazione. In esse manca la dottrina personale, non c’è difatti – non poteva esserci – un’idea portante, tranne quelle di Abbagnano, Windelband e De Ruggero, ammesso che questi filosofi ne avessero una e non più di una.

Questo punto merita una riflessione. Dietro le pretese fantasmagoriche di Abbagnano che fosse la sua Storia della filosofia un trattato sull’Esistenzialismo, c’è solo l’impronta di un desiderio, nient’altro. Lo stesso, forse un po’ meno, per Windelband, anche qui il neokantismo non è presente mentre altre idee, cioè idee di altri, invadono le sue pagine. Per De Ruggero basta ricordare il suo storicismo, sia pure indisciplinato nei riguardi di Croce, e quanto confusamente questo appaia nelle sue pagine, affiancato come si trova troppo spesso con la forte presenza gentiliana. In ogni caso, la guida principale, e la mia prima lettura, restava Abbagnano.

Mi privavo così di qualcosa, l’approfondimento critico, che non avevo per me e che altri, i miei punti di riferimento, non manifestavano neanche loro troppo chiaramente. Insomma, fornivo quasi esclusivamente la farina che era nel mio sacco. Ed era farina faticata, molto sofferta. Anche nei giorni in cui non andavo a scuola a causa del lavoro al giornale, mantenevo il mio appuntamento nell’autobus SITA alle undici del mattino.

Resta da vedere, dopo tutto ciò, perché pubblicare questi testi, nati con una destinazione tanto modesta e prodotti da un ragazzo sedicenne con la testa piena di grandi progetti ma le braccia troppo corte per abbracciarli. Essi mantengono una validità anche oggi, per me [validità che riconfermo dopo averli riletti preparandoli per la stampa]. Niente è più valido nel tempo di quello che non nasce per durare nel tempo. L’estemporaneo può essere circoscritto e asfittico, ma accenna a qualcosa che è presente nell’attimo e che risolve con gesto fulmineo e sconsiderato problemi che poi, in altra sede, prenderanno tempo e fatica ben più grandi. Non c’è ingombro in queste pagine, ingombro e superfetazione di dottrina o semplicemente di ricordo.

La storia della filosofia è storia dei filosofi e delle loro allucinazioni, oppure è un trattato personale dello storico, una carrellata delle sue idee. Questa alternativa non ha sbocchi perché questi non sono richiesti con attenzione. C’è sempre una sorta di affinità, o di aria di famiglia, fra i filosofi. Dopotutto fanno comunque parte della stessa corporazione, quella del pensiero. Questo filo comune è tenuto in mano dallo storico della filosofia e come il filo di Arianna è così che egli esce dal labirinto.

Ora, per uscire dal labirinto filosofico che costituisce la storia della filosofia, egli utilizza l’aria di famiglia e raggruppa a seconda della maggiore o minore vicinanza con le proprie scelte filosofiche. Ciò lo porta a scrivere la sua versione filosofica di una possibile storia della filosofia, e non si lascia sopraffare da quest’ultima, né impone le regole di equidistanza che dovrebbe pur mantenere fra le singole tesi.

La filosofia nasce libera o non è filosofia. Un filosofo è quasi sempre un servo del potere, e spesso questa servitù se la va a cercare lui stesso, ma le sue tesi, a volte, più spesso di quanto non si pensi, non sono sempre digeribili per il potere. C’è pertanto una palese autonomia delle tesi nei riguardi dei filosofi. Questi sono miseri quasi sempre, quelle a volte possono non esserlo.

Spesso la ramificazione di queste produzioni è complessa e la miseria iniziale si perde per strada a causa delle tante e complicate derivazioni. Platone è un esempio per tutti.

Non potevo, anche volendo, entrare dentro l’esposizione delle tesi, proponendo le scelte che, poniamo, proporrei oggi. Qui non c’è scelta, c’è soltanto un giovane con la testa piena di miti e di favole culturali, che si aggira fra foreste secolari, dove alberi giganteschi si ergono davanti alla sua debole capacità di discernere, e lui ha la pretesa di descriverli. E lo fa con un solo punto di riferimento, tre storie della filosofia non proprio fra le più accreditate, almeno oggi.

Questo giovane si illude di avere una sua lingua franca, cioè libera di condizionamenti, e la usa con quella maniera schietta che pensa sia la migliore. Sarebbe per me facile, oggi, rivedere le bucce di quella lingua e dimostrare che proprio in quello che non si sa si nasconde la radice di quello che non si capisce, ma sarebbe, come ho detto, un’operazione ingiusta verso me stesso.

Esposizione semplice, per come può esserla un’esposizione, semplice ma non banale, assistita dalla volontà di conoscere, dal desiderio di andare avanti, dalla concentrazione su di una materia che ancora non si padroneggia, di una nervosa tensione che costituisce un tessuto connettivo altrimenti inconsistente.

Non ci sono levate di scudi, così frequenti nelle storie della filosofia, come in fondo sono queste aritmiche legioni, non ci sono difese di novità irrinunciabili, non ci sono miti da fondare e da giustificare, non c’è materia per privilegiare questa tesi invece di quell’altra. Ogni affermazione di principio sarebbe stata fuori luogo, oltre che oggettivamente impossibile. I singoli filosofi sono scheletri, per il momento, lasciati negli armadi con accanto un’etichetta provvisoria, tratta dalle loro tesi, provvisoria perché ognuno possa poi cavarne una definitiva, oppure meno provvisoria. Queste etichette sono da considerare come stemmi, come icone di un preteso riassunto che non sarebbe altro che una ridicola essenzializzazione.

Questi simboli, come si è capito, sono fuorvianti. Ogni filosofo è caratterizzato in modo indipendente, è il carattere della sua filosofia che ricollega i movimenti e le idee, i contrasti e tante contraddizioni. I tanti assilli causati da questi incontri producono la necessità di una dedizione assoluta al lavoro di accostamento, ogni volta è necessario riprenderlo daccapo. Questa era la nostra complicità, mia e dei miei coetanei.

Quello che ci ammaliava era l’impressione costante di stare per fare l’incontro decisivo della nostra vita, il filosofo portatore della verità una volta per tutte. Era un lavoro di Sisifo, o da cavallo da tiro, ogni volta, disillusi dall’incanto successivo, si ricominciava daccapo. Tra una disillusione e l’altra bisognava trovare territori più pianeggianti, dove riposare. Alla lunga, l’affinarsi della pratica filosofica allargava questi territori e l’illusione sorgeva molto meno. Si stava imparando la storia della filosofia.

Si stava imparando, ho detto, perché quello che accadeva ai miei amici accadeva anche a me. Ero un strano maestro, a ben considerare, avevo da abbattere per conto mio una barriera quasi insormontabile per le mie forze e, nello stesso tempo, pretendevo insegnare ad altri come fare.

Nella frenesia di conoscenza mi pensavo invincibile, non c’era qualcosa che potessi non capire, o risultarmi ostica o, peggio, incomprensibile. Nella mia mente avevo costruito un piccolo giardino fiorito dove collocavo le varie e sempre bellissime acquisizioni come fossero piante dai colori inverosimili. Agli altri mostravo una piccola parte di questo giardino che per tutti rimaneva quasi segreto. Ero così nel mondo, più che mai, il mondo di un ragazzo, ed ero fuori del mondo. Ecco, le mie lezioni di questo periodo sono fuori del mondo. Il mio motto dell’epoca, riposare mai. Più tardi adotterò quello di Muratori, cambiar di fatica alla fatica il miglior ristoro.

Questa impresa mi appassionava, mi dava un senso di forza e di potenza, non solo alzavo il sipario di una scena sconosciuta per me, ma lo alzavo anche per altri, che così dipendevano da me per la propria coscienza. Eppure non avevo l’indole e la disponibilità del professore, non spiegavo – ma l’avrei saputo fare? –, affermavo come stavano le cose (secondo me), ero la fonte e fornivo oracoli, non deduzioni. Non che io fossi certo di possedere la verità di quello che dicevo, ero in un certo senso l’esecutore testamentario di coloro dai quali avevo tratto la documentazione che mettevo in gioco. Ed era questo il mio cruccio.

Vediamo di approfondire questo rovello, perché dal suo emergere in poi cominciai a nutrire dei dubbi sulla possibilità, non dico di custodire la conoscenza, ma di possederla come cosa mia. Spacciavo per certo quello che io avevo capito, ma non potevo essermi sbagliato? No, questo non mi passava neanche per il capo. Però potevano essersi sbagliate le fonti dalle quali avevo tratto le mie informazioni, questo era possibile. Sembrerà strano, ma ero fatto così.

Siccome non ero uno stupido, arrivai presto alla conclusione che nell’abbindolamento poteva esserci anche il mio zampino, sia pure involontario. La via era aperta. Dopotutto la filosofia serve a qualcosa. La stessa irruenza conoscitiva era fonte innegabile di errore negando al tempo stesso la funzione di assestamento e di correzione. In più, nella storia della filosofia, la presenza del soprannaturale è così frequente che può turbare la necessaria distanza riflessiva. Pure, essendo ateo dichiarato, mi accorgevo del pericolo e non mi limitavo a infuriarmi, andavo oltre, proponevo aggiustamenti.

Rimanevano nella mia esposizione le zone troppo rutilanti, recise, condensate, semplicemente affermative, zone ricche di sangue, dove la circolazione era compressa e rischiava di esplodere in gratuità. Accanto alla descrizione delle tesi, tratta dagli altri, ecco improvvisamente venire fuori una parola diversa, inusitata, appassionata, mia, dovuta ad altre frequentazioni, in particolare quella dei critici ermetici. Avevo letto e annotato i due volumi di Mario Apollonio su Dante.

Non è possibile distinguere le tracce di queste due fonti tra di loro disparate, e non è neanche importante, in fondo quelle reminiscenze mi venivano spontanee, rielaborate da me nel fermento irrefrenabile della mia cultura in formazione. Era una lotta ostinata e nascosta, non parlavo con nessuno di queste frequentazioni improbe. E poi, con chi avrei potuto parlarne? Ero inseguito da un incubo, che oggi che sono vecchio so perfettamente fondato, quello di non fare a tempo, di non riuscire a terminare quello che avevo intrapreso. Oggi, dicevo, so quanto breve e futile è la vita. Ma non era un incubo che mi prendeva all’improvviso, una sorta di panico, ero io che mi soffermavo a rifletterci sopra, ero io che lo cercavo per spingere ancora più oltre il mio fare, ancora più oltre, al di là del possibile.

Rileggere una storia della filosofia è come fare visita a una vecchia amica, conosciuta ai suoi tempi migliori. Non si fa altro, mentre si parla, che guardarle le rughe che una volta non c’erano. Da questa impressione non si scappa. Questo autore è troppo largo, l’altro è troppo stretto, questo è presentato con abiti bizzarri, l’altro è quasi nudo nelle sue essenziali linee, questo è quasi un cadavere, l’altro è vestito di nero e porta prematuramente il lutto. Gli ammiratori di oggi non sono gli stessi di ieri, il mondo cambia e con il mondo cambiano le storie, anche quella della filosofia.

Il fatto è che i libri cambiano per chi li ha scritti e per chi li legge, cambiano anche per chi li legge a distanza di tempo da quando li ha scritti, e questo cambiamento è proprio incluso nei libri stessi, come se fosse un loro destino, folle e sadico, nell’evolversi della generale trasformazione del mondo. C’è quindi una sorta di spirito del libro, e di un singolo libro, di ogni singolo libro, come c’è uno spirito del tempo e uno spirito del mondo, di un’epoca. Queste lezioni, dal punto di vista che sto illustrando qui, sono pertanto un libro non ben riuscito, eppure attendevano lo stesso a mantenere il loro pretenzioso statuto.

E poi c’è il fatto che di una storia della filosofia si tratta, quindi di un libro particolare. Sotto il formicolare delle tante teorie c’è il sangue di milioni di uomini morti per causa loro. Un mare di sangue su cui volano ancora gli uccelli del risentimento e dell’odio. Non ci sono innocenti in circolazione, meno ancora fra le teorie. Ci si sente male riflettendo su questa semplice evidenza. Nel chiuso del suo castello teutonico, il filosofo elabora alcune tesi che sembrano quanto meno innocue, inopportune spiegazioni di quello che sono le cose nella realtà. Poi queste spiegazioni incontrano uomini che le fanno proprie, spesso le stravolgono e le vestono di soprannaturaliste sembianze, queste innalzano allora i vessilli di combattimento e si trasformano in armi mortali. È un esercizio tipico degli uomini e la caverna dove si agitano nella melma è il luogo della loro ideologizzazione.

La filosofia – e più ancora la sua storia – è arma mortale, ed è stata sempre usata per combattere altri uomini, animati da sfumature diverse, sempre intrise di sangue. Non ci sono gli angeli malvagi di Heine, ci sono gli uomini, e tanto basta. La loro storia è sequela di massacri sempre giustificati a priori da teorie filosofiche più o meno attendibili, più o meno facilmente rivestibili di armature per il combattimento. Dalla mano che abbatte il despota a quelle che precedentemente l’avevano sollevato al potere supremo, c’è sempre dietro una carneficina. In genere, queste vicende sono narrate dalla storia, poco è invece fatto per ricondurle alle teorie filosofiche che quella storia hanno retto e giustificato.

Lo studioso di storia della filosofia ha l’aria di essere là per aspettare l’autobus, al massimo assume l’atteggiamento dello spettatore imbarazzato, mai di quello che vede e fa propria una responsabilità precisa. Nelle teorie più accomodanti, apparentemente accomodanti, sta nascosto il germe segreto di uno sviluppo violento, sollecitato dalla paura della propria confutazione piuttosto che dal riconoscimento delle tesi dell’avversario. Non ci sono armi pari, ci sono solo prevaricazione e massacro. Tutto finisce in un crepuscolo in cui gli dèi vecchi muoiono uccisi da giovani dèi.

L’insieme sollecita allo schieramento per ranghi compatti, tutto è simile a un campo di battaglia, i punti salienti sono quelli in cui la lama critica affonda nel petto dell’avversario e lo uccide. Dopo si prepara il passaggio al prossimo massacro. Chi esamina in questo modo la storia della filosofia – e io avevo una sorta di presentimento del genere, non una certezza – deve prepararsi dapprima a combattere sotto un vessillo e poi a uccidere e a essere ucciso. Non si possono servire più padroni nello stesso tempo. Chi tentenna è un qualsiasi Cousin e come tale non viene neanche preso in considerazione.

Non c’è dubbio che qualcosa di arcaico e di estremo c’è nel pensiero umano. Non appena si articola in complessi che si chiamano teorie richiama la morte, la morte violenta dell’avversario. Non c’è tregua nella discussione cosiddetta democratica, dove ognuno espone tranquillamente le sue opinioni, se non per assestare il colpo finale, quello decisivo che uccide l’avversario e dà la vittoria. Dapprima a chiacchiere, solo apparentemente innocue, dopo nei campi di battaglia. La connessione è inevitabile.

Non intendo dire che allora tutto questo mi fosse presente, o che facessi qualcosa per capirlo e metterlo sottolineato a disposizione dei miei coetanei, è un altro il punto. Il tema della vita mi assillava, come mi assilla ora, forse con più violenza e immediatezza, e il tema della vita è connesso con quello della morte. Vedevo la morte delle teorie, una dopo l’altra, e vedevo anche cosa comportava storicamente la loro morte, non riuscivo invece a chiudere la connessione di responsabilità, teoria-morte, mi sfuggivano i dettagli della ferocia impliciti nell’apparente innocenza della teoria. Ero distratto da particolari poco importanti, ad esempio il modo in cui erano menate avanti le giustificazioni logiche. La tecnica dialettica mi affascinava più della sostanza, per cui le cose scappavano via in braccio al loro destino.

La bellezza di una dimostrazione logica è simile alla bellezza umana, sembra eterna campeggiare su tutto, attira e affascina senza mezzi termini, si impone, raggiunge l’acme, poi a poco a poco sfiorisce e scompare. Il sangue resta e non lo si può dimenticare fra le pieghe di un volume in ottavo. Riflettendo su questo punto, rivedo la mia giovinezza, lo sguardo intenso di Francesca, che a me sembrava distratto, remoto. La mia insensibilità capace di calpestare la vita per fame di conoscenza, per l’ambizione di costruire un golem mai visto, un’onnivora bestia che non concedeva grazia.

Come nella vita di un uomo, così nella storia della filosofia non c’è un tempo felice, tanto meno lo si può trovare nei primordi, cioè nei primi anni dell’esercizio organizzato del pensiero. Ci sono adolescenti che sorprendono con una parola, svelando una profondità incognita che fa paura, e ci sono i primi filosofi che fanno ancora più paura. In questo c’è un legame che non è facile spiegare. La spontaneità arriva prima e più lontano, è tagliente e spietata, non ha mezzi termini, non fa calcoli e non attende remunerazioni. Un magnifico pensiero non ha secondi fini, non attende di essere spiegato e non fornisce spiegazioni, si limita a esistere. Non si agita al vento per richiamare l’attenzione, dice, e tanto basta.

C’è il tempo delle grandi costruzioni, ma ciò non vuol dire che siano migliori delle costruzioni frammentarie, come un quadro grande non è necessariamente più bello di uno piccolo. Ci sono i grandi sogni di incapsulare il mondo in una formula e di lasciarcelo dentro per poterlo finalmente spiegare, e c’è la meraviglia che si prova di fronte a questi sforzi. Poi si pensa a quali disastri hanno dato origine, e si rimane incerti. Ci si pone la domanda, ma questi filosofi, autori di imprese colossali, sapevano o, almeno, presagivano che cosa quelle loro straordinarie costruzioni potevano causare? Domanda posta male, perché è domanda radicale, posta in altro modo significa lanciare una ciambella di salvataggio.

Non era l’epoca dei corruschi processi filosofici che sarebbero venuti alla luce nel decennio successivo, e io meno di altri avevo la possibilità di presagirli. Non comunicavo bene con i miei anni e non leggevo in trasparenza le linee politiche che generavano la melma in cui avevo conficcato i miei piedi, eppure alcune sentenze eseguite – ad esempio, Gentile – mi lasciavano incerto. Leggevo Croce e mi piaceva, meno mi piaceva Gentile, ma avevo sufficiente sale in zucca per capire che il vero filosofo era il secondo. Comunque, questo discorso estremo meriterebbe un approfondimento tutto suo.

Chi afferma che la guerra delle idee è altro della guerra guerreggiata, cerca di salvare i responsabili dell’una e dell’altra. La differenza è una questione di cose in gioco, il risultato è sempre un massacro, la prima forma propizia la seconda e la seconda rafforza il meccanismo che produce la prima. La mano abile del sacerdote nel sacrificio umano era educata dalle tesi dei filosofi, gli studi sul valore della vita sono propedeutici al suo sacrificio nei massacri a livello mondiale. Non c’è nulla di più voluttuoso dell’amore che sa di morire, e tra amore e ideale il passo è breve. La guerra è madre di tutte le cose, ecco perché non riusciamo a venirne fuori dalla melma.

Per un altro verso gli attimi – e non sono tanti – in cui l’intelligenza umana arriva a conoscere veramente che cosa è la realtà, sono riassunti in pensieri filosofici. Questa capacità è galleggiante su un mare di sangue. Come non cogliere la correlazione? Non si tratta di contrasti o connessioni incongrue fatte a posteriori. Le debolezze umane accendono i massacri e i livelli dove è arrivata la capacità umana di conoscere. Si può essere pieni di dubbi su questo fatto, come lo ero e lo sono, ma non lo si può negare.

Leggendo la storia della filosofia ci si rende conto di entrare in una specie di vortice che immobilizza il concetto di sviluppo progressivo. I massimi livelli del pensiero umano non sono alla fine, cioè quelli a noi più vicini, ma all’inizio, quelli a noi più lontani. Come se il fare fosse non un’evoluzione ma una involuzione. Il fatto è che il concetto di progresso non si adatta che malamente all’andamento del pensiero. La liberazione dal terrore che generò le prime idee non è avvenuta, una spirale non si è prodotta né, al suo posto, uno sviluppo orizzontale. Tutto è andato avanti a caso, senza un centro di propulsione, anche se molti affermano che tutta la filosofia è un commento a Platone. Il disegno complessivo è audace ma privo di quella logica che poi si pretende rinvenire nel particolare. Alla fine si è davanti a una sequela di compromessi. Più il pensiero è acuto e meno penetra nelle sue conseguenze future, corre il rischio di avvoltolarsi su se stesso, nel proprio stesso scandalo.

L’imperativo della distruzione di sé come condizione unica per la validità di una tesi filosofica è correlato, ancora una volta, con il massacro e il sangue. Non ci sono pacifici atteggiamenti drappeggiati nei veli della collaborazione. Per me era troppo presto per arrivare a questa tesi, per cui mi accadeva di cadere di sorpresa in sorpresa.

L’accortezza di alcuni filosofi rende più difficile l’accet-tazione di questa correlazione diretta con il sangue e il massacro. Dopotutto questi facitori di pensiero sono professionisti seri e non lesinano i mezzi da impiegare. Certe volte presentano l’ipotesi di partenza in maniera allettante, con atteggiamenti accondiscendenti, ma non si sfugge alla conclusione, l’apprestamento di mezzi per il massacro.

Dovendo rispondere ai canoni rigidi della logica, almeno in via preliminare, la filosofia non articola fino in fondo le sue ipotesi, le accenna soltanto per evitare lo scandalo. Non ci sono filosofi eccentrici che non rientrano prima o poi nei ranghi. Spesso bisogna andarli a stanare nella più bieca convenzionalità per vedere spuntare una traccia originale di pensiero. Non c’è filosofo geniale, poniamo Hegel, che non sia nello stesso tempo gretto e codino, anzi che non entri in sospetto non appena si accorge, egli stesso, di stare dicendo qualcosa al di sopra delle righe. Eppure ci sono riflessi spontanei che è possibile individuare e isolare, momenti solitari e originali, a volte non ben recepiti dallo stesso filosofo. I momenti felici, al di là dei debiti e dei crediti, sono pochi, e alcuni fra essi che ora mi appaiono chiari, a quel tempo non potevo coglierli.

C’è poi il non detto, il sottinteso non evidente, voluto così fin dall’inizio, dimostrato come ipotesi di riserva, come protezione e tutela contro i malintesi affermati, i peggiori per un filosofo. Le folate intuitive sfuggono di regola agli specialisti che, quando ne individuano una, la ritengono una scoperta epocale. Si possono fare felici passeggiate fra le pagine di un filosofo senza cogliere una sola intuizione degna di questo nome, poi ci si accorge che tutto è stato nascosto da una bella architettura, da una ritirata in piena regola, da una superfetazione di cui si poteva fare a meno. In questo caso non ci sono speranze, la lingua franca imposta dalla logica alla fine ha la meglio e ottiene il controllo della situazione.

Ogni filosofo ha una sua sensibilità logica, applicando in modo più o meno rigido le regole dell’a poco a poco, cioè dell’approssimazione parziale all’obiettivo. Tranne rari casi – clamoroso quello di Hegel – questo schema è abbastanza generalizzato. Perforando verticalmente il terreno storico della filosofia si ottiene questo risultato, gli strati sono corrispondenti tra loro e passano, se così si può dire, l’uno nell’altro, compenetrandosi reciprocamente. Non è possibile raggiungere una falda comune, mancando un collante generale – ipotizzato dallo storicismo – ma i rapporti sono ben visibili. La filosofia non è occupazione per miopi, alla lunga questi esseri dalla vista corta vengono scoperti e devono rinunciare. Accostarsi troppo alle cose per scoprirne i segreti – desiderio non accessibile di tutti gli uomini mediocri – è una sgradevole intimità. Se si riflette un poco ci si accorge di stare ridicolizzando se stessi, purtroppo molti filosofi non sono capaci di critica in questo senso. Poiché gli esempi sono tanti – sto pensando ai positivisti – questi filosofi sono nello stesso tempo carnefici e vittime. Molti fra i più ottusi (per esempio, Comte) si limitano a recitare una parte appresa a memoria e replicano a lungo questa recita fino a creare un personaggio. La storia della filosofia non sempre riesce a scoprire questa recita e a volte li prende per merce di prima scelta.

Simili scoperte si intrecciano nelle mie lezioni a conferme degne della migliore ortodossia, non poteva essere altrimenti, non avevo mezzi d’indagine sufficienti né strumenti offensivi adeguati. Soffocavo spesso le intuizioni sovvertitrici e davo spazio eccessivo a paludamenti troppo evidenti. Ma non poteva accadermi di restare sulla corda a lungo, andavo avanti tenendo conto dei miei punti di riferimento, loro sì, spesso, più del necessario, ottusi come me.

Maggiore attenzione ai sentimenti e alle passioni, meno alla logica pura e semplice. Assunto di partenza più volte imposto da me alle mie carte, non sempre mantenuto. Scopro così argomentazioni diffuse prive di partecipazione, fredde, troppo sicure di sé per essere accettabili. Altre volte vado dietro a connessioni scientifiche che coprono debolezze filosofiche, perfino di logica dell’a poco a poco, e mi vedo impaziente di andare oltre, chiedere di più, ancora di più, mentre la fonte a disposizione non può darmi questo di più. Era la mia violenta ispirazione a sollecitarmi, a non darmi tregua, a farmi cercare leggi rigorose dove non c’è che la più bieca approssimazione. Altrove erano le stesse concatenazioni che mi sfuggivano mentre andavo in cerca di una corrispondenza armonica inesistente.

Istruirmi era un tutt’uno con l’insegnare, viste le condizioni particolari non mi era possibile passare per una fase intermedia, trasferivo direttamente e questo mi dava la possibilità che più amo, fare presto, non perdere tempo, arrivare prima della morte. Solo i benpensanti e i mediocri custodiscono gelosamente quello che hanno e lo covano come gallinacci ciechi allo scopo di farlo fruttare al massimo come un conto in banca.

Il possesso della cultura era così, per me, un travaso, un passaggio veloce da me alla carta e dalla carta agli altri. Le mie riflessioni avvenivano in tempi e condizioni brevi e precari, raccorciati fino all’inverosimile, sorde a qualsiasi richiamo della prudente consapevolezza che sa le sbavature e le illazioni dubbie quanto danno possono fare. Ma io andavo di corsa, come ho sempre corso per tutta la vita. La cultura non penso che debba sedimentarsi man mano che si acquisisce, e questo lo penso anche ora. Può proliferare per connessioni intermedie, imprevedibili e spontanee, le quali lavorano mentre altri elementi, nuovi e diversi, continuano ad arrivare. Questo modo di vedere le cose è più comprensibile pensando alla musica, si apprendono tecniche e si maturano elementi di coordinazione fisica, eppure l’esecuzione di un testo è qualcosa che continua a perfezionarsi a prescindere da quella maturazione e da quell’apprendimento. Il taglio tra cultura – la filosofia è cultura che riflette se stessa – e arte non è così netto come generalmente si ritiene. Tutto questo va bene, ed è riflessione matura, ma non spiegava ai miei occhi ancora acerbi dove coordinare i passaggi e come farlo. La mia fede nella ragione dominante era lungi dal vacillare.

Ho sottolineato spesso, nel corso delle presenti anomale lezioni, il rapporto ambivalente tra filosofia e logica dell’a poco a poco. Questa impone alla prima di mantenersi all’interno del quadro di riferimento, le impedisce intuizioni che potrebbero avere sbocchi geniali, la trascina nei corridoi dell’accademia, dove soccombono tanti desideri irrealizzati. Al contrario, quando questa tutela si alleggerisce, allora le tesi si fanno più serrate e trovano una forte resistenza in quegli stessi corridoi dove le precedenti dilagavano. La concatenazione logica non è un apparato dimostrativo soltanto, più spesso ancora è un’idea nuova che nasce dove meno lo si aspetta, mentre le attese sono puntate altrove. La dottrina può essere ostacolata o facilitata, e molto prima che ci si accorga dell’ostacolo ecco che questo sorge proprio nelle pastoie logiche, mentre l’agevolazione che la logica può fornire è ancora più spesso grama e centellinata. Il lettore pigro non si accorge di questi marchingegni e si consegna alla cattura anima e corpo.

Ci sono filosofi che volteggiano agevolmente – poniamo Voltaire – sull’abisso pieno di sangue di cui si è detto prima, non sono angeli, sono soltanto bravi scrittori e pensatori un po’ deboli, che concorrono, spesso senza saperlo, ad alimentare quei massacri e lo fanno con l’animo in pace.

Molte tesi filosofiche non sono che accenni interrotti, spostamenti logici impediscono in esse legittimi presupposti. Non c’è da fidarsi delle giustificazioni che i filosofi apprestano in questi casi, occorrerebbe raccogliere tutte le carte disponibili e farne un inventario critico, ma questo era fuori misura per me, com’è ovvio. Mi infastidiva la mia pochezza culturale e perfino la scarsa disponibilità di libri. Le mie frequentazioni alla Biblioteca universitaria di Catania erano molto imbarazzate a causa del cipiglio degli addetti alla consegna, una volta letti i titoli che chiedevo in lettura. Mi mancavano molti dettagli e le mie intuizioni avevano spesso l’aspetto e la sostanza di sogni fastidiosi. Non ho mai pensato di chiedere consiglio a due professori che conoscevo, uno proprietario del Lido dove passavo i bagni con la mia famiglia ogni estate e l’altro il vecchio prete che mi aveva iniziato al latino e al greco. Era un problema compatto, un muro liscio che dovevo scalare da solo. Desideravo, mentre leggevo, soltanto un rispettoso silenzio, cosa impossibile viste le tante donne che frequentavano la scuola di taglio e di cucito di mia madre. Mettevo i fogli in due scatole, una per quelli che andavo scrivendo e l’altra per quelli che seguivo man mano che mi inoltravo nelle lezioni.

Le tesi più entusiasmanti erano quelle che mi insospettivano di più, per primo Cartesio, tutto pareva tenere, poi all’improvviso il colpo di coda e la necessità di Dio per giustificare quello che pareva giustificato una volta per tutte. Esaltazione e frustrazione si susseguivano mentre a testa bassa andavo avanti come un asino sotto la sua soma. Delle bardature sgargianti di una tesi come quella di Cartesio imparai presto ad avere sospetto, preludevano a un canto funebre. La logica caracollava impettita, poi cadeva dall’alto del destriero da combattimento su cui era salita per dare forza alla filosofia. Sotto, ma proprio in profondità, il massacro sanguinoso continuava imperterrito.

Ogni nuova tesi filosofica aspirava a uccidere la precedente. Come ho detto, questo gioco al massacro rifletteva quello che andavo scoprendo si muoveva sotto. Più la tesi era originale ed estrema, più partiva da lontano e sembrava estranea alle tesi che stava per aggredire, più velocemente questa aggressione si verificava. Si trattava – me ne rendevo conto benissimo – di una rivoluzione in un bicchiere d’acqua, e vista alla luce delle rivoluzioni vere, massacri in cui quelle tesi avevano mano direttamente, erano ridicole. In altri termini, una tesi filosofica è, nello stesso tempo, un massacratore e un pagliaccio. Svolge i due compiti, solo apparentemente antitetici, con perfetta sincronia.

La burbanzosa sicumera di alcune filosofie – penso allo storicismo, per fare un esempio – mi faceva ridere ma evitavo di dirlo ai miei coetanei, nei riguardi dei quali mantenevo, per quanto possibile, una certa aria di oggettività. Non intendevo essere giudice e boia nello stesso tempo, esponevo in breve quelle tesi che ritenevo meno interessanti, ma non le condannavo a morte io stesso. Peraltro alcune di queste valutazioni erano per me quanto di più remoto potesse esserci, non avendo possibilità di riscontro fuori dei miei angusti modelli di riferimento.

Ciò non toglie che conflitti interni al mio stesso lavoro si succedessero instancabilmente. Condannavo e assolvevo per me, costruivo le mie scelte future, le mie attuali preferenze sono ignote qui, in queste anguste lezioni, se non per scorci quasi insignificanti. Sacrificavo una tesi che poi avrei rivalutato in modo esattamente contrario, e ciò non senza conseguenze per la stessa tenuta della mia capacità conoscitiva. Ciò mi è accaduto con Stirner e forse, in parte a causa di Pareto, col marxismo.

Il riscontro quotidiano, o quasi, con le capacità di capire (modeste) dei miei coetanei, mi costringeva a fare i conti con passaggi dolci, ammorbiditi, ripetuti, allargati, quando la mia voglia avrebbe cavalcato a tutta velocità, come mi accadeva nella preparazione dei testi. Ciò mi conduceva al rito della trascrizione delle varianti sviluppate nel corso delle lezioni, non presenti nel testo originario. Molte volte alcune considerazioni divergevano e dovevo provvedere a sanarle per renderle intelligibili. Non era raro il caso che condanne già pronunciate venissero ammorbidite o revocate in nome di una più chiara leggibilità. Ciò di certo è accaduto con Parmenide.

Rivedendo i fogli preparati, al momento di leggerli, o di tenerli presenti come guida, durante le lezioni, mi rendevo conto dell’esistenza di non pochi paralogismi, alcuni veramente giganteschi, per cui ero obbligato a porvi rimedio o a farli diventare un aspetto come un altro, un modo di dire dei filosofi. Hegel è un esempio colossale in questo senso, Kant per un senso diverso, più ristretto alla singola parola, ma in fondo simile. Molti di questi innaturali modi di essere sono rimasti integri e costituiscono oggi, per me che li vedo risorgere dalle nebbie di un lontano passato, una rete di canali sotterranei che danno un senso a volte ambiguo a intere trattazioni di una filosofia.

Leggo adesso qualcosa che sento scritto a caldo, dopo più di mezzo secolo, e non me ne meraviglio, anzi mi sembra come se un altro avesse posto mano a quei fogli, steso quelle righe, rinvenuto quelle parole, giustificato quelle tesi. Come se leggessi un testo in una lingua straniera, provvista di un altro alfabeto, fosse geroglifici sconosciuti che non mi dicono niente e cominciano a ballare sotto i miei occhi. Poi tutto torna chiaro e mi rivedo al lavoro alla macchina da scrivere, regalo di mio padre. Ma non tutto quello che torna chiaro è sottoponibile alla comprensione di allora, a quella di ora sì, guardando indietro no, solo confuse parole dall’aria amichevole e familiare.

Queste discussioni con me stesso sul senso dei miei testi, e il loro rapporto con quelle remote lezioni, sono un’appendice a quello sforzo, una continuazione impegnativa che avvolge oggi per me la mia cultura filosofica in una patina di ingenuità e freschezza alla quale non sono abituato. La carica che sono in grado di inserire nelle singole tesi non le distruggono, anzi le valorizzano, le immergono in un insieme pieno di significati dove posso contemplarle con tutta la mia nuova (e vecchia) forza conoscitiva. Lettore di me stesso, presento in successione, sotto una nuova conoscenza, quella antica esposizione e la interrogo diversamente, come penso che potrebbe fare, forse meglio di me, qualsiasi lettore.

Ma questa, a ben vedere, è la condizione cronica della mia vita, passata interamente a lottare contro tutto quello che non vuole essere assoggettato alla conoscenza. Il possesso che mi ha accanitamente perseguitato fino a questo lager di Amfissa, dove scrivo queste righe, in condizioni irriferibili, riesco alla fine a vederlo per quello che è, com’è ovvio, opera sapienziale. Devo prepararmi ad abbandonare i miei possessi e le presenti righe sono un piccolo contributo in questa direzione, e siccome non voglio farlo prima del necessario, eccomi a preparare impegni non semplici né brevi, in modo che questo momento finale avvenga quanto più tardi possibile.

Quelle lezioni erano la mia coscienza onnivora, queste righe sono la mia coscienza digiuna – o che tale si appresta a essere –, tra le due c’è di mezzo la costruzione della sapienza, l’arte di apprendere a negare il possesso, in primo luogo il possesso della conoscenza. Oggi so meglio, e più profondamente, dove si trova la caverna dei massacri e il lago di sangue in essa ospitato, e so anche le singole responsabilità, maggiori e minori, di ogni tesi filosofica, anche per questo ho coscienza del male più dettagliata e precisa di quanto l’avevo all’epoca delle lezioni, segno positivo sulla strada della negazione del possesso.

Nella storia della filosofia ci sono molti sogni, i più interessanti sono quelli mostruosi. Le utopie sono di regola troppo stupide quando cercano di fare vivere un mondo migliore, semplicemente ritoccando qualcosa di quello in cui viviamo. Quando sconvolgono, come le balene pilota di Fourier, hanno un qualche sugo. Dopotutto un sogno ha un senso suo che non può essere compreso direttamente con le funzioni cognitive di tutti i giorni. In un sogno una teoria regge su basi sue che non sono controvertibili dalla logica dell’a poco a poco. Il sogno dona, non calcola. Se la filosofia calcola, perde gran parte del suo valore. Scrutare le teorie filosofiche attraverso il prisma del sogno era una delle mie attività preferite nel momento dell’elaborazione di queste lezioni. Mi immaginavo di partecipare ai dialoghi di Platone o di ascoltare i soliloqui di Campanella nella sua prigione. Ho scoperto così, per via del tutto intuitiva e fantastica, connessioni non immaginabili, forse inesistenti, comunque produttive e feconde. Mi sognavo gallerie comunicanti dove una teoria ne incontrava un’altra, dove una teoria intristiva solitaria e decadente e un’altra rifioriva a nuova luce. Oppure mi sognavo scaffali polverosi di gabinetti di lettura fuori del tempo, dove vecchie teorie aspettavano pazienti un lettore amante del loro aspetto fisico, oppure sognavo di produrre io stesso, in gran numero, teorie in contraddizione fra loro. A volte sognavo una spavalda lotta a vita e a morte con una teoria, oppure, al contrario, restavo intimidito di fronte a essa e sfoderavo i miei strumenti matematici – per altro irrisori – per farle paura.

In fondo una storia della filosofia è una carrellata di sogni, per cui sognarne qualcuno per proprio conto, fuori tempo e fuori tono, non è operazione del tutto gratuita.

A volte una teoria ha il proprio occhio intimo e segreto posto in un’altra teoria, questa dislocazione non sempre è coglibile direttamente, solo immaginando comunicazioni improbabili si ottengono risultati interessanti. Il gioco delle miniature, che qui si impone, non poteva riuscirmi e forse, se i miei dati sono certi, non mi riuscirebbe nemmeno adesso fino in fondo. Vado troppo di fretta? Non lo so, può darsi. Non mi attirano i piumaggi delle teorie quando sfoderano colori troppo violenti, preferisco le sfumature sobrie, che propongono le ipotesi radicali, poco rumore e molta fantasia.

Pensare possibile una linea progressiva all’interno della storia della filosofia, come ho accennato, è una illusione pertinace e stupida. Non solo perché la filosofia nasce vecchia ma perché è un mostro dalle molteplici teste, continuamente in trasformazione. La stupidità vede in queste mostruose proliferazioni una linea diritta, quando si tratta di un groviglio inestricabile adatto, per l’appunto, a nascondere la caverna della melma. Il rapporto tra filosofia e animo umano non è comprensibile se si limita a impiegare il filo dominante della logica dell’a poco a poco. Occorre andare oltre, guardare la mostruosità in faccia, prevedere le sue mosse, indurla a commettere errori.

Non ho potuto realizzare fino in fondo queste intenzioni, non ne avevo i mezzi, ma si possono vedere le basi che ho gettato, sono ancora là e aspettano una sopraelevazione. Sono le mie curiosità insoddisfatte, i miei desideri rimasti per aria, i misteri che non ho potuto svelare. Mi soffermo spesso a chiacchierare con loro, ancora oggi avanzo ipotesi azzardate, non mi rispondono, tacciono. Ho imparato a rispettare il loro silenzio, solo così posso continuare il mio apparente dialogo. Forse un giorno ritroverò la veemenza di un tempo.

Perché alcune teorie suonano antiquate e fuori tempo, nate morte? Perché appaiono timide quando altre sono oltranziste e spavalde? Dipende dalla loro sudditanza nei confronti di certe adempienze obbligatorie, specialmente di tipo logico. Inoltre, più la patina del passato si è depositata su alcune di loro e più esse hanno una oggettivazione altisonante, sembrano essere nate per insegnare qualcosa, sono teorie di professori pensate per professori. Più le teorie sono oltranziste e più sono nate morte. Oggi, come ieri, al tempo dei miei dolci dolori, la timidezza era guida alla profondità. Per molti aspetti Hegel aveva fatto il suo tempo, anche se io non avevo ancora aperto con lui il mio contenzioso.

Ma timidezza qui non vuol dire scarsità di contenuto, può anche volere dire audacia non oltranzista, pacata coscienza del proprio valore, della propria originalità, scarsa voglia di entrare in tenzoni da cortile. In fondo, io stesso ero un falso oltranzista, apparentemente sicuro di me, avevo le mie incertezze anche se le nascondevo bene, e dentro questi territori non definitivi coltivavo i fiori più pregiati, quelli che preferivo ammirare da solo. Cartesio, Bruno, Leibniz, per fare alcuni nomi. Teorie timide, secondo me, ma tutt’altro che reticenti.

Non ho rinvenuto, nelle mie decennali letture di filosofia, una chiave per aprire tutte le porte. Ogni teoria propone alcune tesi, a volte una soltanto, e poi ci gira attorno per costruire una balaustra difensiva che serve anche per affacciarsi e ammirare il panorama. Non avevo, all’epoca di queste lezioni, alcuna chiave e non l’ho neanche oggi. Sono sufficientemente vecchio per riconoscere il mio fallimento in questo senso. Pensavo di potere leggere tutti i filosofi in trasparenza, non dico con un unico obiettivo da dimostrare presente in tutti come in un’epidemia di colera, ma almeno di raggrupparli per obiettivi plausibili, altrimenti chiamate correnti. La cosa è fatta costantemente ma lascia il tempo che trova. Alla fine la promiscuità disturba sottolineando una miriade di discordanze dapprima non viste.

In ogni teoria ci sono però filamenti che si dipartono fino a centrare corrispondenze inavvertite. Seguendo queste tracce si possono cogliere persistenze da accompagnare passo passo fino al nodo da cui si diparte una nuova tessitura o da dove viene fuori un camminamento imprevisto che bisogna, a sua volta, percorrere fino alla sua conclusione o al suo depotenziamento. In questi percorsi, spesso rabdomantici, comunque non legati a corrispondenze siglate dalla logica, si possono catturare pezzi di architetture diverse, perfino assurde se commisurate al punto di partenza. Su questi pezzi staccati si può lavorare sia mettendoli sul tavolo anatomico del filologo, sia intuendo quello che sta a monte di ognuno di loro, altri camminamenti e percorsi inverosimili.

Le mie personali arrabbiature con i filosofi sono tutte rintracciabili in queste lezioni. Le registravo negli appunti, le esacerbavo nella mia esposizione, le addormentavo nel corso dei miei tanti impegni quotidiani. Non avendo nessuno con cui disputare a fondo i pochi spazi di conoscenza che guadagnavo giornalmente – non erano i miei coetanei in grado di affrontare scontri – disputavo con me stesso mentre le mie incombenze del lavoro e della scuola mi infastidivano ai fianchi, simili a banderillas. Vivevo come in un deserto, dove incontrare qualcuno con cui parlare del mio problema era impossibile. Le mie lezioni erano quindi, principalmente per me, uno sfogo più che una generosa elargizione. Per questo motivo erano spesso violente e concitate, esaltavo la filosofia non perché ne fossi un fanatico a tutti i costi, che per fortuna il lume critico non mi abbandonava mai, ma perché era il mezzo che a me sembrava migliore per accedere alla conoscenza, alla conquista del mio territorio incantato, del mio castello in Spagna.

Non sottolineerò mai abbastanza l’aspetto chimerico di queste lezioni, la loro sostanza di mero supporto conoscitivo per me, e di scoperte inverosimili per i miei ricettivi ascoltatori. A volte mi sorprendevo a chiedere loro perché sopportassero quel sacrificio e non preferissero al contrario mezz’ora di passeggiata al Giardino Bellini, vicinissimo alla scuola. Non so di una risposta coerente, la filosofia – come ho notato tante volte in seguito – ha questo effetto su molti che la sconoscono del tutto, evoca un paese magico, dove ogni cosa è possibile, capacità fuori del comune con cui scoprire i segreti dell’universo, insomma una vasta gamma di progetti ovviamente inattuabili. Il costo di questa conquista – che ai miei coetanei presumo sfuggisse – era gettare uno sguardo nella caverna dei massacri, per cui, limitando questo aspetto a causa, probabilmente, di una mancanza di coraggio, la fruizione era ridotta a una sequela di nozioni, di nomi, di teorie. Per me la cosa era diversa, entravo e uscivo da questa visione, la quale, con l’avanzare della ricerca, diventava sempre più concreta, in grado di dare corpo ai miei sogni. Su questo campo ero un esperto, progettavo immani realizzazioni culturali che poi non potevano prendere corpo e da cui uscivo per nulla scoraggiato, pronto a riprendere la corsa. Una storia della storiografia, una collezione di riassunti di trame delle commedie italiane, una storia delle polemiche letterarie, ecc. Addirittura il secondo progetto, spacciandolo per quasi realizzato, venne spudoratamente proposto all’editore Sandron di Palermo, che si dichiarò subito disposto a pubblicarlo. Ma non esisteva se non allo stato embrionale di alcune tracce delle commedie che avevo letto seguendo le indicazioni di Ireneo Sanesi.

Il miracolo realizzativo di queste lezioni è dovuto quindi al fatto che si trattava di un lavoro a giornata. Preparavo, discutevo, correggevo, mettevo da parte. Non c’era che da seguire le mie tre fonti, il resto veniva da sé. Non avevo davanti un tutto compatto che doveva venire alla luce prima di potersi dire concluso, avevo un lavoro che si concludeva quasi giorno per giorno e su cui potevo tornare con la fantasia a mio piacimento, aggiungendo o modificando, senza mettere in crisi l’intera struttura dell’edificio. Era una formula tutta mia di realizzare una chimera, altrimenti destinata al mondo dei sogni.

A volte facevo partecipi i miei coetanei di queste dispute con me stesso, a volte non ci pensavo nemmeno, in fondo li consideravo come un me stesso quiescente, immobile, in attesa del prodotto del giorno prima, quindi già a conoscenza di quello che andavo pensando, costruendo, correggendo, distruggendo, un me stesso in attesa, paziente quanto io ero irritabile e ansioso. Per quasi due stagioni scolastiche questo gruppo di coetanei (non proprio, ma preferisco pensarli così), rimase per me, per la mia incurante egocentricità, chiuso in quell’autobus della SITA sempre in attesa di partire e mai partito. Ancora oggi mi sorprendo a pensarli lì, mentre aspettano il seguito del giorno dopo, e so bene che la più gran parte di loro non c’è più e nei sopravvissuti è rimasto una sorta di ricordo fantastico, di una esperienza mediatrice, confermatami da qualcuno di loro, incontrato casualmente.

Il desiderio di entrare nella storia della filosofia per la porta stretta di una riscrittura delle teorie di cui risulta composta, mi conduceva a un sogno, o incubo che dir si voglia, di sdoppiamento. Ero affaccendato nelle mie incombenze di studente-lavoratore e mi pensavo dentro l’autobus a parlare con i miei coetanei. Disputavo con me stesso e con loro, non faceva differenza, e c’era in questa illusione ricorrente una certa solennità di procedura, una imprescindibile urgenza conoscitiva. Era in fondo quello il mezzo che avevo scelto per entrare, una porta stretta.

Per altro, la storia della filosofia rimane, per me, il luogo principe della conoscenza, forse allargandola al significato più recente, che ha preso in questi ultimi anni, di storia del pensiero. Ma all’epoca questo allargamento non c’era e non era possibile neanche in minima parte. Mi compiacevo quindi, non solo di studiare filosofia, come suol dirsi, ma di attirare al suo studio, con l’esperienza delle lezioni e la complicità dell’autobus, altri giovani come me, anche loro interessati ma che sarebbero stati subito tagliati fuori senza la mia intermediarietà. La filosofia, nella sua storia e nel suo caotico (questo mi era chiaro) sviluppo, metteva alla prova la mia capacità di conoscenza, mostrava a me stesso i miei muscoli, mi scopriva mentre io la scoprivo, era insomma un rapporto amoroso non un dovere, uno scambio e un dono reciproco non una obbligatoria incombenza.

Certo mi rendevo conto dello strano modo in cui mi presentavo ai miei coetanei, rafforzato nella sua stranezza dai miei modi non certo privi di una violenza verbale alla quale mi riconoscevo autorizzato come una sorta di custode del sacro tempio della conoscenza filosofica. Ma, non essendo un esibizionista soltanto, puntavo più sul dono che sul prelievo in proprio. Insomma ero convinto di dare più di quello che ricevevo, la loro attenzione e il sacrificio del loro tempo. Forse ero più reticente riguardo ad alcune mie considerazioni personali che coinvolgevano le teorie filosofiche, prima fra tutte quella che descriveva la connessione coi massacri della storia dell’uomo. Ma su questo terreno mi sentivo debole per primo io e non vedevo di certo una minore debolezza negli altri.

Supponevo forse di non essere capito su questo terreno? È possibile, come accadrà qualche anno dopo a Torino, quando venivo sistematicamente ripreso sulla voce se mi azzardavo a esporre questa mia concezione al docente imperatore in carica. Evidentemente i miei sospetti non erano infondati, se non riuscivo a farmi capire da persona molto più preparata dei miei poveri ascoltatori precedenti, e se io stesso ero in grado di esporre la mia tesi, dopo, in forma più articolata e, per me, più convincente. È che questa connessione tra teorie filosofiche e massacri storici è una tesi che arriva lontano, penetra e disturba i sogni dei benpensanti e potrebbe perfino risultare indigesta a giovani non in grado di capirla fino in fondo, almeno così pensavo all’epoca, per quanto oggi abbia modificato le mie idee riguardo ai giovani. Questi ultimi possono facilmente capirla la mia tesi, ma devo anche tenere presente che i giovani non sono tutti uguali in tutte le epoche e che mezzo secolo è un tempo troppo grande perché non si verifichino maturazioni imprevedibili.

La filosofia è la madre dei massacri di cui solo l’uomo è capace, e siccome l’uomo è il solo animale che studia filosofia, ci deve essere – io dico che c’è – una connessione tra la filosofia e i massacri che riempiono la storia. Questa tesi, centrale nelle lezioni preparate prima, secondaria in quelle discusse con i miei coetanei, riaffiora adesso fra le righe in maniera non sempre chiara per quanto sufficientemente visibile. Non che le lezioni subiscano delle variazioni a seconda della sfaccettatura che il lettore sceglie, solo che il mio convincimento – per altro maturatosi nell’arco degli anni successivi fino a Torino – non è sempre leggibile attraverso l’ammorbidimento (volontario e involontario) delle lezioni. Ero uno strano animale invasato, a ben considerare, per non riuscire a fare accettare la mia tesi, ma non volevo imporla a un uditorio che ritenevo immaturo. A un altro ascoltatore, qualche anno dopo, cercai di suggerirla, ma dovetti rendermi conto di essere caduto male.

Ma nella storia della filosofia dilaga, e non desta meraviglia, un’altra violenza, quella che ritiene ogni tesi proprietaria della verità. Le connessioni tra queste teorie e la mia sarebbero state chiare molti anni dopo, all’epoca avvertivo solo un senso di fastidio di fronte a questa affermata proprietà filosofica di dire la verità, come qualcosa di osceno a cui non riuscivo a fare l’abitudine. Sceglievo pertanto le tesi più sfumate, poi mi accorgevo che il possibilismo relativista in fondo è un modo come un altro di stringere alla gola la verità. Non tutte le tesi filosofiche sono uguali, dicevo a me stesso per confortarmi, quindi non possono avere tutte la medesima responsabilità. E questo è un ragionamento codino che poi ho imparato, a mie spese, a smascherare. Somiglia a quello che considera diverse le responsabilità di chi uccide in massa milioni di persone e chi ne uccide “solo” qualche decina di migliaia.

Questa valutazione della filosofia porta una pesante ipoteca nel nucleo stesso del pensiero umano, apre una breccia nella ripartizione che seleziona le colpe tra chi pensa e chi esegue. È quindi una valutazione considerata indecente proprio da coloro che lavorano nel cosiddetto campo del pensiero, cioè collaborano dall’esterno ai massacri ma vomiterebbero se vedessero sangue nelle loro mani prive di calli. Questa indecenza della mia tesi turbava me e, nello stesso tempo, avrebbe turbato i miei coetanei se l’avessero colta o io avessi loro concesso di coglierla. Dopo, come ho detto, mi sono reso conto che finiva per turbare tutti, chi in un modo chi in un altro.

La coscienza di questo rapporto tra la filosofia e il massacro mi esponeva a rischi eccessivi, come quello di non essere preso sul serio, che per quella età è il massimo rischio possibile. Consideravo pertanto io stesso eccessiva questa selezione e non ero fermamente intenzionato a svilupparla appieno nella sua consequenzialità tragica. Mi accadeva spesso di ritenere questa tesi il mio cavallo di Troia, con il quale potevo mettere sotto processo qualsiasi filosofia. Ma era più la coscienza di un difetto che quella di un mezzo aggressivo e risolutivo. Un difetto nella mia vita più che nel mio modo di pensare che, come ho ricordato, trovavo piuttosto confuso.

Inoltre, mi accorgevo, procedendo nello sviluppo delle tesi che rinvenivo nella storia della filosofia, di essere isolato. Non c’era un pensiero simile a cui riallacciarmi, tranne qualche spunto presocratico, troppo tenue per confortarmi. Era come se fossi nudo ed esposto agli strali critici di tutti, anche del primo venuto. Non avevo paura delle critiche, ma di quel senso assurdo di infondata superiorità e quel dileggio che poi ritrovai puntualmente qualche anno dopo in Abbagnano. Per fare fronte a questa emergenza, per il momento soltanto supposta, mi andavo attrezzando contro l’ironia degli imbecilli e contro le obiezioni critiche di coloro che tali non erano. Solo che l’unico banco di prova accessibile potevo trovarlo nei miei coetanei e questi li mettevo fuori gioco da me stesso, forse per proteggerli?

Eppure, procedendo nella lettura dei miei testi di riferimento, coglievo fra le righe non una conferma, che quegli autori erano lontanissimi dalla mia tesi, ma una sorta di sospetto sull’innocenza possibile dell’umanità, anche sotto l’aspetto meramente religioso che allora, ingannandomi, sottovalutavo pienamente. La loro posizione era pregiudicata fin dall’inizio con vari debiti da Croce al pragmatismo, dal positivismo a Gentile. Io, che lavoravo con mezzi di fortuna, andavo navigando solo a pelo d’acqua e coglievo un leggero venticello dove magari c’era una burrasca. Non lo so bene, ma era un periodo di continui sconvolgimenti che cercavano di sanare i miei timori e smorzare le mie spavalderie. Insomma, avevo spesso paura di non arrivare a possedere i miei sogni veramente, fino in fondo, e quindi restare alla superficie, un relitto galleggiante. Ero esposto al vento torrido della conoscenza e non avevo mezzi adeguati per metterlo a frutto. Eppure ero io che cercavo quel vento, che mi esaltavo al suo effetto devastante per molti – e anche per me –, che volevo andare avanti senza fermarmi. Vivevo con me stesso, e di riflesso con quel pugno di dissennati coetanei, una esperienza mista di abbandono estatico ai nuovi rinvenimenti e di derelizione tremenda di fronte alla coscienza di non essere all’altezza di ciò che venivo ad apprendere con sconvolgente assiduità.

Adescavo la conoscenza e, al momento di esserne posseduto, mi ritraevo come una zitella bizzosa. Non sapevo ancora che il rapporto conoscitivo, la lotta a vita e a morte col sapere, è questa cosa qua, questo gesto complesso, pieno di trucchi – ripenso adesso ai miei studi di mnemotecnica –, di accordi, sotterfugi, concessioni e perfino prostituzioni, che non può essere colto subito come qualcosa a portata di mano. In fondo, tutta la vita per me è stata un espormi senza paura e senza pietà, neanche adesso, pochi mesi fa, quando sono stato torturato per l’ultima volta, neanche ora che vengo torturato quotidianamente in questo lager dove scrivo queste righe a una luce tanto fioca che rischio di perdere quel poco di vista che mi rimane.

Qualunque cosa facessi all’epoca di queste lezioni, più di cinquant’anni fa, portava in nuce – senza che potessi prevederlo – la caratteristica centrale della mia vita, l’espormi ai rischi senza stare a soppesare le conseguenze. Avevo, anche allora, come l’ho adesso, l’idea che in qualunque modo decidessi di affrontare la vita, in questa sarei sempre stato esposto al pericolo di vivere, per cui tanto valeva attrezzarmi al meglio per affrontare questo rischio.

Inconsciamente, perché non è riscontrabile in queste lezioni e nemmeno nei miei ricordi, ponevo un parallelo tra la mia tesi e la mia vita, tra il rapporto filosofia-massacro e il rapporto vita-esposizione al rischio. Certo non solo non avevo idea di questa corrispondenza, e anche adesso che mi trovo alla fine del gioco, non credo che essa si possa prendere in senso troppo letterale. Ma la chiaroveggenza della improntitudine giovanile supera d’un balzo queste dissonanze, non si cura di conoscere fino in fondo, le basta una semplice intuizione e va avanti. Il sognatore incontra il mondo in questo modo e io ero e sono rimasto un sognatore di mondi impossibili.

Ma qualcosa comunque queste lezioni riflettono del me stesso che le ha composte. Non vorrei che vi si vedesse soltanto una rincorsa per impadronirmi della conoscenza. C’è anche l’incertezza sulla strada da prendere, la sequela dei tanti tentativi senza sbocco, l’insufficienza dei mezzi e la speranza sempre rinfocolata di riuscire a darmeli. È, in un certo senso, una serie di lezioni fatte per primo a me stesso, poi ai miei coetanei. E sono lezioni di filosofia nel suo svolgimento storico, non bisogna dimenticarlo. Cioè sono lezioni di vita, perché la vita e la filosofia si incontrano insieme nella caverna dei massacri, la prima subisce, la seconda esercita le sue opere di alta giustizia. In questo luogo profondo, l’oscenità e la maledizione dell’uomo si incontrano nel lago di sangue che ribolle fra la melma. Niente poteva esserci di meglio come preparazione al mio futuro che queste lezioni, non so per i miei coetanei, credo che a loro sia andata diversamente, ma non ne sono sicuro.

In molte teorie c’è un’atmosfera tesa, come se la proposta teorica stia per scoppiare improvvisamente, senza che il suo autore se ne renda conto. In altre c’è un’atmosfera più distesa, quasi una chiacchierata fra amici. Pensare alla differenza tra Gentile e Croce, specialmente per come appare nel loro epistolario, che ovviamente all’epoca mi era ignoto. In altre teorie c’è una sovrabbondanza di dettagli e di intuizioni che allettano e confondono come in un sogno terapeutico. Pensate a Plotino e Bruno. In altre ancora ristagna l’atmosfera della biblioteca e della sala di lettura. Pensate a Leibniz. In tutte, per potersi parlare di filosofia, c’è un duplice livello di ricerca. Il primo è l’esposizione affidata alla parola e controllata dalla logica, il secondo è la chimera intravista soltanto e impossibile a dire. Pensate al Platone dei suoi scritti e a quelli da lui mai rivelati, se dobbiamo credere alle sue parole.

La sequenza delle tesi è identificabile come processo storico per linee esterne, nel senso che non c’è un raccordo diretto tra accadimenti storici e teorie filosofiche, se si eccettua la riflessione di Hegel che l’uccello di Minerva si leva soltanto al calar del sole. Questa constatazione, che comincia con Platone, non è però conforme a una linea retta, ci sono sprofondamenti della capacità conoscitiva e ci sono allargamenti, costruzioni di sistemi perfetti e tutte le parti che dilagano anche nel pieno sviluppo della borghesia vincente. Insomma, ci possono essere movimenti intensivi e movimenti estensivi, un dilatarsi degli spazi architettonici del ragionamento e un restringersi. L’idealismo, per esempio, segna una punta acuminata che viene però allargata e diluita dallo storicismo. È per questo che le tesi più ristrette finiscono per apparire onnicomprensive.

Alcune tensioni misteriose, specifiche dell’influenza religiosa in molte filosofie, permangono in altre come ornamenti architettonici, decorazioni spettacolari, allusioni, tutto questo è molto diffuso in Francia fino al Secondo Impero. Altre tesi si incaricano di ridurre in parole questi misteriosi riferimenti, moltiplicando le chiavi di accesso come un vero alfabeto alternativo. In altri casi questo appiattimento discorsivo non è possibile pure se permangono rigore e ordine nella sequenza dei riferimenti fantastici. In alcuni di questi casi è proprio la mancanza di senso a ordinare il tutto in un certo modo, mentre altrove provvede a rimediare un ordine diverso ma non contraddittorio.

La sostituzione del mistero con una spiegazione logica è uno dei filoni più ampi e produttivi della storia della filosofia, in questi casi c’è un processo di decifrazione, una guida logica e lo sforzo di trovare all’interno delle cose una corrispondenza non immediatamente percepibile. Ad esempio, Bruno e Platone. L’altro filone è dato dall’analogia che individua corrispondenze per via simbolica, una concatenazione esterna mobile che può essere sostituita con facilità o mantenuta in essere a lungo con poco sforzo. In ambedue i filoni gioca un ruolo importante la somiglianza dei simboli con le spiegazioni. Immagini si sovrappongono a immagini costruendo una rete che in alcuni casi raggiunge la dimensione cosmica.

Tracciando sequenze di teorie in modo quasi scheletrico, non potendo fare altrimenti, mi ritrovavo con un canovaccio filosofico su cui esercitare la mia riflessione. Ero entrato, quasi senza volerlo, nel territorio vergine della ragione, dove stanno piantati i piloni irreversibili del dominio. Potevo, ogni volta, azzardare previsioni sull’uso futuro di quei punti inamovibili di riferimento. È da loro che derivano i massacri. Sono loro in diretta comunicazione con la caverna della melma e il lago di sangue che continuamente l’umanità alimenta con le sue follie? In che modo trovare una vita di uscita?

C’era un’oscillazione continua nella mia preoccupante scoperta, mi dovevo chiudere in me stesso, limitarmi a coltivare questa riflessione come un vizio segreto, o annacquarla in modo da renderla, non dico accettabile agli altri, ma almeno più gradevole? Ricevevo sollecitazioni in ambedue le direzioni, e le ricevevo dalle tesi stesse che venivo allineando nelle mie quotidiane lezioni nell’autobus. Non c’era un’occasione precisa ma suggestioni generiche, in genere vedevo che ogni tesi esponeva se stessa difendendosi a priori, prevedendo e attaccando le critiche che immancabilmente sarebbero arrivate. Nessuno osava andare avanti allo scoperto, sentendo la necessità di coprire in qualche modo le proprie spalle. Insomma, si era sul terreno dello scontro e in palio non c’era una vittoria qualsiasi ma l’intero dominio del mondo.

Non sentivo questa necessità perché la mia teoria mi pareva, di per sé, fuori discussione, non che la ritenessi inattaccabile, solo che non conoscevo argomenti contro (la storia della filosofia taceva) se non un banale sorriso ebete e imbarazzato. Nello stesso tempo non pensavo di esporla più di tanto, un piccolo riferimento, qua e là, niente di impegnativo. Gli equivoci – me ne sono accorto dopo – nascono da queste titubanze, mai dall’eccesso di coraggio.

In fondo, e su questo argomento chiudevo ogni volta le mie solitarie riflessioni, la mia teoria era essa stessa una teoria del dominio, anzi faceva vedere una connessione diretta dove altri, al massimo, vedevano un’accidentale concomitanza. La filosofia stessa è cosa equivoca, mi dicevo, e forse sta qui il fascino che esercita anche sui miei coetanei poco difesi davanti alle mie lezioni. Non potevo varcare con loro la soglia di un coinvolgimento più esplicito.

La teologia del massacro è l’anima della filosofia in quanto getta le proprie basi sulla logica del potere. E il dominio, in tutti i suoi aspetti, è giustificato dalla logica dell’a poco a poco, spina dorsale di ogni tesi filosofica. L’educazione dei boia è prettamente filosofica e i massacri sono quasi un sigillo di efficacia per una teoria, altrimenti questa corre il rischio di essere accantonata fra le bubbole della fantasia. In molti casi è possibile vedere come la tesi acceleri il suo sviluppo in vista della propria conclusione obiettiva, strumento del massacro, sente odore di sangue. Si tratta di un circolo vizioso. Il potere genera la logica dominante, su questa si attorcigliano le tesi filosofiche come tante piante carnivore rampicanti, reggendosi reciprocamente al medesimo torso e sbranandosi a vicenda. Una tesi che spezzasse questo circolo non sarebbe accettabile perché illogica o perché – come ho scoperto molto tempo dopo – basata sulla logica del tutto e subito. La familiarità con gli assestamenti del dominio – da cui l’a poco a poco – produce la possibilità di ottenere il potere, il prezzo è il massacro, il quale, a sua volta, regge il potere ed è da questo giustificato e retto. C’è qui un paralogismo che giustifica tutta quanta la condizione dominante.

Naturalmente ero lungi da considerazioni nette, potevo girarci attorno, frequentare solo i sobborghi di questa grande città, ma non potevo soffermarmi a lungo nel centro della mia tesi senza sentire il bisogno di scappare via perfino dall’amata filosofia. La scelta di continuare le lezioni, e il taglio dato a esse, alla fine mi obbligava ad astenermi dal coltivare le mie personali considerazioni, il che era una complicanza non indifferente. Così producevo anch’io il mio piccolo contributo al massacro, con indifferenza e con costanza. Educavo, o almeno ci provavo, coetanei alla mia stessa indifferenza e alla mia costanza spacciando tutto ciò per virtù essenziale per impadronirsi della conoscenza.

Ecco il punto, questo sì chiaro e accettabile in una discussione aperta, impadronirsi della conoscenza, ma per che farne? Per la diffusione dei lumi? Andiamo, pur essendo un ammiratore del Settecento non arrivavo a tanto. Poteva essere che la positività di questo sforzo fosse data a priori, ma come poteva essere affrontata criticamente? Non era possibile. Un processo che impegna tutta la vita, o almeno la sua parte migliore, la gioventù, come poteva essere occultamente lasciato a se stesso, privo di un approfondimento?

La questione è simile a tante altre, più appaiono evidenti di per sé e meno se ne discute, quindi meno le si conosce. Conoscere, mi dicevo, è necessario come respirare, lo si fa quasi involontariamente, è la selezione di che cosa si sceglie di conoscere che richiede uno scopo filosofico per strapparla dalle mani del caso. Infatti, si può andare avanti a lungo conoscendo a caso e alla fine ritrovarsi con niente nelle mani. Ma perché valeva la pena di fare questo sforzo filosofico di scelta? Perché si acquisivano mezzi, strumenti, possibilità per la vita? Per vivere una vita migliore. Era questa una risposta soddisfacente? Non credo. Ma non posso gettare la luce della mia ultrasettantenne capacità critica sul lavoro di un adolescente per altri adolescenti. Una cosa però voglio sottolineare in questa pagina, conoscenza non è sinonimo di sapienza, è per accedere a questa conclusione che scrivo in un lager, una vita intera non basta.

Gli imbecilli, miei cari amici, che mi hanno a lungo perseguitato, ruggiscono d’insoddisfazione e di sdegno a queste mie parole. Mi pare di vederli con la bava alla bocca gridare a pieni polmoni la loro indefettibile fede nella conoscenza. Siamo nell’ambito della scemenza che alligna benissimo fra coloro che aprono la bocca davanti a qualunque pubblicazione a stampa, a partire dal quotidiano mattutino per finire ai romanzi riassunti del “Digest”. Ho visto questa brava gente scandalizzarsi sentendo i miei dubbi, per altro piuttosto blandi, sulla chiarezza e sull’oggettività. Ma questa è storia dell’oggi.

Comunque, anche tornando all’epoca di queste lezioni, avevo sentore dell’esistenza di simile fauna e cominciavo a sperimentarne gli aculei, per altro ancora poco capaci di pungere. Lavorando al giornale “La Sicilia” come cronista facevo ogni giorno esperienze del genere. Come quando, di domenica sera, all’improvvisa morte di Brancati, venendo a mancare l’intellettuale della redazione, e non essendoci il “coccodrillo” pronto perché nessuno poteva prevedere la morte del romanziere, scrissi in pochi minuti il necrologio suscitando non sollievo o meraviglia ma invidie e sottili critiche del tutto fuori luogo. In nessun ambiente si raccolgono tanti imbecilli come in una redazione di giornale. Questi asini ritengono di sapere tutto semplicemente perché di tutto parlano senza sapere niente. Il giornalista ha questo dono del cielo, la scienza infusa per semplice contatto con i fatti.

Lo sviluppo delle tesi, per come andava avanti nelle lezioni, pretendeva accedere a una dimostrazione – fra le tante – che non poteva che rivelarsi azzardata. Filosofia e conoscenza camminavano di pari passo, cosa del tutto ovvia per me ma non del tutto accettata dagli stessi filosofi, basta pensare ad Abbagnano, tanto per citare qualcuno di casa, sia dagli scienziati. Ognuno tirava la coperta dalla sua parte e questa, com’è ovvio, risultava troppo corta. L’implicito contenuto culturale nel dettato filosofico mi spingeva forse a una sorta di estremismo muscolare, ma molti aspetti li rivendico ancora. Cercavo di spingere tutto verso la porta stretta della filosofia, producendo una specie di storia del pensiero, senza peraltro averne la capacità. Ben altre forze sarebbero state necessarie.

Mi rivoltavo però verso i letterati cosiddetti puri che amavano, in quegli anni del “dopoguerra”, dare battaglia sulle pagine de “La fiera letteraria” di Cardarelli. Li vedevo imbellettati scrivere su tanti argomenti, per esempio la Storia del comico, cito ovviamente a memoria, o lasciarsi andare a giudizi di condanna o esaltazioni che si basavano quasi sempre sul vuoto delle loro zucche. E la mia rivolta finiva per riconfermare le mie scelte, la filosofia come conoscenza ma non, attenzione, come scienza. La distinzione mi sembrava importante non perché pensavo a due campi separati, ma perché ritenevo importante approfondire le connessioni o le corrispondenze, invece di accorpare in un tutto indifferenziato.

Pensavo, parallelamente al mio approfondimento delle matematiche, che proprio da queste potesse venire un maggiore rigore logico alla filosofia la quale, per liberarsi successivamente della prigione della logica dominante, poteva andare per altre strade, diverse dalle matematiche, anche se parimenti rigorose.

Come si vede, c’era in me una confusione sul vero e proprio significato della ricerca filosofica e sul concetto di rigorismo logico. Non possedendo ancora – passeranno vent’anni – il concetto di logica del tutto e subito, brancolavo nel buio della logica senza distinzioni. Mi aggiravo, per esempio, attorno all’idea di progresso e non riuscivo a vedere che aspetti positivi, in armonia con la mia infatuazione della cultura da possedere e incamerare. L’equivalenza tra progresso e perbenismo mi sfuggiva e mi chiudevo così nell’illusione che dal progresso filosofico potesse venire fuori un’autocritica, quindi una limitazione del massacro, restando intatta la mia connessione tra massacro e filosofia.

L’idea di fondo, questa responsabilità filosofica dei massacri di cui la storia è costellata, mi faceva velo impedendomi di vedere i limiti di ogni possibile rigorismo. Il fatto è che l’immane sforzo a cui mi sottoponevo mi immalinconiva a causa dei risultati che secondo me tardavano ad arrivare. Frugavo in angoli reconditi, sempre di seconda mano, salvo rari casi, e mi rendevo conto che più scoprivo e più grande e ampia come il mare diventava la mia ignoranza. La cultura mi metteva di malumore, diventavo irritabile e aggressivo, non tolleravo la minima sbavatura in coloro che pensavo – a torto – per definizione dovevano sapere più di me. Li accusavo apertamente di insipienza e quando non potevo farlo apertamente, a causa del rapporto gerarchico, lo facevo a denti stretti dentro di me.

Nelle mie fantasticherie c’era la mia grande biblioteca, da costruire a strati, come poi ho fatto, seguendo i flussi delle mie ricerche, con le possibilità o anche gli interessi delle mie letture, due cose diverse. In fondo queste lezioni sono una sorta di catalogo della futura biblioteca, compresi gli anfratti meno frequentati e gli angoli oscuri, non ben approfonditi. Rileggendo queste pagine, vi riscontro una grandissima immaginazione, del tutto avulsa dal contesto specifico delle letture di riferimento. Elencavo gli sforzi dei filosofi per dare risposte alle domande di tutti gli uomini, non solo di altri filosofi, vedevo bene che non era una questione di casta ma di tutta l’umanità, e vedevo anche come tutte queste risposte confluissero adeguatamente nella coscienza dei massacri. Mi offrivo, perseguendo nello sforzo, gli scampoli di uno sforzo ancora più gigantesco per portare l’uomo alla conoscenza di sé e vedevo che questo sforzo portava direttamente nel lago di sangue delle depravazioni di cui l’uomo, solo l’uomo, è capace. Per attendere le tenerezze e l’amore, il dono e la sublime dedizione, bisognava rivolgersi altrove, la filosofia era curiosamente cieca per queste prospettive. Che non fossero umane? Domanda legittima a ben riflettere, purtroppo anch’essa priva di una risposta plausibile. Forse la poesia, la letteratura, accudivano a questa mancanza della filosofia? Non sapevo cosa dire. Non ero certo di avere una risposta positiva.

Il massacro, il gioco del massacro e l’amore, il gioco dell’amore, mi apparivano antitetici, ma sovrapponibili, la filosofia dilagando nell’accoglimento del primo, stringeva il cuore. Stavo facendo lezione a dei futuri boia? Sarebbe facile adesso, con la scienza del poi, rivedere questo sospetto tagliente. Ma non avendo pretese riguardo al futuro, mi limitavo a fare quello che mi piaceva di più, conquistare la conoscenza. Avevo una concezione corrusca della lotta, non superficiale, avendo letto poco e male i socialisti e quasi per niente Marx. Qual è la parte malvagia della conoscenza? Non lo sapevo, e non lo so. Come si può conoscere il male, se è questo che fa la filosofia lavorando per il massacro? Oppure anche il massacro appartiene alla scienza e alla conoscenza, esaltando la capacità umana di essere stupidi? Domande che rigiravo e che rigiro, dopo tutto sono le domande più diffuse, appunto perché sono senza risposte accettabili.

È vero che il male è individuabile con certezza perché ognuno di noi ha in sé una sorta di cartina di tornasole con la quale verificare, insomma una proprietà della coscienza? Forse sì, forse no. Se ci fosse qualcosa del genere funzionerebbe automaticamente, il che non accade. La faccenda è un po’ più complessa. Il male – e il massacro è il male assoluto – attira allo stesso titolo della conoscenza, e reciprocamente si ricattano ospitandosi alternativamente. Come se ci fosse un male bestiale e uno illuminato, con relativo compito implicito della filosofia di educare il male liberandolo dalla bestialità e conducendolo alla conoscenza di sé. Conclusione di tutto ciò è l’incomprensione della realtà, anche grazie alla complicità della conoscenza. Il male diventa qualcosa di teorico, rinchiuso e racchiuso nella casta, non sangue e morte, un lago di sangue nella caverna della melma. Immagini immaginate, sognate dai filosofi, non organizzazioni e realizzazioni di massacri. Ciò non giustifica, anzi il contrario. Professionisti del pensiero non possono fanciulleggiare con l’assassinio, quest’ultimo è cosa molto seria, è l’estrema rapina, ciò che i filosofi non capiranno mai, anche se qualche volta hanno l’aria di soffermarsi su qualche connessione giustificativa del proprio pensiero.

Se la filosofia – e quindi la sua rappresentazione storica come queste strane lezioni pretendono di essere – è conoscenza, quindi pensiero, è un’audace speculazione immaginativa su come organizzare e mantenere il dominio, speculazione metafisica e quindi teologica. Compattando la conoscenza sotto un movimento, un flusso di teorie, si produce un nuovo apporto, una nuova tremenda creazione che qualcuno come me si incarica di incorniciare. Non si tratta di natura morta, disegnata a tempo perso da acquerellisti domenicali, è proprio un rimestio profondo della melma, l’intessitura intima della politica umana, l’occhio remoto, e solo in parte conosciuto, del massacro. Apparentemente è lettura amorfa, distante, che cerca di reclutare convincimenti, ma non è solo questo, è di più, è lo scavo che il pensiero realizza nella caverna, la continuazione mostruosa di uno splendido paesaggio di connessioni e corrispondenze. Ne viene fuori una spaventosa trasformazione in corso, un essere vivo, avvincente, che attira e innamora, respingendo nello stesso tempo. Nessuno è esclusivamente filosofo, è inumano e impensabile esserlo totalmente e fino in fondo. Se qualche filosofo si ama è la sua invincibile tenacia umana che si coglie ancora nella nebbia del progetto assassino, e che mette in rilievo la sua sofferenza e forse la sua riluttanza a provvedere al compito che gli spetta. Certe volte non si osa nemmeno annusare un filosofo, il sospetto di restare con le mani sporche di sangue è troppo forte, mentre si ama liberamente il poeta e il narratore. Non è Nietzsche che amo, ma il poeta in lui, che ridicolizza il filosofo.

Porre domande è filosofico, fornire risposte è politico. Non è proprio questo che volevo dire a suo tempo, non possedevo una simile lungimiranza, comunque un sospetto del genere lo avevo in nuce. Non esiste una linea corretta e rigida di sviluppo nella storia della filosofia, e non c’è nessuna idea divina a reggere al suo posto l’avventura umana. Lasciare aperte le domande, irrisolti i quesiti, evitare gli stringenti ragionamenti che cercano solo di mummificare la realtà. Il sogno della perfezione fa da contraltare logico al compito di fornire elementi al massacro. Non c’è modo di cogliere la visione corretta, non c’è nessuna visione corretta, si va avanti a braccio, scandagliando il fondale con poca accuratezza. Sono gli interrogativi che costituiscono la filosofia e la fanno diventare conoscenza, non le risposte che lavorano sempre per il massacro, a volte in maniera tanto scoperta da essere perfino ridicola. Solo gli interrogativi sono il dono della filosofia.

Per l’epoca della loro scrittura, queste lezioni si presentavano a me, man mano che le scrivevo, come un vasto territorio mnemonico, dove la memoria si collegava insieme a quello che mi appariva subito come scollegato. Era l’epoca dei miei studi di memorizzazione, che proprio ai primi del 1955 mi causarono una forte crisi nervosa. Molte connessioni sono lasciate aperte per semplice ignoranza o per fretta e incuria, ma molte altre sono sufficientemente saldate e la rete dei contatti collegata abbastanza bene. Non potevo vedere lo sbocco di queste corrispondenze – sempre l’ignoranza e la fretta – ma coglievo in me la nervatura dei vari contributi, preferendo per fascino mal posto i sistemi più pomposamente organizzati. Intuivo che questo sbocco fosse sempre il massacro ma, come ho detto, avevo le mie ritrosie (o paure) a dichiararlo apertamente. Sottolineavo al suo posto lo scintillio logico, l’armatura tecnica e linguistica, le false luci e le false verità, le fantasmagorie e le invenzioni metafisiche. In fondo, pensavo e penso, che questa grande foresta che è la storia della filosofia nasconda più di quello che riveli, la sua apparenza è un po’ decadente, come di qualcosa che ha vissuto a lungo e che stenta a morire, ma nello stesso tempo di qualcosa che è l’anima di qualcosa d’altro, sottostante, ctonio, spaventosamente profondo. Una foresta che rappresenta l’uomo, uno straordinario animale, vecchio e forse prossimo a morire ma non ancora morto, una foresta ricca di vegetazione, alberi e piante fiorenti ma prive di vita nel senso sovvertitore del termine, una foresta in corso di pietrificazione.

Perché mi attirava una simile proliferazione strana? Perché era un luogo in cui si radunavano tutti i pensieri possibili dell’uomo, anche i più disinteressati, l’amore e il dono di sé, ma anche il luogo delle infamie più esecrabili. Certo, pensavo di essere l’unico al mondo capace di separare il grano dal loglio, ma questo in un giovane non lo trovo strano né mi corre l’obbligo di giustificarlo. In questo modo mi trovavo fra carte familiari, come cose di casa usate alle quali avevo fatto l’abitudine e con le quali convivevo. Ogni teoria che assumevo nella memoria rivelava l’appartenenza alla confraternita del massacro, ma dopo tutto non era questo aspetto che cercavo, quanto l’affascinante ricerca delle conoscenze sconosciute, ancora da catturare e da ridurre a mio personale possesso e quindi farne dono agli altri. La traccia del passato, presente dappertutto, era identificabile proprio in questa caccia al possesso che tutti i filosofi esercitavano l’uno a scapito (o a giovamento, a seconda dei punti di vista) dell’altro.

Il tempo dimostra proprio nella storia della filosofia la sua inconsistenza, qui il vecchio è spesso nuovo e il nuovo sa di vecchio, ma questo non si percepisce solo leggendo e riflettendo sulle teorie, quanto considerando globalmente lo sviluppo complessivo. C’è comunque una corruzione nello svolgimento delle teorie, il meraviglioso e l’unico vengono, a poco a poco, sostituiti dall’a poco a poco e dal ragionamento imprigionato nello svolgimento logico. Così la foresta – tranne poche perfide radure che rimangono misteriose – tende a pietrificarsi. Le nuovissime teorie – poniamo Heidegger o Sartre – mi sembravano più vecchie di altre. La novità assoluta – perfino in Nietzsche e Schopenhauer – era abolita, dappertutto il palleggiamento di obiezioni e risposte. Un battibecco di cortile, quasi quasi si direbbe, se non fosse per gli interrogativi mai risolti, in cui la polla rifiorisce dalla sabbia dove s’era interrata. Fra quelle carte mi sentivo a casa. Non ero un giovane flâneur ma un vecchio raccoglitore pietoso di reperti mortali, dove continuava a sedimentare la malvagità umana.

Varia la popolazione delle teorie, varia e dalle corrispondenze contrastanti. Chiacchiere e stringenti argomentazioni si sovrappongono e si integrano. Dappertutto la filosofia, che fin dall’inizio, in Grecia, relega l’opinione ad un infimo posto, non rifiuta la chiacchiera che fonda la fortuna politica del demos attico. Ne consegue che questo movimento teorico universale – ma che in queste lezioni, per motivi sublimi di ignoranza, è relegato all’Occidente – non aveva un centro e continua a non averlo. L’idealismo ha a lungo e apparentemente dominato la scena, ma si trattava di una illusione dovuta alle compattezze dei sistemi, spesso chiari e autoreferenti. Per accedere alla medesima fondatezza, il realismo e consoci positivi hanno cercato di fare lo stesso, con meno successo. Alla fine, tutti hanno mostrato la corda, compreso i sincretismi a sfondo materialista o spiritualista. I miei coetanei erano tutti affascinati dalla forza della conoscenza, pochi dalle sfumature politiche, all’epoca gli studenti erano refrattari alle sensibilità del decennio successivo. Eravamo ancora sotto l’influsso intimidente del dopoguerra. Anche le mie idee, prive di un punto di riferimento forte, se escludiamo la ricerca della conoscenza, erano fatiscenti. Visitavo vecchi palazzi e la mia attenzione era attirata dai particolari, meno dalle cose provviste di importanza. Mettevo in mostra i miei limiti a coloro che ne avevano di più grandi, quindi venivo beneficato di una inesistente illimitatezza. Spettatore limitato, ecco la definizione che ora mi torna in mente, spettatore del ribollire teorico che come un flusso di lava alimenta incessantemente il massacro. Aspettavo di capire, nel frattempo fagocitavo conoscenza, una forma particolarmente difficile di bulimia. Non essendoci un rapporto fisso tra acquisizione della cultura e comprensione dell’acquisito, era come navigare alla cieca. Così, in queste lezioni, è possibile seguire il mio sguardo vagare sulle teorie e spesso disperdersi per poi riprendere il controllo di sé, anche se devo confermare, alla luce corrusca del poi, che non c’è mai una gratuità da banale esposizione. Il mio disegno era univoco, evitare le dimostrazioni di ragione o torto postulate a priori, così potevo intraprendere il percorso di un sentiero e non tirarmi indietro, nella foresta, per paura di perdermi. Ero a casa mia in qualunque luogo arrivassi perché nessun luogo mi era pregiudizialmente precluso da una decisione preventiva.

Nel girovagare fra le teorie filosofiche c’è l’uomo con tutte le sue porcherie e i suoi slanci sublimi, poi le singole teorie nel rafforzarsi in quanto tali e nell’accedere al diritto di essere identificate e conosciute, tutte, si indirizzano al massacro. Molte le linee iniziate e non concluse, molte le forme primordiali rimaste tali, non sviluppate, molti i consigli subito contraddetti, molte le illusioni di storcere la parola fino a costringerla a dire il vero. Di tutto questo, e di molto altro, quello che memorizzavo e riportavo nelle mie lezioni era per me l’essenziale. Oggi non solo non potrei fare il medesimo lavoro – cosa evidente, se non altro per motivi cronologici – ma non farei per niente una storia della filosofia, non ne avrei le forze.

La memoria dell’essenziale cambia e si essenzializza, col tempo si diventa architettura a se stessi, si guarda dentro lo spaventoso archivio interno e si trova un po’ di tutto. Dentro di me ci sono troppe tracce e molte conferme dei massacri. Non mi piace passare in rassegna questa distanza enorme dove si trovano affacciate le visioni di ciò che ho capito e non capito agendo, pensando spesso di fare bene ad andare avanti come un treno e facendo male, molto male. Il culto dell’agire non può sostituire l’agire, se no l’azione torna a semplice fare per onorare un culto a cui molto è dovuto e per giustificare la propria esistenza.

Ma la filosofia delega il fare a chi trova gli strumenti già pronti nelle teorie che essa affronta, e questa delega illude i filosofi della possibilità di mantenere le mani lontane dal sangue, cosa impossibile. La responsabilità è totale per il filosofo come per il boia che appresta il capestro. L’illusione è la normalità, perfino per Heidegger, e nei migliori filosofi è introiettata tanto profondamente da non essere distinguibile dalla realtà. Massacratori e non, se filosofi, sono tutti massacratori. Non occorrono discorsi di dottorato, non ci sono oscuri segreti da smascherare. Il mistero riguarda le poche eccezioni, ma poi ci sono veramente queste eccezioni? Che valore ha l’ostracismo alla lettura del filosofo Gentile e il permesso per il non-filosofo Croce? Ferma restando la validità di sparare al primo e lasciare in vita il secondo. In caso contrario bisognerebbe uccidere tutti i filosofi, cosa pericolosa perché non ci sarebbe più misura o limite dove fermarsi. Alla fine, come si vede, anche la mia intuizione generalizzata di cinquant’anni fa si risolverebbe in un contributo al massacro.

Mi è stato obiettato dai pochi benpensanti ai quali ho tra le righe accennato a questa tesi qui, in queste lezioni, adombrata, che non tutte le filosofie – se questo plurale è consentito – sono afferenti al massacro. Certo, ci sono architetture barocche che nascondono bene il loro obiettivo reale, le coprivergogne dei riccioli dialettici di cui usano agghindarsi servono proprio a questo, ma basta scrostare qualche mano di calce passata ed ecco emergere la caverna del lago di sangue dove getta il suo guardo freddo il filosofo. Questo fatto, riscontrabile con relativa facilità, rimane comunque un mistero che si infiltra dalla filosofia vera e propria, intesa in senso tecnico, a ogni modo di estrinsecarsi del pensiero. Da questa parte, cioè dove la teoria filosofica si incarna in altre espressioni del pensiero, la prova si ottiene con minori difficoltà. La purezza delle scienze è un miserrimo mito. L’uomo non è mai uscito dalla sua infanzia e bamboleggia ancora con le illusioni di verità oggettiva. Come tutti gli infanti, crede che questo feroce giocattolo possa dargli la felicità, non sa bene perché ma ha questa fede, e come tutte le fedi, una volta offese dalla disillusione, procurano terribili ritorsioni contro chi alza la barriera del dubbio.

Il linguaggio a volte criptico della filosofia, o comunque ricco di rimandi e di allusioni, si presta a queste esaltazioni fuori luogo. Ogni geroglifico riproduce un piccolo pezzo di realtà, le teorie filosofiche sono simboli complessi e articolati, ma sempre simbolicamente relazionate alla realtà, non possono né sostituirla né rispecchiarla, nessun movimento completo è loro concesso anche se l’assedio dura a lungo. Ciò può avermi intimidito e quindi posso non essere andato a fondo nella costruzione del mio diagramma di riferimento, ma non credo sia stata solo una questione di impaccio culturale, c’era anche un difetto di contenuti, una carenza di competenze. Ho esaminato minuziosamente i miei riferimenti di allora e ho trovato tante limitazioni loro e quindi anche mie, non potevo abbordare diversamente l’intenzione, di certo sconsigliabile, di pubblicare queste lezioni. Mi sono deciso qui, ad Amfissa, in un lager innominabile, perché penso che qualche ingenuità, che permane, nel mio ricordo, sia cosa di poco conto se commisurata all’importanza di sottolineare – cosa che qui avviene per la prima volta – la connessione con la caverna dei massacri.

Queste remote lezioni di un adolescente sono quasi un anticipato compendio della mia vita, sono là a ricordarmi quello che volevo diventare e che sono diventato, un uomo fuori luogo. Concludo queste pagine [2010] nel carcere di Korydallos (Atene) e proprio oggi [20 gennaio 2010] alcuni compagni si sono fatti autorizzare per permettermi di fare loro delle lezioni di filosofia. Come si vede perdura l’interesse anche se tra questi giovani – alcuni con accuse da ergastolo – e quei miei lontani coetanei c’è parecchia differenza.

Come dire loro che mi chiedono di sollevare il lenzuolo che si usa in un obitorio? Come accennare alle vaste gallerie sotterranee dove si accumulano i riferimenti teorici che vanno poi a sboccare nella caverna del lago di sangue? Disilluderli o illuderli? Sono troppo vecchio come allora ero troppo giovane, c’è sempre un qualcosa di troppo che mi blocca e mi obbliga a un duplice sforzo, andare avanti affrontando lo scontro con la conoscenza e guardare in faccia la morte, l’assassinio, che sono appena oltre, non molto lontani né estranei, normalissima conclusione. Non sono mai stato un sacerdote dell’assoluto né un templare del relativo, non ho indossato casacche o tonache, anche se ho tagliato teste e mi sono addentrato, da buon conoscitore della filosofia, se non proprio filosofo (parola molto sospetta), nella caverna dei massacri.

Mi è stato chiesto di parlare di Schopenhauer. Ho ascoltato con sgomento questa dichiarazione di interesse. Certo, mi sono detto, ha una sua singolarità. Perché Schopenhauer? Nella sequenza delle teorie filosofiche, questo scolaro indisciplinato ha l’occhio vivo e la mano al coltello, bisogna stare attenti con lui, era un lettore (filosofo) dei giornali del mattino, quindi aveva fatto presto a sostituire la preghiera del risveglio. Getta una luce giallognola e penetrante nella caverna e non si impressiona affatto, illustra i motivi per cui bisogna alimentare il lago di sangue. Il potere ha sempre ragione e la ragione governa il mondo. Porta dentro le gallerie, che circumnavigano la caverna, una enorme quantità di nuovi elementi, giustificazioni in miniatura, prove false ma convincenti, cornici con delimitazioni che sostituiscono egregiamente le vecchie e superate teologiche intimidazioni, insomma un processo di formidabile riverniciatura. Ma l’occhio di questo scrutatore di anime – a cominciare da quella di Hegel – è vivo, ed è di questo che i compagni qui, in questo carcere, vogliono sentir parlare.

Parlerò, fra qualche giorno, a metà di Schopenhauer, ecco quello che ho deciso. Leggerò una pagina del Mondo e la commenterò. Questo è il paese delle glosse, andiamo, continuiamo la tradizione, dopotutto sono ad Atene. La metà di un filosofo può nascondere bene la sua vocazione al massacro, oppure, se affermata dall’esegeta, apparire del tutto gratuita. È quello che voglio. Che ci arrivino da soli senza bisogno di mettere un’annotazione in margine al quadro. Sono uno specialista di esposizioni bizzarre se non proprio fuori norma in modo assoluto, mostruose. E sono troppo vecchio per uscire di ruolo. In fondo, come i miei coetanei di allora, questi compagni vogliono sentirmi dire qualcosa su Schopenhauer, non vogliono fargli il processo, a loro basta il proprio.

Senza volerlo, pur nella spasmodica ricerca di completezze, anche quelle remote lezioni erano dimidiate, seppure involontariamente, ma dov’è la totalità? non è forse una illusione malvagia come la verità? Anche il rapporto con la caverna può solo fino a un certo punto essere individuato con accuratezza, mai segnato fino in fondo, la melma travolgerebbe qualsiasi tentativo. Potevo, e posso, fissare raccordi con la storia, accadimenti più o meno caotici e complessi, ma mi devo fermare perché c’è sempre un dislivello tra teorie filosofiche e realizzazioni fattuali. È il dislivello che nasconde le responsabilità dei filosofi e li fa sentire al sicuro. Loro, per restare al nostro Schopenhauer, sono soltanto i rappresentanti dell’industria del massacro, non fanno andare la ghigliottina, la progettano e ne curano la manutenzione, soltanto questo.

Non parlare di mezzo Schopenhauer riempirebbe il mio compito di una fatica improba, in fondo superflua. Apparirebbe forse, con sufficiente approssimazione, una concatenazione a cui nessuno si potrebbe sottrarre, poniamo, il suo pensiero è consenziente al dominio nazista? Non credo, si produrrebbe sì una concatenazione, ma di processi culturali sempre più deformati, fino ad arrivare al culmine dell’assurdo. Ogni ulteriore tassello, esaltando la logica dell’a poco a poco, priverebbe di logica la sua stessa conclusione. L’illusione di completezza produrrebbe molti Schopenhauer, uno diverso dall’altro, come immagini riflesse in una serie di specchi. C’è un affiorare lento della sapienza nel rinunciare alla completezza. È questo l’insegnamento che la mia lunga vita mi ha elargito ed è stato da me pagato molto caro. Il confine tra la sapienza e la conoscenza è tanto esteso da non essere individuabile, quello tra conoscenza e completezza non c’è. La sapienza non ha fondamento nella quantità del materiale conoscitivo acquisito, ecco perché mezzo Schopenhauer potrebbe dire più di mille riflessi immaginari in uno specchio.

Nelle mie vecchie lezioni non c’era, né poteva esserci, sapienza. Nel mio lavoro, che sto preparando per queste lezioni di Korudallñw (fuori luogo anche loro), c’è una traccia di questo meraviglioso svuotamento. La teoria afferisce al massacro, rifiutarsi di completarla riduce i termini di questa spaventosa collaborazione. Ora non abito più nel grande viluppo della foresta dove mi addentravo con lo spirito dell’esploratore, abito in una casa vuota, piccola come la cella dove scrivo queste righe, ed è una casa vuota. Mi siedo a riflettere e posso vedere dove la sapienza si espande, verso il territorio dell’essenzializzazione, della semplificazione, della rinuncia. Il mondo è prigioniero della conoscenza, questa è la ruota del dominio. Il mondo è prigioniero del dominio. La sapienza rinuncia alla conoscenza – o almeno la riduce per quanto la parola lo consenta – quindi rinuncia al dominio. L’occhio vivo del mezzo Schopenhauer è sapiente, tutta la sua filosofia no.

Alfredo M. Bonanno

Iniziato nel lager di Amfissa, finito il 20 gennaio 2010 nel carcere di Korydallos (Atene).

Nota editoriale

Nel preparare questa stesura definitiva di un lavoro tormentatissimo quale è il presente, ho creduto opportuno aggiornare le citazioni, sostituendone alcune con altre più recenti che soltanto a partire dagli anni Settanta del secolo scorso si sono rese disponibili. Tranne rari casi, il testo – anche quando prendeva l’andamento di annotazioni spezzate e poco chiare – è stato invece lasciato nella forma in cui era redatto all’epoca del suo approntamento.

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«Le vicende del ribaltamento del sistema hegeliano costituiscono uno dei capitoli più affascinanti e problematici della filosofia degli ultimi centocinquant’anni. Ma per un’ironia forse intrinseca alla stessa storia della filosofia, questa pretesa distruzione della metafisica, con tutti i suoi rovesciamenti, lacerazioni e svolte drammatiche, era forse meno radicale di quella attuata, più discretamente ma con effetti decisivi, dalla filosofia dominante alla svolta del secolo, e cioè dallo storicismo. Nella seconda metà del secolo XIX, lo storicismo aveva avuto una funzione liberatoria nei confronti della storiografia realistica e positivistica. Alla pretesa di costruire il senso reale (in tutte le sue conseguenze etiche e pratiche) degli eventi storici veniva contrapposta la funzione formatrice del soggetto conoscente, e quindi la relatività di ogni storiografia (Historie) una relatività inevitabile e necessaria date le diverse prospettive dei soggetti. Ma quella che era iniziata come una critica della storiografia diveniva una rifondazione della stessa esperienza filosofica, la costituzione di una geschichtliche Philosophie priva di qualsiasi riferimento a un senso metastorico. Non solo il passato, ma anche il soggetto conoscente veniva ora “storicizzato”, intendendo con ciò sia la relatività dei suoi punti di vista, sia, e soprattutto, la processualità della sua costituzione, del suo divenire un soggetto. Esso non poteva più pretendere l’altezza e la distanza dello sguardo oggettivante davanti alle vicende umane del passato, in ciò “più di tutti vicino a Dio” (secondo l’espressione di Ranke), ma si riconosceva intimamente presente nel processo storico, si identificava con quest’ultimo fino ad esserne completamente formato. La conoscenza di sé e la conoscenza della storia erano perciò esperienze che penetravano (o meglio ricostituivano) una stessa realtà, ciò che nello storicismo della svolta del secolo viene denominato vita. In questa, assunta come sfera pre-categoriale dell’esperienza soggettiva, sarebbe errato ri-conoscere qualche tipo di naturalismo o perfino di vitalismo biologico. Anzi, la vita era precisamente la dimensione in cui la natura era storicizzata – come già Hegel aveva indicato nella prefazione della Fenomenologia dello Spirito – e trasformata in un indefinito processo di crescita».

(Alessandro Dal Lago, “L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut”, n. 222, 1987, pp. 6-7).

Cartesio e le polemiche sul cartesianesimo

La figura di Cartesio (1596-1650) segna una tappa decisiva dal Rinascimento all’età moderna. L’opera iniziata con tanto ardore dai filosofi rinascimentali viene da lui continuata e trasformata in nuovi motivi di ricerca. L’esigenza della filosofia del Rinascimento di chiarire il problema della soggettività umana con un ritorno in se stessa e il bisogno di risolvere l’annoso contrasto tra l’uomo e il mondo, in favore di quest’ultimo, si unificano in Cartesio venendo così a formare il nocciolo centrale della sua speculazione. Il problema dell’uomo e non dell’uomo qualunque, ma dell’uomo Cartesio viene risolto; ma il filosofo è sicuro che la sua risoluzione non è valida soltanto per sé ma per tutti, perché la ragione è uguale in tutti gli uomini, la diversità delle opinioni scaturisce solo dal modo di condurla. Renato Descartes nacque da nobile famiglia a Le Haye, nella Touraine, il 13 marzo 1596; conseguita ben presto la licenza in diritto civile e canonico, si accorse della vacuità della cultura da lui acquistata durante l’insegnamento scolastico, si propose di cercare un’altra scienza che desse più affidamento, e si decise per quella scienza che si può trovare solo dentro di noi e nel gran libro del mondo. Perciò si arruolò nell’esercito di Maurizio di Nassau.

Ma nel riposo dei bivacchi invernali e nelle lunghe tregue tra le varie azioni di guerra non si distolse mai dallo studio della fisica, della matematica e della filosofia. Opere basilari per la conoscenza del suo pensiero: Discorso sul metodo, vera e propria autobiografia di Descartes, con l’e-sposizione del nucleo centrale della sua filosofia, Le Meditaziani metafisiche, importanti per quanto riguarda specialmente il problema dell’esistenza di Dio. I Princìpi di Filosofia, trattazione sistematica e definitiva del pensiero cartesiano.

Invitato dalla regina di Svezia Cristina, a insegnarle la sua filosofia il vecchio filosofo, poiché le lezioni si tenevano alle quattro del mattino, attraversando a quell’ora e in quel clima poco adatto alla sua salute, un giardino, per recarsi negli appartamenti della regina, morì l’11 febbraio 1650.

Cartesio ha scoperto il suo metodo mediante la valutazione del procedimento matematico. Quelle lunghe catene di ragionamenti tutti semplici e facili, di cui i geometri hanno l’abitudine di servirsi per giungere alle loro difficili dimostrazioni, dettero a Cartesio l’occasione di immaginare che tutte le cose di cui l’uomo può avere conoscenza si seguono nello stesso modo per cui solo che ci si astenga di accettare per vera una cosa che non lo è e che si rispetti sempre l’ordine necessario a dedurre una cosa da un’altra, non vi sarà nulla di così lontano dove non si possa giungere o di così nascosto che non si possa scoprire. In altri termini Cartesio definisce il suo metodo: un insieme di regole certe e facili che, da chiunque siano esattamente osservate, gli renderanno “impossibile prendere il falso per vero, e senza un inutile sforzo mentale, lo condurranno gradatamente alla conoscenza vera di tutto ciò che sarà capace di conoscere”. Le regole del metodo sono: 1) L’evidenza. Evitare di accettare per vere delle cose che non lo sono, per troppa precipitazione o per prevenzione. 2) L’analisi. Dividere le difficoltà da esaminare nel maggior numero di parti possibili e necessarie per meglio risolverle. 3) La sintesi. Condurre i pensieri per ordine, partendo da quelli più facili fino a giungere a quelli più complessi.

Trovare la base di un metodo che dev’essere la guida sicura della ricerca in tutte le scienze è possibile, secondo Cartesio, solo con una critica razionale di tutto il sapere. Bisogna sospendere almeno una volta l’assenso ad ogni conoscenza comunemente accettata, dubitare di tutto e considerare provvisoriamente come falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile. Se persistendo in questo atteggiamento di critica radicale si giungerà a un principio sul quale il dubbio non è possibile, questo principio dovrà essere ritenuto saldissimo e tale da potere servire da fondamento a tutte le altre conoscenze. In questo principio si troverà la giustificazione del metodo.

Ora, io posso ammettere di ingannarmi per quanto riguarda l’esistenza di Dio, del cielo, dei corpi, posso ammettere di non avere io stesso un corpo, ma per ingannarmi, per dubitare, per ammettere che tutto questo è falso, bisogna necessariamente che io pensi, che io sia qualche cosa e non nulla. La proposizione cogito ergo sum è la sola assolutamente vera perché il dubbio stesso la riconferma. Questa proposizione ci dà una certa indicazione intorno a ciò che sono io che esisto. Non posso dire di esistere come corpo, giacché non so nulla dell’esistenza dei corpi. L’Io non esiste se non come una cosa che dubita, cioè che pensa. Le cose pensate possono, a quel che ne so, non essere reali; ma è reale certamente il mio pensare. Il soggetto pensante è secondo Cartesio una sostanza.

Cartesio stesso conferma che il suo cogito aveva dei precedenti storici. Per primo Agostino se ne era servito per provare il riconoscimento della presenza trascendentale di Dio nell’uomo; in seguito Campanella lo aveva usato come fondamento di una teoria naturalistica della sensazione. Ma ciò che rende evidente il distacco radicale che c’è tra i tanti precedenti storici del cogito cartesiano e il cogito stesso è che in quelli manca il carattere problematico che a causa del cogito viene ad assumere ogni realtà diversa dall’io. Per la prima volta Cartesio ha fatto valere il cogito come rapporto essenziale e originario dell’io stesso, quindi come principio che rende problematica ogni altra realtà, e nello stesso tempo consente di giustificarla.

Il raggiungimento di una realtà che non è nell’io, non è precluso nella filosofia di Cartesio dal fatto di avere trovato il primo principio su cui fondare tutto il sapere sul cogito ergo sum; in base a esso non si è certi che della propria esistenza, che è quella di esseri pensanti, esprimenti cioè delle idee. Per primo Descartes usò il termine idea per indicare l’oggetto del pensiero, a differenza degli scolastici per i quali l’idea era la essenza delle cose esistenti nella mente di Dio.

La dimostrazione della mancanza di falsità nelle idee prese in sé viene data dallo stesso cogito, ma esso non rende sicuri sul valore reale del contenuto obiettivo di queste idee, cioè non dimostra se gli oggetti, che le idee ci rappresentano sussistono in realtà o no. A esempio, gli astri, la terra, il mare, una montagna come idee non c’è dubbio che sussistono nel mio io, ma esistono realmente siffatte idee fuori dal mio spirito? Cartesio divide tutte le idee in tre categorie: una prima di idee innate, cioè di idee nate con me, una seconda di idee avventizie, cioè venute dall’esterno, ed una terza di idee fattizie, cioè trovate da me stesso.

Fatta tale distinzione, Cartesio passa all’esame della causa che produce le idee: le idee chiare e distinte che ciascuno ha delle cose corporee contengono delle caratteristiche, sostanza, durata, numero, ecc., e non presentano tale perfezione da potersi immaginare create da noi stessi. Non c’è dunque che la sola idea di Dio nella quale si debba considerare che vi sia qualche cosa che non sia potuta derivare da me stesso. Con la parola Dio, Cartesio intende una sostanza infinita, eterna, immutabile, onnisciente, onnipotente e della quale io stesso come tutte le altre cose, se altro esiste, sono state create. Ora questi attributi sono di tale specie che quanto maggiore è la cura con la quale vi rifletto tanto minore mi sembra la possibilità che derivino dal mio pensiero. Ciò tenendo presente, cioè come Cartesio sostiene in generale che la causa di una idea perfetta deve contenere in sé altrettanta perfezione, l’idea di Dio non può scaturire dal mio essere finito e imperfetto, ma da un essere infinito e perfetto, ossia da un Dio realmente esistente. Evidentemente questa dimostrazione si modella su due postulati: 1) che nella causa dell’idea occorre che ci sia un’altrettanta realtà quanto nell’idea stessa, 2) che l’idea dell’infinito è latente nello spirito umano. Qui sta la novità della speculazione cartesiana, fuori delle ormai viete immagini e teorie scolastiche sulla causalità, partenti dalle cose sensibili per giungere attraverso l’impossibilità di avere la sintesi dell’infinito, alla prova dell’esistenza di Dio: egli parte dalla semplice idea di Dio, dicendola per assunto esistente nello spirito umano, ed arriva immediatamente dal suo contenuto alla sua causa.

La dottrina di Cartesio si diffuse rapidamente dapprima in Olanda poi negli altri paesi dell’Europa e divenne in Francia la moda della società elegante del tempo. Combattuta dai teologi, specialmente gesuiti, e dagli aristotelici, che ancora imperavano alla Sorbona, essa trovò in tutti i paesi difensori ed espositori che spesso cercarono di adattarla alla religione e alla tradizione filosofica. Purtroppo la dottrina di Cartesio fu sviluppata nel senso della difesa e della illustrazione dei princìpi generali e non in quello della ricerca fisica, come il maestro avrebbe voluto; in quanto riteneva di avere di già stabilito i princìpi generali. Grande valore hanno gli scritti degli oppositori di Cartesio: pensatori che muovono in gran parte da diverse concezioni.

«Non resta che la sola idea di Dio nella quale bisogna considerare se non vi sia qualcosa che non sia potuta venire da me stesso. Con il termine Dio intendo una certa sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, affatto potente, dalla quale da una parte io stesso e dall’altra tutte le cose esistenti – se ve ne sono altre che esistono – siamo stati creati. Ora, le qualità enumerate sono certamente tali che, quanto più attentamente le considero, tanto meno mi pare che esse possano procedere da me solo. Pertanto, da quanto detto sopra, bisogna concludere che Dio esiste necessariamente. Sebbene infatti l’idea della sostanza sia in me per il fatto che io stesso sono sostanza, non per questo però, dato che io sono finito, sarebbe idea di una sostanza infinita, se non procedesse da qualche sostanza che fosse veramente infinita. Ben al contrario, infatti, essendo tale idea assolutamente chiara e distinta e contenendo maggior realtà obiettiva di ogni altra, non ne esiste alcuna che sia di per sé più vera e in cui possa trovarsi minor indizio di falsità». (Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, III, tr. it., Torino 1994, pp. 690-691).

Pierre Gassendi (1592-1655)

Occupa un posto non indifferente in questa graduatoria: prete e canonico di Digione, egli tuttavia sostenne e difese per tutta la vita la dottrina epicurea. Ma tra la dottrina di Epicuro e di Lucrezio e quella di Gassendi passano delle differenze. Decisiva quella relativa agli atomi che vengono considerati in possesso di una facoltà intima di movimento e quindi eterna, da Epicuro, mentre Gassendi li considera mossi per opera e per volere divino. Questa distinzione, corroborata da tante altre, fa sì che la fisica epicurea perda tra le mani di Gassendi il carattere materialistico e meccanico e diventi una fisica spiritualistica e finalistica. Da ciò si vede come a torto Cartesio abbia chiamato “carne” Gassendi, e come a ragione quest’ultimo gli abbia risposto: “chiamandomi carne voi non mi togliete lo spirito, così come voi chiamandovi spirito non lasciate da canto la vostra carne. Basta che con l’aiuto di Dio io non sia talmente carne da non essere anche spirito e che voi non siate talmente spirito da non essere anche carne, in modo che né voi né io siamo al di sotto o al di sopra della natura umana. Se voi arrossite della natura umana io non ne arrossisco”.

Thomas Hobbes (1588-1679)

Costituisce la vera antitesi al pensiero cartesiano da un punto di vista sensistico e materialista. Nato a Malmesbury viaggiò lungamente in Italia, dove conobbe a Pisa Galilei, in Francia, dove conobbe Cartesio e Gassendi, e in Germania. Morì alla tarda età di novantuno anni. L’interesse fondamentale della speculazione di Hobbes è pratico e politico. Il fine è quello di porre i fondamenti di un governo ordinato e pacifico. Ma il suo punto di partenza è una diagnosi cruda delle condizioni dell’uomo e dei suoi istinti naturali. Hobbes non vede nell’uomo che impulsi egoistici e istinti di sopraffazione e di ostilità verso gli altri uomini. Con amara irrisione egli considera l’affermazione di Aristotele che l’uomo è per natura un animale socievole; egli non è socievole e non ha istinti di benevolenza, le riunioni tra gli uomini sono dominate dalla vanità e dalla maldicenza; e queste sono le fonti del piacere che procurano a chi vi partecipa. Perciò, se una società ordinata deve nascere, può nascere solo contro l’istinto naturale mediante un potere che inflessibilmente lo domini e lo tenga a freno. Il materialismo di Hobbes parte da questa concezione pessimista della vita, concezione che lo porta a negare la possibilità di una vita spirituale e di un ordine politico effettivo, se si vogliono ignorare i princìpi della natura umana e se li si vuole camuffare ottimisticamente. Hobbes si occupò anche di geometria e volle dimostrare la quadratura del cerchio e il raddoppiamento del cubo; e cercò di procedere geometricamente anche nella esposizione della sua filosofia.

Per Hobbes esiste un solo principio di spiegazione ed è il movimento dei corpi. La sensazione non è che l’immagine apparente dell’oggetto corporeo che la produce nei nostri organi di senso, ma sia l’oggetto che la sensazione non sono altro che movimenti. Con ciò Hobbes tende a dimostrare come l’anima sia materiale in quanto non potrebbe non esserlo dato che i suoi atti (idee, sentimenti, ecc.) sono movimenti, prodotti dal movimento dei corpi esterni.

Il corpo è l’unica realtà, che esista veramente in se stessa; e il movimento è l’unico principio di spiegazione di tutti i fenomeni naturali. Per Hobbes Dio stesso è di natura corporea. In una polemica che ebbe con il vescovo di Bramhall, egli sostenne che dire che Dio ha una sostanza incorporea equivale a dire che non esiste affatto. I teologi che l’hanno chiamato incorporea non hanno mirato a determinare la sua natura, ma solo hanno voluto, con più intenzione, designarlo con un attributo onorifico che allontanasse da lui la grossolanità dei corpi.

«Come gli aritmetici insegnano a sommare e sottrarre numeri, così i geometri insegnano a sommare e sottrarre linee, figure solide superficiali, angoli, proporzioni, tempi, velocità, forze e simili; i logici insegnano la stessa cosa a proposito delle conseguenze delle parole, unendo insieme due nomi per fare un’affermazione e due affermazioni per fare un sillogismo e molti sillogismi per fare una dimostrazione; e dalla somma o conclusione di un sillogismo essi sottraggono una proposizione per trovarne un’altra. Gli scrittori di politica addizionano insieme parti per trovare i doveri degli uomini e gli avvocati leggi e fatti per trovare il diritto e il torto nelle azioni dei privati. Insomma in ogni campo in cui c’è posto per l’addizione e la sottrazione, c’è anche posto per la ragione, e dove queste operazioni non trovano un loro posto, la ragione non ha nulla da fare». (Leviatano, tr. it., Bari 1911-1912, par. 5).

Nicolas de Malebranche (1638-1715)

Come accadde per tutti i grandi movimenti di pensiero passati anche per il cartesianesimo si assistette alla nascita di una scolastica, cioè di un tentativo di utilizzarlo ai fini di una spiegazione religiosa. Come periodo storico la scolastica si è conclusa alla metà del secolo XIV, quando con l’Umanesimo e il Rinascimento si è iniziata l’età moderna.

La scolastica cartesiana e l’occasionalismo. Essa si avvale della filosofia e del linguaggio di Cartesio così come la scolastica medioevale si avvaleva del linguaggio dei neoplatonici o di Aristotele. L’occasionalismo trova la sua forma migliore nella teoria della “visione in Dio” di Malebranche. Egli nacque a Parigi e fu padre della Congregazione dell’Oratorio, fondata dal cardinale Berulle, amico di Cartesio, per promuovere la elaborazione scientifica della dottrina della Chiesa. Gli studi dell’Oratorio erano orientati più verso Agostino che Tommaso, e quando Malebranche lesse il trattato dell’uomo di Cartesio, gli parve di avere scoperto una via che accordandosi con l’agostinismo poteva consentirgli la difesa e l’illustrazione della verità della fede.

Ora l’utilizzazione dei capisaldi della filosofia cartesiana per la costruzione di una filosofia scolastica doveva necessariamente determinare una rielaborazione di quei capisaldi. Malebranche accetta il principio fondamentale della filosofia cartesiana: l’oggetto immediato della conoscenza è l’idea. Ora le idee sono per Malebranche degli esseri reali e, in più, degli esseri spirituali assai differenti dai corpi che rappresentano e superiori a questi corpi tanto quanto il mondo intelligibile è più perfetto del mondo materiale. Ma quando anche esse fossero degli enti piccolissimi e disprezzabili, non potrebbero mai essere prodotti dalle cose esterne, e neppure dall’anima. Produrre vuol dire creare, e nessuna creatura, neppure l’uomo, ha potenza di creare. Malebranche nega decisamente che l’uomo partecipi sotto questo aspetto alla natura di Dio. Egli afferma con l’occasionalismo che la vera e unica causa di tutto ciò che accade è Dio e che l’uomo scambia per cause le occasioni di cui la volontà divina si serve per mandare a effetto i suoi decreti. Conseguentemente, la tesi di Malebranche è che l’anima umana vede direttamente in Dio le cause di tutte le cose. In primo luogo, difatti è necessario che Dio abbia in sé l’idea di tutti gli esseri che ha creato altrimenti non avrebbe potuto crearli. In secondo luogo, Dio è strettamente unito alle nostre anime dalla sua presenza, sicché si può dire che egli è il luogo degli spiriti al modo stesso che lo spazio è il luogo dei corpi. È certo quindi che lo spirito può vedere in Dio le opere di Dio, posto che Dio voglia rivelargli ciò che vi è in lui. Si vede qui come Malebranche unisca insieme la tesi cartesiana di Dio garante della verità delle nostre idee e la tesi agostiniana della presenza di Dio nell’uomo come luce e guida della sua ragione. Sostanziale differenza intercorre tra la dottrina di Cartesio e di Malebranche per quanto riguarda il comportamento di Dio come garante delle verità eterne. Cartesio vede in Dio un principio filosofico e a lui si appella unicamente per trovare nella sua volontà immutabile una garanzia dei princìpi della sua filosofia e della sua fisica. All’opposto predomina in Malebranche l’interesse religioso, il compito di quest’ultimo è quello di condurre l’uomo a una chiarezza razionale intorno a Dio ed alle verità della fede. Quindi secondo Malebranche non è che la volontà di Dio garantisce all’uomo la verità dei princìpi e delle verità eterne, ma piuttosto le verità eterne rivelano all’uomo la volontà divina nelle sue regole necessarie.

«Coloro che studiano la fisica non ragionano mai contro l’esperienza ma neppure concludono mai per l’esperienza contro la ragione. Essi esitano quando non vedono il mezzo di passare dall’una all’altra; esitano, dico, non sulla certezza dell’esperienza né sull’evidenza della ragione, ma sul mezzo di mettere d’accordo l’una con l’altra. I fatti della religione o i dogmi stabiliti sono le mie esperienze in materia di teologia. Mai io le revoco in dubbio: questo mi regola e mi conduce all’intelligenza. Ma quando, cercando di seguirli, mi sento urtare contro la ragione, mi arresto subito, ben sapendo che i dogmi della fede e i princìpi della ragione devono essere d’accordo nella verità, quale che sia l’opposizione che essi hanno nel mio spirito». (Colloqui sulla metafisica, la religione e la morte, tr. it., Cinisello Balsamo 1999, p. 14).

Blaise Pascal (1623-1662)

Se il materialismo divide Hobbes da Cartesio, lo unisce invece con lui la fede nella potenza della ragione e nell’ordine geometrico delle cose. E a questa fede nella ragione si appiglia anche Malebranche, nonostante la diversità del compito attribuito alla filosofia. Pur concependo scolasticamente la filosofia come strumento per raggiungere e dimostrare la fede, Malebranche non ha distrutto né diminuito il carattere puramente razionale della filosofia. Alla fede nella ragione si sottrae invece Pascal.

Nato a Clermont Pascal diresse i suoi studi, nella gioventù, verso le matematiche, a sedici anni, compilava un Trattato delle sezioni coniche e a diciotto anni inventava una macchina calcolatrice. In seguito fece numerose esperienze sul vuoto e sull’equilibrio dei liquidi, esperienze rimaste classiche. Anche nella maturità gli studi matematici lo tennero occupato: la teoria della ruolette, il calcolo delle probabilità e altre invenzioni ne sono il frutto. Quando la vocazione religiosa divenne chiara in lui egli si scrisse tra i solitari di Port-Royal, fra i quali vi era una sua sorella carissima: Jacheline.

Tra i capolavori di Pascal troviamo Le lettere provinciali, che sono famose per la loro profondità e il loro umorismo, e che costituiscono uno dei primi monumenti letterari della lingua francese. Nelle prime lettere Pascal controbatte la dottrina del gesuita spagnolo Molina, che sosteneva come la salvezza fosse sempre a portata di mano dell’uomo, il quale se vive in seno alla Chiesa possiede una grazia sufficiente, che lo salva se è suffragata dalla buona volontà. Tale tesi era posta a fondamento della pratica di proselitismo che avevano iniziato i gesuiti, pratica diretta a conservare nel seno della Chiesa il massimo numero possibile di persone, anche quelle dotate di scarsa religiosità interiore. Pascal, seguendo in ciò anche le teorie di Giansenico sosteneva come il peccato originale ha tolto all’uomo la libertà di volere e lo ha reso incapace del bene e necessariamente inclinato al male. Dio soltanto concede agli eletti, per i meriti di Cristo, la grazia della salvezza. Gli eletti sono dunque pochi, disseminati in tutto il mondo; e sono tali unicamente per la grazia salvatrice di Dio.

Mentre lavorava alle Lettere e attendeva al suo solito lavoro scientifico Pascal veniva lavorando a una apologia del cristianesimo che doveva essere la sua opera maggiore: purtroppo la morte lo colse a soli 39 anni, ponendo fine a una vita che si era mantenuta malferma sin dall’infanzia. I frammenti della sua opera apologetica furono raccolti dai suoi amici e pubblicati col titolo di Pensieri.

Cartesio aveva aperto alla ragione umana tutte le vie e tutti i campi possibili, Pascal per la prima volta ne riconosce i limiti. Fuori della ragione e delle sue possibilità, cade, secondo Pascal, il mondo propriamente umano, la vita morale, sociale e religiosa dell’uomo. Ma anche nel mondo della natura, dove la ragione è arbitra, il suo potere incontra un duplice limite.

Il primo limite è l’esperienza. L’esperienza non vale, come riteneva Cartesio, solo a decidere quale delle diverse spiegazioni possibili, che la ragione presenta di un dato fenomeno sia la vera: essa deve valere come norma uniforme e guida delle spiegazioni razionali, che devono da essa prendere fondamento. L’altro limite della ragione nel campo delle scienze è determinato dalla indeducibilità dei princìpi primi. I princìpi che sono a fondamento del ragionamento sfuggono al ragionamento, il quale non può né dimostrarli e neppure confutarli.

Gli scettici che cercano di confutarli non vi riescono. Ora l’impossibilità della ragione di dimostrare i princìpi primi, prova, non la incertezza di questi princìpi, ma la debolezza della ragione. Dunque nello stesso dominio che le è proprio, quello della conoscenza della natura, la ragione incontra dei limiti; e questi limiti sono i limiti stessi dell’uomo. Tuttavia nell’ambito di questi limiti, la ragione è arbitra. Dove la ragione dimostra la sua totale e congenita incapacità è nel dominio dell’uomo.

Pascal muove allo studio dell’uomo per il bisogno della comunicazione, che non è soltanto comunicazione con gli altri ma anche comunicazione con se stesso, cioè chiarezza e sincerità. Con Pascal si continua l’opera di Montaigne: per lui come per Montaigne l’uomo è l’unico tema della speculazione filosofica e questa speculazione lo coinvolge incessantemente nei suoi procedimenti.

Il compito essenziale dell’uomo è quindi di conoscere se stesso; ma per questo compito la ragione non serve a nulla. Come guida dell’uomo essa è debole e incerta, facilmente cede al sentimento. Niente è dunque così conforme alla ragione che il disconoscimento della ragione; disconoscimento che è insieme un riconoscimento, il riconoscimento di un’altra via di accesso alla realtà umana, che è il cuore. Il cuore dice Pascal ha ragioni che la ragione non conosce; intendere e far valere le cause del cuore è il compito dello spirito di finezza. La ragione viene definita da Pascal spirito di geometria, e il cuore spirito di finezza. Nello spirito di geometria i princìpi sono difficili a trovarsi, ma una volta trovati non sfuggono più in quanto essi sono ben visibili e palpabili: nello spirito di finezza i princìpi sono così sottili che più che vederli si devono intuire e pur essendo così sottili si prendono subito in quanto sono una parte insita nell’uomo. In altri termini, secondo Pascal, possiamo dire che lo spirito di Geometria “ragiona” e lo spirito di finezza “comprende”.

Come parte della natura l’uomo è situato tra due infiniti: l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, ed è incapace di comprendere sia l’uno che l’altro. Egli è un niente in confronto all’infinitamente grande ed è un tutto in confronto all’infinitamente piccolo, dall’altro canto è un mezzo tra il tutto e il niente. Infinitamente lontano dal comprendere gli estremi, la fine delle fini e il loro principio gli sono nascosti in un segreto impenetrabile. Egli è ugualmente incapace di vedere il niente da cui è tratto e l’infinito dal quale è inghiottito. Questa condizione dell’uomo determina l’intera natura di lui. Egli è qualche cosa, ma non è tutto; ciò che ha dell’essere gli nasconde la conoscenza delle prime origini che si radicano nel nulla; e il poco che possiede dell’essere gli nasconde parimenti la vista dell’infinito. Ora poiché l’uomo non può riconoscersi nel suo essere se non in confronto dell’essere; non può riconoscersi nel suo errore, nel suo dubbio, nella sua miseria, se non in confronto della verità, del bene e della felicità; tale riconoscimento della propria miseria è l’inizio di un calvario che lo porta alla fede. La fede è per Pascal un atteggiamento totale che impegna tutti gli aspetti dell’uomo fin nella loro radice. Il problema della ricerca è quello di realizzare la fede, anzi di realizzarsi nella fede e mediante la fede. Tutte le attività umane devono essere coinvolte in questa ricerca.

E una volta che si è acceso il lume della fede tutte le tenebre si dileguano, ed egli può esclamare quelle parole che furono trovate scritte in un documento cucito nel suo vestito: “Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Non dei filosofi e degli scienziati. Certezza, certezza, sentimento, gioia, pace. Dio di Gesù Cristo”.

Baruch de Spinoza (1632-1677)

La ragione di cui Cartesio aveva chiarito la natura e le regole si apprestava a celebrare i suoi trionfi nei grandi sistemi del Seicento. Il primo di questi sistemi è quello di Spinoza.

Nato ad Amsterdam da una famiglia ebraica che era stata costretta ad abbandonare la Spagna per l’intolleranza religiosa di quel paese, venne educato nella gioventù dalla comunità religiosa israelitica di Amsterdam, da cui però venne ben presto scomunicato ed espulso per eresie praticate e insegnate. In ottemperanza al precetto rabbinico che prescrive ad ogni uomo di imparare un lavoro manuale, egli aveva appreso l’arte di fabbricare è pulire lenti per strumenti ottici. Questo mestiere lo mise in grado di sopperire sufficientemente ai suoi limitati bisogni e gli dette una certa fama che precedette quella sua di filosofo.

Dei suoi scritti uno solo uscì con il suo nome, i rimanenti furono anonimi. Questo scritto era una sorta di compendio della filosofia di Cartesio, seguito da un’appendice di Pensieri Metafisici nei quali venivano accennate le divergenze dell’autore da Cartesio. In seguito comparve il Trattato teologico-politico destinato a dimostrare come in una libera comunità dovrebbe essere lecito ad ognuno pensare quello che vuole e dire quello che pensa. Frattanto egli veniva lavorando alla sua opera fondamentale, l’Ethica ordine geometrico demonstrata che circolando manoscritta venne pubblicata solo dopo la morte dell’autore, in quanto Spinoza era convinto che appena fosse uscita sarebbe stata condannata. A quarantaquattro anni Spinoza moriva di tubercolosi: la sua vita era stata quella che doveva essere a causa della sua filosofia; la vita di un uomo libero, senza passioni, dedicato esclusivamente alla filosofia ed alieno da ogni atteggiamento eroicizzante o retorico.

Cartesio aveva ridotto a un rigido meccanismo, a un ordine necessario, l’intero mondo della natura; ma ne aveva escluso l’uomo quanto sostanza pensante. La sostanza estesa è meccanismo e necessità, secondo Cartesio; ma la sostanza pensante, la ragione umana, è libertà. Spinoza rivolge la sua attenzione soprattutto all’uomo, alla sua vita morale, religiosa politica; e il suo tentativo è quello di ridurre l’intera esistenza umana allo stesso ordine necessario che Cartesio aveva riconosciuto soltanto nel mondo della natura. Necessità e libertà, meccanismo e ragione, si distinguono e si oppongono secondo Cartesio; si identificano secondo Spinoza.

Spinoza intende così ristabilire quell’unità dell’essere che Cartesio aveva infranto con la separazione delle sostanze e che a lui era stata insegnata dalla tradizione neoplatonica ancora viva nella comunità giudaica nella quale si era formato. La filosofia di Spinoza parte dalla valutazione della natura e della perfezione di Dio, ma giunge a una concezione del mondo che appaga tutte le esigenze della scienza fisica.

La tradizionale teologia e la nuova scienza si fondono insieme intimamente nell’opera di Spinoza. Il punto di fusione, il concetto centrale che la rende possibile, è quello della sostanza. Cartesio aveva distinto tre sostanze, la pensante, l’estesa, la divina; per Spinoza non esiste altra sostanza che Dio, non c’è altra realtà indipendente che Dio stesso. Dio diventa allora l’origine, la fonte, di ogni realtà, l’unità assoluta dalla quale soltanto può scaturire il molteplice della cose corporee e degli esseri pensanti. Spinoza cerca in tal modo di ricondurre alla unità neoplatonica gli aspetti della realtà che Cartesio aveva diviso: specialmente le passioni e la ragione dell’uomo e tutto ciò che nasce dalle passioni e dalla ragione; la moralità, la religione, la vita politica. Da ciò è tratto ad annullare ogni separazione tra la natura e Dio e ad identificarli, come aveva fatto Giordano Bruno; a considerare i decreti di Dio come leggi della natura e reciprocamente; a togliere all’azione di Dio ogni carattere arbitrario e volontario e quindi all’ordine del mondo ogni carattere finalistico. Ma nello stesso tempo Spinoza intende far servire questa filosofia della necessità alla libertà dell’uomo e perciò pone tale libertà, non nell’arbitrio, ma nel riconoscimento dell’ordine necessario, riconoscimento a causa del quale l’uomo lascia agire in se stesso la necessità dell’ordine divino del mondo.

Ora poiché la sostanza divina è la prima ed unica realtà e la conoscenza di Dio è la prima ed unica conoscenza vera, si capisce come tutta la filosofia di Spinoza verta su un unico problema: il problema della sostanza. Egli così chiarisce questo problema: scarta la dottrina della creazione, in quanto, come si è visto, si fonda sull’impossibile riduzione del modo di agire della sostanza al modo di agire dell’uomo; perché creare significherebbe intelletto, volontà, arbitrio, scelta, tutte cose che la sostanza divina non possiede. Scarta pure la dottrina dell’emanazione che avrebbe fatto della filosofia di Spinoza una copia esatta di quella di Bruno; non bisogna dimenticare che tra i due si trovano Galilei Bacone Cartesio Hobbes, Spinoza ricorre, e in ciò sta l’originalità del suo pensiero, all’ordine geometrico e dice: l’ordine necessario, costitutivo della sostanza, è un ordine geometrico. Quindi la sostanza spinoziana non è l’unità ineffabile dalla quale scaturiscono le cose per emanazione. Non è neppure la natura infinita che per la sua sovrabbondanza genera infiniti mondi, secondo il naturalismo di Giordano Bruno. Ma dalla sostanza divina, i singoli mondi scaturiscono così come scaturiscono dalla geometria i singoli teoremi, corollari, lemmi.

«Proposizione XXXII. La volontà non può essere chiamata causa libera, ma solo causa necessaria. Corollario I. Ne deriva che: 1) Dio non opera mediante la libertà della sua volontà. Corollario II. Ne deriva che: 2) la volontà e l’intelletto hanno verso la natura di Dio lo stesso rapporto che il moto e la quiete, e, in senso assoluto, tutte le cose naturali che (per la Prop. 29) devono essere determinate da Dio a esistere e a operare in un certo modo». (Etica e Trattato Teologico-politico, tr. it., Torino 1988, pp. 115-116).

Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716)

La dottrina di Spinoza è una filosofia dell’ordine geometrico del mondo. La dottrina di Leibniz, che afferma con altrettanta energia l’ordine del mondo, vede in esso una creazione liberata, l’armonizzare spontaneo di attività che escludono ogni legge necessitante.

Nato a Lipsia, si rivelò ben presto di eccezionali doti di ingegno, che gli permisero una cultura vastissima e una notevolissima operosità in tutti i campi dello scibile, dalla storia alla geologia, dalla fisica alla matematica e alla filosofia. Assunto come bibliotecario della Casa dei prìncipi di Hannover ha lasciato in quella biblioteca una massa di manoscritti in gran parte ancora inediti. Sebbene Leibniz non sia mai stato un filosofo di professione, egli ha portato in tutte le disparate manifestazioni della sua attività un’esigenza sistematica e universalistica, che è di natura schiettamente filosofica. Quale fosse il problema particolare considerato, subito era da lui ricondotto a un principio generale e riconosciuto come l’elemento o l’espressione di un sistema universale. Tutta la sua filosofia non è altro che un tentativo di fondere e di giustificare la possibilità di un tale sistema.

Uno studio sommario del pensiero leibniziano si può ordinare secondo le tre sue massime opere: Monadologia, Nuovi saggi e Teodicea, che ci offrono rispettivamente la metafisica, la gnoseologia e la teologia.

Il concetto chiave di tutta la metafisica leibniziana è che ogni sostanza è una monade. La monade è un punto di forma, punto non già fisico o matematico, ma metafisico, ossia assolutamente inesteso. Ora è da rilevarsi come una tale concezione della sostanza corporea sia agli antipodi di quella cartesiana che faceva il corpo estensione inerte. Ma mentre Cartesio, fisso nell’aspetto dell’estensione, entificava la materia ed escludeva in tal modo l’attività, Leibniz entifica la forma ed esclude l’estensione. Naturalmente sorge allora il grave problema dell’aspetto esteso con cui il corpo corporeo ci si presenta. La spiegazione che Leibniz si sforza di dare in senso realistico non sembra che davvero riesca nel suo intento. Tale concezione della sostanza, se per un lato si oppone alla concezione cartesiana, per l’altro si oppone a quella spinoziana. Nella dottrina di Spinoza le sostanze individuali non sono riconosciute se non come modi dell’unica sostanza divina, sono cioè negate come sostanze individuali, il che succede in ogni forma di panteismo. Il monadismo leibniziano vuole essere una energica rivendicazione della sostanza individuale. Le singole monadi sono dei mondi chiusi in se stessi, senza contatto reciproco, senza influsso. La loro differenza è nel grado della conoscenza e della conseguente appetizione. Ora per potere intendere la differenza tra le monadi occorre tenere presenti due princìpi: il principio degli indiscernibili e il principio della continuità. Secondo il primo non vi sono due monadi uguali, perché ne costituirebbero una sola. Secondo l’altro principio la differenza tra una monade e le successive non si riduce a un grado determinato: la differenza tra due monadi per minima che si supponga non è determinabile. Si costituisce così un mondo nel quale della monade infima si passa alla monade suprema, Dio, per un’infinità di sfumature. In ciascuna delle monadi è rappresentativamente tutto l’universo; in altri termini si può dire che ogni monade sia un punto di vista differente su uno stesso panorama. Anche il rapporto delle monadi con Dio non è precisato, esse hanno origine da lui per folgorazione: concetto che nasconde piuttosto che risolve chiaramente il problema. Leibiniz sostiene che tra le monadi non esistano dei rapporti di influenza reciproca; ma esse si svolgono parallelamente secondo un’armonia prestabilita.

In occasione della pubblicazione del Saggio sull’intelletto umano di Locke, che sostiene il concetto della esperienza e della natura sperimentale delle nostre conoscenze, Leibniz sviluppò i suoi concetti di gnoseologia, i quali dicono come la conoscenza sia tutta innata e il suo progredire si spieghi non come un acquisto dall’esterno ma come una chiarificazione dall’interno. Determinato quindi il processo conoscitivo come chiarificazione di un contenuto oscuro, Leibniz precisa i princìpi secondo i quali tale processo ha luogo. Essi sono il principio di contraddizione e il principio di ragione sufficiente. L’uno regola il mondo dei possibili, l’altro il mondo degli esistenti; l’uno le verità necessarie, l’altro le verità contingenti; l’uno le verità di ragione, l’altro le verità di fatto.

La Teodicea fu scritta da Leibniz in contrapposizione al Dizionario storico e critico dello scettico Bayle ove si poneva in dubbio l’esistenza di Dio, presumendola incompatibile con l’esistenza del male nel mondo. Egli assume la difesa di Dio e, oltre alle prove dell’esistenza di Dio, prove che aveva già formulate nella Monadologia, accogliendo, trasformandole secondo lo spirito del suo sistema, le prove di già elaborate dalla tradizione medioevale, cerca di effettuare una conciliazione del male con la Provvidenza divina. Vi sono tre tipi di male: il male morale, come il peccato; il male fisico, come le malattie; il male metafisico che ha la sua radice nell’imperfezione della natura. Ora siccome i due primi mali hanno radice nel terzo possiamo dire che il male ha origine dal male e non dal bene. Quindi il problema si riduce a quello del male metafisico, male che ha le proprie radici nella creature, in quanto creature non finite e quindi imperfette. Ci si può chiedere come Dio che ha creato queste creature l’abbia create imperfette, mentre, avrebbe potuto crearle perfette. Dio, secondo Leibniz, è libero, però la sua libertà non è arbitrio, come aveva detto Cartesio. La sua libertà è autodeterminazione; quindi se Dio ha creato il mondo l’ha fatto perché esso è bene.

«Nulla accade nel mondo che sia assolutamente irregolare e non si può neppure immaginare nulla di simile. Supponiamo che qualcuno segni a caso sulla carta una quantità di punti: dico che è possibile trovare una linea geometrica la cui nozione sia costante e uniforme secondo una regola determinata e tale che passi per tutti questi punti proprio nell’ordine in cui la mano li ha tracciati […]. Così si può dire che in qualunque modo Dio avesse creato il mondo, il mondo sarebbe stato sempre regolare e fornito di un ordine generale». (Discorso di metafisica, in Saggi filosofici e Lettere, tr. it., Bari 1963, par. 6).

La rivoluzione inglese

Incomincia la rivolta calvinista in Scozia. Patto solenne degli Scozzesi di mantenere la religione calvinista (covenant).

Motivi fiscali. Il re cerca di minacciare e corrompere il parlamento. Ma questi si dimostra radicale creando un proprio esercito e facendo appello al popolo.

Il parlamento aveva diverse correnti:

Presbiteriani: in maggioranza volevano poteri limitati al massimo al sovrano.

Indipendenti: puritani, abbattimento della monarchia e della repubblica.

Levellers: democratici, soppressione della camera dei Lords e tolleranza religiosa.

Approfittando della rivolta antiprotestante in Irlanda, il re tenta un colpo di Stato che non riesce e lo costringe alla fuga. Scoppia la guerra civile diretta da due partiti: i cavalieri (favorevoli al re) e le teste rotonde (favorevoli al parlamento).

Prime difficoltà dei rivoluzionari. Poi Oliver Cromwell organizza un corpo di cavalleria gli ironside e dopo un regolare esercito. Sconfitta di Carlo I che cade nelle mani dei suoi nemici. Condanna a morte.

Cromwell governa cercando di soffocare la rivolta irlandese e un tentativo realista in nome di Carlo II. Sorgono correnti rivoluzionarie religiose estremiste: i Digger (uguaglianza sociale e abolizione della proprietà privata), i quacqueri (egualitaria, religiosa, parità dei sessi, pacifisti, avversi alla gerarchia). Cromwell per far fronte a tutti questi ostacoli trasforma 1’oligarchia in governo personale come Lord Protettore della Repubblica d’Inghilterra, Scozia e Irlanda nel 1653.

Restaurazione monarchia con Carlo II Stuart. Le riforme cromwelliane favorirono lo sviluppo del capitale e degli investimenti, come pure la formazione della rendita fondiaria. Questo avvenne favorendo le enclosure e gli investimenti nell’agricoltura. La spinta verso l’iniziativa commerciale internazionale e lo sviluppo marinaro fu efficace. Tesi del mercantilismo.

Cromwell propose un accordo commerciale all’Olanda che avrebbe dato piena libertà ai mercanti inglesi nei mercati controllati dall’Olanda. L’Olanda rifiuta. Cromwell emette allora l’Atto di Navigazione con il quale il commercio con l’Inghilterra era riservato solo a navi inglesi o del paese di origine delle merci importate. Seguì una guerra che finì con la vittoria inglese e la rottura del monopolio commerciale e marittimo olandese. Gli Olandesi furono costretti a riconoscere l’Atto.

In cambio della protezione al Portogallo l’Inghilterra poté aprirsi una strada anche nel sistema commerciale-coloniale portoghese in America, Africa e Asia.

Le colonie erano fornitrici di materia prima e si avviavano a diventare importanti mercati per le manifatture inglesi (tessuti). Dopo la restaurazione questa parte della politica di Cromwell rimase perché favorevole al capitale.

«Se nel mondo religioso non si trova il problema della rivolta, si è che in verità non vi si trova alcuna problematica reale, tutte le risposte essendo date in una volta. La metafisica è sostituita dal mito. Non ci sono più interrogativi, ci sono soltanto risposte ed eterni commenti, che possono allora essere metafisici. Ma prima di entrare nel campo religioso, ed anche per entrarvi, o appena ne esce, ed anche per uscirne, l’uomo è interrogazione e rivolta. L’uomo in rivolta è l’uomo che sta prima o dopo l’universo sacro, e si adopera a rivendicare un ordine umano in cui tutte le risposte siano umane, cioè razionalmente formulate, Da quell’istante, ogni interrogazione, ogni parola è rivolta, mentre nel mondo religioso, ogni parola è rendimento di grazie. Sarebbe possibile mostrare così come non vi possano essere per uno Spirito umano che due soli universi possibili, l’universo religioso (o per parlare il linguaggio cristiano della grazia), e quello della rivolta. La scomparsa dell’uno equivale alla comparsa dell’altro, sebbene questa comparsa possa avvenire in forme sconcertanti. Anche qui, ritroviamo il Tutto o Niente. L’attualità del problema della rivolta deriva solo dal fatto che oggi intere società hanno voluto assumere una posizione di distanza rispetto ad ogni universo sacro. Viviamo in una storia sconsacrata. L’uomo, certo, non si riassume nell’insurrezione. Ma la storia di oggi, con le sue contestazioni, ci costringe a dire che la rivolta è una delle dimensioni essenziali dell’uomo. È la nostra realtà storica. A meno di fuggire la realtà, dobbiamo trovare in essa i nostri valori. Si può, lungi dall’universo religioso, dai suoi valori assoluti, trovare una regola di condotta? È questa la domanda posta dalla rivolta. [...]. La solidarietà degli uomini si fonda sul movimento di rivolta, questo, reciprocamente, solo in tale complicità trova giustificazione. Saremmo dunque in diritto di dire che ogni rivolta che si autorizzi a distruggere questa solidarietà perde con questo il nome di rivolta e coincide in realtà con un assenso omicida. Allo stesso modo questa solidarietà, fuori dell’universo religioso, prende vita soltanto sul piano della rivolta. Il vero dramma della rivolta del pensiero è allora annunciato. Per essere, l’uomo deve rivoltarsi, ma la sua rivolta deve rispettare il limite che scopre in se stessa; limite nel quale gli uomini, venendo a raggiungersi, cominciano ad essere. Il pensiero informato alla rivolta non può dunque prescindere dalla memoria: esso è tensione perpetua. Seguendolo nelle opere e negli atti, dovremo dire, ogni volta, se rimanga fedele alla sua primitiva nobiltà oppure, per stanchezza e pazzia, se ne scordi, in un’ebbrezza di tirannia o di servitù. Intanto, ecco il primo progresso che lo spirito di rivolta fa compiere a una riflessione da principio compenetrata dell’assurdità dell’apparente sterilità del mondo. Nell’esperienza, assurda, la sofferenza è individuale. A principiare dal moto di rivolta, essa ha coscienza di essere collettiva, è avventura di tutti. Il primo progresso di uno spirito intimamente straniato sta dunque nel riconoscere che questo suo sentirsi straniero, lo condivide con tutti gli uomini, e che la realtà umana, nella sua totalità, soffre di questa distanza rispetto a se stessa e al mondo. Il male che un solo uomo provava diviene peste collettiva. In quella che è la nostra prova quotidiana, la rivolta svolge la stessa funzione del “cogito” nell’ordine del pensiero: è la prima evidenza. Ma questa evidenza trae l’individuo dalla sua solitudine. È un luogo comune che fonda su tutti gli uomini il primo valore. Mi rivolto, dunque siamo. [...]. La rivolta metafisica è il movimento per il quale un uomo si erge contro la propria condizione e contro l’intera creazione. È metafisica perché contesta i fini dell’uomo e della creazione. [...]. [... L’insorto metafisico] si erge su di un mondo in frantumi per rivendicarne l’unità, oppone il principio di giustizia che sta in lui al principio d’ingiustizia che vede all’opera nel mondo. Non vuole dunque nient’altro, primitivamente, che risolvere questa contraddizione, instaurare il regno unitario della giustizia, se può, oppure, ove lo si spinga agli estremi, dell’ingiustizia. Intanto, denuncia la contraddizione. Protestando contro la condizione in ciò che essa ha d’incompiuto a causa della morte, e di disperso, a causa del male, la rivolta metafisica è la rivendicazione motivata di una unità felice, contro la sofferenza di vivere e di morire. Se la pena di morte generalizzata definisce la condizione degli uomini, la rivolta, in certo senso, è ad essa contemporanea. Nel tempo stesso che rifiuta la propria condizione mortale, l’uomo in rivolta rifiuta di riconoscere il potere che lo fa vivere in questa condizione. L’insorto metafisico non è dunque sicuramente ateo, come si potrebbe credere, ma necessariamente blasfemo. Semplicemente, egli bestemmia innanzi tutto in nome dell’ordine, denunciando in Dio il patire della morte e il supremo scandalo. [...]. Se l’insorto metafisico si erge contro una potenza di cui, simultaneamente, afferma l’esistenza, non pone quest’esistenza se non all’istante stesso in cui la contesta. Egli trascina allora quest’essere superiore nella stessa avventura umiliata dell’uomo, il suo vano potere equivalendo alla nostra vana condizione. Lo sottomette alla nostra forza di rifiuto, lo inchina a sua volta davanti a quella parte dell’uomo che non s’inchina, lo integra con la forza in un’esistenza assurda rispetto a noi, lo trae infine dal suo rifugio atemporale per immetterlo nella storia, ben lungi da una stabilità eterna che non potrebbe trovare se non nel consenso unanime degli uomini. La rivolta afferma così che, al suo livello, ogni esistenza superiore è per lo meno contraddittoria. La storia della rivolta metafisica non può dunque confondersi con quella dell’ateismo. Sotto un certo aspetto anzi, essa si confonde con la storia contemporanea del sentimento religioso. Più che negare, l’uomo in rivolta sfida. Primitivamente almeno, non sopprime Dio, gli parla semplicemente da pari a pari. [...]. La ribellione umana sfocia in una rivoluzione metafisica. Procede dal sembrare al fare, dal dandy al rivoluzionario. Rovesciato il trono divino, il ribelle riconoscerà che quella giustizia, quell’ordine, quell’unità che cercava invano nella sua condizione, è ora suo compito crearli con le proprie mani, e giustificare così la destituzione di Dio. Allora comincerà uno sforzo disperato per fondare, a prezzo del delitto se occorre, l’impero degli uomini». (A. Camus, L’uomo in rivolta, tr. it., in Opere, vol. II, Milano 1969, pp. 347-349, 353-355).

John Locke

Sul tronco centenario dell’empirismo inglese che va da Ruggero Bacone a Ockham, da Bacone da Verulamio a Hobbes, si innesta l’esigenza critica e problematica della speculazione di John Locke. Dopo gli studi di Oxford entrò nella casa del conte Shaftesbury come precettore, medico, segretario e amico. Dopo la caduta e la morte del suo patrono si mantenne fedele all’ideale dei Wight, di cui era stato il capo autorevole. Dall’esilio olandese ritornò quando il liberalismo trionfava con Guglielmo d’Orange. Tra le sue opere principali sono da ricordare, oltre al Saggio sull’intelletto umano, i Pensieri sull’educazione e i Due trattati del governo civile.

Il Saggio sull’intelletto umano ci fa apparire la filosofia di Locke come gnoseologia, in quanto esso risulta impostato come una indagine intorno al processo conoscitivo. Si può riassumere in due punti: origine della conoscenza, e conseguentemente, valore della conoscenza. Quanto all’origine della conoscenza Locke nega che ci siano idee innate: tutto il primo libro del saggio è diretto a tale dimostrazione, in polemica con Cartesio e con la scuola platonica di Cambridge. Se le idee fossero innate nessuno le potrebbe ignorare, neppure i bimbi, i selvaggi, gli indotti. Il senso della sua argomentazione sta, in fondo, nel dichiarare inconcepibile una conoscenza che non si conosca. Come si vede la critica del principio innatista diventa l’enunciazione del principio empiristico: ogni nostra conoscenza ha inizio dall’esperienza. Fatta questa premessa Locke passa a precisare la genesi sperimentale delle conoscenze. In due modi l’esperienza è fonte di tutto il processo conoscitivo: come sensazione, per la quale ci vengono le idee di ciò che è esterno e come riflessione per la quale ci vengono le idee di ciò che è a noi interno. Dall’esperienza sorgono le idee semplici di caldo, freddo, duro, amaro, ecc.; la riflessione sarebbe quindi una sensazione interna. È da notarsi che tanto nella riflessione quanto nella sensazione il soggetto passivo subisce soltanto, quasi che l’oggetto gli si imprima. Dalle idee semplici sorgono poi le idee complesse, grazie alle possibilità intellettive del soggetto che unisce, disgiunge, complica, analizza, sintetizza. Per quanto riguarda il valore delle idee Locke opera la distinzione di idee semplici e idee complesse, che aveva già fatto nella prima parte del Saggio. Le idee semplici sono da considerarsi veraci in quanto il soggetto se le trova costituite così come sono, senza avere sopra di esse alcun potere. Quanto alle altre idee Locke professa un rigoroso nominalismo. Esse non sono altro che un nome con il quale convenzionalmente si indica un complesso di individui. Egli si ferma in modo particolare all’esame delle idee di sostanza: secondo Locke le sostanze materiali esistono ma sono inconoscibili. Con l’idea del ferro, per esempio, non indichiamo se non l’insieme di certe qualità e proprietà, diverse da quell’insieme che indichiamo con l’idea del piombo, la sostanza non è altro che una collezione di idee semplici. Ora pur ammettendo la sostanza materiale come inconoscibile, Locke ne ammette l’esistenza in quanto essa esiste come causa delle sensazioni.

Anche la dottrina politica ed etica di Locke risente dell’indirizzo empiristico della sua gnoseologia. Il fondamento della morale è la tendenza al proprio benessere. Tale benessere non è concepito come bruto egoismo, ma come ricerca di una utilità nella quale concorrono i valori più diversi.

Locke, infine, immagina la società originata per contratto. A differenza di Hobbes però la società non costituisce lo stato di natura ma lo continua. In altri termini, lo stato di società è migliore dello stato di natura; gli uomini allo stato di natura erano buoni, tuttavia sorsero degli inconvenienti, per i quali pensarono di unirsi in società. La società sorse quindi per libero contratto.

La dottrina di Locke e quella di Hobbes avranno una grande efficacia nello sviluppo delle dottrine politiche del secolo XVIII.

«Io intendo per ragione, non quella facoltà dell’intelletto che forma il discorso e deduce gli argomenti, ma alcuni determinati princìpi pratici dai quali emanano le fonti di tutte le virtù nonché tutto ciò che è necessario a formar bene i costumi, giacché, ciò che da questi princìpi correttamente si deduce, a buon diritto si dice conforme alla retta ragione». (Saggi sulla legge naturale, tr. it., Roma-Bari 1973, p. 111).

L’età dell’assolutismo

Luigi XIV. Il problema del nuovo equilibrio politico tra le classi sociali che nasceva dall’ascesa della borghesia venne risolto, anziché in modo rivoluzionario, rafforzando il potere del monarca. La cosa era fattibile in quanto la borghesia sembrava avesse come unico scopo, quello di inserirsi nelle fila della nobiltà più che porsi contro di essa.

In Francia l’esperimento ebbe luogo all’indomani della morte di Mazzarino. Luigi XIV decise di assumere personalmente la direzione del paese. I Ministri videro ridotta la loro autorità. Il Primo Ministro fu abolito. Gli intendenti, nelle varie zone, videro accresciuta l’autorità e quindi l’autonomia locale diminuì di molto. Si estese al massimo la vendita degli uffici. I poteri parlamentari si restrinsero. Verso i nobili si applicò la politica di portarli a Versailles e di dare loro cariche senza potere effettivo, costringendoli a vivere nella cornice fastosa della corte e legandoli in tal modo direttamente alla persona del re.

Lo sviluppo economico. Colbert mercantilista. Crea le manifatture reali. Applica forti tariffe protezioniste sull’importazione di manufatti stranieri ma la cosa crea tali difficoltà internazionali che deve essere abrogata. Crea compagnie commerciali che non sopravvissero a lui. Ma questo programma era in contrasto con l’idea di Luigi XIV dell’egemonia politica in campo internazionale, concepita in termini tradizionali della gloria personale del sovrano, della grandezza dinastica e dell’espansione del territorio nazionale.

Le guerre di Luigi XIV. Filippo IV dimostrava chiaramente la decadenza spagnola. La prima sua figlia, moglie del re di Francia, aveva una dote che non poté essere pagata. I giuristi francesi escogitarono un diritto di devoluzione in uso nel Brabante, secondo il quale solo ai figli di primo letto spetta l’eredità. Era una scusa per l’invasione della Fiandre spagnole. Vittoria francese. Dodici città fiamminghe vengono annesse.

Olanda. Preoccupazioni olandesi per l’espansione francese. Contrasti tra il paese protestante e quello cattolico. Inefficienza militare olandese. Dopo l’invasione si decise la rottura delle dighe. Rivolta popolare di cui si impadronisce lo Stathouder esautorando il Pensionario.

La guerra si allarga. L’Olanda si allea col Brandeburgo, con la Spagna, con l’imperatore, con i prìncipi tedeschi. Scoppia la rivolta di Messina e Luigi invia una piccola flotta per aiutare i ribelli. Scoppiano rivolte contro il fisco all’interno della Francia. I Francesi finiscono per averne la meglio. La pace di Nimega dà la peggio alla Spagna che deve cedere la Franca Contea e un’altra parte delle Fiandre. L’Olanda ne esce indenne e riesce a fare abrogare il protezionismo francese.

Per dieci anni si sviluppa incontrastato il dominio di Luigi XIV. Si hanno le “riunioni”, cioè annessioni pacifiche di territori di cui i giuristi e gli storici avevano rintracciata una qualche parvenza nel diritto francese. La più importante fu l’annessione di Strasburgo, priva di fondamento.

Luigi cerca di spingere Genova a rompere con la Spagna. La città rifiuta ed egli la bombarda dal mare senza risultato.

Lega di Augusta. Luigi XIV occupa il Palatinato saccheggiando e distruggendo. Sconfitto però sul mare deve rinunciare alla guerra navale. Si accorda col papa, per cui la corte si aprì all’influenza dei gesuiti. La pace vide Luigi molto remissivo perché all’interno della Francia la pressione fiscale era alle stelle e per di più era scoppiata la carestia. Per avere la possibilità di imporre una tassa sul clero si dovette rafforzare il potere dell’alto clero, provocando quella divisione che avrebbe avuto la sue conseguenze nel 1789.

La guerra di successione spagnola. Carlo II era senza eredi. Ci si accorda per la spartizione dei domini. Ma egli lascia un testamento dove nomina Filippo d’Angiò, pronipote di Luigi XIV, alla successione. Luigi accetta e s’incomincia a interessare delle questioni ereditarie. Una compagnia francese, di cui Filippo e Luigi erano principali azionisti gestisce il commercio degli schiavi negri, ecc. Preoccupazioni delle altre nazioni.

Si forma la Grande alleanza dell’Aia (Inghilterra, Olanda, l’Imperatore, alcuni prìncipi tedeschi). Dall’altro lato, Spagna, Francia, Portogallo e Savoia. Ma questi ultimi due cambiano campo con gravi conseguenze. Sconfitte francesi su tutti i fronti, lo stesso territorio francese è minacciato d’invasione. Nel 1709 fece un terribile freddo. Eccezionale carestia, prezzi altissimi.

La pace chiesta da Luigi XIV era inaccettabile in quanto prevedeva che si muovesse guerra a Filippo V. Ma poi tutto cambia. Muore l’imperatore e succede il pretendente al trono di Spagna. Poiché nessuno voleva la riunione di Spagna e Impero, si ritirano dall’allenza. Il trattato di pace vede la fine della politica di grandezza francese. La Francia perde parte delle colonie che vengono divise tra l’Inghilterra, l’imperatore e la Savoia. La Spagna deve cedere i suoi domini.

L’inghilterra ottiene il monopolio del commercio degli schiavi e la possibilità di mandare ogni anno un vascello di permissione in America di 500 tonnellate. Il contrabbando fa il resto.

L’Austria ebbe le Fiandre, lo Stato di Milano, il regno di Napoli e la Sardegna. Al Duca di Savoia la Sicilia col titolo di re, il Monferrato. La Spagna ritenta di impadronirsi della Sicilia e di Napoli ma non ci riesce. Ulteriore appendice della guerra che finisce con un trattato che sposta il Duca di Savoia dalla Sicilia alla Sardegna e dà la Sicilia all’imperatore.

L’Imperatore e i Turchi. Nel corso delle guerre di Luigi XIV i Turchi attaccano l’impero. Un’armata di 200.000 uomini marcia su Vienna assediandola. Il re di Polonia prende il comando delle truppe cristiane e sconfigge i Turchi a Kahlenberg. Gli Austriaci si impadroniscono dell’Ungheria dando il primo assetto all’impero austro-ungarico. La Russia approfitta del collasso turco spingendosi fino in Crimea. Venezia conquista posizioni in Dalmazia. Il disfacimento dell’impero turco sarebbe continuato lentamente per secoli.

L’assolutismo religioso di Luigi XIV. L’assolutismo si estendeva al clero che come tutti gli altri corpi sociali doveva essere a disposizione del sovrano. La tradizione gallicana si fonde con l’assolutismo. La questione dell’unità della fede era importante anche perché uno Stato con più fedi non è unito. Regalia temporale. Viene estesa a tutto il paese (diritto di riscuotere le rendite delle diocesi vacanti). Regalia spirituale. Nuovo diritto del re di nominare i titolari di benefizi. Innocenzo XI rifiuta di riconoscere questi diritti. Luigi convoca un’assemblea di vescovi francesi che li approva. Poi c’è la lotta contro gli Ugonotti, iniziata larvatamente perché titolari di fortune finanziarie. Qui si ha la frattura tra mercantilismo colbertiano e assolutismo del re.

Pietro il Grande. La permanenza della servitù della gleba, la sua espansione, danno alla società della Moscovia (Russia nel 1600) un aspetto diverso. Quindi violente rivolte contadine (Razin). Il lavoro coatto non era soltanto nell’agricoltura ma fu esteso all’industria. In Russia, quindi, si può dire che la necessità dell’assolutismo emerse dal fatto che bisognava rafforzare il potere statale allo scopo di mantenere il sistema di rapporti sociali che aveva come centro la subordinazione servile dei contadini.

La lotta contro i boiari e le loro pretese indipendentistiche (il loro organo rappresentativo era la Duma). Eliminazione dell’organo rappresentativo della piccola nobiltà cittadina. Formazione di un apparato burocratico e di un mercato nazionale. Questi gli elementi che determinarono la possibilità dell’assolutismo.

Pietro I era cresciuto a contatto con la colonia di stranieri (Tedeschi, Olandesi, ecc.) di Mosca e qui aveva avuto una notevole preparazione, strana per il resto della Russia. Fa un viaggio di istruzione, si interessa di costruzioni navali.

La rivolta dei soldati professionisti lo costringe a tornare. Repressione feroce. Ammoderna la moda a la mentalità. Elimina la Duma e la sostituisce con un Senato di nove membri nominato dallo zar. Nomina un Santo Sinodo, fatto da lui, che gestisce la vita spirituale della Chiesa ortodossa. Promuove l’istruzione pubblica e istituisce l’Accademia delle scienze. Trasforma la burocrazia con la tabella dei gradi, in tutto quattordici, equiparati in tutti i settori. All’ottavo grado si aveva il titolo di nobile e la possibilità di avere servi. Quindi espansione dell’aristocrazia.

Guerra contro gli Svedesi per gli sbocchi sul mare. Prima alleati della Russia sono Polonia e Danimarca, poi la Polonia deve abbandonare. I Russi sconfiggono disastrosamente gli Svedesi a Poltava. La Russia acquista così una la preminenza nel Baltico e spegne l’imperialismo svedese.

«E come è del pensiero individuale, è del pensiero storico: poiché tutti quanti siamo legati in una sola vita di civiltà, da una medesima esperienza storica che si produce nei secoli, tutti pensiamo un solo pensiero; e in ciascuno rivive il pensiero della civiltà, a cui tutti cooperarono. Nel pensiero del filosofo degno del secolo XX dev’essere pensato il pensiero di tutti i filosofi della nostra civiltà; pensato, e corretto. L’errore, come ogni disvalore, è momento negativo dello spirito: e perciò è irreale. Esso è quel difetto di se medesimo, che lo spirito nota avanti a sé nell’atto di affermarsi, e colmare quindi il difetto stesso. Non c’è affermazione dello spirito che non sia la negazione del contrario, e quindi una dichiarazione d’errore. Onde l’errore viene ad essere quasi la molla dell’affermazione: una molla, che non è mai senza lo scatto: errore, che errore è, in quanto corretto e quindi non più tale. Di reale, insomma, noi non conosciamo che l’atto dello spirito: e, come questo atto è essenzialmente produttivo e creativo, il presupposto logico, ideale, del prodotto suo è la negazione, l’assenza di tale prodotto; che è il disvalore, l’errore. Felix culpa quae talem ac tantum meruit habere redemptorem! La colpa di Adamo si rinnova sempre felicemente, ed è sempre sanata da tale e tanto redentore, dal dio infaticabile della nostra attività spirituale. L’errore ci resta sempre alle spalle, e noi guardiamo avanti, sempre avanti, alla luce sempre viva del vero». (G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 125-126).

«Ma in ogni problema storico determinato il sistema filosofico suppone da un lato la ragion filosofante, la logica, dall’altra la storia anteriore della filosofia, che condiziona la logica, in quanto le offre la materia del problema filosofico: e il sistema viene a essere una sintesi a priori di questo duplice elemento di sintesi, di cui la ragione è l’unità originaria. Sicché scomporre il sistema in ciò che ha di vero e in ciò che ha di falso importerebbe questo principio: che si possa disconoscere quest’unità sintetica, reale, storica, che è l’atto essenziale del sistema. Sarebbe uccidere la storia, e spezzare la vita che il pensiero filosofico ha realmente vissuta. Uccisione, del resto, impossibile: perché, se astraete il vero dal falso, additando e raccogliendo, per tessere la vostra tela storica, un vero che non c’è stato mai, perché dove avrebbe dovuto essere, non fu così astrattamente concepito, senza il falso: voi avrete sempre un vero da cui non potrete procedere alla ricognizione storica degli altri veri, onde pur sapete che quello si venne via via integrando. Non potrete procedere, perché il vero come tale, il vero che sarà riconosciuto vero, per sè, non avrebbe mai potuto provocare un’affermazione ulteriore. L’affermazione ulteriore non può nascere se nella posizione antecedente del pensiero non c’è un disagio da eliminare, se non c’è un errore da superare. D’altra parte, se quest’errore si concepisce, alla sua volta, astrattamente, senza relazione con la verità del sistema, né anch’esso potrebbe agire sullo spirito come movente di progresso ulteriore; perché l’errore, come tale, non ha valore, per lo spirito, e non ha realtà: è un non pensiero, che non può fermare e interessare il pensiero». (Ib., p. 130).

«Ogni problema della nostra storia è una vittoria dello spirito trionfante della materia, che gli si oppone misteriosa e suscita in lui il bisogno d’intendere. Socrate con la sua ricerca di quel che ogni cosa è, ricerca serena, franca, di spirito pago della propria superiorità sulla filosofia contemporanea, forte della sua fede religiosa, sicuro della coscienza della sua moralità, leggermente e amabilmente ironico, sveglia nell’animo del nobile figliuolo di Aristone, già scolaro di un eracliteo, un problema da lui insospettato. Questo problema urge su uno spirito nuovo, e chiede una nuova soluzione: ma questo nuovo spirito non potrà darla se non in quanto spirito logico, ossia quella medesima ragione che ragionava in Socrate. Quella stessa ragione che s’appagava del socratismo, ne diviene scontenta: ha bisogno di una realtà trascendente che giustifichi la verità dei concetti immutabili di fronte alla realtà perennemente mutevole: e il socratismo diventa un errore, rispetto all’esigenza nuova che sarà appagata dalla teoria delle idee. La quale storicamente, nell’origine sua, sarebbe inintelligibile senza il socratismo, che ne è l’antecedente erroneo (dal punto di vista platonico) e il motivo dialettico. Senza l’errore socratico la condizionalità storica del platonismo non sarebbe assegnabile; e il progresso della ragione si renderebbe inintelligibile». (Ib., pp. 131-132).

«Il pensiero, di cui si afferma la verità per la considerazione precedente, il solo pensiero di cui si possa affermare la verità, poiché in fatti è il solo pensiero che realmente sia pensiero, non è il pensiero astratto, ma il pensiero concreto. E la difficoltà che nasconde ordinariamente alla coscienza del filosofo l’ovvia verità enunciata di sopra consiste nel cercare il pensiero nel pensiero astratto invece che nel pensiero concreto: quando, per esempio, diciamo pensiero il pensiero altrui o il pensiero nostro già pensato; ossia, in ambo i casi, non propriamente il pensiero reale, ma il solo oggetto del pensiero, nella sua astratta oggettività». (Ib., pp. 183-184).

«Questo bensì è un primo momento del pensare il pensiero altrui, o nostro e non più nostro (passato). Se questo momento non fosse mai superato, il pensiero altrui sarebbe soltanto nostro (per noi), e il pensiero passato sarebbe soltanto presente. Non conosceremmo se non il pensiero nostro attuale. Al primo momento ne tien dietro un altro; e si vedrà appresso perché. Qui basta avvertire che questo secondo momento, reso possibile dal primo, se annulla l’attualità del pensiero altrui, o nostro e non più nostro, l’annulla in un nuovo atto di pensiero; per cui l’oggettività nuova (la vera o effettiva oggettività) conferita a cotesto pensiero, che il nostro pensiero espelle da sé e considera pertanto come oggettivo, è realizzata in funzione del nuovo pensiero, nostro e attuale; ed è un membro organico dell’unità immanente di questo». (Ib., pp. 184-185).

«Quello, adunque, che si dice pensiero d’altri, o nostro in passato, è in un primo momento il nostro pensiero attuale, e in un secondo momento una parte del nostro pensiero attuale: parte inscindibile dal tutto cui appartiene, e reale perciò nell’unità del tutto stesso. E però il solo pensiero concreto è il pensiero nostro attuale. E poiché il pensiero nostro non attuale non è più nostro, si può dire che il solo pensiero concreto è il pensiero assolutamente nostro (salvo a vedere a suo luogo il significato di questo Noi soggetto del nostro pensiero) . E si può dire egualmente, che il solo pensiero concreto è il pensiero assolutamente attuale, poiché il pensiero non nostro non è attuale pensiero». (Ib., p. 185).

«Il pensiero assolutamente nostro, o assolutamente attuale, è vero appunto perché nostro o attuale. L’errore è del pensiero impensabile: è di ciò che altri pensa e noi non possiamo pensare, o che pensammo già noi, ma ora non riusciamo più a pensare. Quello che attualmente pensiamo, se lo pensiamo, lo pensiamo come verità. (Pensiamo bensì l’errore, come errore: ma pensando che è errore, e pensando così il vero). E l’errore non è un attributo accidentale del pensiero altrui, o non più nostro; anzi necessario. Se questo pensiero non attuale lo diciamo natura, al motto del naturalismo: Natura sive Deus, bisogna sostituire il motto idealistico: Natura sive error. Giacchè cotesto pensiero non è attuale, perché vien superato, come s’è veduto: cioè perché noi, dopo averlo pensato, non lo possiamo più pensare, e per continuare a vivere in quanto esseri pensanti, dobbiamo pensar altro. Ora ciò che non si può più pensare, dopo essersi pensato, è appunto l’errore. L’errore, dunque, è astratto; soltanto la verità è concreta». (Ib., pp. 186-187).

«Se il pensiero è nostro in quanto è universale, se gli altri o l’altro non sono se non in funzione di un’astrattezza, qual è il pensiero nella sua astratta oggettività, il pensiero non esce dalla nostra individualità: ma la nostra individualità, se è nostra perché intima a noi, o meglio perché intima, presente a se stessa, è universale, anzi l’universale concentrato e però fatto reale nell’Uno della coscienza. Il noi soggetto del nostro pensiero non è l’Io che ha di contro a sé il non Io (altro) o altri Io (altri); e però non è l’Io empirico, quale apparisce alla osservazione psicologica: uno tra molti; ma l’Io assoluto, l’Uno come Io. Il quale nega se stesso non solo come pensiero delle cose e di altri Io (di altri, si badi, non degli altri Io), ma anche come pensiero di sé empiricamente concepito, come un Io tra molti Io o tra le cose: poiché un Io siffatto è un particolare tra particolari, e non più quindi quell’universale che è il vero Io. Codesto Io particolare, in cui l’Io nega se stesso (e deve negare se stesso) è natura, non pensiero. Il vero idealismo non può essere dunque solipsista, perché ha superato la posizione del solipsismo (concetto del mondo chiuso dentro l’ipse particolare)». (Ib., p. 190).

«Il pensiero assolutamente attuale, o Io assoluto, non essendo soggetto al tempo, non è soggetto al numero. Incipis numerare, incipis errare. Il numero non è per questo un semplice auxilium imaginationis, se non in quanto si adoperi a fissare innanzi alla mente il processo della dialettica nell’eterno snodarsi dei suoi momenti. Esso è astrattezza legittima ove si riferisca alla realtà astratta (natura, o pensiero nella sua pura oggettività). La natura, perché negazione del pensiero, è negazione dell’unità, è però numero. Così è negazione della libertà, cioè meccanismo. La molteplicità, astrattamente considerata, come pura molteplicità, non si può intendere se non meccanicamente. La natura perciò va concepita deterministicamente come soggetta alla categoria della causalità». (Ib., p. 191).

«La natura, molteplice e meccanica appunto perché astratta, è una realtà oggetto di una scienza astratta (scienza particolare) non della scienza concreta (filosofica); e la soluzione di tutte le antinomie della ragione, additate da Kant, è subito trovata appena s’avverta l’astrattezza della natura, o del mondo guardato nella sua pura oggettività. Questo mondo del tempo e dello spazio è necessariamente finito, perché necessariamente particolare. Non contiene nessun elemento semplice, perché la sua legge è la molteplicità: molteplicità, che sarebbe disperata, poiché il numero postula, come suo elemento, l’unità, se l’unità nel regno del molteplice dovesse essere un’unità assoluta, anziché una unità provvisoria e quindi arbitraria, come può essere appunto la determinazione del particolare, che rimanda la difficoltà al concetto di un altro particolare. Così la serie delle cause in un sistema meccanico (non filosofico) ha bensì un principio, che rende possibile il determinismo; ma questo principio non è assoluto, perché relativo a una realtà particolare, che ne ha sempre un’altra dietro e accanto a sè. E infine nel mondo non c’è niente di necessario, perché tutto è particolare, e quindi tutto è condizionato. Lo sforzo logico che contrappone a ciascuna tesi la sua antitesi, supera l’astrattezza del mondo kantiano, e troverà quella realtà concreta, a cui spetta appunto essa antitesi. Passa dal mondo dei fatti, che sono molti e nient’altro che molti (di una molteplicità in sé contraddittoria, appena si voglia pensarla assolutamente) al mondo dell’atto che è uno, come radice dei molti». (Ib., p. 192).

«Se oltre a questo altro dal pensiero che è pensiero passato (logicamente, non cronologicamente passato), più o meno remoto, si ponesse un altro, originariamente opposto al pensiero, questo verrebbe a spogliarsi eo ipso di tutti i suoi attributi essenziali, dalla unità, su su, per tutti quelli già esposti, fino alla verità. E non sarebbe più pensiero. Cogito, ergo sum; sum substantia cogitans; quatenus substantia, in me sum et per me concipior; hoc est, mei conceptus non indiget conceptu alterius rei, a quo formari debeat. Nulla, insomma, trascende il pensiero. Il pensiero è assoluta immanenza». (Ib., p. 193).

«Il reale è dunque autoctisi, perché pensiero. Pensiero è il primo albore della coscienza (ogni fatto psichico in quanto coscienza, cioè in quanto atto); pensiero è tutta la coscienza, fino alla filosofia. La quale perciò ha due essenziali momenti: 1° è realtà, quella realtà che è pensiero (onde sono annullate tutte le forme di scepsi): la stessa nella reale celebrazione della propria intimità; 2° è concetto, pensiero, coscienza della realtà, e quindi intrinseco superamento del momento anteriore. E l’essere è la coscienza dell’essere; la vita è lo specchio della vita. E ciò in conformità della essenza dell’atto puro (autoctisi) in generale: essere in quanto coscienza dell’essere». (Ib., p. 195).

«Non pure le scienze morali sono in una continua vicissitudine di dottrine, ma le stesse scienze naturali, cui il Galilei attribuiva una subordinazione ferrea a ferree leggi di una Natura mitica, superiore alle menti umane e nulla curante, nella sua eterna essenza, delle umane determinazioni, ci si sono svelate, per la notizia dei loro presupposti non mai definitivi, un edificio tutto nostro, a cui si lavora, e si lavora di continuo, costruendo e ricostruendo sempre da capo; e le stesse matematiche pur nelle loro proposizioni più semplici e indiscusse, pur nell’ambito di certi postulati, ci sono apparse costruzioni spirituali, che non possono avere valore né significato se non in quanto si tornano sempre a ricostruire, e per lo spirito ricostruttore. In guisa che nulla vi ha di determinato se non in quanto si determina». (Ib., pp. 246-247).

«Bisogna in vero fare una distinzione netta tra fatto e atto di pensiero. Se dico che Emanuele Kant ha definito il giudizio come una sintesi a priori, io enuncio un fatto, ma non è un fatto questo concepirlo che fo come un fatto. Che la dottrina di Kant sia un fatto, significa che il suo essere non esclude nella mia mente il suo non essere. Kant, si pensa, avrebbe potuto anche non formulare cotesta dottrina, tant’è vero che, secondo critici, non avrebbe dovuto. E se non doveva, dunque poteva non formularla. Ma nel punto che io enuncio questo fatto, il mio pensiero di ciò non è un fatto, perché, se io penso codesto, non posso non pensarlo, né pensare altrimenti, il mio pensiero è necessario, universale, vero, vero, si badi, nell’atto del pensarlo. E quindi esso non è fatto, ma atto. Ebbene, non solo il mio pensiero è un atto, ma se ci si riflette bene, neanche quello di Kant è un fatto, se non a patto di considerarlo, anzi che come pensiero, come la negazione, piuttosto, del pensiero. Giacché un pensiero che sia un pensiero, è un pensiero che s’intende, ossia un pensiero, di cui si scorga la logica, che si valuti e insomma si faccia nostro. Nel fare la storia della filosofia p. e., non è lecito uscire in proposizioni di questo genere: – Il tale ha detto questo, e non stiamo a cercare il perché. – Appunto nel perché di un pensiero, nella sua logicità sta la sua concreta significazione e stavo per dire fisonomia; e finchè noi sappiamo, come si dice, materialmente che cosa uno dice, senza penetrare il senso delle sue parole, noi non sappiamo nemmeno propriamente quello che dice. E quando penetriamo quel senso e lo penetriamo davvero, come tocca di fare a ogni critico, a ogni storico rispetto agli autori di cui si occupa, allora il pensiero altrui è pensiero nostro, e non è più un fatto, poiché ha in sé la sua ragione, il suo valore, né può essere più altrimenti da quel che è. Allora il pensiero, sempre, apparisce pensiero logico. Ma questa sua logicità è aderente, anzi immedesimata con l’attualità sua, per modo che scorgerla non è possibile senza entrarvi dentro e far nostro, assolutamente nostro, il pensiero che si vuol intendere: farlo, cioè, atto per l’appunto di quel noi, nel quale non è possibile distinguere tra me e altri, tra me che leggo Kant, intendendolo a fondo, e Kant che scrisse l’opera da me letta; secondo ci accade sempre che un’intensa lettura ci assorbisce e ci fa obliare, come si dice, nel pensiero altrui, che in realtà non è allora se non pensiero nostro. La nostra esperienza, dunque, non è fatto contingente, ma logica necessaria. Non è a posteriori, ma, si badi, non è né anche a priori. Non è a posteriori, perché è necessaria: ogni suo ritmo ci si presenta investito dall’intrinseca necessità logica, che è libertà: non cioè determinazione subita, ma determinazione in cui si celebra la natura stessa più intima del pensiero. Ma non è né anche a priori, perché è esperienza: ossia perché l’assoluta sua libertà richiede che l’atto suo non sia preceduto da nessuna predeterminazione, di nessuna sorta. Nel suo concetto, insomma, si annulla la vecchia opposizione di a priori e a posteriori, in quanto tale. Ed essa può definirsi come la vera sintesi o unità di cotesti due termini». (Ib., pp. 248-251).

L’opposizione all’assolutismo

In Inghilterra Carlo II aveva dovuto approvare l’Habeas corpus. Dopo l’avvento di Guglielmo d’Orange con la “Dichiarazione dei diritti” si riaffermò il principio che il sovrano è tenuto ad adeguarsi alla volontà della nazione espressa dal parlamento.

La borghesia mercantile si organizza nel partito Whig e i proprietari terrieri nel partito Tory. La ricchezza e la proprietà diventano fonti di potere pubblico non solo del sangue e della nascita. Si emette l’atto di tolleranza (esclusi i cattolici e gli atei). Dopo Gugliemo d’Orange la successione fu offerta a Giorgio di Hannover.

La teoria del diritto naturale di Grozio, sollecitava una ricerca nella direzione opposta all’assolutismo. Col giusnaturalismo fiorirono le critiche. Spinoza, Pufendorf, Locke.

Origine del pensiero liberale. Deismo. Toland. I progressi della scienza. Newton.

In Francia si diffonde il giansenismo. Port-Royal. Pascal. Teoria della grazia distribuita da Dio in modo che gli uomini non possono comprendere. S.Agostino. Spirito antiautoritario, rigorista, antigesuitico.

Si affaccia lo spirito critico. Bayle. Francia: modificazioni dell’assolutismo e speculazioni finanziarie.

Alla morte di Luigi XIV, il reggente Filippo d’Orleans, accogliendo il malcontento del paese, smantella parzialmente l’apparato assolutistico. L’aristocrazia mercantile e finanziaria è la base per una soluzione di tipo diverso del problema. Strumenti. La carta moneta e il credito pubblico diretto agli investimenti nel commercio coloniale. Sistema di John Law.

L’Inghilterra era diventata la sostenitrice del principio dell’equilibrio tra gli Stati. Equilibrio nei rapporti commerciali e nelle zone di sfruttamento. Gli Asburgo rompono l’equilibrio iniziando un’intensa attività di scambi con i Turchi attraverso Trieste. La Spagna dà privilegi commerciali alle navi austriache nelle colonie spagnole. L’Inghilterra sostiene che questa iniziativa altera l’equilibrio europeo e si avvicina alla Francia, dove c’erano da sempre correnti antiasburgiche.

Guerra di successione polacca. La corrente francese favorevole alla guerra ha il sopravvento. Al trono possono accedere un parente di Luigi XV e Augusto di Sassonia, nipote dell’imperatore. La dieta polacca, spinta dal denaro francese, sceglie il parente di Luigi. La Russia e l’Austria entrano in Polonia per imporre la proclamazione di Augusto II di Sassonia.

La guerra si combatté in Italia ed è breve. Pace di Vienna. L’Austria fa le spese del conflitto. La Toscana va al duca di Lorena, dove si era estinta la dinastia Medici. Il ducato di Parma e Piacenza è annesso all’Austria, che deve però cedere Napoli e Sicilia che dopo due secoli riacquista l’indipendenza. Il regno di Sardegna ha i distretti di Novara e Tortona.

La Russia attacca l’impero turco insieme all’Austria, ma la Francia interviene e pone fine alla guerra facendo restituire ai Turchi i territori occupati. La Russia deve rinunciare all’espansione in Crimea, per cui si viene a consolidare in Oriente l’influenza della Francia.

Guerra di successione austriaca. Questo aumento delle possibilità francesi in Oriente e il fatto che il governo spagnolo non rinnova l’“asiento” e prende misure per stroncare il contrabbando, spinge l’Inghilterra a dichiarare guerra alla Spagna in nome del principio della libertà dei mari.

L’occasione di allargare il conflitto è data dalla morte dell’imperatore, nuovo re di Prussia, Federico II, l’elettore di Baviera, la Spagna e il re di Sardegna non riconoscono la successione di Maria Teresa. La Francia entra in campo e Maria Teresa è costretta a cedere la Slesia a Federico II e a fare ampie concessioni alla nobiltà ungherese.

L’Inghilterra entra in campo. La guerra si svolge in Germania, in Italia, nel Belgio e nelle colonie. Con la pace l’Inghilterra ottiene il rinnovo dell’“asiento”. Maria Teresa viene riconosciuta. La Francia non ottiene nulla.

Guerra dei sette anni. Gravi contrasti coloniali franco-inglesi, per la concorrenza nei Caraibi per il commercio dello zucchero, i contrasti tra coloni inglesi e francesi nell’America settentrionale, e le preoccupazioni inglesi per la penetrazione della Francia nell’India.

L’Austria dopo un immenso lavoro diplomatico, rovesciando le tradizioni, giunge a un’alleanza con la Francia, mentre l’Inghilterra si allea con la Prussia.

Guerra coloniale. L’Inghilterra s’impegna a fondo nelle colonie, sconfitte francesi e spagnole. Capitolazione francese in India.

Guerra in Europa. Federico II assale la Sassonia. Sconfigge inizialmente i Francesi e gli Austriaci, ma poi è travolto. I Russi arrivano quasi a Berlino, mentre gli Inglesi non possono aiutarli impegnati nelle colonie. Ma muore la zarina di Russia e Pietro II si allea con la Prussia. Si ha la pace.

Trattato di Parigi. Con questo trattato la colonizzazione inglese si trasforma da impero territoriale in zone strategiche per la prevalenza del commercio mondiale.

«Direi che la méthode de l’immanence insista sull’insufficienza dell’esperienza umana e crei quindi l’aporia della privazione e della mancanza (su cui per contrasto si determina poi la trascendenza). Quando Blondel passerà a la méthode de l’implication il suo itinerario speculativo acquista una distensione più larga, perché sono compresenti in esso tre aspetti: il pensiero, l’essere, l’azione. Però anche qui l’indigenza permane, sicché l’implicazione rappresenta una richiesta di integrazione della natura umana su un piano che non sembra più solo naturale. Ci si viene a trovare in quel punto preciso che segna il limite tra il finito e l’infinito, punto a proposito del quale il Blondel usa la parola spirito, vita spirituale. Il Blondel ha elaborato insistentemente e a fondo questa inquietudine, e non ha esitato a concludere che essa non è inerente alla natura umana in quanto tale, e non può dirsi quindi “naturale”. Come potrebbe essere naturale se quell’inquietudine è l’espressione di un desiderio che è inefficace rispetto all’Infinito? Ricco di tradizione così viva nella struttura vitale del Cristianesimo soprattutto cattolico, tale concetto va precisato con quello di status viae. È questo concetto che serve a stabilire una differenza tra uomo come natura e uomo che sia in via, in traccia di una meta. Ora, questo status coinvolge tutta l’umanità. La tradizione è la specificazione nelle diverse razze e sistemi culturali religiosi di quello status. Direi che le condizioni della ragione umana sine statu (cioè senza illuminazione elevativa) sono quelle per cui essa è tutta disposta o a considerare tanto prossima a sé la divinità da identificare Dio con la propria essenza intellettiva (panteismo), ovvero a considerare del tutto lontana da sé la divinità stessa al punto da ignorarla o da poterla misconoscere (agnosticismo assoluto o ateismo). Con l’elevazione illuminativa originaria invece si fa avanti alla ragione la misteriosa realtà di Dio come altro dall’uomo stesso e tuttavia presente a esso. È questa l’unica posizione che ammetta la trascendenza di Dio e in pari tempo la sua immanenza come presenza in noi. Lo stato di decadenza della ragione in seguito al peccato non è tale da spazzar via questa posizione acquisita allo status dell’uomo per quanto duri la vita della persona e dell’umanità intera nella sua storia. Così abbiamo tre aspetti della ragione: a) ratio o intellectus sine status; b) ratio o intellectus in statu elevationis originario; c) ratio o intellectus in statu deviato ma animato in una prospettiva di liberazione finale. Il Blondel ebbe sempre vivo questo senso di Dio; e l’utilizzazione metafisica che egli fece del suo metodo d’immanenza rinviò sempre a questo senso di Dio misteriosamente nascosto e in pari tempo presente in noi». (R. Lazzarini, Le forme del sapere e il messaggio dell’intenzione, Padova 1972, pp. 160-161).

Premesse della rivoluzione industriale

La popolazione. Secolo XVIII come spartiacque tra passato e mondo contemporaneo. Il primo dato della svolta è il movimento demografico. Aumento della popolazione, elevata percentuale di giovani, slancio e audacia divennero caratteristiche del secolo. La resistenza alle malattie resero possibile la trasformazione agricola e lo sviluppo del commercio internazionale.

Il capitalismo nelle campagne. Intensificazione delle colture, maggiore rendimento del suolo, nuovi sistemi produttivi, largo impiego di capitali nella terra. La struttura tradizionale del villaggio entra in crisi. Gli usi civici vengono attaccati in nome della libera iniziativa. Le enclosures, iniziate in Inghilterra nel XVI secolo, diventano fenomeno europeo. Si mutano quindi i rapporti di lavoro.

La fisiocrazia. L’agricoltura base della ricchezza. Opposizione al mercantilismo. Comincia il liberismo. Quesnay. Propugna la divisione delle terre comuni, l’abolizione dei diritti di pascolo, la chiusura dei terreni, la libertà del commercio dei grani, l’abolizione degli abusi feudali e dei privilegi fiscali. Smith. Verso la rivoluzione industriale e la rivoluzione borghese. La trasformazione delle strutture agrarie determina la nascita della grande industria moderna, dapprima in Gran Bretagna. Un secolo agrario come il Settecento si conclude con la rivoluzione industriale. Il vecchio artigiano che produceva per un mercato ristretto viene superato.

«Tutto ciò che esiste, tutto ciò che vive sulla terra e sotto le acque, non esiste, non vive che in grazia di un movimento qualunque. Così il movimento della storia produce i rapporti sociali, il movimento industriale ci dà i prodotti industriali, ecc. Nello stesso modo in cui, a forza di astrazione, abbiamo trasformato ogni cosa in categoria logica, così è sufficiente fare astrazione da ogni carattere distintivo dei differenti movimenti per arrivare al movimento allo stato astratto, al movimento puramente formale, alla formula puramente logica del movimento. Se nelle categorie logiche si trova la sostanza di ogni cosa, si può ben immaginar di trovare nella formula logica del movimento il metodo assoluto che non solo spiega ogni cosa, ma che implica anche il movimento della cosa. Si tratta appunto di quel metodo assoluto di cui Hegel parla nei termini seguenti: “Il metodo è la forza assoluta, unica, suprema, infinita, alla quale nessun oggetto potrebbe resistere; è la tendenza della ragione a ritrovarsi, a riconoscersi come se stessa in ogni cosa”. (Logica, vol. III). Essendo ogni cosa ridotta a una categoria logica, ed ogni movimento, ogni atto di produzione, al metodo, ne segue naturalmente che ogni complesso di prodotti e di produzione, di oggetti e di movimento, si riduce a una metafisica applicata. Ciò che Hegel ha fatto per la religione, il diritto, ecc., il signor Proudhon tenta di farlo per l’economia politica. E allora che cosa è dunque questo metodo assoluto? L’astrazione del movimento. Che cosa è l’astrazione del movimento? Il movimento in astratto. Che cosa è il movimento in astratto? La formula puramente logica del movimento, ovvero il movimento della ragione pura. In che consiste il movimento della ragione pura? Nel porsi, opporsi, comporsi; nel formularsi come tesi, antitesi, sintesi; ovvero nell’affermarsi, negarsi, e negare la propria negazione. Come dal movimento dialettico delle categorie semplici nasce il gruppo, così dal movimento dialettico dei gruppi nasce la serie, e dal movimento dialettico delle serie nasce l’intero sistema. Applicate questo metodo alle categorie della economia politica, ed avrete la logica e la metafisica della economia politica, o, in altri termini, avrete le categorie economiche, conosciute da tutti, tradotte in un linguaggio poco noto, che conferisce loro la parvenza di essere di fresco sbocciate in una testa che è ragione pura; a tal punto queste categorie sembrano generarsi le une dalle altre, concatenarsi e intersecarsi le une nelle altre, attraverso il solo lavorio del movimento dialettico. Non si spaventi il lettore di questa metafisica con tutta la sua impalcatura di categorie, di gruppi, di serie e di sistemi. Il signor Proudhon, ad onta del suo affannarsi a scalare le altezze del sistema delle contraddizioni, non ha mai potuto elevarsi al di sopra dei due primi gradini della tesi e della antitesi semplici, e, di più, avendo tentato di scavalcarli solo due volte, di queste due volte, una volta è caduto a gambe all’aria. Comunque noi non abbiamo esposto, fino a questo momento, che la dialettica di Hegel. Vedremo in seguito come il signor Proudhon sia riuscito a ridurla alle più meschine proporzioni. Così, per Hegel, tutto ciò che è avvenuto e che avviene tuttora, è, né più né meno, quello che avviene nel suo ragionamento. Così la filosofia della storia non è più che la storia della filosofia, e della filosofia sua personale. Non vi ha più la storia secondo l’ordine dei tempi; vi ha solo la successione delle idee nell’intelletto. Egli crede di costruire il mondo col movimento del pensiero, mentre non fa che ricostruire sistematicamente, e ordinare sotto la legge del metodo assoluto, i pensieri che sono nella testa di tutti». (K. Marx, Miseria della filosofia, tr. it., Roma 1949, pp. 88-89).

L’Illuminismo. Berkeley e Hume

Il secolo XVIII è detto il secolo dei lumi per la sua particolare mentalità, conscia ed esaltantesi nella persuasione del valore supremo della ragione astratta. L’Illuminismo, ha scritto Kant, è l’uscita degli uomini da una minorità a essi stessi dovuta. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo intelletto! è il motto dell’Illuminismo.

La scienza nel secolo XVII aveva posto le suo basi con Galileo e raggiunto un alto grado di sviluppo con Keplero e Newton. La natura che durante i secoli precedenti era sempre apparsa all’uomo come qualcosa di misterioso e disordinato, svelava ora il segreto del suo ordine e della sua armonia; l’uomo, nel possesso della legge, si sentiva dominatore e padrone di ciò che solo pochi anni prima lo aveva atterrito e sconvolto.

La filosofia nel secolo XVII aveva assunto una intonazione più libera, più disinvolta e insieme più serrata nella impostazione critica di Cartesio. Fiduciosa di sé e sprezzante del passato, aveva cercato di tradurre nel suo proprio dominio la sicurezza della scienza, deducendo geometricamente il panteismo di Spinoza o serrando da vicino il mistero della conoscenza per ridurlo alla semplice spiegazione naturalistica.

Forte di questi precedenti nel secolo XVIII si era venuto a creare un ambiente di fiduciosa sicurezza nel progresso in grazia della ragione, identificata con la natura. L’Illuminismo inglese è dominato dalle figure di Berkeley e di Hume.

George Berkeley (1685-1753)

Accetta la critica lockiana dell’innatismo, accetta il nominalismo lockiano e ne precisa anche rigorosamente il sensismo: nessuna conoscenza tranne la conoscenza sensitiva. Ma nega l’esistenza di qualità primarie e secondarie, di modo che tutte le qualità sono soggettive; ed essendo soggettive non si può ammettere la sostanza come sostegno delle qualità primarie; in quanto negata la loro oggettività cade la necessità di un loro sostegno oggettivo. La conclusione è che la realtà materiale è costituita dalle nostre percezioni: esse est percipi. La realtà materiale si riduce e si esaurisce nel suo essere percepita. In tal modo, per sviluppo dell’empirismo nasce l’idealismo nella formula berkelyana secondo la quale nessuna realtà materiale esiste, ma solo il pensiero, la coscienza in cui sono quelle rappresentazioni che noi, indebitamente oggettivando, riteniamo consistenti fuori della coscienza e, in quanto tali, nominiamo realtà materiale. Ora l’idealismo nella sua forma moderna è non solo una negazione della materia in favore dell’immateriale ma anche, e specialmente, una negazione dell’oggetto in favore del soggetto.

Non si deve pensare che la conclusione della formula idealistica sia il solipsismo, ossia l’affermazione del solus ipse, del solo soggetto conoscente. Esaminando le conoscenze Berkeley le distingue in due gruppi, quelle nelle quali ci sentiamo attivi, come le immaginazioni, e quelle nelle quali ci sentiamo passivi, come le sensazioni. Se delle prime noi stessi siamo la causa, delle seconde la causa non può essere che un qualcosa d’altro, attivo su di noi: esiste dunque una sostanza, causa delle mie conoscenze, determinante le mie rappresentazioni. Escluso che questa sia una sostanza materiale, come sopra si è mostrato, rimane che sia immateriale. Questa sostanza immateriale, causa delle mie sensazioni viene meglio concepita come Dio. La dottrina di Berkeley è la scolastica dell’empirismo. L’empirismo di Locke viene assunto da Berkeley come punto di partenza e fondamento di una difesa dei valori morali e religiosi. Berkeley sta di fronte all’empirismo nella stessa posizione in cui Malebranche sta di fronte al cartesianesimo: entrambi utilizzano l’una e l’altra filosofia per una difesa della spiritualità religiosa.

«Ciò che chiamiamo cosa non è altro che una collezione di idee; per esempio, una mela è l’insieme di un certo colore, di un odore, di una figura, di una consistenza determinata. Ora le idee per esistere hanno bisogno di essere percepite: il loro esse consiste nel percipi e non è quindi possibile che esistano in un modo qualsiasi fuori degli spiriti che le percepiscono». (Princìpi della conoscenza, tr. it., Roma-Bari 1974, par. 3).

David Hume (1711-1776)

Per meglio intendere il pensiero di Hume espongo prima la dottrina intorno all’origine e poi intorno al valore della conoscenza.

Secondo il pensiero lockiano, che Hume applica in tutto il suo rigore senza riguardo alle conseguenze che ne possono sorgere, ogni nostra conoscenza ha la sua origine nella esperienza sensibile. Le nostre conoscenze sono o impressioni o idee, intendendo per impressione una conoscenza allo stato forte, e idea una conoscenza allo stato debole. Sarebbe impressione la vista di un albero e idea la vista dell’albero conservata nella memoria. Per passare dalle idee semplici alle idee complesse Hume prescinde dall’attività del soggetto, che doveva secondo Locke analizzare, sintetizzare, raggruppare e scindere; e afferma che si passa alle conoscenze complesse per mezzo di leggi determinate che chiama leggi di associazione, secondo le quali gli elementi psichici aventi rapporto di connessione, contiguità spaziale, temporale, causale, tendono a riprodursi insieme.

Anche Hume afferma il principio empiristico per quanto riguarda il valore della conoscenza, cioè: nessuna affermazione ha valore se non in quanto si riduce all’esperienza. Interessante esaminare le divergenze tra Locke e Hume per quanto riguarda il principio di causalità. Il concetto comune di causa è quello di una cosa che precede e produce un’altra cosa. Ora, contrariamente a quanto credeva Locke, nell’esperienza risulta il rapporto di precedenza non quello di produzione; cioè non si può dire che la causa produce l’effetto, ma che solo lo precede. Si deve convenire che l’opinione humiana risulta ineccepibile ove si intenda esperienza nel senso di sensazione, cioè esperienza sensitiva.

Causa dunque, per Hume, è un fenomeno che ne precede un altro uniformemente. Ma, di necessità, anche l’affermazione della precessione uniforme, eccede l’esperienza. Il suo esatto significato non può essere che questo: ha sin ora preceduto ed è assai probabile che anche in seguito precederà. Qui non si tratta di una conoscenza ma di una credenza. Questa credenza si è a sua volta ingenerata fisicamente, fatalmente, come conseguenza di ripetuti atti: è frutto dell’abitudine. È chiaro quindi come con la critica al valore della causalità crolla l’argomento sul quale Berkeley e Locke fondavano l’esistenza delle sostanze sia materiali, sia immateriali: la sostanza esiste come causa delle mie conoscenze. Si spiega adesso come sia stato dato al sistema di Hume il nome di fenomenismo, in quanto esso si basa su una spiegazione della conoscenza, come delimitata da fenomeni.

Concludendo, sull’empirismo si può dire che Locke ha stabilito il principio, Berkeley ha negato la sostanza materiale riducendo l’idea alla coscienza, nella persuasione di esaltare così il soggetto spirituale; Hume per lo stesso principio più rigorosamente applicato ha negato lo stesso soggetto spirituale in un lampeggiare ininterrotto di mutamenti di coscienza, in un pulviscolo di fenomeni, ove la stessa nozione di fenomeno rigorosamente intesa si distrugge. La conclusione dell’empirismo è dunque lo scetticismo. Il suo merito è prevalentemente un merito negativo, quello di avere suscitato la reazione kantiana.

«Le favole, che troviamo nei poemi e nei romanzi, pongono questo principio fuori di ogni contestazione. In esse: la natura è totalmente sconvolta: non vi si parla che di cavalli alati, di draghi fiammeggianti e di giganti mostruosi. Né parrà strana questa libertà della fantasia, se si considera che tutte le nostre idee sono riproduzioni di impressioni, e che non vi sono due impressioni che siano perfettamente inseparabili. Per non dire che questa è un’evidente conseguenza della divisione delle idee in semplici e complesse: ovunque l’immaginazione percepisca una differenza fra le idee, può facilmente operare tra loro una separazione». (Trattato sulla natura umana, in Opere filosofiche, tr. it., vol. I, Roma-Bari 1992, pp. 20-21).

L’Illuminismo

Ragione e progresso. Predicazione laica. Il mondo scientifico: esperienza e ragione. L’idea di progresso. Sapere e benessere, fattori della pubblica felicità. l’Enciclopedia, Diderot e D’Alembert. Voltaire e la lotta contro l’oscurantismo. Il deismo. Concezione unitaria e universale della civiltà umana. Il materialismo: d’Holbach.

La concezione del potere politico. Aristocratica. Montesquieu. Costituzionale e divisione dei poteri ma non eliminazione dei privilegi dei nobili. Contraria al dispotismo.

Dispotismo illuminato. Voltaire. Aspetti antifeudali della monarchia assoluta. Necessità dell’ineguaglianza.

L’uguaglianza. Rousseau. Contrario alle impostazioni precedenti. La proprietà priveta è all’origine delle diseguaglianze. Stato di natura. Contratto sociale. La sovranità è nel popolo e non può essere alienata. Il governo al servizio del popolo. Teoria della democrazia diretta (popolo e sovrano sono la stessa cosa). Lo Stato rappresentativo non deve proteggere la proprietà privata ma impedire che essa non comprometta, per la troppa diseguaglianza delle fortune l’equilibrio politico-sociale. La massoneria (idee lockiane e deismo) diffonde l’Illuminismo. Caratteri universali dell’Illuminismo. In Germania (Lessing), in Russia (Radiscev), in Italia un pre-Illuminismo (Muratori e Giannone), e l’Illuminismo (Verri, Beccaria).

Ancien regime e riforma. Dalla seconda metà del Settecento tutto il mondo rurale è in movimento. Anacronistici e dannosi appaiono i diritti dei feudatari che vengono chiamati abusi (corvée, tasse, decime). L’importanza della classe borghese è in contrasto con i privilegi fiscali della Chiesa e della feudalità.

I governanti non possono non prendere atto di queste giuste richieste. Le riforme che ci saranno, in seno al sistema assolutistico, ma ispirate dall’Illuminismo, corrispondono alla fase storica del cosiddetto assolutismo illuminato.

Chiesa e Stato. Nell’assolutismo vi è una tendenza originaria, e precedente all’Illuminismo, diretta a ridurre i privilegi della Chiesa. Il giurisdizionalismo sosteneva che il campo dell’amministrazione civile apparteneva solo allo Stato. Unito alla polemica anticlericale degli illuministi esso eliminerà alcuni residui di diritti anacronistici. Esempio, il diritto di asilo, quello di incamerare i beni non lasciati in eredità, ecc. Si diffonde il febronianesimo, dottrina sostenente che lo Stato deve estendere la sua attività anche nel campo spirituale. Più o meno la tesi di Enrico VIII, nella Inghilterra del Cinquecento.

In base alle nuove idee produttivistiche, la situazione di intoccabilità dei beni ecclesiastici (manomorta) cade, dovunque i conventi vengono espropriati, i beni ecclesiastici considerati come una riserva a cui il sovrano può attingere.

Sorge pure il problema di sottrarre la scuola all’organizzazione ecclesiastica. Da qui l’offensiva contro i gesuiti che avevano il monopolio dell’istruzione. Sono espulsi dal Portogallo, accusati di complicità in un attentato contro il re. Due anni dopo sono espulsi della Francia. Le pressioni sul papa sono grandi. Clemente XIV decide di abolire la Compagnia. I beni sono incamerati e utilizzati per il primo nucleo di scuole pubbliche statali.

Federico II di Prussia. Caterina II di Russia. Filosofo e studioso di politica, Federico II ebbe rapporti con gli esponenti dell’Illuminismo. Nell’applicazione parziale delle loro dottrine vide il mezzo per fortificare lo Stato. In sostanza però dalle sue azioni il predominio dei nobili latifondisti non fu scosso. Al contrario cercò di trasformarli in imprenditori agricoli liquidando i diritti dei contadini.

Anche Caterina si considerò al “servizio del popolo”. Leggeva Beccaria e Montesquieu, ma non poté fare nulla su di una società che rimase divisa in grandi proprietari e servi.

Pugačiov, diresse una grande sollevazione di contadini.

La monarchia asburgica. Punta avanzata del dispotismo illuminato. Maria Teresa e suo figlio Giuseppe I condussero l’esperimento del dispotismo illuminato. Riordinamento fiscale tramite un censimento (catasto) delle proprietà dei sudditi in modo da distribuire meglio il carico tributario. Centralizzazione amministrativa, sviluppo delle comunicazioni e degli scambi, abolizione dell’Inquisizione.

Ancora più radicale Giuseppe II. Abolisce la servitù, le corporazioni, abolisce le corvée, pone sotto controllo la Chiesa nazionale (febronianesimo). Sopprime tutti i conventi che non si occupavano di pratiche caritative e dell’insegnamento. Pio VI si reca a Vienna per convincere il sovrano ma senza risultato.

Vuole combattere il particolarismo nazionale, ma incontra una reazione fortissima. I Paesi Bassi insorgono e dichiararono l’indipendenza a causa dei provvedimenti riguardo la Chiesa. Giuseppe II malato e scoraggiato fa passi indietro. Il successore smantella tutto l’impianto di riforme.

Italia: riforme e società. Solo in alcune zone si formano i primi nuclei di una nuova organizzazione produttiva capitalistica. Maggiore sviluppo agricolo in Lombardia. L’abbandono della mezzadria trasforma i contadini in salariati nullatenenti e si formano aziende agrarie gestite da imprenditori capitalisti che intensificano lo sfruttamento dei contadini.

Nell’Italia meridionale i nuclei di borghesia terriera che si erano formati nel tessuto feudale si trovano in una situazione arretrata. L’usura diviene lo strumento principale di controllo e sfruttamento dei contadini.

Lombardia austriaca. Le prime riforme di Maria Teresa furono determinate dalla necessità finanziaria. Riscatto delle entrate statali che erano state vendute ai privati. Riforma ispirata da Pietro Verri. Rientrato in possesso di questa regalia lo Stato poté eliminarne alcune, specie quelle che ostacolavano il commercio. In questo modo la formazione della proprietà borghese ricevette un ulteriore considerevole impulso.

Toscana. Pietro Leopoldo. Libertà di commercio dei prodotti agricoli, nuovo codice penale ispirato da Beccaria, per la prima volta in Europa è abolita la pena di morte. Progetto di costituzione. Tentativi di incrementare la proprietà contadina. La mezzadria resta il contratto prevalente. Tentativo di riforma giansenista, come quelle avute in Lombardia, ispirate dall’Università di Pavia (Tamburini e Zola).

Napoli. Carlo di Borbone. Riforme simili alle precedenti ma esigua l’attività contro la feudalità, quindi scarsi i risultati. Anche in Sicilia i tentativi del viceré Caracciolo furono stroncati dalla nobiltà feudale.

Sardegna. Vittorio Amedeo III, dopo qualche tentativo di riforma del suo predecessore, rimane legato all’ancien regime.

Venezia. Abolisce il pensionatico (diritto di pascolo sulle proprietà private).

Genova. Continua a essere dominata dall’attività mercantile e commerciale. Si sviluppa l’armatoreria. La struttura resta sclerotica. Il governo s’impegna solo nell’assistenza ai poveri e basta.

Stato pontificio. In grave crisi politica e finanziaria a causa del contraccolpo della perdita della posizione privilegiata.

Lo Stato rinascimentale. Superamento della frammentarietà del potere politico. Nei paesi delle grandi monarchie: Spagna, Francia, Inghilterra, il cambiamento delle istituzioni feudali è più profondo, meno in Italia e Germania, paesi frammentati. Inghilterra: Enrico VII. Spagna: Ferdinando d’Aragona. Francia: Luigi XI. Elementi che resero possibile il rafforzamento monarchico in questi paesi: a) Modificazione dei rapporti di proprietà. b) Ascesa della borghesia. c) Nuove forme di economia. d) Formazione di personale politico specializzato (burocrazia). e) Formazione di eserciti permanenti.

Ripresa della concezione sacrale della sovranità. Comporta: a) Il re appare come il tutore e il simbolo della giustizia. b) Scontro con la Chiesa. c) La crisi religiosa sarà un elemento importante, per questo motivo, dell’evoluzione politica e istituzionale.

La feudalità. Sebbene trasformata conserverà fino alla rivoluzione francese il ruolo di classe dominante, in virtù della ricchezza e del possesso fondiario, come pure dei privilegi politici e giurisdizionali che seppe mantenere.

Su di essa i monarchi inglesi, francesi e spagnoli eserciteranno rigorosi controlli. a) Inghilterra. La potenza feudale era limitata dalla presenza della potenza borghese, ma il re premeva lo stesso sulla feudalità a causa dei guai che erano successi con la guerra delle due rose. Alla Camera stellata furono affidati compiti di controllo. b) Francia. Il dominio feudale, era al culmine. Fondamento della monarchia era l’esercito permanente, il più grande d’Europa, e l’amministrazione finanziaria. Le cariche erano vendute dalla corte e gli acquirenti percepivano direttamente dagli amministrati il loro compenso. c) Spagna. Si abbattono castelli e roccaforti feudali, si tolgono le sovvenzioni concesse ai nobili. Giuristi di umili origini si mettono negli uffici politici. Una associazione di città e piccoli comuni, la hermandad, aiuta la repressione contro feudatari. Anche qui tutto ciò può essere fatto per la presenza dell’esercito stabile.

Gli Imperi. Sale Massimiliano I. Lo Stato è un insieme di piccole signorie indipendenti in pratica. Egli cerca di fissare un’assemblea generale per avere un potere concreto. Vi riesce con la Dieta di Worms, nel 1495, con la quale si vietano le guerre private. Con la sua politica matrimoniale egli cercò di allargare i domini della casa d’Austria.

Maometto II. Il conquistatore di Costantinopoli, ricostruisce Istanbul. Cerca di espandersi nei Balcani e nelle isole del mare Egeo. Ottiene la Bosnia e conquista la Grecia. Minaccia direttamente 1’Austria e Venezia negli interessi economici.

Le guerre d’Italia. Francia. Carlo VIII. Tentativo di tipo cavalleresco, un’avventura, ma con spiegamento di grandi forze militari. Il tentativo rivendicava gli antichi diritti di casa d’Angiò su Napoli, ma voleva impadronirsi di tutta l’Italia. Si assicura con concessioni la neutralità di Francia, Germania e Spagna e con un grosso esercito munito di artiglieria, attraversa la penisola e viene incoronato a Napoli. Si forma una lega antifrancese. Nella paura di restare imbottigliato, lascia una guarnigione – presto sopraffatta da una rivolta – e ritorna in Francia.

Luigi III. Prosegue il tentativo. Mette maggiori attenzioni diplomatiche con Venezia e con gli Svizzeri, si impegna ad appoggiare Cesare Borgia nella conquista della Romagna. Parte e conquista Milano. Si fa un trattato (a Granada) tra Francesi e Spagnoli, ma poi la guerra avviene lo stesso e i Francesi sono sconfitti presso il Garigliano. Per due secoli Napoli resterà sotto gli Spagnoli. Borgia perde i domini romagnoli e Venezia si espande in essi.

Impero. Massimiliano I. Parte dopo la sconfitta francese e si espande nel Veneto. Si accorda col papa e con la Francia e la Spagna e sconfigge i Veneziani. Ma i contadini veneti impugnano le armi in una guerra contro gli invasori e contro i signori locali. La repubblica conduce un’intensa opera diplomatica, isolando l’Imperatore.

La lega santa. Giulio II. Dopo la pace con Venezia, si rivolge contro i Francesi, questi replicano con vecchi argomenti di critica alla Chiesa. Attacco militare. Dopo una vittoria francese calano gli Svizzeri e i Francesi sono costretti, nel milanese, alla fuga. A Milano sale al potere Massimiliano Sforza. Ma il re francese insiste, un’altra volta gli Svizzeri lo sconfiggono, entrano in Francia e assediano Digione. Muore Giulio II e il papato preferisce le trattative.

Francia. Francesco I. Salito al trono dichiara di volere riprendere i possedimenti italiani. Con un grande esercito scontro a Marignano (battaglia dei giganti). I Francesi hanno la meglio sugli Svizzeri. Conquista il ducato di Milano e stabilisce trattati con gli altri avversari.

Carlo V. Carlo d’Asburgo nato a Gand, nipote di Francesco I, ereditava da parte della madre (Giovanna la pazza) la corona di Spagna e da parte del padre (che era figlio di Massimiliano) i Paesi Bassi. La morte di Massimiliano gli dette l’eredità dei domini asburgici e la strada verso il titolo imperiale. La mobilitazione finanziaria dei banchieri tedeschi Fugger, che avevano in garanzia i redditi fiscali spagnoli, fiamminghi e l’oro americano, permise a Carlo V di salire alla corona imperiale.

Carlo V non dette una organizzazione unitaria ai domini, ognuno conservò le sue istituzioni, la sua autonomia. Il Consiglio di Stato, formato da ministri di varie nazionalità fungeva da strumento di controllo del re sui viceré e sui governatori delle diverse province. I prelievi fiscali – grosso problema – erano quindi da concordarsi con le istituzioni rappresentative del posto. Una rivolta a Napoli costrinse a togliere subito una tassa. La rivolta dei Comuneros in Spagna mise in pericolo il trono.

La concezione imperiale di Carlo V. a) Paladino dell’unità e della pace nel mondo cristiano. b) Difensore contro i Turchi e contro la rivoluzione protestante. c) In effetti mentre egli voleva gestire un impero nel senso medievale del termine (cristiano ed europeo) nella realtà si veniva formando il primo impero di tipo moderno (cioè coloniale, basato su un intreccio di rapporti economici).

La sua posizione nei confronti della Riforma. Alla presa di posizione di molti prìncipi contro la Chiesa si affiancò dapprima: a) La rivolta dei cavalieri (la piccola nobiltà) che intendevano sviluppare la rivoluzione religiosa attraverso l’azione armata contro il parere di Lutero che contava sull’adesione spontanea dei princìpi alla Riforma. La rivolta fu domata. b) La guerra dei contadini. Programma antifeudale esposto nei dodici articoli di Memmingen. Thomas Müntzer, partendo da Lutero era arrivato a posizioni più radicali (comunione dei beni). Attacco di Lutero contro le bande di contadini omicide e ladre.

La Riforma si sviluppava intanto sulla linea di Lutero. Aderisce il Gran Maestro dei Cavalieri teutonici secolarizzando i beni e formando il ducato di Prussia. Carlo V nella sua azione repressiva si trovò di fronte alla Dieta di Spira dove i prìncipi si mantennero compatti e redassero una Protestatio (donde il nome di Protestantesimo). L’imperatore sperava in una riconciliazione promossa da parte cattolica che non poteva avvenire. Sebbene Lutero restasse della sua idea contraria alle armi, i prìncipi e le città riformate si unirono in una Lega: La Lega di Smalcalda. Il contrasto rischiava di indebolire l’Impero a favore dei Francesi. Con la pace di Augusta si riconosceva la fede luterana limitatamente ai prìncipi ma i sudditi erano obbligati a seguire la fede del loro principe.

Le guerre d’Italia sotto Carlo V. L’Italia era diventata il terreno di una lotta per l’egemonia in Europa o almeno per un equilibrio politico che interessava tutto il mondo occidentale.

Guerra in Italia: sconfitta francese a Pavia, Francesco I preso prigioniero deve firmare accordi gravi che poi smentisce dopo ripresa la libertà. Gli Stati italiani erano stati favorevoli a Carlo V, ma la sua vittoria e lo stabilirsi nel milanese significavano una subordinazione politica per loro, per cui aderirono all’invito della Francia di aderire alla Lega di Cognac (Venezia e Papato). Truppe imperiali scendono in Italia (i Lanzichenecchi). Sacco di Roma (1527). Carlo V estraneo all’episodio. Il Papa prigioniero a Castel Sant’angelo ma Carlo V non cede alle insistenze di fare pressione su di lui per ricostituire l’unità della cristianità. La situazione è sfruttata dalla propaganda contro l’Imperatore.

Francesco I tenta un’altra volta la carta della guerra, ma la defezione di Andrea Doria, genovese, che passa con 1’Impero, lo costringe a ritirarsi. Pace di Cambrai. L’Impero rinuncia alla Borgogna, la Francia rinuncia alla Lombardia.

Congresso di Bologna e ricevimento della corona imperiale dal Papa. La repubblica di Firenze (partecipa Buonarroti) è battuta e la dinastia medicea ripristinata.

Francesco I non si rassegna e cerca di accordarsi con i Turchi, sfruttando anche il contrasto tra Carlo V e la Lega di Smalcalda. Breve guerra. La Lombardia viene assegnata definitivamente agli Spagnoli.

Muoiono Francesco I, Lutero e Enrico VII, quasi contemporaneamente. Il successore di Francesco I, Enrico II, riprende la guerra. Carlo V abbandona lasciando a Filippo II la corona di Spagna (con i domini italiani, americani e i Paesi Bassi) e al fratello Ferdinando I la casa d’Austria e la corona imperiale.

La pace di Cateau Cambrésis, tra Enrico II e Filippo II. Emanuele Filiberto, generale al servizio della Spagna, ottiene il ducato di Savoia, i Francesi Calais, la Spagna mantiene i domini italiani (Lombardia, Napoli, Sicilia, Sardegna) e vi aggiunge lo Stato dei Presidi in Toscana. Genova mantiene l’indipendenza.

Il conflitto con i Turchi. Non ebbe l’impostazione religiosa che gli esponenti politici del mondo cristiano volevano dare, si articolò invece su due fronti. a) Fronte d’Ungheria. Il Sultano Solimano salito al trono si impadronisce di Belgrado e caccia i cavalieri gerosolimitani da Rodi, che si installano a Malta. Attacca e sconfigge l’Ungheria. Ferdinando d’Asburgo, dopo la morte del re d’Ungheria nel corso della battaglia, diventa re di Boemia. L’Ungheria resta però in mano a un altro sovrano scelto dalla nobiltà magiara. Ferdinando con la scusa di costituire un baluardo unico contro i Turchi attacca i Magiari, che si mettono sotto la protezione dei Turchi, i quali ritengono in questo modo di avere dei diritti sul regno d’Ungheria. Solimano attacca l’Austria e pone l’assedio a Vienna senza sconfiggere però la resistenza cristiana, ma la lontananza della base gli impedisce i rifornimenti e di portare a termine la guerra.

Fronte del Mediterraneo. Il capo della pirateria ottomana, detto Barbarossa, si impadronisce di Algeri e di Tunisi. Carlo V organizza una spedizione e libera Tunisi. Accordo veneto-pontificio per attaccare i pirati sul mare, ma l’esito è incerto. I Turchi restarono padroni del Mediterraneo.

L’Italia sotto il dominio spagnolo. La Pace di Cateau-Cambrésis non porta grossi mutamenti. a) Piemonte. Liberato dai Francesi, il Piemonte riceve da Emanuele Filiberto, duca della Savoia, del Piemonte e della contea di Nizza, un’impronta assolutista, sul tipo della monarchia francese. Egli smantella la rete di resistenze localistiche e feudali. Crea a Torino il Parlamento, la Camera dei Conti e un Consiglio di Stato. Un aspetto importante è la creazione di un esercito nazionale attraverso l’obbligo di leva per i sudditi. b) Venezia. Una certa libertà culturale. Costituzione rigidamente oligarchica. Organi di governo, il Consiglio dei Dieci e i Tre Inquisitori. Si sviluppa il mito della “Libera” Venezia. c) Stato pontificio. Il principale problema, come per Napoli, è lo spirito dei baroni e la loro prepotenza. Paolo III ottiene la creazione di un piccolo Stato autonomo, il ducato di Parma e Piacenza, per il figlio Pier Luigi Farnese. d) Toscana. Fine della repubblica di Siena, schieratasi con i Francesi in un movimento antimediceo. Il territorio è incorporato nel ducato di Toscana, dove solo lo Stato dei Presidi era spagnolo. In Toscana la restaurazione dei Medici era avvenuta con l’appoggio di Carlo V, quindi una subordinazione politica alla Spagna. Cosimo I cerca di rafforzare lo Stato, liberandolo in parte dall’influenza spagnola, che si esercitava mediante lo Stato dei Presidi, alleandosi col Papa. e) Genova. Legata alla Spagna da interessi finanziari. I suoi banchieri hanno nella monarchia spagnola il cliente più importante. A Napoli, nel 1500 si creano molti feudi genovesi di origini mercantili. I traffici sono regolati dalla Casa di San Giorgio, una specie di società. f) Napoli. Aristocrazia antispagnola, ma con caratteristiche arretrate e medievali. Parlamento – espressione nobiliare – come in Sicilia, frena le possibilità di azione dei viceré. Quindi la creazione di un gruppo di funzionari. Tipico Stato rinascimentale.

«La fedeltà dello Hume al suo punto di vista empiriocriticista gli concede di dipanare con elegante semplicità l’arruffata matassa dei rapporti di soggetto e oggetto e dei valori reali e ideali che vi si fondano sopra; e per quanto la sua ricerca sia parziale, da puro “saggista”, e lasci in ombra una sistemazione totale e unitaria dei problemi, la parte critica e quella positiva sono fra loro così coerenti, da formare un indirizzo, per il suo verso, definitivo. Lo Hume non comincia mai col dividere od opporre o dialettizzare un soggetto e un oggetto; egli si tiene stretto a quell’unica esperienza ch’è l’impressione: questa è un “oggetto” – un’esistenza – proprio perché “sentito” come certo, subiettivamente. Il criterio di realtà non si può basare che su ciò, e tutti gli uomini, quando dicono “reale”, intendono “certo”, a quel modo. La realtà non è dunque una cosa – l’esistenza non è una qualità –, ma è la certezza delle qualità sensibili, il valore (oggi diremmo) che noi senzienti diamo al sensibile che così conosciamo (è un giudizio, nella percezione). Tutto ciò che non è sensibilmente certo, e quindi tutte le idee o rappresentazioni del sensibile non più o non ancora presente, sono in diverso grado dubbie e ipotetiche, secondo che più o meno corrispondono all’esperienza intuitiva, da cui dipende il giudizio di probabilità reale. Ma l’uomo non ha – non è – soltanto il sentimento di certezza o di dubbio conoscitivo, nella correlazione all’esistere d’un dato di fatto. L’uomo ha (è) altri sentimenti, che diciamo pratici (passioni, o almeno interessi), in correlazione a ciò che chiamiamo bisogni e istinti; ma di cui altro non conosciamo che i sentimenti sperimentati nelle medesime esperienze che ci dànno il conoscere oggettivo. Anche qui, se “riflettiamo” su tutti i nostri sentimenti, ossia li osserviamo obbiettivamente come altrettante impressioni, non troviamo di teoricamente certo che il loro esistere attuale o le rappresentazioni che vi corrispondono più fedelmente. Anche il nostro esistere, teoreticamente parlando, si riduce dunque all’insieme delle impressioni sentite. Ma in quanto i sentimenti sono pratici, li sentiamo appunto come tendenze e appetiti che spingono, “muovono” la volontà ad agire e l’intelletto stesso a formare le idee e i fini della conoscenza e dell’azione. Su questo terreno pratico, su questa esperienza della nostra medesima umanità o natura, la filosofia, come “scienza morale”, riflette; e si manterrà nel vero, se non perderà per via, scambiandola con la realtà di fatto (col suo esistere nella sensazione), la subiettività del sentimento, che non è un fatto, ma un valore, un colorito pratico della valutazione dei fatti. Si apre un mondo umano, ignoto all’intellettualismo, per il quale il sentimento non era che un’idea più oscura. Sotto la spinta dei sentimenti, l’intelletto forma delle idee, come le idee morali, estetiche, religiose, dipendenti unicamente dal senso morale, o dal gusto, o dal bisogno religioso, con le quali giudica del bene, del bello e del divino, conformando l’azione a questi criterii subiettivi, che divengono fini. Tali idee, o si dica pure conoscenze (ma di tipo pratico) non sono verità reali, e non hanno alcun bisogno d’esserlo: il loro è un valore ideale e, teoricamente, irreale, perché debbon appagare esigenze pratiche e non conoscitive. L’idea del dovere, per es., non importa che sia qualcosa o rappresenti un’azione reale (è una norma, un desiderato, o, come dirà Kant, un postulato morale); il bello è un’idea formale, un colorito del gusto; un mito religioso, è un’idea poggiata sulla fede, che appaga il bisogno di sentirsi protetti; e così via. Dopo di che non c’è più un problema critico sulla realtà o sulla dimostrabilità del mondo morale e religioso, perché sarebbe un problema mal posto, pari a quello che in estetica volesse discutere sulla esistenza o no dell’ircocervo o di altra idea puramente fantastica. C’è una storia dell’uomo, de’ suoi miti, gusti, concetti morali, che sono la sua realtà morale, unicamente dipendente da’ suoi sentimenti e bisogni. Ora possiamo ritornare alla critica humiana della ragione, e concludere. Al razionalismo ontologista (da Cartesio a Leibniz), che sperava di cavar fuori dalla pura ragione un sistema d’idee reali, che spiegassero il mondo, e ci fornissero la “ragione delle cose”, Hume risponde col suo positivismo: No, signori! Col vostro processo logico voi potete sviluppare, per analisi di un’idea, una nuova idea, basandovi su quel principio puramente ideale d’identità e di non contraddizione (che una cosa debba esser uguale a se stessa), che diventa realmente vero soltanto se spogliate queste idee di ogni contenuto reale, lavorando su forme astratte (spazio, tempo, numero), e cioè su figure e simboli quantitativi. In aritmetica è vero che 1=1, e quindi non può esser uguale a zero od a più e meno di 1; ma non appena ci dovete parlare di un lupo e d’un agnello, soltanto l’esperienza vi può fornire la legge del loro rapporto reale. Il legame col quale concatenate le cose di fatto, è la causalità di natura, che non avreste mai potuto dedurre con la pura ragione, essendo ogni effetto diverso dalla causa, e non potendosi mai prevedere a priori, per es., che un corpo è attratto verso un altro con quella tal legge di velocità crescente, che il calcolo preciserà e misurerà, ma non avrebbe mai scoperto senza l’esperimento di Galilei. Ma al realismo empirico, discendente da Locke – che tutte le idee non contengano di reale che il sensibile – Hume risponde invece col suo umanismo: Altro sbaglio! Già nel rappresentarvi (in un’idea) l’impressione (la sensazione) come reale – ossia, già nel percepire reale questa sensazione di bianco –, voi l’oltrepassate, perché la credete esistente in sé (pensate che esisterebbe anche senza di voi), ed uguale a sé (colmando gli intervalli in cui non la vedete), mentre a rigor di logica l’esistenza di questo bianco sta nella “mia” certezza, nella forza e vivacità della mia impressione. Se ci fermassimo ai contenuti della pura esperienza sensibile (alle impressioni), non avremmo che una varietà e molteplicità di dati, associati fra loro unicamente dalle loro coesistenze e successioni e dal ripetersi di queste in modo simile, registrato nella memoria. Ora, un giudizio di pura esperienza è, sì, una sintesi (un’idea di rapporto, una ragione), ma senza alcuna necessità; con questa noi non potremmo muovere un passo né portare il cibo alla bocca, perché nulla ci assicura che anche oggi la terra ci sosterrà e il cibo ci nutrirà, potendosi con ugual ragione concepire che la terra sia molle e il cibo non nutra. Allora, un empiricismo più coerente, che non prescinda dal fattore umano, ossia dal soggetto della esperienza, deve riconoscere, che il sentimento dell’abitudine ci fa dolce violenza, spingendoci a superare il dato sensibile, e ad inferire che ci dev’essere una uniformità o legge di natura, per cui certi caratteri appartengono costantemente a una certa cosa (sostanza), e che una certa causa deve produrre il suo effetto. La ragione umana appare dunque un istinto, o credenza, che induce a immaginare idee associative o sintetiche su l’esperienza, che questa non legittimerebbe, sebbene le suggerisca. Questo è il limite a cui giunge Hume. Egli, col suo volto scettico, consiglia alla ricerca scientifica la prudenza e il ritorno alla pura esperienza, e col suo volto umano celebra lo slancio di una ragione d’origine pratica, che interviene con la propria nella natura delle cose, ed apre all’intelligenza e all’azione un cammino un po’ più certo nel grande mistero dell’essere». (Adelchi Baratono, Hume e l’illuminismo inglese, Milano 1943, pp. 167-171).

L’Illuminismo francese. Voltaire e Rousseau

Tutti i toni speculativi dell’Illuminismo francese sono desunti dall’Illuminismo inglese; tutti tranne uno: quello della storia. L’elaborazione del problema della storia attraverso la contrapposizione recisa di storia e tradizione è il contributo più notevole e più originale dell’Illuminismo francese al pensiero filosofico del secolo XVIII.

Pierre Bayle (1647-1706)

È la figura più grande dell’Illuminismo francese, autore di un Dizionario storico e critico. L’indagine di Bayle è un’indagine critica che rivela il carattere essenziale di tutta la sua personalità; la ragione per lui è più adatta a distruggere che a costruire. L’indagine storica secondo Bayle deve risalire alle fonti delle testimonianze, e vagliarle criticamente rispetto agli intenti espliciti o sottointesi degli autori; e a rigettare ogni affermazione che possa apparire infondata e sospetta. A buon diritto Bayle viene considerato il fondatore dell’acribia storica.

«Una raccolta degli errori commessi tanto da coloro che hanno fatto i dizionari quanto da altri scrittori, e che riducesse sotto ogni nome di uomo o di città gli errori concernenti quell’uomo o quella città». (Dizionario storico e critico, tr. it., Roma-Bari, 1976, I).

Voltaire (1694-1778)

Più efficacemente di Bayle l’Illuminismo in Francia fu introdotto da Voltaire, e in questa nazione esso assunse dei caratteri ben netti dovuti all’influsso violento dell’ambiente sociale, politico, economico, religioso. Sotto tale influsso l’Illuminismo francese ha accentuato gli aspetti estremi dell’Illuminismo inglese, facendo del deismo un ateismo, dell’utilitarismo un sensualismo, del sensismo psicologico un materialismo metafisico. La fiducia nella ragione diventa il culto della dea “raison”; la fiducia nel progresso si presenta sotto la veste di dogma indiscusso; i princìpi naturali diventano gli immortali princìpi del nuovo codice dell’umanità.

La cultura filosofica e lo spirito dell’Illuminismo francese ebbero larga diffusione, sia per gli interessi attuali di cui si facevano eco, sia per il prestigio letterario delle opere dei maestri, quali Voltaire e Rousseau. Per cui l’Illuminismo francese non segna un notevole apporto allo sviluppo dei problemi teoretici: per i quali la filosofia del secolo XIX dipenderà più da Kant che dai Francesi; ma segna un importantissimo apporto allo sviluppo dei problemi teoretici.

Voltaire può considerarsi il padre del movimento. Egli non è un filosofo; è un dilettante artista, versatile e superficiale: scrive di tutto, di storia, di critica, di letteratura, di religione e di filosofia. In nessun campo ha portato un contributo reale all’avanzamento dello studio: in tutti ha portato il magistero dello scrittore e lo spirito scettico e brillante del sofista. Poco o nulla egli dette all’Illuminismo del contenuto dottrinale; molto, anzi tutto gli ha dato della sua forma esterna: atteggiamento brillante, ironico, sicuro e spesso sarcastico e schernitore. Con tali armi non si elabora certo una dottrina, ma si diffonde la propria opinione.

“Muta è la natura e la s’interroga invano,

Si ha bisogno di un Dio che parli al genere umano.

A Lui soltanto appartiene l’opera sua spiegare,

Racconsolare il debole, il saggio illuminare…

Tutto un dì sarà bene, ecco la nostra speranza:

Tutto è bene oggidì, l’illusione è codesta”.

L’Illuminismo francese ha la sua più viva espressione nella Enciclopedia, opera colossale, destinata, secondo lo spirito proprio del secolo, a diffondere la filosofia e con la filosofia quello che si intende per cultura. Con ciò si ha una democratizzazione della cultura e sopratutto della filosofia, che se da un canto ha diffuso la filosofia dall’altro non ha contribuito alla sua evoluzione: anche qui la quantità è nemica della qualità. Si tratta di una filosofia facile basata su varie manifestazioni del materialismo: da quello pensoso e incerto di Diderot, a quello utilitaristico di Helvetius, da quello presuntuoso e sfacciato del barone d’Holbach, a quello di La Mettrie che esprime abbastanza decisamente il suo indirizzo.

Jean-Jacques Rousseau (1712-1778)

Il filosofo più importante del periodo illuministico, anche se per certi aspetti il suo pensiero si allontana dall’Illuminismo per avvicinarsi al Romanticismo. La sua attenzione più che sulle questioni teoretiche è concentrata sulla questione sociale e politica come quella che era al momento più viva e nella quale si riassumevano le ansie, le aspirazioni, i disagi e le critiche del secolo. Le sue due opere più importanti sono: il Contratto sociale e l’Emilio. Il primo contiene la sua dottrina politica. Esso poggia sulla fondamentale proposizione che l’uomo è buono. Secondo Rousseau l’uomo allo stato di natura, cioè isolato, prima della società, è ottimo. Tutti i suoi mali provengono dalla società. Si ha in ciò quella che è la più esplicita affermazione di quel naturalismo ottimistico che è un po’ l’anima di tutto il movimento illuministico. Il principio della bontà naturale dell’uomo è direttamente distruttivo del dogma cristiano del peccato originale.

L’uomo nel suo stato di natura gode di due doti assolute e inalienabili, libertà e uguaglianza. Anche quando, per essere sorti i primi contrasti a causa dell’appropriazione dei beni, gli uomini si stringono in società, non possono mai perdere la loro perfetta individuale libertà e uguaglianza. E così la società, per essere in qualche modo legittima, deve garantire sia l’una come l’altra. Il che succede se la società sorge per libero contratto, se il popolo considerato nella totalità degli individui è sovrano, e se l’autorità si considera come una rappresentanza del popolo. Ecco i tre dogmi della democrazia: contratto sociale, sovranità popolare, autorità come rappresentanza del popolo.

L’altra opera di Rousseau, l’Emilio, è un romanzo pedagogico ove si propone un esempio di educazione naturale. Protagonista è un giovane educato all’infuori di ogni costrizione, imposizione, disciplina, artifizio, aderendo in pieno all’inclinazione buona degli istinti naturali. L’importanza di questa opera, che resta pur legata all’equivoca impostazione del concetto della natura buona, è data da un potente richiamo alla valorizzazione delle energie intime dello spirito.

«L’astronomia è nata dalla superstizione; l’eloquenza dall’ambizione, dall’odio, dall’adulazione, dalla menzogna; la geometria dall’avarizia; la fisica da una vana curiosità; tutte, e la morale stessa, dall’orgoglio umano». (Discorso sulle scienze e sulle arti, tr. it., in Opere, Firenze 1972, II).

Immanuel Kant

L’indirizzo critico che l’empirismo inglese aveva iniziato, riconoscendo e segnando alla ragione i limiti del mondo umano, e che l’Illuminismo aveva fatto suo, diventa nella opera di Kant una svolta decisiva della storia della filosofia. La costruzione di una filosofia essenzialmente critica, nella quale la ragione umana, portata innanzi al tribunale di se stessa, delimiti in modo autonomo i suoi confini e le sue possibilità effettive, è il compito di Kant.

Kant (1724-1804) nacque da famiglia di origine scozzese a Königsberg e fu educato nello spirito religioso del pietismo da Schultz, la più notevole personalità del pietismo in quel periodo. Kant studiò filosofia, matematica e teologia nell’università della città natale, e poi fu precettore privato in alcune case patrizie. Con una dissertazione sui primi princìpi di metafisica ottenne la libera docenza presso l’università di Königsberg e mantenne tale incarico per ben quindici anni. Solo a quarantadue anni venne nominato professore ordinario di logica e metafisica in quella università, posto che tenne sino alla morte, adempiendo con grande scrupolosità ai suoi doveri accademici anche quando per la debolezza senile gli furono diventati estremamente gravosi. Come si vede la vita di Kant è priva di avvenimenti drammatici e di passioni, con pochi affetti e amicizie, interamente concentrata in uno sforzo continuo di pensiero.

Nell’attività letteraria di Kant si possono distinguere tre periodi.

Il primo periodo comincia con uno scritto che egli compose quando era ancora studente: Pensieri sulla vera valutazione delle forze spirituali. In seguito egli pubblica una Ricerca sulla questione del ritardo della terra nel suo movimento intorno all’asse e un’altra questione, Se la terra invecchia. L’opera principale di questo periodo è la Storia naturale universale e teoria dei cieli, scritto che apparve anonimo e che descrive la formazione dell’intero sistema cosmico a partire da una nebulosa primitiva, in conformità delle leggi della fisica newtoniana. Tale scritto avrà una notevole influenza nelle opere di Lambert e di Laplace. Altri scritti sono il De igne, uno sui terremoti e uno sulla teoria dei venti. Da ricordare ancora lo scritto sull’ottimismo che risolve in favore dell’ottimismo radicale la questione dibattuta con Voltaire nel Poema sul terremoto di Lisbona.

Il secondo periodo segna il decisivo prevalere nel pensiero di Kant degli interessi filosofici, e il delinearsi di temi e motivi che confluiranno nel criticismo. Nello scritto Le false sottigliezze delle quattro figure sillogistiche, critica il valore della logica aristotelica-scolastica e la paragona a un colosso che ha la testa nelle nuvole della antichità e i piedi d’argilla. Si hanno ancora L’unico argomento possibile per una dimostrazione della esistenza di Dio, una Ricerca sul concetto delle grandezze negative, una Ricerca sulla chiarezza dei princìpi della teologia naturale e della morale. Frattanto si andava chiarendo sempre di più il suo distacco dal dogmatismo e l’adesione allo spirito di ricerca e all’empirismo dei filosofi inglesi: ciò si nota chiaramente nella Notizia sull’indirizzo delle sue lezioni. In essa sostiene che bisogna non imparare la filosofia, ma imparare a filosofare, il metodo dell’insegnamento filosofico deve essere quello della ricerca. Il più significativo documento di questo distacco è lo scritto: Sogni di un visionario chiariti coi sogni della metafisica. Di questo periodo fa parte la dissertazione che Kant presentò per ottenere la cattedra ordinaria di logica e metafisica De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, nella quale si trovano i germi che matureranno meravigliosamente nella Critica della ragion pura.

A questo punto possiamo accennare agli scritti del terzo periodo, o scritti del periodo critico. La critica della ragion pura, apre la serie delle grandi opere di Kant. Seguono: Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenterà come scienza. Fondazione della metafisica dei costumi. Critica della ragion pratica. Critica del giudizio. La religione nei limiti della semplice ragione. La metafisica dei costumi. Antropologia del punto di vista pragmatico. Insieme a queste opere fondamentali Kant andava pubblicando in gran numero recensioni, critiche, opuscoli, articoli, chiarimenti, ecc.

Dopo la morte di Kant vennero pubblicate le lezioni sulla Dottrina filosofica della religione e quelle sulla metafisica.

La filosofia critica. Il semplice prospetto degli scritti di Kant mostra come l’indirizzo critico della sua filosofia si sia venuto determinando attraverso l’influenza, sempre decisiva, dell’empirismo inglese. Oltre all’empirismo inglese Kant si mantenne per tutta la vita fedele alla dottrina degli illuministi tedeschi che a loro volta facevano capo a Leibniz e al suo principio di una ragione problematica opposta alla ragione geometrica e necessaria dei cartesiani e di Spinoza. Ora, Kant si accorse ben presto come non potesse sussistere l’idea della possibilità come semplice assenza di contraddizione. Affinché una cosa sia possibile deve contenere, oltre alla pura formalità logica della non contraddizione, un’esistenza, una realtà, un dato. Le conclusioni di questo indirizzo e di questa convinzione, sono tratte nei Sogni di un visionario. Il metodo della ragione fondante non può essere adoperato nel vuoto e in astratto, ma soltanto sul solido terreno dell’esperienza. La metafisica non appare a Kant come la scienza di tutti gli oggetti possibili in quanto possibili, come avevano detto Wolff e gli illuministi tedeschi; ma piuttosto come la scienza dei limiti della ragione umana, giacché essa deve determinare in primo luogo il limite intrinseco del possibile, che è l’esperienza. Kant accettava così in pieno il punto di vista di Locke, punto di vista che si può riassumere in due proposizioni fondamentali: 1) la ragione non può spingersi al di là dei limiti dell’esperienza. 2) l’esperienza è il mondo dell’uomo; il mondo di quei problemi che stanno a cuore all’uomo. Ma questo punto di vista era da Kant innestato e fuso col metodo dell’Illuminismo: la ragione deve fondare proprio su questi limiti le capacità e i poteri dell’uomo. Con l’innesto e la fusione di queste due esigenze la filosofia critica di Kant era nata.

«Per raggiungere un fondamento sicuro, questa dimostrazione [la prova cosmologica] si fa forte dell’esperienza, gabellandosi in tal modo come diversa dalla prova ontologica, che si affida interamente a concetti puri a priori. Ma l’esperienza è utilizzata dalla prova cosmologica esclusivamente per fare un primo passo e giungere all’esistenza d’un essere necessario in generale. La ragione crede, poi, di poter trovare i requisiti richiesti soltanto nel concetto dell’essere realissimo, e perciò conclude che esso è l’essere assolutamente necessario. Ma è chiaro che qui si presuppone che il concetto dell’essere fornito della suprema realtà sia tale da soddisfare completamente al concetto della necessità assoluta nell’esistenza, cioè che sia possibile conchiudere da questa a quella; tale principio era stato asserito dall’argomento ontologico, e viene trasferito alla prova cosmologica quale suo fondamento, mentre si era partiti dal presupposto di evitarlo». (Critica della Ragion pura, tr. it., Torino 1967, pp. 485-486).

L’analisi trascendentale. Il riconoscimento dei limiti che l’attività umana incontra in ogni campo non toglie, secondo Kant, valore a questa attività, ma anzi è l’unica garanzia possibile della sua validità. In altri termini una scienza dei limiti della ragione umana non è soltanto l’accertamento o la constatazione di tali limiti, ma anche e soprattutto la giustificazione, proprio a causa di essi e sul loro fondamento, dei poteri della ragione. È questo l’aspetto fondamentale della filosofia di Kant, aspetto per il quale essa fu intesa e praticata dal suo autore come analisi trascendentale.

Tuttavia nel modo in cui la ragione possa segnare i suoi limiti ed ergersi a giudice di se stessa, Kant fu evidentemente a lungo indeciso. La Dissertazione presenta a questo problema una risposta diversa da quella che fu data nella Critica della ragion pura. Nella lettera al Lambert, con la quale accompagnava l’invio della Dissertazione, Kant prospettava l’esigenza di una scienza speciale, puramente negativa, detta Fenomenologia generale che avrebbe dovuto determinare il valore e i limiti della sensibilità stessa e quindi dell’intelletto. E in realtà nella Dissertazione, Kant si è servito della netta distinzione tra mondo sensibile e mondo intelligibile allo scopo esplicito di segnare i limiti della sensibilità ma col risultato involontario (che diventa poi volontario ed esplicito nella Critica) di stabilire anche i limiti della ragione. Con la Dissertazione Kant ha realizzato l’analisi trascendentale del mondo sensibile, ma non già quella del mondo intellettuale, che rimane quindi ancora ancorata nel suo pensiero alla metafisica dogmatica ed ai suoi procedimenti. Se si esaminano però i princìpi che egli stabilisce nella quarta parte dello scritto, intorno alla metafisica, si vede subito che questi princìpi implicano anche una limitazione delle possibilità di questa scienza. Kant giunge ad ammettere che tutto ciò che non può essere conosciuto non può essere assolutamente pensato: dunque è impossibile. E questo sarà poi il principio di critica della ragion pura. Quest’opera segna la decisione di Kant di estendere l’analisi trascendentale a tutto il dominio delle possibilità umane, a cominciare della conoscenza razionale. Kant si è convinto nei dieci anni intercorrenti tra la Dissertazione e la Critica, che non solo la sensibilità, ma anche per la vita morale, per il gusto, per la conoscenza razionale, vale il principio della filosofia trascendentale, che ogni facoltà o atteggiamento dell’uomo può trovare la garanzia della sua validità, il suo fondamento solo sul riconoscimento esplicito della sua validità.

A questo punto possiamo ricapitolare la via seguita da Kant sino al raggiungimento completo del punto di vista trascendentale della sua filosofia. Negli studi giovanili di filosofia naturale, Kant si è venuto familiarizzando con la filosofia naturalistica dell’Illuminismo ispirata da Newton. Tale filosofia, col suo ideale di una discrezione matematica dei fenomeni e con la rinuncia ad ammettere cause e forze che trascendessero tale descrizione, gli ha prospettato l’esigenza di una metafisica che si costituisse in base agli stessi criteri limitativi. Tale metafisica avrebbe dovuto valersi tuttavia del metodo della ragione fondante, che dominava l’ambiente filosofico in cui Kant si era formato. Le analisi degli empiristi inglesi, verso i quali egli si orienta a causa di quella stessa esigenza, gli prospettano dapprima questa metafisica come scienza limitativa e negativa, quindi come autocritica della ragione. Successivamente, nella Dissertazione, il punto di vista critico si chiarisce come punto di vista trascendentale, limitatamente alla conoscenza sensibile. In seguito il punto di vista trascendentale viene esteso a tutto il mondo dell’uomo.

La critica della ragion pura. La conclusione della filosofia di Hume era che l’uomo anche mantenendosi nei limiti dell’esperienza non può mai raggiungere la stabilità e la sicurezza di un sapere autentico. Il sapere umano è tutt’al più un sapere probabile, che viene anche esso a mancare quando l’uomo trascura l’esperienza e si avventura sulle vie della metafisica. Tali conclusioni sono controbattute da Kant, il quale sostiene che un sapere autentico esiste, ed è la nuova scienza matematica della natura; in secondo luogo, per quanto la metafisica sia chimerica, essa pone un problema che deve essere risolto, quello dell’uomo che trascende l’esperienza, per addentrarsi nei meandri di questa scienza fasulla che è la metafisica. L’indagine critica che nega la possibilità di risolvere certi problemi non può trascurare la genesi di questi stessi problemi e la loro radice nell’uomo. Essa istituisce il tribunale che garantisce la ragione nelle sue pretese legittime e condanna quelle che non hanno fondamento sulla base del limite che è intrinseco alla ragione stessa come legge immutabile. Tale tribunale è la critica della ragion pura cioè un’autocritica della ragione in generale rispetto a tutte le conoscenze alle quali può aspirare indipendentemente dall’esperienza. A tale critica spetta decidere sulla possibilità o meno della metafisica, nonché sulle sue fonti, sulla sua estensione e sui suoi limiti.

Il primo compito della critica della ragione sarà allora quello di scoprire, isolandoli, quegli elementi formali della conoscenza, che Kant chiama puri o a priori, nel senso che sono prima di ogni riferimento all’esperienza e indipendenti da essa. Il secondo compito della critica della ragione pura sarà quello di determinare l’uso possibile degli elementi a priori della conoscenza, cioè il metodo della conoscenza medesima. Sicché la critica della ragion pura si dividerà in due parti: la dottrina degli elementi e la dottrina del metodo. E poiché si chiama trascendentale ogni conoscenza in quanto deve riguardare non già gli oggetti ma il modo di conoscerli; così ci sarà una dottrina trascendentale degli elementi e una dottrina trascendentale del metodo.

Ora il primo risultato che scaturisce dal concetto della conoscenza umana come sintesi di due elementi, uno formale o a priori e l’altro materiale o empirico è che l’oggetto della conoscenza non è l’essere in sé, ma il fenomeno. Conoscere per l’uomo non significa creare, l’intelletto umano non produce, conoscendola, la realtà che è il suo oggetto. Soltanto l’intelletto divino crea e il suo creare è dato dal conoscere. L’intelletto umano non intuisce, ma pensa, non crea, ma unifica; gli deve essere dato quindi da altra fonte il soggetto da pensare, il molteplice da unificare.

Le forme a priori della sensibilità o intuizioni sono lo spazio e il tempo, i quali non sono dunque né concetti né qualità delle cose, ma condizioni della nostra intuizione di esse. Noi non possiamo percepire nulla se non è nello spazio e nel tempo. Ma la nostra conoscenza non si ferma alla sensibilità che è passività, essa è anche pensiero, cioè attività. Ora, siccome tale attività non è creativa, essa produce tramite dei concetti. E siccome l’unico uso possibile per l’intelletto di questi concetti è il giudizio, le forme a priori del pensiero saranno tante quante sono le forme di giudizio. A questo punto Kant dà una tavola dei giudizi e una conseguente tavola delle categorie, che sono la parte più caduca della dottrina del filosofo. Queste tavole sono ricavate della dottrina aristotelico-scolastica, e appunto a causa della filosofia di Kant non hanno più ragione di esistere. La vecchia logica si fondava su una forma della conoscenza empirico-descrittiva, cioè la conoscenza era data dall’astrarre da un particolare oggetto la forma. Kant è rimasto fedele a questa partizione scolastica delle categorie col risultato di rendere macchinose e confuse molte sue conclusioni.

Ora il significato delle categorie è indipendente dalla loro classificazione. Per potere pensare un concetto è necessario riferirlo a una concezione a priori, cioè a una categoria; quindi gli elementi necessari di ogni conoscenza umana, sono intuizioni e concetti. Nessuno di essi può mancare: le intuizioni senza concetti sono cieche, i concetti senza le intuizioni sono vuoti. La conoscenza nella sua concretezza è sempre sintesi di intuizioni e di concetti. Ma a questo punto si presenta a Kant il più difficile problema della Critica: la dimostrazione che veramente le categorie sono necessarie all’esperienza e che non è possibile un’esperienza senza di esse. Questa dimostrazione è chiamata da Kant con un termine giuridico, deduzione, e poiché ha per oggetto funzioni a priori è una deduzione trascendentale.

«La veridicità in dichiarazioni a cui non ci si possa sottrarre è un dovere formale dell’uomo nei confronti di tutti, anche qualora ciò sia fonte, per sé o per un altro, di grandi svantaggi. E se anche, affermando il falso, io non facessi un torto a chi mi costringe ingiustamente a rendere una dichiarazione, tuttavia, attraverso tale falsificazione (che perciò può essere chiamata anche menzogna, sia pure in senso non giuridico) farei un torto gravissimo al dovere stesso in generale. Se, quindi, definiamo la menzogna semplicemente come una dichiarazione intenzionalmente falsa resa a un altro uomo, non occorre più che specificare ulteriormente che essa deve recare danno ad altri, come pretendono i giuristi». (Sul presunto diritto di mentire per amore dell’umanità, in I. Kant e B. Constant, La verità e la menzogna, tr. it., Milano 1996, p. 288).

La deduzione trascendentale. Essa non concerne una questione di fatto, ma semplicemente una questione di diritto. Non concerne cioè la questione se le categorie siano effettivamente quelle; ma solo la questione se esse hanno la validità a cui pretendono.

La deduzione trascendetale è facile e ovvia per ciò che riguarda le forme della sensibilità, spazio e tempo. Un oggetto non può apparire all’uomo, cioè essere percepito da lui se non attraverso queste forme. Per ciò che riguarda le forme dell’intelletto il problema è più difficile; difatti bisogna giustificare la validità dei concetti di cui l’uomo si serve per pensare gli oggetti, cioè dimostrare che le forme a priori del pensiero si riferiscono necessariamente agli oggetti dell’intuizione. Ma in realtà l’esperienza non è soltanto intuizione: esige, oltre l’intuizione, da cui l’oggetto è dato, anche un concetto dell’oggetto. Vi devono essere dunque concetti di oggetti come condizioni a priori dell’esperienza: le categorie sono appunto tali concetti a priori. Ma le categorie sono frutto dell’attività del pensiero. Come può il pensiero, attività soggettiva, condizionare l’esperienza e gli oggetti stessi dell’esperienza? Evidentemente, la deduzione trascendentale deve fare qui il passo decisivo: deve riconoscere nel cuore stesso della soggettività il principio dell’oggettività.

Hume aveva già attribuito al soggetto la connessione tra fenomeni che costituisce l’esperienza: ma così il valore oggettivo dell’esperienza era andato irrimediabilmente perduto. Kant trova la soluzione del problema radicando nella soggettività dell’uomo l’oggettività dell’esperienza cioè riconoscendo essenziale alla stessa soggettività il riferimento oggettivo. Il fondamento di questa unità è in quella che Kant chiama unità sintetica originaria dell’appercezione, l’io penso. Qui sta l’originalità e la forza della soluzione kantiana.

«La legge morale è l’unico motivo determinante della volontà pura. Ma, poiché questa legge è semplicemente formale (cioè, richiede soltanto la forma della massima, come universalmente legislativa), così essa, come motivo determinante, astrae da ogni materia, e perciò da ogni oggetto, del volere». (Critica della ragion pratica, tr. it., Bari 1967, p. 132).

L’analitica dei princìpi. Determinate le categorie che presiedono alla costituzione dell’esperienza e giustificate queste categorie con la deduzione trascendentale, Kant passa a determinare le regole secondo le quali si devono applicare ai singoli casi.

Categorie e intuizioni sono tra loro eterogenee, e appunto questa eterogeneità fa nascere il problema di come sia possibile l’applicazione delle categorie alle intuizioni. Ora, secondo Kant, il termine intermedio, che è omogeneo da un lato con la categoria e dall’altro con l’intuizione empirica o fenomeno, è lo schema trascendentale. Lo schema è un prodotto dell’immaginazione, ma non è un’immagine perché contiene in sé qualche cosa del concetto puro. Esso è definito come il procedimento generale per il quale l’immaginazione fornisce a un concetto la sua immagine. Mentre l’immagine è il prodotto dell’immaginazione, lo schema è la pura possibilità dell’immagine; la quale perciò si riconduce al concetto soltanto attraverso lo schema, ma per suo conto non coincide mai con esso. Kant enumera gli schemi in rapporto alle singole categorie, così lo schema delle categorie di quantità è il numero, quello delle categorie di qualità è la cosa, quello delle categorie di relazione è la permanenza, o la simultaneità.

«La libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse. Qui io non domando se esse siano anche diverse di fatto o se una legge incondizionata non sia piuttosto la semplice coscienza di sé di una ragion pura pratica, e se questa sia identica al concetto positivo della libertà; ma domando dove ha inizio la nostra conoscenza dell’incondizionato pratico, se dalla libertà o dalla legge pratica. Non è possibile che prenda inizio dalla libertà, di cui non possiamo né aver coscienza immediata, perché il primo concetto di essa è negativo, né conoscenza mediata dall’esperienza. È quindi la legge morale della quale diventiamo consci, ciò che ci si offre per il primo e che ci conduce direttamente al concetto della libertà, in quanto la ragione presenta quella legge come un motivo determinante che non può essere sopraffatto dalle condizioni empiriche perché del tutto indipendente da esse». (Critica della ragion pratica, in P. Chiodi (a cura di), Scritti morali di Immanuel Kant, tr. it., Torino 1986, pp. 166-167).

Riconosciuta nello schematismo la condizione generale delle categorie, Kant passa a determinare i giudizi a cui questo uso dà luogo. Evidentemente non si tratta di giudizi analitici, la cui verità è garantita dal solo principio di contraddizione, ma semplicemente di giudizi sintetici, ai quali è indispensabile un riferimento all’esperienza. Ma l’esperienza non è solo il limite della conoscenza, è anche la base del suo valore. Una conoscenza che non si riferisca a una possibile esperienza non è conoscenza, è vuoto pensiero che non conosce, semplice gioco di rappresentazioni. L’esperienza, dall’altro canto, non è un semplice aggregato di percezioni, è la connessione necessaria tra i fenomeni. La possibilità dell’esperienza risiede dunque nelle regole fondamentali di questa connessione, che Kant chiama princìpi dell’intelletto puro. Essi garantiscono dunque la validità oggettiva dell’esperienza sottraendola alla soggettività della percezione.

«Il bello e il sublime concordano in questo, che entrambi piacciono per se stessi. Entrambi inoltre non presuppongono un giudizio dei sensi od un giudizio logico determinante, ma un giudizio riflettente; di conseguenza, la soddisfazione non dipende da una sensazione, come nel caso del piacevole, né da un concetto determinato, come nel caso della soddisfazione dipendente dal buono, ma tuttavia viene riferita a concetti, sebbene indeterminati. La soddisfazione è pertanto legata alla mera presentazione, o alla facoltà relativa, in modo che la facoltà di presentazione, o immaginazione, in una data intuizione, viene considerata in accordo con la facoltà dei concetti dell’intelletto o della ragione, la cui attività essa promuove. Per questo, inoltre, entrambi i giudizi sono singolari, ma si presentano come universalmente validi per ogni soggetto, sebbene pretendano solo al sentimento del piacere e non alla conoscenza dell’oggetto». (Critica del giudizio, tr. it., Torino 1993, pp. 219-220).

II noumeno. Insieme alla deduzione trascendentale e strettamente legata con esso, la dottrina del noumeno costituisce il caposaldo della filosofia kantiana. La distinzione tra fenomeno e noumeno è introdotta nella Dissertazione con la distinzione tra mondo sensibile e mondo intelligibile. A questa distinzione, che Kant riconduceva alla metafisica tradizionale, la Critica della ragion pura dà un nuovo significato.

Essa aveva ormai riconosciuto e saldamente stabilito che la conoscenza umana è chiusa nei limiti dell’esperienza e che l’esperienza non concerne altra realtà che il fenomeno. Ma questo principio dà origine a un duplice problema. In primo luogo è quello di spiegare l’illusione per la quale si tende a estendere le categorie dell’intelletto al di là dei limiti dell’esperienza sensibile, cioè alle cose in se stesse. In secondo luogo, quello di spiegare la funzione del noumeno nei confronti della stessa esperienza cioè della conoscenza umana.

«La legge morale deve anche condurre alla possibilità del secondo elemento del sommo bene, che consiste nella felicità proporzionata a questa moralità, in modo altrettanto disinteressato, per semplice e imparziale ragione; deve cioè condurre alla supposizione dell’esistenza di una causa adeguata a tale effetto; ossia a postulare l’esistenza di Dio come rientrante necessariamente nella possibilità del sommo bene». (Critica della ragion pratica, in Scritti morali, tr. it., Torino 1995, p. 272).

Sul primo problema l’atteggiamento di Kant è chiaro e definito sin dal principo. Quell’illusione nasce dal fatto che le forme a priori dell’intelletto non dipendono dalla sensibilità, e questo le fa apparire applicabili anche al di là della sensibilità stessa, quasi che il pensiero potesse raggiungere l’essere in sé.

Tuttavia il noumeno non è soltanto un’illusione. Riconoscere come fenomeni gli oggetti dell’esperienza significa implicitamente contrapporre a essi oggetti non fenomenici. Questi oggetti sono dunque possibili. Ma sul significato della loro possibilità, e quindi sulla funzione che tale possibilità esercita sulla conoscenza umana, le idee di Kant si sono chiarite molto lentamente.

Nella prima edizione della Critica e dei Prolegomeni il noumeno, pur essendo stato riconosciuto come una possibilità logica, viene chiamato a esercitare una funzione positiva sulla conoscenza e trattato come una realtà, sebbene ignota. Io ammetto – dice Kant confutando Berkeley – che fuori di noi ci siano dei corpi, cioè cose in se stesse che noi conosciamo non nella loro sostanza, ma per mezzo delle rappresentazioni che il loro influsso sulla nostra sensibilità ci fornisce e alle quali noi diamo la determinazione di corpo; la quale parola quindi significa il fenomeno dell’oggetto che a noi è sconosciuto, ma che non per questo è meno reale.

È evidente che in queste considerazioni il noumeno non è soltanto come Kant tuttavia aveva riconosciuto esplicitamente nella stessa prima edizione della Critica, una possibilità logica, ma una realtà, cioè una possibilità trascendentale, di cui Kant si avvale positivamente per spiegare la costituzione e l’origine della natura umana. Nella seconda edizione della Critica viene eliminata questa incongruenza. I passi che fanno del noumeno una realtà psicologica, cioè un io stabile e durevole, sono tagliati fuori; insieme ai passi che riguardano la funzione positiva del noumeno nella costituzione e nella origine della conoscenza umana; e viene realizzato sino in fondo il concetto del noumeno come pura possibilità negativa e limitativa.

La Critica della ragion pratica. La dottrina morale di Kant sembra che a prima vista elimini tutti i limiti che la ragione incontra nel suo teoretico uso e che spalanchi all’uomo la porta vietata del noumeno. La ragion pratica conferisce realtà oggettiva a quelle idee trascendentali che la ragione teoretica doveva riconoscere soltanto come problemi. L’uomo come soggetto della vita morale si colloca nel dominio del noumeno; e la coscienza che teoricamente lo rapportava a se stesso soltanto come fenomeno, lo mette qui in presenza della sua essenza noumenica. L’uomo si libera, a causa della legge morale, dal determinismo causale al quale è sottoposto come ente che vive nella natura e si afferma libero positivamente, cioè capace di iniziare una nuova serie causale, indipendentemente dalla causalità della natura.

Questo potrebbe interpretarsi come un contrasto tra la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica; ma se si confrontano i temi fondamentali delle due opere si vede come risulta la fondamentale unità della loro ispirazione. Nella Ragion pura circola come tema dominante la polemica contro l’arroganza della ragione che pretende di oltrepassare i limiti umani. Nella Ragion pratica circola come tema dominante la polemica contro il fanatismo morale come velleità di trasgredire i limiti della condotta umana. La Ragion pura oppone la conoscenza umana, fondata sull’intuizione sensibile dei fenomeni, a una problematica conoscenza divina fondata sull’intuizione intellettuale della cosa in sé. Allo stesso modo la Ragion pratica oppone la moralità umana, che è il rispetto della legge morale, alla santità, che è la conformità perfetta della volontà alla legge. Infine la Ragion pura prospetta il noumeno come condizione dell’impegno dell’uomo nella ricerca empirica: la Ragion pratica prospetta lo stesso noumeno come condizione dello impegno morale.

Questi sono i capisaldi fondamentali della Critica della ragion pratica. Per essi la moralità è lontana ugualmente dalla pura sensibilità e dalla razionalità assoluta. Se l’uomo fosse solo sensibilità, le sue azioni sarebbero determinate solo dagli impulsi sensibili. Se fosse solo razionalità sarebbero necessariamente determinate dalla ragione. Ma l’uomo è nello stesso tempo sensibilità e ragione, può seguire l’impulso e seguire la ragione: in questa possibilità di scelta consiste la libertà che ne fa un essere morale.

La legge morale, non viene all’uomo dal di fuori. Essa è un fatto della sua stessa costituzione razionale. Nel seguire la legge, la volontà umana si fa legge a se stessa, si afferma come ragion pura pratica, come principio razionale di azione.

Importante è la distinzione che Kant fa tra legalità e moralità: la legalità è la conformità alla legge di un’azione che però è fatta per un altro movente di natura sensibile, per esempio in vista di evitare un danno o di ottenere un vantaggio. La moralità invece è la conformità immediata della volontà alla legge, senza il concorso degli impulsi sensibili.

«Lo stato di pace tra uomini assieme conviventi non è affatto uno stato di natura (status naturalis). Questo è piuttosto uno stato di guerra, nel senso che, se anche non vi sono sempre ostilità dichiarate, è però continua la minaccia che esse abbiano a prodursi. Dunque lo stato di pace dev’essere istituito. Primo articolo definitivo per la pace perpetua: “La costituzione civile di ogni Stato dev’essere repubblicana”. E siccome in fatto di associazione di popoli della terra (più o meno stretta o larga che sia) si è progressivamente pervenuti a tal segno, che la violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma il necessario coronamento del codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, per la fondazione di un diritto pubblico in generale e quindi per l’attuazione della pace perpetua». (Per la pace perpetua. Progetto filosofico, in La pace, la ragione e la storia, tr. it., Bologna 1985, pp. 105-106).

Ma il tema dominante della Critica della ragion pratica è l’opposizione tra moralità e santità. La santità esclude la possibilità di sottrarsi alla legge e rende inutile l’imperativo e la costrizione del dovere. Ma la moralità è un obbligo e implica una violenza fatta agli impulsi. «Noi siamo membri legislatori di un regno morale reso possibile dalla libertà e rappresentato dalla ragion pratica; ma siamo i sudditi, non il sovrano di esso e il disconoscere la nostra condizione di inferiorità di creature, il rifiuto presuntuoso dell’autorità della legge, è già un’infedeltà allo spirito della legge, anche quando se ne conservi la lettera. La santità va dunque riservata a Dio, e riconosciuta anzi, insieme alla beatitudine ed alla saggezza, una delle proprietà che spettano a lui solo perché suppongono l’assenza di limiti. Ma né l’uomo né alcuna creatura razionale può attribuirsela se non per una presunzione illusoria». (Critica del giudizio, op. cit., p. 211).

L’enorme influsso della dottrina kantiana è dovuto alla realità degli elementi che essa racchiude. La messa in rilievo dell’attività del soggetto come condizione della validità dell’esperienza, è il superamento dello scetticismo. La rivendicazione del primato dello spirito sulla materia contro ogni svalutazione empiristica è l’abbattersi del materialismo. L’esaltazione del valore assoluto della legge morale, è il riconoscimento della libertà del volere come centro della vita umana.

«Che cosa sia la modalità di un giudizio di gusto. Di ogni rappresentazione posso dire che è almeno possibile che essa (in quanto conoscenza) sia legata a un piacere. Di ciò che dico piacevole affermo che produce in me realmente piacere. Quanto al bello, si pensa che esso abbia col piacere una relazione necessaria. Questa necessità è però di natura particolare: non una necessità teorica oggettiva, per la quale si possa a priori riconoscere che ognuno proverà la stessa soddisfazione per l’oggetto che io ho chiamato bello; neppure una necessità pratica, per la quale, mediante i concetti di un volere razionale puro, che serve da regola a un agente libero, questa soddisfazione rappresenti la necessaria conseguenza d’una legge oggettiva, e non significhi altro che il dovere assoluto d’agire in un certo modo (senz’altro intento). Definizione del bello dedotta dal quarto momento. Bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto d’una soddisfazione necessaria». (Ib., p. 213).

La polemica sul kantismo

La dottrina di Kant è la grande protagonista di tutta la filosofia dell’Ottocento; essa ha aperto una problematica nuova, che sarà suscettibile di sviluppi nelle più svariate direzioni.

Friedrich Schiller (1759-1805)

Uno dei contemporanei di Kant su cui è evidente l’influsso positivo della dottrina kantiana. Tra i suoi scritti più notevoli è quello sulla grazia e la dignità, nel quale la dignità morale viene considerata come l’armonia tra lo spirito e la natura, il dovere un sollevarsi dello spirito sulle cose naturali. Continuando sulla strada tracciata dall’ottimismo di Shaftesbury, egli cerca di conciliare la profonda armonia fra natura e spirito, propria della speculazione shaftesburiana con i concetti kantiani. Tale tema tra la natura e lo spirito trova le sue migliori espressioni nel capolavoro filosofico di Schiller: le Lettere sull’educazione estetica. Qui Schiller comincia con il discernere una dualità nell’uomo che va conciliata: quella tra l’uomo fisico e l’uomo morale. Il primo vive sotto l’impero dei bisogni e si trova a causa di essi nella società, il secondo invece afferma la sua libertà. Ma l’uomo fisico è reale mentre quello morale è soltanto problematico. Dove Schiller dissente da Kant è nel considerare la libertà non come prodotto della pura ragione, bensì come uno stato di indeterminazione nel quale l’uomo non è costretto né fisicamente né moralmente, per quanta possa essere attivo in un modo o nell’altro. Ora se lo stato di determinazione sensibile si chiama fisico e quello di determinazione razionale si chiama morale, lo stato di determinabilità reale ed attiva si suole chiamare estetico. Lo stato estetico e uno stato di pura problematicità, in cui l’uomo può essere tutto ciò che vuole pur non essendo nulla di determinato. In altri termini la bellezza non dà nessun risultato né intellettuale né morale, tuttavia per essa soltanto l’uomo riceve la possibilità di fare di sé ciò che vuole; la libertà di essere ciò che deve essere.

«In una filosofia trascendentale, dove tutto mira a liberare la forma dal contenuto e a mantenere il necessario puro da ogni contingente, ci si abitua molto facilmente a considerare il materiale solo come ostacolo, e a rappresentare la sensibilità, appunto perché è di ostacolo in questa funzione, come in necessaria contraddizione con la ragione, e che tale rappresentazione, anche se non sta affatto nello spirito del sistema kantiano, potrebbe benissimo stare nella lettera di esso». (Saggi estetici, tr. it., Torino 1959, p. 250).

La filosofia della fede

La dottrina di Kant era stata l’ultima e più riuscita espressione del razionalismo illuministico. Tale apparve infatti ai suoi contemporanei. Kant aveva segnato alla ragione umana limiti ben precisi e invalicabili; ma proprio fondandola su questi limiti aveva chiarito la fondatezza delle sue pretese legittime. L’esigenza della fede e della tradizione sembrarono per opera sua escluse dalla filosofia. E proprio da esse fu determinata una prima reazione contro il kantismo.

Johann Georg Hamann (1730-1788)

La critica del kantismo fu iniziata da Hamann, un concittadino di Kant, impiegato di dogana, che fu in rapporto di amicizia con Kant, Herder, Jacobi e fu chiamato il Mago del nord. Secondo lui non la ragione ma la fede costituisce l’uomo nella sua totalità. Tale teoria si rifà un poco a quella di Hume che aveva trovato nella credenza l’unica base della conoscenza. Ma la fede di Hamann è una fede mistica, una esperienza nella quale trovano posto non soltanto i fatti naturali e le testimonianze dei sensi, ma anche i fatti storici e le testimonianze della tradizione. Nell’uomo, egli sostiene, coincidono tutti i princìpi oppositori del mondo e per quanto si cerchi con la filosofia di distinguerli e di spiegarli non si riuscirà mai a niente; soltanto con la fede, in un rapporto diretto tra uomo e Dio si potrà giungere a una spiegazione.

«Con la Ragione a me succede come a quell’antico con Dio (l’ideale della Ragione pura secondo il nostro Kant): più ci studio, meno vengo a capo di questo ideale o idolo della Divinità». (Lettera a Herder).

Johann Gottfried Herder (1744-1803)

Sulla stessa linea muove il pensiero di Herder, allievo di Kant e amico di Hamann. A Kant egli rimprovera il dualismo di materia e di forma, di natura e di libertà, e a questo dualismo contrappone l’essenza unica dello spirito e della natura che egli vede attuata nella dottrina di Spinoza. La più notevole manifestazione filosofica del fantastico spirito di Herder è il concetto del cristianesimo come di una religione dell’umanità, e della storia umana come un progressivo sviluppo verso la compiuta realizzazione dell’umanità stessa. Nelle Idee per una filosofia della storia dell’umanità afferma il principio che nella storia, come nella natura, ogni sviluppo è sottoposto a determinate condizioni naturali e a leggi mutabili. La natura è un tutto vivente che si sviluppa secondo un piano di organizzazione progressiva. In essa agiscono e lottano forze diverse e opposte. L’uomo, come ogni altro animale, è un suo prodotto, ma esso è al culmine dell’organizzazione, perché con lui nasce l’attività razionale, e quindi l’arte e il linguaggio che lo portano all’umanità e alla religione. La storia umana non fa che seguire la stessa legge di sviluppo della natura: natura e storia lavorano entrambi per l’educazione dell’uomo all’umanità. Ora, Dio che ha ordinato nel modo più saggio il mondo della natura, non potrebbe mai permettere che la storia del genere umano si svolga senza un piano qualsiasi, al di fuori della sua saggezza e della sua bontà. Così, come c’è un Dio nella natura vi è anche un Dio nella storia. La filosofia della storia di Herder è l’estensione del panteismo di Shaftesbury al mondo storico e prelude al concetto proprio della storia dell’idealismo romantico.

«La lingua è un organo naturale dell’intelletto, il segno esteriore distintivo del genere umano come la ragione è il segno interiore di esso». (Saggio sull’origine del linguaggio, tr. it., Roma 1954, p. 47).

Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819)

Il tema della fede quale è sviluppato dai precedenti filosofi si ispira al panteismo dei vari Bruno, Spinoza e Shaftesbury, ora il tema è ripreso da Jacobi e risolto in senso trascendente e cristiano. Questo filosofo si pone una domanda cruciale: è l’uomo che ha la ragione o è la ragione che ha l’uomo. Per lui non c’è dubbio: la ragione è uno strumento. Questo risulta da due rappresentazioni originarie: quella dell’incondizionato e quella del condizionato, il primo è Dio il secondo siamo noi. Abbiamo quindi dell’incondizionato una certezza assai maggiore di quella che abbiamo del condizionato perché quest’ultimo presuppone il primo. Ma questa certezza non è data dalla ragione, essa è una certezza di fede. Questa fede non è naturalmente arbitraria, essa è una legge scritta nei cuori umani e che già gli uomini seguono anche se la negano.

La filosofia della fede costituisce un primo tentativo di sfuggire ai limiti che Kant aveva segnato alle possibilità umane, tentativo che fa appello a un diretto rapporto con il soprasensibile. Contro questo tentativo lo stesso Kant interveniva nello scritto Che cosa significa orientarsi nel pensare, nel quale ribadiva che la fede non può fondarsi che su di un postulato della ragion pratica e che essa non ha certezza teoretica ma solo verosimiglianza, cosa che basta a tutte le esigenze della condotta morale. L’altro tentativo di sottrarsi a quegli stessi limiti si dirige contro il concetto cardine del criticismo, quello della cosa in sé, che costituisce il riconoscimento del limite delle possibilità umane: limite per il quale l’intelletto pensa gli oggetti ma non li produce onde è un’attività puramente formale ma non creatrice. Ora, con il disconoscimento della cosa in sé, l’intelletto diventa intuitivo o creatore e perde quella finitudine che, secondo Kant, era la sua stessa natura.

«Voglio rendermi chiaro con l’intelletto una sola cosa, cioè la mia devozione naturale a un Dio incognito». (Lettere sulla dottrina di Spinoza, tr. it., Bari 1914, p. 4).

Karl Leonhard Reinhold (1758-1823)

Per primo a mettersi su questa strada è Reinhold, un discepolo di Kant La sua opera principale è intitolata: Nuova teoria della facoltà rappresentativa umana. In effetti Reinhold parte con un errore di principio: egli basa tutta la filosofia kantiana sulla coscienza, mentre essa in Kant non era che la possibilità di un rapporto che non si esaurisce nella coscienza ma procede al di là di essa verso il fenomeno. Reinhold include anche il fenomeno nella coscienza e riduce tutto a rappresentazione. Per lui rappresentazione e coscienza sono inseparabili e la coscienza non è che la rappresentazione. Reinhold fa quindi una rielaborazione del kantismo ma elimina la parte principale, la deduzione trascendentale.

Gottlob Ernst Schulze (1761-1833)

Contro l’elaborazione che ne diede Reinhold, ebbero buon gioco gli attacchi di Schulze, che perciò non intaccarono il vero kantismo. La tesi di Schulze è che Kant si è servito del ragionamento ontologico degli scolastici proprio mentre si accingeva a confutarlo. La conoscenza può essere pensata solo con un giudizio sintetico a priori, dunque vi è un tale giudizio; la universalità e la necessita devono essere contrassegnate come forme della conoscenza, e quindi non possono fondarsi che sulla ragion pura. Ora siccome Kant dimostra, secondo la sua teoria della conoscenza, che esse non sono conoscibili, non ha fatto altro che dimostrare la inconoscibilità di una cosa basandosi su un presupposto di conoscibilità della cosa in sé. Naturale che questa critica si lasci sfuggire l’essenziale della dottrina di Kant, ma ha il merito di appuntarsi contro il concetto della cosa in sé, concetto che polarizza gli ulteriori sviluppi critici del kantismo.

«La rappresentazione è nella coscienza distinta dal rappresentato e dal rappresentante e riferita a entrambi. Su questo si fonda l’analisi della coscienza». (Versuch einer neuen Theorie des menschlicher Vorstellungsvermögens, ns. tr., Praga-Jena 1789, par. 17).

Salomon Maimon (1753-1800)

Su questi sviluppi ebbe molta influenza l’opera di Maimon, un ebreo polacco dalla vita avventurosa, che egli stesso narra in una sua autobiografia. Maimon giunge subito alle conclusioni a cui portava l’impostazione del kantismo data da Reinhold: la teoria di quest’ultimo diceva che tutto ciò che è rappresentazione è contenuto nella coscienza; ma la cosa in sé deve essere fuori della coscienza e indipendente da essa: quindi è una cosa non rappresentabile né pensabile, una non-cosa: come la radice quadrata di -a è una cosa impossibile, così la cosa in sé è un concetto impossibile. Questa negazione della cosa in sé costituisce un decisivo passo verso l’idealismo. Maimon afferma difatti che tutti i princìpi della conoscenza devono trovarsi nella coscienza, come elemento oggettivo della stessa coscienza. Ciò che è oggettivo, cioè ciò che è dato alla coscienza, non può essere una causa esterna alla coscienza perché fuori della coscienza non c’è nulla. Il dato è soltanto ciò di cui nella rappresentazione ci è sconosciuta non soltanto la causa ma anche l’essenza reale, di cui cioè abbiamo soltanto una coscienza compiuta. La caratteristica principale della dottrina di Maimon è che per essa l’oggetto non è antecedente alla conoscenza, ma piuttosto è conseguente in quanto è il termine finale dell’atto creativo del pensiero. L’oggetto stesso dell’induzione sensibile non è presupposto dal pensiero ma lo presuppone, perché un prodotto del pensiero stesso. Maimon ha in altri termini ammesso quella facoltà dell’intuizione intellettuale (cioè producente o creativa) che Kant aveva sempre tenuto tenacemente esclusa come superiore o estranea alle facoltà umane. In tal modo la via dell’idealismo era aperta.

«Il dato è soltanto ciò di cui nella rappresentazione ci è sconosciuta non soltanto la causa ma anche l’essenza reale, vale a dire ciò di cui abbiamo soltanto una coscienza incompiuta. Ma questa incompiutezza della coscienza può essere pensata da una coscienza determinata come un nulla assoluto soltanto attraverso una serie infinita di gradi; sicché il puro dato (quello che è presente senza alcuna coscienza di forza rappresentativa) è la pura idea del limite di questa serie al quale (come in una radice irrazionale) ci si può sempre avvicinare ma che non si può mai raggiungere». (Versuch über die Transzendentalphilosophie, ns. tr., Berlin 1790, p. 419).

I grandi filosofi dell’idealismo postkantiano

Johann Gottlieb Fichte (1762-1814)

Fichte nasce a Rammenau nel 1762 di poverissima famiglia, difatti compì i suoi studi di teologia lottando contro la miseria e la fame. Fece il precettore in Germania e a Zurigo. La filosofia di Kant decise la sua formazione filosofica: “io vivo in un mondo nuovo, scriveva entusiasticamente in una lettera, dacché ho letto la Critica della ragion pratica. Princìpi che credevo inconfutabili mi sono stati sgretolati; cose che io non credevo si potessero mai dimostrare mi sono state dimostrate, come a esempio il concetto dell’assoluta libertà del dovere, e io mi sento per ora assai più contento”. Divenne nel 1794 professore a Jena ma alcuni anni dopo scoppiò la polemica sull’ateismo che gli costò l’allontanamento dalla cattedra. La polemica fu causata dallo scritto Sul fondamento della nostra credenza nel governo divino del mondo, nel quale identificava Dio con l’ordine morale del mondo. Il Senato accademico, con l’approvazione di Goethe, invitò Fichte a dare le dimissioni, nonostante egli avesse lanciato un Appello al pubblico e nonostante una petizione degli studenti in suo favore.

Egli si recò a Berlino deve strinse rapporti con Schlegel, Schleiermacher, Tieck, ecc. Prima fu nominato professore a Erlangen, poi a Berlino e poi Rettore di quest’ultima università. Morì nel 1814 per una febbre infettiva comunicatagli dalla moglie che l’aveva contratta curando i soldati feriti.

Kant aveva riconosciuto nell’io penso il principio supremo di tutta la conoscenza. Ma l’io penso è un atto di autodeterminazione esistenziale che suppone già l’esistenza. Nell’interpretazione data al kantismo da Reinhold nasce il problema dell’origine del materiale sensibile. Schulze, Maimon e Beck hanno dimostrato impossibile la derivazione di esso dalla cosa in sé ed hanno anzi dichiarato chimerica la cosa stessa in sé in quanto esterna alla coscienza e indipendente da essa. Maimon aveva quindi già tentato di attribuire all’attività soggettiva la produzione del materiale sensibile e di risolvere nell’io l’intero mondo della conoscenza. Fichte trae per primo le necessarie conseguenze di queste premesse. Se l’io è l’unico principio, non solo formale ma anche materiale del conoscere, se alla sua attività è dovuto non solo il pensiero della realtà oggettiva, ma anche questa realtà stessa nel suo contenuto materiale, è evidente che l’io è non solo finito ma anche infinito. Se è finito in quanto a esso si oppone una realtà esterna, è infinito in quanto a esso si ricollega l’unica sorgente di questa stessa realtà. La sua infinita attività è il solo principio che spieghi la realtà esterna.

Tale è il punto di partenza di Fichte che è pertanto filosofo dell’infinito dell’io, della sua assoluta attività, e spontaneità e quindi della sua assoluta libertà.

La dottrina della scienza. Il concetto della Dottrina della scienza è quello di una scienza della scienza, cioè di una scienza che metta in luce il principio su cui si fonda la validità di ogni scienza, e che a sua volta si fondi, quanto alla sua validità, sullo stesso principio.

Il principio della Dottrina della scienza è l’io o autocoscienza. Gli scritti di Fichte sull’argomento sono vastissimi e comprendono: 1) Sul concetto della dottrina della scienza o della cosiddetta filosofia; 2) Fondamenti di tutta la dottrina della scienza; 3) Schizzo delle proprietà della dottrina della scienza di fronte alle proprietà teoretiche; 4) Prima introduzione alla dottrina della scienza; 5) Seconda introduzione; 6) Ricerca di una nuova rappresentazione della dottrina della scienza.

La prima Dottrina della scienza è il tentativo di dedurre dal principio dell’autocoscienza la vita teoretica e pratica dell’uomo. Fichte comincia a stabilire tre princìpi fondamentali di questa deduzione. Il primo principio è ricavato dalla legge d’identità propria della logica tradizionale. Un concetto è identico a se stesso (il triangolo è triangolo). Ora questo rapporto è posto dallo io perché è l’io che giudica di esso. Ma l’io non può porre questo rapporto se non si pone esistente, cioè l’io non può affermare nulla senza prima affermare in primo luogo la propria esistenza; che esso è in quanto si pone; e che l’autocoscienza è il principio di ogni conoscenza. L’io viene quindi considerato come una pura attività autoproducente e autocreatrice; ed esso è identificato con la sostanza di Spinoza. Insomma, l’io di Fichte non è altro che un’attività infinita e creatrice, riconosciuta intrinseca alla stessa coscienza finita dell’uomo.

Il secondo principio è quello dell’opposizione. L’io non solo pone se stesso ma oppone anche a se stesso qualcosa che in quanto gli è opposto è un non-io. Tale non-io è tuttavia posto dall’io stesso ed è quindi nell’io. Esso non toglie di mezzo l’io totalmente ma solo in parte; cioè lo limita. Una parte dell’io è distrutta dal non-io, non però tutto l’io.

Si ha infine il terzo principio che esprime l’esistenza di un non-io (mondo o natura) che si oppone all’io finito ma è ricompreso nell’io infinito dal quale è posto.

Ora, Fichte riconosce la differenza tra dogmatismo e criticismo. Vi sono uomini che non si sono ancora elevati al sentimento della propria libertà assoluta e perciò trovano se stessi solo nelle cose, sicché colgono la propria autocoscienza per riflesso solo dalle cose come da uno specchio; e questi sono i dogmatici. Chi diventa invece consapevole della propria indipendenza da ciò che è fuori di lui, non ha bisogno della fede nelle cose perché la fede in se stesso è immediata. Costui è l’idealista. La scelta di una filosofia dipende da quello che si è come uomo, un sistema filosofico non è un’inerte suppellettile che si possa prendere o lasciare a piacere, ma è animato dallo spirito. L’uomo che ha un carattere fiacco di natura o infiacchito dalle frivolezze non potrà mai elevarsi all’idealismo.

Infinito e finito: il panteismo. Fichte ha riconosciuto il vero significato dell’infinito dell’io. L’io è infinito in quanto si rende tale svincolandosi dagli oggetti stessi che esso pone; e pone questi oggetti perché senza di essi la sua libertà infinita non potrebbe sussistere. Fichte si ritenne il profeta e il fondatore di una vita morale migliore di quella attuata da Kant, in effetti egli non fece altro che far perdere alla vita morale il carattere specifico e identificarla con il pensiero. Nella Dottrina della scienza Fichte rimase a un concetto panteistico-spinoziano della divinità; difatti gli accenni a Spinoza sono molto frequenti. L’io infinito è la sostanza dell’io finito. In questo senso la religione non poteva essere intesa se non nel senso che egli chiarì nello scritto: Sul fondamento della nostra fede nel governo divino del mondo, che gli costò l’espulsione dall’università di Jena. Per delucidare un oggetto bisogna mettersi al di fuori di questo oggetto, sicché vivere significa: non filosofare e filosofare è non vivere. La deduzione della religione appartiene necessariamente all’io, difatti la fede nel governo divino del mondo fa parte della natura assoluta dell’io. Ora poiché per la coscienza sensibile l’oggetto assoluto è il mondo sensibile: in essa non può radicarsi la fede religiosa.

La dottrina della scienza dimostra come l’io faccia della libertà la sua fede assoluta: l’io e la libertà sono perciò il fondamento di ogni fede nel soprasensibile. Fichte identifica Dio con l’ordine morale del mondo in quanto dice: io e il mio scopo finale siamo inseparabili, così sono inseparabili lo scopo finale dell’io (la libertà) e l’ordine morale del mondo. Ma l’ordine morale del mondo è Dio stesso perché la fede in questo ordine morale ci viene dalla inseparabilità fra esso e lo scopo finale dell’io: si tratta di un ciclo chiuso che si completa e si ripercuote eternamente.

La Dottrina morale. Nel Sistema della dottrina morale Fichte estende i princìpi della dottrina della scienza al mondo morale. Il principio supremo è il fine supremo dell’attività morale, è l’attività infinita dell’io puro; questa a causa delle leggi della coscienza e specialmente di quella legge fondamentale per cui l’essere attivo si comprende soltanto come un soggetto e un oggetto uniti insieme, appare come attività su qualche cosa che è fuori di me. Tutto ciò che è compreso in questa apparenza, dallo scopo mio personale che non mi abbandona mai, alla rozza materia che costituisce il mondo dall’altro lato, non sono che termini intermedi dell’apparenza e perciò anche essi apparenze. L’unica pura verità è la mia autodeterminazione.

Partendo dall’attività pura dell’io, Fichte ha così operato la deduzione della natura sensibile e corporea dell’io finito. Ora, l’io ha due tendenze: l’impulso all’attività pura, in quanto è autocoscienza, e l’impulso alla liberazione dalla dipendenza delle cose naturali in quanto è essere naturale. Questi impulsi hanno origine in un unico impulso originario che è come l’io stesso soggetto e oggetto apparendo alla coscienza nello stesso tempo come impulso naturale e impulso spirituale, come impulso al piacere e impulso all’autoattività. L’unificazione dei due impulsi è l’impulso morale, il quale non nega o abolisce gli impulsi naturali, ma li subordina a sé.

Ora, Fichte trova come base della sua dottrina morale la legge “adempi in ogni modo al tuo destino”. Spieghiamo la sua genesi. L’impulso puro dell’io è una tendenza alla indipendenza assoluta, progressivo processo di liberazione che deve svolgersi all’infinito. Ma l’io non può mai diventare indipendente finché deve essere un io, dunque il fine ultimo dell’essere ragionevole trovandosi all’infinito, è un fine necessariamente irraggiungibile, sebbene tale che l’essere ragionevole debba incessantemente avvicinarglisi a causa della propria natura spirituale. Dunque è naturale la legge di Fichte: “Adempi in ogni modo al tuo destino”.

È da notare come la dottrina morale di Fichte si sia stabilita e costruita senza nessun riferimento alle relazioni tra gli uomini. L’attività morale si esaurisce per Fichte nel rapporto tra l’io empirico e l’io assoluto, anzi nel rapporto che l’io assoluto ha con se stesso attraverso l’io empirico e la naturalità che gli è propria. Solo nell’ultima parte della Dottrina morale, quando scende a determinare il sistema dei doveri particolari, Fichte si preoccupa di dedurre l’esistenza degli altri io e di stabilire il principio del loro rapporto. E bisogna convenire che mai come in questo caso la deduzione del filosofo appare così fiacca e poco convinta. Da notare, come in questa ultima parte, si trovi dimostrata l’idea di una missione sociale dei dotti, cioè del loro dovere di sorvegliare e di sollecitare il progresso dell’umanità: idea che fu sempre molto cara a Fichte.

Diritto e politica. La deduzione degli altri io individuali che compare soltanto nell’ultima parte della Dottrina morale, è invece l’inizio dei Fondamenti del diritto naturale secondo i princìpi della dottrina della scienza. Le cose corporee costituiscono bensì limiti o condizioni dello sforzo morale, ma non implicano nessuna sollecitudine allo sforzo stesso. Delle cose io debbo servirmi per la vita corporea, ma da esse non mi può venire la sollecitazione al dovere. Tale sollecitazione mi può venire da esseri che siano fuori di me e che siano come natura intelligenti. Questo riconoscimento è reciproco e apre quindi la via all’azione reciproca degli io tra di loro. La legge di questa azione reciproca è la legge giuridica. A differenza della moralità, che è fondata sulla buona volontà, il diritto vale anche senza la buona volontà, esso concerne esclusivamente le manifestazioni esterne della libertà nel mondo sensibile, cioè le azioni, e implica perciò una costrizione esterna, che la moralità esclude.

A causa dei rapporti di diritto l’io determina a se stesso una sfera di libertà che è la sfera delle sue possibili azioni esterne e si distingue da tutti gli altri io che hanno ognuno la propria sfera. La realizzazione del diritto non può essere affidata all’arbitrio delle persone, deve essere quindi garantita da una forza predominante che deve essere strettamente connessa con il diritto stesso. Questa forza è lo Stato. Pertanto con lo Stato si ottiene la condizione fondamentale del diritto e non si abolisce il diritto naturale, perché lo Stato non è altro che diritto naturale realizzato.

La crisi della speculazione in Fichte. Nella Dottrina della scienza Fichte aveva posto l’infinità dell’io nella finitudine dell’io stesso, cioè aveva riconosciuto nell’io infinito la vera sostanza spirituale e pensante dell’uomo. Concetto come si vede apertamente panteistico, basato sulle orme dello spinozismo. Ma a partire dalla polemica sull’ateismo, Fichte si evolve verso una maggiore valutazione della vita religiosa. Si possono riconoscere e addurre diverse circostanze. L’ostilità di buona parte dell’ambiente culturale tedesco verso il suo soggettivismo, ostilità che si era manifestata apertamente nella polemica sull’ateismo, fu l’argomento convincente, che instradò Fichte su nuove strade che dovevano portarlo molto lontano. A partire dal 1801 Fichte inizia parecchie rielaborazioni della Dottrina della scienza e batte soprattutto sul principio basilare di questa nella sua prima edizione: l’identificazione dell’infinito e del finito, identificazione che esclude ogni valutazione teologica e dichiara impensabile lo stesso concetto di Dio. Ma a un certo momento sorge nella mente di Fichte un dubbio: se l’uomo è in qualche misura partecipe della divinità, ciò non significa che la divinità si esaurisca nell’uomo e viva solamente in lui. Ma provare una simile cosa significava cercare di usare i mezzi del sapere (Dottrina della scienza) in un campo che è al di là del sapere umano. Cioè Fichte cercava di filosofare fuori della filosofia, come ben disse il suo amico Gian Paolo Richter in una lettera indirizzata a Jacobi.

Ora, la Dottrina della scienza come dottrina del sapere non può procedere al di là di ogni sapere possibile. Il limite del sapere è il non-sapere del sapere, cioè il non-sapere è il limite del sapere e nello stesso tempo è la sua origine. Perciò proprio nel considerare la sua origine e quindi il suo proprio non essere, il sapere coglie l’essere assoluto, e se stesso come immediata conseguenza di esso.

Trovato Dio nel non-sapere Fichte anche nelle successive rielaborazioni della Dottrina della scienza non si allontanò più da questo concetto. Soltanto vi apportò delle modificazioni. In una rielaborazione dal titolo: la Dottrina della scienza nel suo disegno generale (1810), si legge: “Il sapere non è Dio ed è fuori di Dio. Ma poiché l’essere divino è tutto in tutto, il sapere è l’essere di Dio fuori di Dio cioè l’esteriorizzazione di Dio. Esso non è l’effetto di Dio, perché ciò apporterebbe un mutamento nell’essere divino, ma l’immediata conseguenza dell’essere assoluto, cioè l’immagine o schema di lui”.

Forte di queste conclusioni egli le estende alla sua dottrina. Ogni essere fuori di Dio è apparenza o immagine di Dio, cioè sapere. Ogni essere fuori di Dio è perciò essere nell’intelletto e l’intelletto è l’assoluto elemento e il sostegno di ogni esistenza. Perciò compito della Dottrina della scienza non è dunque una dottrina dell’essere, ma dell’apparenza. La Dottrina della scienza è l’apparenza nella sua totalità.

«L’Assoluto è assolutamente ciò che è, riposa su e in se medesimo assolutamente senza mutamento né oscillazione, saldo, completo e chiuso in se stesso». (Dottrina della scienza (1801), tr. it., Padova 1939, p. 16).

Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854)

Schelling nacque a Leonberg nel 1775, a sedici anni entrò nel seminario teologico di Tubinga e divenne amico di Hegel, in seguito studiò matematica e scienze naturali e si recò a Jena per ascoltare le lezioni di Fichte. Venne poi nominato professore a Jena e visse gli anni più tranquilli e fecondi della sua vita. In seguito passò a insegnare a Erlangen e a Monaco e poi successe nella cattedra di filosofia dell’università di Berlino a Hegel. L’interesse dominante di Schelling è rivolto alla natura e all’arte; e anche nei primi scritti, che risentono dell’influenza di Fichte, questo interesse appare predominante. Situata tra il soggettivismo assoluto di Fichte e il razionalismo assoluto di Hegel, la speculazione di Schelling dovette combattere tra due fronti e, accettando lo stesso principio dell’infinità spirituale che è la base dell’uno e dell’altro, dovette tentare di garantire a questo principio un carattere di oggettività o di realtà che lo rendesse adatto a spiegare il mondo della natura e dell’arte. Legato di stretta amicizia con Hegel negli anni giovanili, Schelling considerò rotta questa amicizia quando Hegel, nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito, dichiarò il suo distacco da Schelling. Ma l’allontanamento da Hegel, e più ancora il successo che il suo ex amico e rivale incontrava, lo amareggiarono e lo resero astioso verso di lui, sicché Heine potette dire, dopo un colloquio con Schelling: “Se il calzolaio Jacob Böhme ha parlato qualche volta come filosofo, il filosofo Schelling parla adesso come un calzolaio”.

Uno dei primi saggi in cui si può facilmente trovare l’influenza della filosofia di Fichte è: Sulla possibilità di una forma della filosofia in generale. In seguito Schelling pubblicò: L’io come principio della filosofia; Progetto di un sistema di filosofia della natura; Bruno e il principio naturale e divino delle cose; Lezioni sul metodo dello studio accademico che sono una esposizione popolare del suo sistema; Ricerche filosofiche intorno all’essenza della libertà umana, ecc.

Negli scritti di Schelling si trova elaborato il concetto dell’infinito come assoluta identità di soggetto e oggetto, di spirito e natura. In questa elaborazione il pensiero speculativo di Schelling segue Fichte per quanto riguarda la spiritualizzazione della natura che diventa soggettiva o io, mentre abbandona le orme del suo maestro per quanto riguarda l’oggettivazione dello spirito che è diventato all’occhio di Schelling un principio creatore e produttivo. Ora, per Schelling la cosa più importante da fare non è giustificare l’attività infinita dell’io, come aveva tentato di fare Fichte, ma invece giustificare l’infinita attività della natura. Gli scritti del filosofo infatti mirano quasi tutti a riportare le varie scoperte del tempo nel campo della fisica, della chimica, dell’elettricità, ecc., al concetto dell’assoluto come identità e a ricostruire attraverso tali scoperte, una visione unica ed esemplare del mondo naturale, come realizzazione e rivelazione di un Assoluto che è nello stesso tempo natura e spirito, attività incosciente e ragione.

Il riconoscimento del valore autonomo della natura e quindi dell’assoluto come identità o indifferenza di natura e spirito, conduce Schelling ad ammettere due possibili direzioni della ricerca filosofica: l’una, la Filosofia della natura diretta a mostrare come la natura si risolva nello spirito; l’altra, la Filosofia trascendentale, diretta a mostrare come lo spirito si risolva nella natura. Per quanto riguarda la posizione nei rispetti del problema religioso, egli la chiarisce nel dialogo intitolato: Bruno o il principio divino e naturale di tutte le cose. Schelling ammette che il mondo della materia è frutto di una caduta, di un allontanamento della vita divina, e in questo si rifà esplicitamente a Platone. Ora la materia dopo l’allontanamento da Dio tende a ritornarvi e giustificare con questo ritorno la sua caduta e il suo allontanamento.

In tal modo la storia è tutta un epos rappresentato poeticamente nello spirito di Dio: L’Iliade sarebbe la caduta; l’Odissea il ritorno. E in questo ritorno sta la vera immortalità che non è mai immortalità individuale, perché l’individuo di per se stesso come finitudine è allontanamento e punizione; ma è palingenesi, cioè dissoluzione del mondo sensibile e la sua risoluzione totale nel mondo spirituale.

«A questo momento appartengono le mitologie egiziana e indiana, che, così come ogni mitologia particolare, possono essere qui trattate solo come momenti di decorso generale. Infine seguirà l’ultimo momento, in cui è decisa la vittoria e quel principio che persiste nella non spiritualità sarà compreso come tale appunto nella dissoluzione e la coscienza nella piena restaurazione a spirito. Dico compreso; infatti ove quel principio sia già stato completamente riportato alla pura potenzialità, là ha fine il processo mitologico. La fine stessa, tuttavia, può essere solo laddove la coscienza sia appunto compresa nell’ultimo atto di svincolarsi e liberarsi, ove appunto si renda completamente ciò che pone quel supremo che è lo stesso spirito; dove dunque certo essa non sia ancora questo supremo stesso, ma che tuttavia ponga solo dèi tali da essere appunto altrettante forme o figure di questo supremo, di A. Questo è dunque l’atto di nascita di quegli dèi puramente spirituali, che noi ritroviamo solo nella mitologia greca. Questo momento può essere paragonato al momento dell’incarnazione (la nascita dell’uomo) nella natura. Questa sarebbe dunque una descrizione generale del cammino che ora dobbiamo ancora percorrere (con tutti gli errori che un tal genere di specificazioni generali ha)». (Filosofia della mitologia, tr. it., Milano 1990, pp. 108-109).

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831)

Hegel nacque a Stuttgart. Seguì i corsi di filosofia all’università di Tubinga e si legò di amicizia con Schelling, amiciza che doveva durare per tutti gli anni della giovinezza, ma che una volta raggiunta la maturità, a causa delle divergenze di idee, fu sciolta. Nel 1805 divenne professore a Jena e fu redattore capo di un giornale bavarese ispirato alla politica napoleonica. Nel 1816 venne chiamato a Berlino per occupare la cattedra di filosofia. Cominciò allora il periodo del suo massimo successo, egli divenne il filosofo ufficiale dello Stato prussiano e il dittatore della cultura tedesca. Hegel morì a Berlino.

I primi scritti di Hegel sono di indirizzo religioso e politico: Religione di popolo e cristianesimo; Vita di Gesù; Lo spirito del cristianesimo e il suo destino.

Il primo scritto di filosofia fu la Differenza dei sistemi di filosofia di Fichte e Schelling. La prima grande opera di Hegel è la Fenomenologia dello spirito, nella cui prefazione dichiara il suo distacco dal sistema del suo amico Schelling, dichiarazione che produsse la rottura dell’amicizia. In seguito pubblicò: la Scienza della Logica; L’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio; Lineamenti di filosofia del diritto; Dopo la sua morte i discepoli raccolsero e pubblicarono: la Filosofia della storia; la Filosofia dell’arte, la Filosofia della religione, la Storia della filosofia.

Tema fondamentale della filosofia di Hegel, come di Fichte e di Schelling, è l’infinito nella sua unità con il finito. Questa unità, che negli scritti giovanili è riconosciuta e celebrata nella religione, negli scritti successivi è riconosciuta nella filosofia. Ma sia negli uni che negli altri, essa è intesa nel senso che l’infinito come unica e sola realtà o sostanza delle cose, non è al di là del finito ma lo supera e lo annulla in se stesso. Ciò stabilisce subito la differenza essenziale tra la dottrina di Hegel, da un lato, e quella fichtiana dall’altro insieme a quella di Schelling. L’Io di Fichte e l’Assoluto di Schelling pongono tutti e due l’esistenza del finito e anzi lo giustificano e lo fanno sussistere; ma così il finito, per adeguarsi all’infinito, viene lanciato in un progresso all’infinito che non può materialmente sussistere e che non raggiunge mai il suo termine. Ora, questo progresso all’infinito è secondo Hegel il falso o cattivo infinito che non supera il finito perché lo fa continuamente risorgere. L’infinito non può essere posto a fianco del finito giacché in questo caso questo sarebbe la sua barriera e l’infinito verrebbe limitato e cambiato quindi in finito. Quello che secondo Hegel è il concetto fondamentale della filosofia, il vero infinito, deve perciò annullare e togliere di mezzo il finito, riconoscendo dietro l’escussione di esso la propria infinità. Di qui la tenace opposizione di Hegel a Kant. Kant aveva voluto costruire una filosofia del finito, cosa che Hegel trova del tutto fuor di luogo e ridicola. Secondo la sua speculazione il finito cade nettamente fuori della filosofia. Tutte le opere di Hegel sono costellate di osservazioni piene di ironia e di scherno contro la filosofia kantiana.

Il principio della dissoluzione del finito nell’infinito o dell’identità di razionale e di reale, è stato illustrato da Hegel prima nella Fenomenologia dello spirito, una sorta di storia romanzata della coscienza che attraverso erramenti, contrasti, scissioni, e quindi infelicità e dolori, raggiunge l’universalità. Dopo nella Scienza della Logica, che è una trattazione rigorosamente storica delle varie vicende nelle età storiche della coscienza umana. Mentre nella fenomenologia si trattavano figure che potevano essere situazioni spirituali anche fantastiche e romanzate; nella Scienza della Logica si trattano concetti e categorie che sono rigorosamente storiche.

Concetto di Scienza della Logica. Secondo Hegel per logica si deve intendere la scienza della idea pura, cioè dell’idea nell’elemento astratto del pensiero. Essa non è una disciplina puramente formale, essa è l’assoluta verità o realtà, Dio stesso. Il regno della logica è Dio prima della creazione del mondo.

Concetto di Filosofia della natura. La natura non esercitò mai su Hegel fascino alcuno. Bisogna ricordare come egli restasse indifferente davanti a uno dei meravigliosi paesaggi delle Alpi, ciò perché egli considerava l’esterno come un vuoto infinito negativo. Gli astri erano per lui una eruzione di luce per nulla differente da una eruzione cutanea o di uno sciame di mosche.

Concetto di Filosofia dell’arte. L’arte ha in comune con la religione e la filosofia il suo scopo finale, che è l’espressione e la rivelazione del divino. Ma essa dà a questa espressione una forma sensibile. Ha bisogno quindi di un materiale esterno costituito da immagini e rappresentazioni e ha bisogno anche delle forme naturali nelle quali deve esprimere il suo contenuto spirituale. Ma il materiale esterno non viene valutato nell’arte come tale, ma solo come espressione e rivelazione di un contenuto spirituale, perciò l’imitazione della natura non esprime per nulla l’essenza dell’arte.

Concetto di Filosofia della religione. Secondo Hegel, la Filosofia della religione non deve creare la religione, ma semplicemente riconoscere la religione che c’è già, la religione determinata positiva presente. L’atteggiamento di Hegel di fronte alla religione è quello che egli assume di fronte ad ogni altra realtà esistente: riconoscere la realtà esistente e giustificarla mostrando in essa l’idea infinita dell’atto.

Concetto di Storia di Filosofia. La Storia della filosofia non è altro che la filosofia della filosofia. Essa non è per nulla una successione disordinata di disparate opinioni che mutualmente si escludono e si distruggono; è, invece, lo sviluppo necessario della filosofia come tale. Come le forme storiche dell’arte e della religione si succedono secondo le loro necessità speculative, i sistemi filosofici si succedono nell’ordine delle determinazioni concettuali della realtà.

Concetto di Filosofia del diritto. La scienza del diritto deve partire come ogni altra scienza dall’esistenza del diritto, perché l’esistenza è l’idea che si è realizzata e compito della scienza è quello dl rendersi conto del processo di questa realizzazione.

Concetto di Filosofia della storia. Il principio fondamentale, che è nello stesso tempo il punto di partenza e il termine finale di tutta la speculazione hegeliana, è la risoluzione del finito nell’infinito e l’identità di razionale e reale. Tale principio ha portato Hegel a identificare in ogni campo lo sviluppo cronologico della realtà con il divenire assoluto dell’idea.

Ora, Hegel sostiene che la storia può apparire come una serie di fatti insignificanti e mutevoli e quindi priva di ogni piano razionale o divino, e dominata da uno spirito di contrasto, di distruzione e di male. Questo però avviene soltanto se la storia viene considerata dall’individuo alla stregua dei suoi personali, se pur rispettabili, ideali.

Se invece chi considera la storia sa innalzarsi al punto di vista puramente speculativo della ragione assoluta, allora si accorge che il contenuto della storia è razionale: poiché una volontà divina domina nel mondo e non è così impotente da non potere determinarne e regolarne il grande contenuto. In questo modo si vengono a portare alle estreme conseguenze le intuizioni di Lessing e di Herder, secondo i quali la storia non è altro che lo sviluppo di un tutto compiuto, cioè di una totalità immobile priva di un passato e di un avvenire; di una totalità, in cui si vede soltanto un eterno presente.

«La forma di questo sapere è, in quanto immediata (il momento della finità dell’arte), da una parte un dirompersi in un’opera di esistenza esterna e comune, nel soggetto che produce l’opera e in quello che la contempla e l’adora, dall’altra parte, essa è l’intuizione concreta e la rappresentazione dello spirito assoluto in sé come dell’ideale, della forma concreta, nata dallo spirito soggettivo, nella quale l’immediatezza naturale è soltanto segno dell’idea, per la cui espressione è così trasfigurata mediante lo spirito formatore, che la forma non mostra altro in lei fuori dall’idea. Tale è la forma della bellezza». (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, tr. it., Bari 1989, § 556).

Il Romanticismo

Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834)

La stessa situazione che si era verificata nel passaggio dal criticismo all’idealismo si verifica nel passaggio tra Illuminismo e Romanticismo; passaggio che avviene tra epoche storiche che costituiscono due mondi ben distinti e separati. L’Illuminismo è contrassegnato dal riconoscimento che la ragione è la forza che deve dominare il mondo, il Romanticismo consiste nel riconoscimento che la ragione, come forza spirituale infinita, è la sostanza del mondo e vi si mantiene e vi abita. Il male è infelicità e dolore che per l’Illuminismo sono i segni rivelatori dei limiti e dell’imperfezione intrinseca del mondo umano, diventano per il Romanticismo elementi di una totalità nel suo complesso pacifica e felice. La potenza dello spirito supera il male e l’infelicità e si compiace di essi e dei contrasti che implicano come di una propria manifestazione necessaria. Hegel ci presenta il mondo romantico nella felicità della sua perfetta pacificazione razionale; Schopenhauer ci presenta il mondo romantico nell’infelicità del suo irrazionale contrasto, e tuttavia, soddisfatto di riconoscersi nell’infinità di questo contrasto. Hegel e Schopenhauer sono i due estremi opposti, eppure uniti, del Romanticismo in quanto sostanzializzazione e dissolvimento del finito, annullamento del dover essere nell’essere. La scuola romantica riceve il suo impulso dalla dottrina di Fichte, che per la prima volta aveva fatto dell’infinito il principio della realtà. Ma quando volle trasferire il principio dell’attività infinita dal piano morale a quello estetico, la necessità dell’autolimitazione sparì, inteso come principio della creazione estetica l’infinito non esige, anzi esclude e rende impossibile ogni ostacolo alla manifestazione della sua attività.

Questa riforma fu effettuata da Friedrich Schlegel. La prima conseguenza tratta da lui e dai romantici fu che l’infinito, riconosciuto libero dalle sue determinazioni limitatrici, si pone non più nella forma della ragione ma in quella del sentimento.

L’Io di Fichte è ragione in quanto produzione necessaria di determinazioni finite: la sua razionalità consiste nella necessità della sua produzione. Venuta meno questa necessità l’infinito diventa indefinito e acquista quella caratterizzazione amorfa e vaporosa del sentimento.

Nel Romanticismo si ebbe uno stridente contrasto tra le manifestazioni filosofiche che, rifacendosi all’assoluto razionalismo di Hegel, si mantennero diremo così rigide e le manifestazioni letterarie che si abbandonarono senza freni a un sentimento altrettanto assoluto, sentimento che per altro non fu né la degradazione del Romanticismo filosofico né la sua negazione, ma soltanto la sua espressione rispetto a un altro problema e a un altro linguaggio. È da ricordare infine l’ironia romantica. Essa esprime l’impossibilità per lo spirito infinito di prendere sul serio e di considerare cosa salda i suoi prodotti.

Il carattere religioso del Romanticismo. Schleiermacher nacque a Breslavia e fu amico di Friedrich Schlegel e collaboratore dell’“Athenaeum”. Divenne, con la fondazione dell’università di Berlino, professore di teologia e tenne quest’ufficio fino alla morte.

Questo filosofo si preoccupa innanzi tutto di stabilire l’autonomia della religione di fronte alla filosofia e alla morale. La religione non aspira a conoscere e a spiegare l’universo nella sua natura come la metafisica; non aspira a continuarne lo sviluppo e a perfezionarlo come fa la morale. La sua essenza non è il pensiero e l’azione, ma l’intuizione e il sentimento. La religione non è altro che il sentimento dell’infinito ed è per questo punto di vista che Schleiermacher vede in Spinoza la più alta espressione di religiosità; tuttavia egli si stacca da Spinoza nel ritenere che l’espressione necessaria dell’infinito è soltanto sentimento. Risolvere il finito nell’infinito, considerare tutti gli avvenimenti del mondo come azioni di Dio, è religione. Ma lambiccarsi il cervello sull’esistenza di Dio, prima e fuori del mondo, è cosa che cade al di là della religione. Dall’aspirazione all’infinito, costitutiva della religione, nasce la tendenza alla comunicazione e quindi all’organizzazione ecclesiastica. Il sentimento rende l’uomo consapevole che può abbracciarne solo una parte, e lo spinge a percepire attraverso la mediazione degli altri, ciò che egli non può percepire immediatamente. L’organizzazione di questa reciproca comunicazione è la Chiesa; cioè la società religiosa che costituisce nel suo complesso tutta quanta la religione, la religione infinita che nessun individuo può abbracciare tutta. L’infinità della religione spiega e giustifica la diversità delle religioni. Ogni individuo ha la sua religione; e questa più o meno può riconoscersi e ritrovarsi nelle religioni già date. Ma, anche se rimane l’oscura intuizione di un singolo è pur sempre un elemento della religione universale. Alle conclusioni a cui era giunto Hegel nel dominio della realtà in generale, giunge Schleiermacher nel dominio della religione partendo sempre dal principio dell’infinito, che è la giustificazione del finito, ma in quanto è, nella sua sostanza, infinito. Ma mentre per Hegel l’infinito è ragione e quindi assorbe e annulla l’individualità per Schleiermacher esso è sentimento e quindi esalta l’individualità.

Schleiermacher distingue tre forme di religione: la prima è quella per cui il mondo è un caos e nella quale pertanto la divinità viene rappresentata come un feticcio o come un cieco destino, cioè in forma impersonale. La seconda è quella per la quale il mondo viene rappresentato nella molteplicità dei suoi elementi e delle sue forze eterogenee e la divinità è concepita nella forma di politeismo o come riconoscimento della necessità naturale (Lucrezio). La terza forma è quella nella quale l’essere viene rappresentato come totalità e unità del molteplice e la coscienza della divinità assume la forma del monoteismo.

Il cristianesimo è la più alta manifestazione della religiosità. Ma non è destinato ad assorbire tutte le altre religioni e a diventare l’unica forma di religione. Lo sviluppo della vita religiosa esige libertà e non c’è nulla di più irreligioso che esigere uniformità dall’umanità in genere.

Il sistema filosofico di Schleiermacher si compone anche di una dialettica e di un’etica. La dialettica mostra da un lato una sottintesa polemica contro la logica di Hegel e dall’altro il desiderio di ricondurre questa disciplina all’originario significato platonico. Essa viene definita come l’arte di condurre un discorso in modo da suscitare rappresentazioni che siano fondate soltanto sulla realtà. La differenza tra la dialettica antica e quella moderna è la religiosità di quest’ultima. Per la dialettica moderna l’unità e la totalità del sapere, sono possibili solo in connessione con la coscienza religiosa di un essere assoluto. Tale coscienza è il presupposto originario della dialettica, la quale deve partire da uno stato di diversità e di conflitto delle rappresentazioni tra di loro e deve giungere all’unità e alla coerenza delle rappresentazioni. Schleiermacher divide la dialettica in due parti: la parte trascendentale che concerne il sapere originario che è la guida e la norma del sapere; e la parte formale che concerne la costruzione dal sapere, cioè le operazioni di divisione e di unificazione del pensiero. Nella parte trascendentale della dialettica Schleiermacher ha voluto determinare la condizione prima del sapere umano e l’ha riconosciuta in un fondamento trascendente che viene rappresentato, nella sua forma più adeguata, dal sentimento. La parte formale considera il pensiero nel suo divenire, il pensiero in movimento, cioè in quanto si avvale dell’idea del mondo e di Dio come di un principio costruttivo del sapere.

L’etica di Schleiermacher è di netta ispirazione kantiana. L’attività etica è l’azione della ragione diretta a produrre l’unità della natura e dello spirito che senza questa azione non ci sarebbe; ed è quindi nello stesso tempo un’azione della ragione sulla natura e insieme una naturalizzazione, sempre iniziata e mai compita, della ragione stessa. Nell’etica di Schleiermacher scompare in parte e si attenua l’antitesi tra natura e libertà: nel dominio dell’essere tutto è insieme libero e necessario: libero in quanto è unità di forza e di manifestazione, necessario in quanto forza e manifestazione sono distinte.

«Sacrificate con me, devotamente, una ciocca [dei vostri capelli] ai Mani del Santo, scomunicato Spinoza! Il sublime spirito del mondo lo penetrava, l’infinito era suo principio e fine, l’universo il suo unico ed eterno amore, in santa incolpevolezza e profonda umiltà egli si specchiava nell’eterno mondo e vedeva come anche egli era il suo più amabile specchio; era pieno di religione e pieno di spirito santo; e per questo egli sta ancora qui, solo e non raggiunto, maestro nell’arte sua, ma alto sopra la schiatta profana, senza scolari e senza cittadinanza». (Über die Religion, ns. tr., Berlin, s. a., p. 40).

Arthur Schopenhauer (1788-1860)

Schopenhauer nacque a Danzica e morì a Francoforte sul Meno. Frequentò l’università di Gottinga dove ebbe come maestro di filosofia lo scettico Schultze. Sulla sua formazione influirono le dottrine di Platone e di Kant, di quest’ultimo fu sempre entusiasta, tanto da considerarlo come uno dei filosofi più originali e più grandi che siano mai apparsi nella storia del pensiero. Abilitatosi alla libera docenza tenne i suoi corsi liberi nella università di Berlino, ma senza troppo impegno e senza nessuna riuscita. Nessun successo arrise anche alla sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione. Era il periodo della massima fioritura idealista, della quale Schopenhauer si crucciava e indispettiva, rivolgendo a Fichte, a Schelling e a Hegel i più aspri sarcasmi. L’idealismo è da lui chiamato la filosofia delle università, filosofia che non si pone al servizio della verità ma di interessi volgari, e perciò non si preoccupa che di giustificare gli interessi volgari che vanno a profitto della Chiesa e dello Stato. Da ciò si manifesta la vivissima esigenza della libertà della filosofia che in lui si faceva convinzione radicatissima.

Il mondo come rappresentazione. Niente è più certo, dice Schopenauher, che nessuno può mai uscire da sé per identificarsi con le cose diverse da lui; tutto ciò di cui egli ha conoscenza sicura e quindi immediata si trova dentro la sua coscienza. La rappresentazione ha due aspetti essenziali e inseparabili, la cui distinzione costituisce la forma generale della conoscenza, sia essa astratta o concreta, pura o empirica. Da un lato c’è l’oggetto della rappresentazione, condizionato dalle forme a priori dello spazio e del tempo che ne producono la molteplicità; dall’altro lato c’è il soggetto della rappresentazione, che è ciò che tutto conosce ma da nessuno è conosciuto, perché non può mai divenire oggetto di conoscenza. Ora la realtà dell’oggetto si riduce alla sua azione. La pretesa che l’oggetto abbia esistenza fuori della rappresentazione che il soggetto ne ha, e che per conseguenza l’oggetto intuito non si esaurisca nella sua azione, è priva di senso, anzi contraddittoria. L’azione causale dell’oggetto su altri oggetti costituisce l’intera realtà dell’oggetto stesso. Per conseguenza si chiama materia l’oggetto della conoscenza, la realtà della materia si esaurisce nella sua causalità.

Da questo riconoscimento Schopenhauer trae la prima conclusione: l’eliminazione della differenza tra veglia e sonno: tutta la vita è un sogno. La seconda conseguenza è che la funzione fondamentale dell’intelletto è l’intuizione immediata del rapporto causale intercedente fra i suoi oggetti: la realtà di questi oggetti consiste appunto nella loro causalità. L’intelletto è dunque essenzialmente intuitivo, nei confronti della ragione che è essenzialmente discorsiva, e che ha a che fare soltanto con concetti astratti.

Si capisce quindi l’importanza che il principio di causalità acquista per Schopenhauer. Egli ha distinto quattro forme del principio di causalità e quindi quattro tipi di oggetti conoscibili: 1) Il principio di ragion sufficiente del divenire, che regola i rapporti tra le cose naturali e determina la successione necessaria dell’effetto alla causa. Sui modi diversi di questa forma di causalità è fondata la differenza tra il corpo organico, la pianta e l’animale: il corpo umano è determinato nei suoi mutamenti da cause, la pianta da stimoli, l’animale da motivi. 2) Il principio di ragion sufficiente del conoscere, che regola i rapporti tra i giudizi e fa dipendere la verità delle conclusioni da quella delle premesse. Questo principio determina la classe di conoscenze che è posseduta soltanto dall’uomo, cioè le coscienze razionali vere e proprie. 3) Il principio di ragion sufficiente dell’essere, che regola i rapporti fra le parti del tempo e dello spazio e perciò determina la concatenazione logica degli enti aritmetici e geometrici. Esso fonda perciò la verità delle conoscenze matematiche. 4) Il principio di ragion sufficiente dell’agire, che regola i rapporti fra le azioni e le fa dipendere dai loro motivi. La motivazione perciò è una specie di causalità e precisamente la causalità vista dall’interno stesso dell’oggetto che agisce. Queste quattro forme del principio di causalità costituiscono quattro forme di necessità che dominano tutto il mondo della rappresentazione: la necessità logica secondo la ratio cognoscendi, la necessità fisica secondo la legge della causalità, la necessità matematica secondo il principio della ratio essendi, la necessità morale secondo la quale ogni uomo deve compiere l’azione suggerita dal motivo, quando questo motivo si è presentato.

Il mondo come volontà. Se il mondo fosse solo rappresentazione si ridurrebbe a una visione fantastica o a un sogno inconsistente. Però esso non è solo rappresentazione, ma rivela nell’uomo stesso la sua ultima realtà, il suo noumeno. L’uomo, come soggetto conoscente, è fuori del mondo della rappresentazione e della causalità; come corpo è dentro a questo mondo e sottoposto alla sua azione causale. Ma all’uomo oltre che il corpo è data una forma più intrinseca e immediata: la volontà. Si ritiene comunemente che gli atti e i movimenti del corpo siano gli effetti della volonta, per Schopenhauer sono la volontà stessa nella sua manifestazione oggettiva, nella sua oggettivazione. La volontà è dunque la cosa in sé di cui la rappresentazione è il fenomeno o l’apparenza.

La prima e immediata oggettivazione della volontà è l’idea, nel senso di specie, cioè di essenza universale e generica. L’idea è fuori della conoscenza comune scientifica legata appunto allo spazio, al tempo e alla causalità. L’idea non è l’oggetto della conoscenza, ma soltanto quella dell’arte che è opera del genio. Ora la contemplazione estetica delle idee sottrae l’uomo alla infinita catena dei bisogni e dei desideri con un appagamento immobile e compiuto.

Le varie arti corrispondono ai gradi diversi dell’oggettività della volontà. Esse vanno dall’architettura che corrisponde al più basso grado dell’oggettività, cioè alla materia inorganica, attraverso la scultura, la pittura, la poesia, fino alla tragedia che è l’arte più alta. La tragedia sola riesce a rivelare l’intimo dissidio e la lotta della volontà con se stessa. Ogni arte è liberatrice, il piacere che essa procura è la cessazione del dolore del bisogno, cessazione raggiunta grazie allo svincolarsi della conoscenza dalla volontà e al suo porsi come disinteressata contemplazione.

La vita come dolore. Alle soglie della trattazione dell’etica, che deve indicare la via alla liberazione umana dalla volontà di vivere, Schopenhauer s’imbatte nello scoglio di dare una definizione alla vita. Egli considera la vita come la continua lacerazione che la volontà fa di se stessa: lacerazione che nell’individuo è il contrasto e la continua insorgenza dei bisogni e, fuori dell’individuo, è il contrasto e la rivalità perenne fra gli individui, l’ingiustizia. Ora per evitare il dolore della vita si deve effettuare l’autonegazione della volontà, autonegazione che deve essere il prodotto della chiara e limpida conoscenza che la volontà ha di se stessa. Volere significa infatti desiderare, e il desiderio implica l’assenza di ciò che si desidera. Desiderio è mancanza, deficienza, indigenza, quindi dolore. Ma pur essendo la soppressione della volontà di vivere l’unico vero atto di libertà che sia possibile all’uomo, il suicidio, a questo scopo non serve. Esso non è negazione della volontà, ma energica affermazione di essa. Difatti il suicida vuole la vita, ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate: distrugge perciò il fenomeno della vita, il suo corpo, non la volontà di vivere, che pertanto non viene intaccata o diminuita dal gesto. La liberazione si ottiene solo con l’ascesi. Con essa la volontà muta indirizzo, non afferma più la sua propria essenza, rispecchiandosi nel fenomeno, ma la rinnega. L’asceta cessa di volere la vita; non attacca la sua volontà a nessuna cosa, rinsalda in se stesso la massima indifferenza per tutto. Con ciò l’uomo diviene libero si rigenera e entra in quello stato che i cristiani chiamano stato di grazia. Schopenhauer è risolutamente contrario al pantesimo come al teismo. Se un Dio personale è per lui una favola giudaica, l’uno-tutto del pantesimo è per lui il semplice fenomeno accidentale di un principio più vasto.

«In ogni grado, che la conoscenza illumina, la volontà appare a se stessa come individuo. Nello spazio infinito e nel tempo infinito l’individuo umano ritrova se stesso come finito, cioè come una quantità evanescente di fronte a quelli, in essi gettata, e, per la loro illimitatezza, ha sempre un relativo quando e dove della sua esistenza, non mai assolto: perché il suo luogo e la sua durata sono parti finite di un infinito e di un illimitato». (Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari 1928-1929, vol. I, 57).

La polemica contro l’idealismo

Ai grandi sistemi idealistici e all’indirizzo romantico si accompagna e segue in Germania un movimento di reazione antidealistico e antiromantico, che ha aspetti e indirizzi diversi, ognuno dei quali riprende e fa suo qualcuno dei temi che l’idealismo credeva di aver superato e distrutto per sempre. È evidente che anche per questi indirizzi l’idealismo, nell’una e nell’altra delle sue forme, non è stato invano: la stessa polemica nasconde spesso una maggiore o minore affinità di ispirazione, sicché le posizioni che si contrappongono all’idealismo mostrano tutte, in grado diverso, un qualche rapporto con esso.

Johann Friedrich Herbart (1776-1841)

Il tema polemico del realismo è fatto valere contro l’idealismo da Herbart. La sua tesi fondamentale è il capovolgimento puro e semplice di quella idealista: per l’idealismo ogni realtà è posta dall’io, per Herbart ogni realtà è una posizione assoluta, cioè assolutamente indipendente dall’io. Ma nonostante questo capovolgimento egli riconosce alla riflessione filosofica la capacità di giungere a determinare la natura e i caratteri generali della realtà. A questo scopo essa deve trasformare in concetti e perciò epurare e liberare dalle contraddizioni i dati dell’esperienza interna ed esterna. La filosofia non è altro quindi che l’elaborazione dei concetti. Il suo punto di partenza è l’esperienza, ma l’esperienza è per Herbart, come era per gli eleati e per Platone, formicolante di contraddizioni e quindi tale da non potere essere assunta come realtà. Essa è apparenza, ma è apparenza di qualche cosa che è. Che cosa sia questa realtà che l’esperienza presuppone e che essa rivela nel suo mero esserci, è appunto compito della filosofia determinarla; e sotto questo aspetto la filosofia è metafisica.

L’esperienza è contraddittoria perché contraddittorie sono le realtà che essa rivela come esperienza interna ed esterna: le cose e l’io. Una cosa è un’unità, ma se si domanda che cosa essa sia, si deve rispondere enumerando le sue diverse qualità, che sono molte; essa è dunque nello stesso tempo una e molteplice. Lo stesso vale per l’io che pur essendo un io, ha un’autocoscienza che lo moltiplica infinitamente perché l’autocoscienza è la rappresentazione di un io che a sua volta non è altro che un rappresentare e che quindi rinvia a una altra rappresentazione e a un altro rappresentare, e così via. Questa critica dell’io è la critica di tutto l’idealismo: lungi dal costituire la solida base di tutto il sapere, l’io stesso è un nodo di problemi che non si risolvono nel suo ambito. A contraddizioni ed aporie danno luogo poi lo spazio, il tempo, la causalità, e soprattutto il carattere fondamentale dell’esperienza sensibile: il mutamento. Herbart distingue tre forme di mutamento: 1) quello che non ha causa, cioè il divenire assoluto; 2) quello che ha una causa interna, cioè l’autodeterminazione; 3) quello che ha una causa esterna, cioè il meccanismo. Tutte e tre queste forme soggiacciono alla stessa difficoltà fondamentale. Ogni mutamento suppone un elemento o un principio che muti, ma questo elemento o principio, nel dare luogo al mutamento, muta a sua volta nel suo interno e si scinde a sua volta in un principio del mutamento e nel mutamento che ne deriva, e così via all’infinito. La valutazione del mutamento dà luogo a una moltiplicazione infinita di termini senza che si giunga ad intendere il mutamento stesso. Questo dunque è essenzialmente contraddittorio, quindi irreale. Nella condanna del mutamento è implicita la condanna della libertà morale intesa come autodeterminazione e dell’idealismo, che risolve la realtà nel divenire assoluto dell’io. Sono perciò ugualmente impossibili, secondo Herbart, la libertà trascendentale di cui parla Kant e le libertà infinite di cui parla Fichte.

Ed eccoci al centro della dottrina di Herbart. L’essere è una posizione assoluta, assolutamente indipendente dal molteplice delle note concettuali con cui viene tradotto ed espresso, ed è privo di negazioni e di relazioni. Esistono fuori di noi una quantità di enti, la cui natura semplice e propria ci è sconosciuta, ma sulle cui condizioni interne ed esterne possiamo acquistare una somma di conoscenze che può andare all’infinito. Questi enti vanno considerati diversi tra di loro, sicché ogni loro rapporto deve essere considerato come una veduta accidentale che non qualifica e non modifica le loro nature. Con queste vedute accidentali la dottrina di Herbart si è salvata dall’oblio, perché senza di esse non sarebbe stata che la ripetizione dell’eleatismo, cioè del riconoscimento dell’immutabilità e dell’unità dell’essere senza alcuna possibilità di spiegare il mondo fenomenico.

Psicologia e filosofia della natura. Dalle tesi della metafisica risulta immediatamente che le rappresentazioni non possono essere altro che le autoconservazioni di un ente semplice detto anima. L’idea capitale della psicologia di Herbart è la seguente: le rappresentazioni compenetrandosi a vicenda nell’anima, che è una, si impediscono in quanto opposte e si unificano in una forza comune in quanto non sono opposte. Tutta l’anima, dice Herbart, si lascia spiegare da questa idea fondamentale. Due rappresentazioni opposte tendono a sparire perché si bloccano reciprocamente, ma quando una di esse cede o viene resa inefficiente, allora la rappresentazione contraria risorge. In altri termini, le rappresentazioni si trasformano mediante la loro pressione reciproca, in una tendenza a rappresentare che prende il nome di appetito, vita, impulso, attività reale, ecc. Così considerate le rappresentazioni sono delle forze, e difatti Herbart parla di una statica e di una meccanica dello spirito, e introduce il calcolo matematico per determinare il comportamento delle rappresentazioni. L’introduzione del calcolo nella psicologia doveva essere messa a partito dagli sviluppi ulteriori di questa scienza.

Per Herbart la filosofia della natura non è che la traduzione esatta in altro linguaggio di questi concetti fondamentali della psicologia. Il presupposto metafisico è sempre l’incontro accidentale di enti semplici, con le autoconservazioni che ne derivano. L’incontro di due enti opposti determina la tendenza alla loro compenetrazione che è l’attrazione; l’incontro di due enti la cui opposizione non è abbastanza forte da determinare la loro compenetrazione produce la loro repulsione. Attrazione e repulsione nel loro insieme costituiscono la materia e sono il risultato dello stato interno di un ente cioè della sua autosonservazione. La fisiologia è l’anello di congiunzione tra la psicologia e la filosofia della natura. L’organismo è una organizzazione della materia dovuta alla sua interna conformazione; e poiché gli stati interni non si trovano mai in completo riposo, la configurazione esteriore che essi determinano è essa stessa instabile, di modo che si ha il nascere e il morire di ogni organismo vivente.

Estetica. Sotto il nome di estetica, Herbart comprende la teoria dell’arte bella e la morale. Bello è tutto ciò che è oggetto di approvazione; la teoria del bello perciò comprende ogni disciplina che è genericamente valutativa. Compito dell’estetica è quello di individuare ed esporre ordinatamente i concetti-modello o idee, che devono essere depurati da tutti gli elementi soggettivi e mutevoli e quindi messi al di sopra delle emozioni e degli appetiti. L’idea del bello non si identifica con il concetto di utile o di gradevole. La caratteristica del bello artistico è che esso piace spontaneamente e che suscita effetti estremamente vari, ma passeggeri, che vengono fissati o resi permanenti dal giudizio estetico.

La dottrina della virtù concerne la conformità della condotta umana, nella sua unità personale, a tutte insieme le idee morali. La dottrina della virtù dipende dalla psicologia che le fornisce la conoscenza di ciò che l’uomo è empiricamente. Essa si divide in due parti: politica e pedagogia.

«La filosofia, o elaborazione dei concetti, è certamente necessaria in tutte le scienze, in quanto esse non solo indicano attualmente i loro oggetti, o comunicano prescrizioni per il loro impiego più conveniente, ma altresì vi coordinano la riflessione, dunque devono sceverare ciò che è confuso e unire in modo confacente ciò che è separato». (Introduzione alla filosofia, tr. it., Bari 1908, par. 1).

Søren Aabye Kierkegaard (1813-1855)

Kierkegaard nacque e morì a Copenaghen. Egli costituisce l’opposizione radicale e profonda alla dialettica hegeliana; la sua opera si è ormai inserita saldamente nel circolo della filosofia contemporanea. Laureatosi nella facoltà di teologia all’università di Copenaghen non intraprese la carriera di pastore alla quale la laurea lo abilitava, ma preferì seguire i corsi che nell’università di Berlino teneva Schelling. Dapprima entusiasta ne fu ben presto deluso e ritornatosene nella sua città, con un patrimonio lasciatogli dal padre, visse assorto nella composizione dei suoi libri. La personalità di Kierkegaard è quanto mai complessa. La sua vita esteriormente senza turbamenti dovette subire delle forti tempeste interne che lasciarono scossa l’anima del povero teologo; una spina nelle carni di cui parla anche nel letto di morte, lo perseguiterà sempre per tutta la vita costringendolo a lasciare il fidanzamento con Regina Olsen, una minaccia oscura e paralizzante. Bisogna tenere presente questo stato d’animo per capire l’atteggiamento filosofico di Kierkegaard.

L’esistenza come possibilità. Ciò che costituisce il segno caratteristico dell’opera e della personalità di Kierkegaard è l’avere cercato di ricondurre la comprensione dell’intera esistenza umana alla categoria della possibilità e di aver messo in luce il carattere negativo e paralizzante della possibilità come tale. Ogni possibilità è infatti, oltre che possibilità-che-sì, sempre anche possibilità-che-non: cioè implica la nullità possibile di ciò che è possibile, quindi la minaccia del nulla. Kierkegaard vive, e scrive, sotto il segno di questa minaccia. La sua attività letteraria non poteva perciò avere altro fine che quello di chiarire le possibilità fondamentali che si offrono all’uomo, gli stadi e i mutamenti della vita che costituiscono l’esistenza e le sue alternative, tra le quali l’uomo sempre può scegliere, mentre lui, Kierkegaard, non poteva scegliere.

La sua attività fu quella di un contemplativo che moltiplica la sua personalità per mezzo di pseudonimi in modo da accentuare il distacco tra se stesso e le forme di vita che veniva descrivendo. Soltanto nel cristianesimo egli vide un’ancora di salvezza, in quanto il cristianesimo gli sembrava insegnare quella stessa dottrina dell’esistenza che a lui pareva l’unica vera. Dall’altro lato, la filosofia hegeliana appare a Kierkegaard l’antitesi del punto di vista dell’esistenza da lui vissuta, e un’antitesi illusoria.

Kierkegaard presenta all’inizio del suo sistema filosofico un’alternativa di due stadi fondamentali della vita: la vita estetica e la vita morale. Tra uno stadio e l’altro vi è un incolmabile abisso. Lo stadio estetico è la forma di vita di chi esiste nell’attimo, fuggevolissimo e irripetibile. L’esteta è colui che vive poeticamente, cioè vive insieme di immaginazione e di riflessione. Egli è dotato di un senso finissimo per trovare nella vita ciò che vi è di più interessante, foggiando un mondo luminoso dal quale è assente tutto ciò che la vita presenta di banale, insignificante e meschino. La vita estetica esclude la ripetizione, che implica sempre monotonia e toglie l’interessante anche alle vicende più promettenti. La vita estetica è concretamente rappresentata in Giovanni, il protagonista del Diario di un seduttore, che sa porre il suo godimento non nella ricerca affannosa e indiscriminata del piacere, ma nella limitazione dell’appagamento. Ma la vita estetica rivela la sua insufficienza e la sua miseria nella noia. Chiunque vive esteticamente è disperato, lo sappia o non lo sappia: la disperazione è l’ultimo sbocco della concezione estetica della vita. Essa è l’ansia di una vita diversa, ma per raggiungere questa vita occorre distaccarsi dalla precedente. Il primo distacco dalla vita estetica è la prima partecipazione alla vita etica, l’ironia, che Kierkegaard intende nel senso romantico, come sollevamento dell’uomo al di sopra di quel mondo di cose nel quale l’esteta vive immerso.

La vita etica implica una stabilità e una continuità che la vita estetica, come incessante ricerca della varietà, esclude e respinge. Insomma l’uomo singolo con la vita estetica non fa altro che sottoporsi a una forma adeguandosi all’universale e rinunciando a essere l’eccezione. Come la vita estetica è incarnata dal seduttore, quella etica è incarnata dal marito.

Il matrimonio, secondo Kierkegaard, è l’espressione tipica dell’eticità. Tuttavia anche la vita etica implica un contrasto interno: la scelta di sé è l’atto fondamentale della vita etica e nello stesso tempo il riconoscimento della propria colpevolezza, la scoperta della disposizione al male. La scelta della personalità, in quanto include il pentimento, nega il valore eterno della stessa personalità e implica perciò la rottura dell’etica, il riconoscimento della sua insufficienza.

Lo scacco della vita etica apre la via allo stadio religioso, ma non garantisce la continuità del passaggio; tra vita etica e vita religiosa c’è una separazione ancora più profonda, un’opposizione ancora più radicale che tra l’estetica e l’etica. In base a questa separazione la scelta tra i due princìpi non può essere decisa da nessuna regola. Bisogna avere fede in Dio, ma la fede non è un principio generale, è un rapporto privato tra l’uomo e Dio, un rapporto assoluto con l’assoluto. È il dominio della solitudine, non ci si entra in compagnia, non si odono voci umane, non esistono regole.

Da qui deriva il carattere incerto e rischioso della vita religiosa: come può l’uomo accettarsi di essere l’eccezione giustificata? Come può sapere che egli è l’eletto al quale Dio ha affidato un compito eccezionale? C’è un solo segno indiretto che ci permette di gettare un poco di luce nell’argomento, la forza angosciosa con cui l’uomo si pone questa domanda. Ora la fede non è altro che la certezza angosciosa, l’angoscia che si rende certa di sé e di un nascosto rapporto con Dio. L’uomo può pregare Dio che gli dia la fede, ma il solo fatto che egli prega non è anche un segno divino? Così nella fede si viene a delineare un paradosso evidente. Ma se la fede è paradosso e scandalo, Dio-Cristo è il segno di questo paradosso: egli è colui che soffre e muore come uomo, mentre parla e agisce come Dio, è colui che è e si deve riconoscere come Dio mentre soffre e agisce come un uomo. Paradosso, scandalo, contraddizione, necessità e nello stesso tempo impossibilità di decidere, dubbio, angoscia, sono le caratteristiche dell’esistenza e sono nello stesso tempo i fattori essenziali del cristianesimo.

L’angoscia e la disperazione. Dopo avere affermata la natura problematica del modo d’essere Kierkegaard passa a considerare lo stato di incertezza, di instabilità e di dubbio in cui l’uomo si viene a trovare.

L’angoscia è la condizione generata nell’uomo dal possibile, che lo costituisce, essa è strettamente connessa con il peccato ed è fondamento dello stesso peccato originale. L’innocenza di Abramo è ignoranza; ma è un’ignoranza che contiene un elemento che determinerà la caduta. Questo elemento non è né calma né riposo, non è nemmeno turbamento o lotta, perché non c’è ancora niente contro cui lottare. Non è che un niente, ma proprio questo niente genera l’angoscia. L’angoscia è il puro sentimento della possibilità. La disperazione è la condizione in cui l’uomo è posto dal possibile che si riferisce alla sua stessa interiorità, al suo io. La possibilità che provoca l’angoscia è inerente alla situazione dell’uomo nel mondo: è la possibilità di fatti, di circostanze, di legami, che rapportano l’uomo al mondo. La disperazione è inerente alla personalità stessa dell’uomo, al rapporto in cui l’io è con se stesso e alla possibilità di questo rapporto.

Disperazione e angoscia pur essendo fondate tutte e due sulla struttura problematica dell’esistenza non sono identiche. Ed ecco come Kierkegaard affronta e risolve il presupposto fondamentale del suo atteggiamento ponendosi la domanda: diventa necessario il possibile per essere divenuto reale? La risposta è negativa. Il possibile, secondo Kierkegaard, rimane possibile anche quando si è realizzato. Tutto ciò che diviene dimostra, per il semplice fatto che diviene, di non essere necessario, giacché il necessario non è soggetto al divenire, ma si rapporta sempre a se stesso e sempre nello stesso modo. Dunque se il necessario non diviene, niente diviene con necessità. Quindi la realtà, che è il risultato del divenire, non è più necessaria del possibile. Il necessario è differente sia dal reale sia dal possibile; questi differiscono tra loro per l’essere e non per l’essenza, il necessario differisce da entrambi per l’essenza.

Posto ciò, la storia, che è il dominio della realtà, che diviene, è il dominio del possibile. Ma nella storia il passato non ha maggiore necessità dell’avvenire. Se il passato, per il solo fatto di essersi realizzato, fosse divenuto necessario, l’avvenire stesso sarebbe necessario quanto alla sua realizzazione futura. Quindi il concetto hegeliano della storia come di un divenire necessario ha trovato in queste parole di Kierkegaard la sua confutazione più semplice e decisiva. Del resto ciò non significa che la storia sia una teofania, la rivelazione e l’autorealizzazione di Dio; come non significa che il rapporto tra l’uomo e Dio si verifichi nella storia, cioè nella continuità del divenire umano, ma piuttosto nell’istante inteso come subitanea inserzione della verità divina nell’uomo.

Ma nonostante questo istantaneo rapporto l’uomo non può mai dimostrare l’esistenza di Dio. Se Dio non esiste dimostrarlo è assolutamente impossibile; ma se esiste è addirittura follia. Nell’istante in cui comincia la prova, io ho già presupposto la sua esistenza, e non come cosa dubbia giacché un presupposto non può mai essere tale, ma come cosa fuori questione, altrimenti non avrei intrapreso la prova, comprendendone l’impossibilità. Dio rimane quindi al di là di ogni possibile ricerca umana.

L’importanza storica di Kierkegaard è grandissima rispetto al passato in quanto si connette al movimento generale di reazione all’hegelismo e costituisce la dissoluzione della categoria fondamentale della filosofia di Hegel, quella della necessità. Rispetto al futuro della filosofia, con la sua scoperta della possibilità come categoria costitutiva dell’esistenza, ha aperto la strada alla filosofia dell’esistenza nelle sue diverse forme, che è l’elemento costitutivo e decisivo del circolo vitale della filosofia contemporanea.

«Un punto di partenza storico per la propria coscienza eterna l’ottiene anche il contemporaneo, perché egli è precisamente contemporaneo col fatto storico che non sarà per lui il semplice momento dell’occasione, e questo fatto storico lo interesserà ben altrimenti di qualcosa di puramente storico, ma gli darà la condizione per la sua salvezza eterna, facendo le conclusioni in senso inverso, se non è così, quel Maestro non è Dio ma soltanto un Socrate il quale, se non si comporta come Socrate, non è neppure un Socrate. Come arriva ora il discepolo a realizzare l’intesa con questo paradosso? perché noi non diciamo che egli comprenderà il paradosso, ma soltanto che intenderà che questo è il paradosso». (Briciole di filosofia, ovvero una filosofia in briciole, tr. it., Bologna 1962, p. 149).

La sinistra hegeliana

Alla morte Hegel una numerosa schiera di discepoli formò il clima filosofico e culturale della Germania. Ma in questa schiera si verificò ben presto una scissione che determinò la formazione di due correnti antagoniste che presero il nome di destra e sinistra hegeliana, secondo le consuetudini del parlamento: tale denominazione è di Strauss.

La scissione era dovuta al diverso atteggiamento assunto dai discepoli di Hegel di fronte alla religione. Hegel aveva affermato con molta energia che religione e filosofia hanno lo stesso contenuto; ma con altrettanta energia aveva posto la distinzione tra religione e filosofia, in quanto la prima esprime quel contenuto nella forma della rappresentazione, la seconda nella forma del concetto.

La destra hegeliana è appunto la scolastica dell’hegelismo. Essa utilizza la ragione hegeliana allo stesso modo come la scolastica medioevale aveva utilizzato la ragione aristotelica e la scolastica occasionalista la ragione cartesiana al fine di una speculazione sulla verità religiosa.

La sinistra hegeliana è, nella sua tendenza fondamentale, una riforma radicale dello stesso hegelismo a cui contrappone quei caratteri e quei tratti dell’uomo che in esso non avevano trovato riconoscimento adeguato.

David F. Strauss (1808-1874)

Fu allievo di Bauer a Tubinga e in stretti rapporti con la scuola hegeliana. Il suo scritto La vita di Gesù divenne presto famoso e suscitò le violente polemiche che causarono il cristallizzarsi della divisione della scuola hegeliana. Il risultato di quest’opera è la riduzione del contenuto della fede religiosa a semplice mito. Il mito è diverso dalla leggenda, che è la trasfigurazione o l’invenzione operate da una tradizione di un fatto storico, invece esso è l’idea metafisica della religione espressa nella forma di un racconto immaginario o fantastico. Un mito evangelico è un racconto che si riferisce immediatamente a Gesù e che si deve considerare non come l’espressione di un fatto ma come quella di un’idea. Fonti dei miti evangelici sono: 1) l’attesa del messia in tutte le sue forme che esisteva nel popolo ebraico prima di Gesù e indipendentemente da lui; 2) l’impressione particolare prodotta da Gesù a causa della sua personalità, della sua azione, del suo destino, impressione che modifica non poco l’idea che i suoi compatrioti si facevano del messia. Nella conclusione Strauss si sofferma a dimostrare invece l’identità di contenuto tra cristianesimo e filosofia. Questo contenuto identico è costituito dall’unità dell’infinito e del finito, di Dio e dell’uomo.

Nell’altro suo scritto, La fede cristiana nel suo sviluppo e nella lotta con la scienza moderna Strauss contrappone il panteismo della scienza moderna al teismo della religione cristiana. La storia del dogma cristiano è la critica del dogma stesso, giacché rivela il progressivo affermarsi del pantesimo sul tempo e giunge con Hegel a riconoscere che Dio non è altro che il pensiero che pensa in tutti, che gli attributi di Dio non sono altro che le leggi della natura, che il tutto è immutabile e che l’assoluto si specchia nell’eternità degli spiriti finiti.

«La vera e reale esistenza dello spirito non è né Dio in sé né l’uomo in sé, ma il Dio-uomo; non è né l’infinità sola, né la sola natura finita, ma il movimento il quale si porta dall’uno all’altro, movimento che dal lato divino è la rivelazione, dal lato umano la religione». (Leben Jesu, ns. tr., Tübingen 1835-1836, par. 147).

Ludwig Feuerbach (1804-1872)

Nacque a Landshut nella Baviera e morì a Rechenberg. Scolaro di Hegel a Berlino, libero docente a erlangen, si vide troncare la carriera universitaria dall’ostilità incontrata dalle idee sulla religione esposte in uno dei suoi primi scritti: Pensieri sulla morte e sull’immortalità. La filosofia di Feuerbach viene presentata come il capovolgimento esatto di quella di Hegel. Il compito della vera filosofia, è quello di riconoscere il finito come non finito, come infinito, e non come aveva concluso Hegel quello di riconoscere l’infinito come finito. In altri termini Feuerbach ammette con Hegel l’unità dell’infinito e del finito, però questa unità non si stabilisce in Dio o nell’idea assoluta, ma nell’uomo. Ma – punto caratteristico della filosofia di Feuerbach – l’uomo pur essendo definito da questa unità, non si riduce a essa, l’uomo è un essere naturale reale e sensibile, come tale deve essere considerato dalla filosofia, che non può ridurlo a puro pensiero, ma deve considerarlo intero dalla testa al calcagno. Ora soltanto la religione ha sempre considerato l’uomo nella sua integrità e completezza; di qui l’interesse di Feuerbach per la religione e il suo tentativo di dare luogo a una filosofia che la soppianti proprio nel suo tratto essenziale. A questo scopo è diretta la critica religiosa contenuta nella Essenza del cristianesimo e nella Essenza della religione. Il fondamento e l’oggetto della religione è l’essere dell’uomo. Ma la religione è la coscienza che l’uomo ha non della limitazione ma dell’infinità del suo essere. La coscienza in senso proprio è sempre coscienza, dell’infinito; ed è perciò la coscienza che l’uomo ha dell’infinità della sua natura. Tutta la filosofia di Feuerbach si chiude in queste parole: “L’essere assoluto, il Dio dell’uomo, è l’essere stesso dell’uomo”.

L’analisi che Feuerbach fa della religione in generale e del cristianesimo in particolare è, conseguentemente, la riduzione degli attributi divini ad attributi umani: dalla teologia all’antropologia. Allo stesso modo l’idea della perfetta natura di Dio non è che un’idea direttiva e costitutiva dell’uomo: essa gli fa vedere ciò che egli dovrebbe essere e non è, lo mette in uno stato di tensione e di disaccordo con se stesso e lo spinge all’amore, per il quale Dio si riconcilia con l’uomo cioè l’uomo con l’uomo.

Nello scritto sulla Essenza della religione comincia a delinearsi l’indirizzo naturalistico della filosofia di Feuerbach. Dio viene identificato con la natura, il sentimento di dipendenza della religione è inteso come dipendenza dell’uomo dalla natura. La natura è il primo originario oggetto di tutte le religioni. Da qui il principio “qual è il tuo cuore tale è il tuo Dio”.

Gli scritti di Feuerbach insistono con espressioni violentemente polemiche e talora paradossali su di una antropologia per la quale il corpo e l’anima, lo spirito e la carne sono inseparabili e necessariamente connessi. Ma, con ciò Feuerbach non è mai giunto al materialismo, alla riduzione dello spirito alla materia, dell’anima al corpo.

Concludendo possiamo dire che la filosofia di Feuerbach è il tentativo di capovolgere la teologia di Hegel in una antropologia fondata sullo stesso principio, l’unità dello infinito e del finito. Ma questo stesso principio non si presta a fondare un’antropologia autentica che non può essere che la ricerca del fondamento e della struttura del finito come tale. Perciò l’opera di Feuerbach, pur avendo prospettato con forza e vivacità polemica l’esigenza di una dottrina dell’uomo, non si può dire che abbia partecipato in larga misura alla costruzione di questa dottrina.

«Così, da quando si è fatto del sentimento l’elemento essenziale della religione, la materia di fede del cristianesimo – un tempo così sacra – è divenuta indifferente». (L’essenza del cristianesimo, tr. it., Milano 1994, p. 31).

Karl Marx (1818-1883)

Nacque a Treviri e morì a Londra. Studiò all’università di Bonn e si laureò in filosofia in quella di Berlino con una tesi sulla differenza tra la filosofia della natura in Democrito e in Epicuro. Rinunciando alla carriera universitaria preferì diventare politico e giornalista. Iniziò hegeliano, ma ben presto le sue idee si evolvettero e dal liberalismo divenne socialista. Nel 1848, insieme all’amico Engels, pubblicava il Manifesto del partito comunista che segnò l’inizio del risveglio politico della classe operaia e portò il socialismo dal dominio utopistico a quello della realizzazione storica, additando nella classe operaia lo strumento che deve promuovere e sollecitare l’evoluzione della società capitalista verso la propria negazione.

Il punto di partenza di Marx è la rivendicazione dell’uomo esistente, nella totalità dei suoi aspetti di già fatta da Feuerbach. Marx capisce come Feuerbach si sia fermato a un atteggiamento teoretico e contemplativo, come abbia ignorato l’aspetto attivo e pratico della natura umana che si costituisce e realizza soltanto nei rapporti sociali. I filosofi, dice Marx, hanno soltanto diversamente interpretato il mondo: si tratta ora di trasformarlo.

Marx ha cercato di realizzare non solo nella sua opera di filosofo e di economista, ma anche in quella di politico, un’interpretazione dell’uomo e del suo mondo. Ora, questa interpretazione è possibile solo se l’essenza dell’uomo non viene posta, nel suo rapporto con se stesso, rapporto che costituisce la sua interiorità, ma al contrario nei rapporti esterni dell’uomo con gli altri uomini e con la natura che gli fornisce i mezzi di sussistenza; rapporti che non sono determinabili una volta per tutte, ma storicamente determinati dalle forme del lavoro e della produzione. Nella produzione sociale della loro vita, gli uomini entrano in determinati rapporti necessari e indipendenti dalla loro volontà – rapporti di produzione che corrispondono a una certa fase di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, la base reale su cui si edifica una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono determinate forme sociali di coscienza.

Da qui l’antitesi in cui Marx si pone di fronte a Hegel: non già la coscienza dell’uomo è atta a determinare il suo essere, ma al contrario il suo essere sociale determina la sua coscienza. La dottrina di Marx, difatti, si chiamò materialismo, mentre quella di Hegel era costituita dall’idealismo o spiritualismo. Partendo da questa conclusione Marx viene a mutare una serie di concetti che Hegel aveva dato come immutabili.

Per primo il concetto della storia: la storia del mondo non è un’azione puramente astratta dell’autocoscienza, dell’anima del mondo o di qualche altro aspetto metafisico, ma un’azione tutta materiale, empiricamente constatabile, un’attività che trova la sua riprova in ogni individuo per quel che fa e per come agisce, per quel che mangia e per come beve, per quel che indossa. La morale, la religione, la metafisica, tutto ciò che appartiene al dominio ideale non ha per suo conto una storia propria.

L’attività umana non è infinita, cioè infinitamente realizzabile o creatrice, ma sempre finita perché si realizza attraverso un rapporto reale e oggettivo che la condiziona. Come si vede, nei rapporti produttivi e quindi nella determinazione della struttura economica della società, entra tutto l’uomo con i suoi bisogni e con la sua ragione, con i suoi interessi e con la sua scienza.

Se la personalità umana consiste essenzialmente nei rapporti sociali della produzione e del lavoro, è evidente che la sua natura e il suo sviluppo dipendono dalle forme che assumono storicamente tali rapporti. Ed è pure evidente che, in tal caso, la realizzazione di una personalità umana unificata e compiuta non è un problema puramente individuale e privato, dipendente da un perfezionamento spirituale, quale potrebbe essere realizzato attraverso la morale, la religione, la filosofia, ma è un problema sociale dipendente dalla trasformazione della struttura economica della società. La società capitalista, originata dall’esigenza della divisione del lavoro, che ha diviso nettamente capitale e lavoro, implica una scissione irreparabile, una lacerazione che è la scissione e la lacerazione della stessa personalità umana. In essa le forze produttive appaiono completamente avulse dagli individui, costituenti un mondo indipendente da quello della proprietà privata. Il comunismo esigendo la soppressione della proprietà privata (cioè del capitale) tende a eliminare la lacerazione che essa ha portato nella struttura sociale e nella personalità degli individui. Il comunismo è il completo e consapevole ritorno dell’uomo in se stesso, come uomo sociale, cioè come uomo umano.

Il comunismo, afferma Marx, non è un ideale, un’utopia, che si contrappone alla realtà storica e cerca di volgerla a proprio favore; le teorie comuniste non riposano affatto su idee o princìpi che siano stati inventati o scoperti da questo o quest’altro riformatore del mondo. Esse non sono che espressioni generali dei rapporti effettivi di una già esistente lotta di classe, di un moto storico che si va svolgendo sotto i nostri occhi. La fine della società capitalistica e l’avvento del comunismo saranno dovuti all’inevitabile sviluppo della stessa economia capitalista; la quale mentre da un lato è incapace di assicurare l’esistenza dei lavoratori salariati, di cui pure non può fare a meno, dall’altro unisce tutti i lavoratori della grande industria e ne fa una forza destinata a distruggerla. La borghesia stessa produce i suoi primi becchini.

Come è noto Marx parte dalle teorie di Smith e di Ricardo secondo le quali il valore di un bene qualsiasi è determinato dalla quantità di lavoro necessario a produrlo. Se perciò il capitalista corrispondesse al salariato l’intero prodotto del suo lavoro non avrebbe per sé nessun margine di utile. Egli compra dal salariato la forza di lavoro come ogni altra merce, pagandola in base alla quantità di lavoro che basta a produrla, cioè in base a quanto occorre per mantenere l’operaio e la sua famiglia. Così è possibile l’accumulazione capitalistica, che è in effetti l’appropriazione da parte del capitale, del prodotto del lavoro salariato.

«Una rivoluzione radicale è legata a determinate condizioni storiche dello sviluppo economico; esse ne costituiscono la premessa. Essa è quindi possibile soltanto dove con la produzione capitalista il proletariato industriale occupa almeno una posizione rilevante nella massa popolare. E per avere una qualsiasi possibilità di vittoria, esso deve almeno essere in grado di fare immediatamente per i contadini quanto – mutatis mutandis – la borghesia francese ha fatto nella sua rivoluzione per i contadini francesi del tempo... Bakunin non comprende assolutamente nulla della rivoluzione sociale, ne intende solo le frasi politiche; per lui le condizioni economiche della rivoluzione non esistono... Egli vuole che la rivoluzione sociale europea fondata sulla base economica della produzione capitalista si compia al livello delle popolazioni agricole o di pastori russe o slave, che non vada oltre questo livello... La volontà, non le condizioni economiche, è la base della sua rivoluzione sociale». ( Konspekt von Bakunins BuchStaatlichkeit und Anarchie”, citato da: I. Fetscher, Il marxismo, tr. it., vol. III, Milano 1970, p. 157).

Friedrich Engels (1820-1895)

Nacque a Barmen e morì a Londra. Collaborò per quarant’anni con Marx. Il principio del materialismo storico assume in Engels un’accentuazione positivista e materialista. Conseguentemente parla di un materialismo dialettico nel senso di uno sviluppo della realtà naturale, le cui fasi sarebbero delle negazioni e delle negazioni di negazioni, (esempio il seme si nega trasformandosi in pianta, che a sua volta produce il seme, cioè la negazione della negazione).

La dottrina del materialismo storico, che per la scarsa conoscenza degli scritti di Marx, rimasti in gran parte inediti, è stata di solito presentata come opera collettiva di Marx e Engels, in effetti va distinta nella formulazione che Marx ne ha fatto e nella interpretazione positivista che Engels ne ha tentato, cosa che non toglie alla prima il suo significato originario e la sua forma.

«Lo Stato, poiché è nato dal bisogno di tenere a freno gli antagonismi di classe, ma contemporaneamente è nato in mezzo al conflitto di queste classi, è, per regola, lo Stato della classe più potente, economicamente dominante che, per mezzo suo, diventa anche politicamente dominante e così acquista un nuovo strumento per tenere sottomessa e per sfruttare la classe oppressa». (L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, tr. it., Roma 1960, p. 172).

Max Stirner (1806-1856)

Pseudonimo di Johann Kaspar Schmidt. Fu allievo di Hegel a Berlino. La sua opera L’unico e la sua proprietà rappresenta la più estrema opposizione all’universalismo di Hegel, che aveva preteso negare e dissolvere l’individuo. La sua tesi fondamentale è che l’individuo è l’unica realtà e l’unico valore, e come conseguenza si ha che l’unico valore non è altro che l’egoismo assoluto. L’individuo proprio nella sua singolarità, per la quale è unico e irrepetibile, è la misura di tutto. Subordinarlo a Dio, all’umanità, allo spirito, a un qualsiasi ideale, sia pure quello dello stesso uomo, è impossibile giacché tutto ciò che è diverso dal singolo, ogni realtà che si distingua da esso e gli si contrapponga è uno spettro, di cui egli finisce per essere schiavo.

Le idee di Stirner pur nella forma paradossale e spesso urtante in cui sono formulate esprimono un’esigenza che si afferma violentemente tutte le volte che viene negata o delusa quella dell’unicità, dell’insostituibilità della singolarità dell’uomo.

«Non c’è nulla che m’importi più di me stesso». (L’unico e la sua proprietà, tr. it., Catania 2001, p. 14).

Filosofia del Risorgimento, ritorno alla tradizione

Il Romanticismo è, in uno dei suoi aspetti essenziali, difesa della tradizione. Contro l’opposizione illuministica di tradizione e storia, esso tende a ristabilire l’identità dei due termini e a scorgere nella storia la continuità di un processo in cui tutti i valori sostanziali si conservano eternamente, anche se ugualmente presenti in tutti i momenti. La stessa dottrina della storia di Hegel è contrassegnata dall’identificazione della storia con la tradizione; giacché intende la storia come l’eterno presente dell’idea a se stessa; e di qua deriva il compito di giustificazione post factum che Hegel attribuisce alla filosofia nei confronti della realtà.

Con l’irrompere del Romanticismo nella cultura francese, dominata nel secolo XVIII dell’antitradizionalismo illuministico, si delinea un ritorno indietro che nella sua manifestazione più ovvia e battagliera, è una difesa esplicita della tradizione (tradizionalismo). In quest’epoca fiorirono gli scritti di autori come Madame de Staël, Chateaubriand, De Bonald, De Maistre, i quali non hanno valore se non come segno di una riaffermazione di quel principio della tradizione che l’Illuminismo aveva così validamente impugnato.

Non bisogna per questo pensare che di punto in bianco scomparve tutta la filosofia illuministica francese ed europea, anzi essa continuò nei primi dell’Ottocento a manifestare una certa realtà e prese il nome di ideologia. Ma nello stesso seno dell’ideologia si manifesta anche il ritorno romantico alla tradizione spiritualistica.

Tale ritorno poteva essere giustificato solo con un generico distacco dal rigidismo di Condillac e con una nuova valutazione di quella coscienza che già Locke aveva ammesso (sotto il nome di riflessione o esperienza interna) come fonte della conoscenza umana.

Lo spiritualismo italiano della prima metà dell’Ottocento è un movimento di pensiero analogo e parallelo alla filosofia francese dello stesso periodo.

Pasquale Galluppi (1770-1846)

Prima di parlare dei due principali rappresentanti della filosofia risorgimentale bisogna accennare a Pasquale Galluppi, nato a Tropea in Calabria e morto a Napoli, dove fu professore nell’università.

Da Condillac e dagli ideologi Galluppi desume il principio che l’analisi è l’attività fondamentale dello spirito e quindi l’unico metodo possibile in filosofia. Il punto di partenza di questa analisi è per lui quella conoscenza che già gli eclettici francesi avevano rivalutato contro il sensismo illuministico. Il fatto primitivo della coscienza è, secondo Galluppi, l’esistenza dell’io conoscente che è presente immediatamente alla coscienza in ogni suo atto ed è perciò una verità primitiva sperimentale.

Questa verità primitiva è una intuizione immediata, nel senso che è l’immediata intuizione del suo oggetto, dell’io esistente. Dunque l’esistenza dell’io e la realtà del mondo esterno sono direttamente testimoniate dalla coscienza e come tali al di là di ogni dubbio, difatti, secondo Galluppi, tutto ciò che è testimoniato dalla coscienza deve intendersi come verità primitiva evitando di sottoporlo a dubbi o a ulteriori analisi. Per quanto riguarda le dottrine morali, esse hanno lo stesso punto di partenza delle dottrine gnoseologiche: il senso intimo o la coscienza.

Antonio Rosmini Serbati (1797-1855)

Nacque a Rovereto e morì a Stresa. Il suo intento è quello di costruire un sistema di filosofia che possa essere dalla scienza teologica ricevuto come suo ausiliare. Sacerdote cattolico e fondatore di una congregazione religiosa che chiamò Istituto della carità, Rosmini visse sempre assorto negli studi. La sua principale preoccupazione è quella di difendere l’oggettività della conoscenza e in generale della vita spiritualistica dell’uomo, contro il soggettivismo empiristico degli illuministi e dei postkantiani idealisti. Questa preoccupazione coincide con l’altra propriamente scolastica di conciliare l’accordo intrinseco e sostanziale tra la speculazione filosofica e la religione cristiana, portando la prima a fondarsi sullo stesso principio che regge la seconda: Dio e la rivelazione divina.

In corrispondenza con queste preoccupazioni fondamentali, l’atteggiamento filosofico di Rosmini è quello proprio di ogni spiritualismo, la riflessione sulla coscienza cioè sui dati del senso intimo. Per Rosmini il principio ultimo della certezza si riduce a uno solo, alla verità creduta della mente con una intuizione immediata, per sé evidente, senza segni, senza argomenti di mezzo. La sola intuizione immediata possibile dell’essere, cioè di un principio oggettivo che costituisce la forma stessa della soggettività razionale. Rosmini si riannoda in tal modo esplicitamente alla tradizione dell’agostinismo medioevale e specialmente a Bonaventura.

Partendo da pochi ma saldi princìpi dottrinali Rosmini costruisce un’enciclopedia filosofica che comprende le scienze ideologiche, metafisiche e deontologiche. Le prime hanno per oggetto l’ideale, le seconde hanno per oggetto il reale, infine le scienze deontologiche hanno per oggetto la morale, il diritto e la politica. Le scienze metafisiche di Rosmini (psicologia e teosofia) sono sostanzialmente una riesposizione e una difesa della metafisica aristotelica scolastica. La psicologia è diretta a dimostrare la natura sostanziale, spirituale, semplice e quindi immortale dell’anima umana. La teosofia è da lui divisa in tre parti: ontologia, cosmologia e teologia razionale, che sono tre specificazioni di un tutto, tutto che ha per centro e per sostanza di trattazione la dottrina di Dio, senza la quale né si conosce appieno la dottrina dell’essere né si spiega il mondo.

La persona umana, il diritto e lo Stato. L’idea dell’essere è anche fondamento della morale, del diritto e della politica. La formula più generale della morale è: segui nel tuo operare il lume della ragione. Il lume della ragione non è la ragione, la quale è soltanto la facoltà dello spirito umano di applicare l’idea dell’essere; ma è la stessa idea dell’essere che rende l’uomo intelligente. Rendono impossibile la legge morale, da un lato quei sistemi (come quello di Kant) che identificano la ragione umana col suo lume e così rendono autonomo l’uomo e lo divinizzano; dall’altro quei sistemi (empiristici) che identificano il lume della ragione con l’uomo e così rendono variabile e contingente la stessa legge morale. L’uomo è meramente passivo verso la legge morale; egli riceve in sé questa legge, ma non la forma; è un suddito cui la legge si impone, non un legislatore che la impone. L’idea dell’essere rivela all’uomo il bene perché il bene (come voleva la vecchia metafisica) è l’essere stesso.

Sul concetto della persona s’impernia interamente la filosofia del diritto che è una delle parti più vive e interessanti del pensiero di Rosmini. Definito il diritto come una potestà morale, e precisamente come una facoltà di operare ciò che piace protetta dalla legge morale che ne ingiunge ad altri il rispetto, Rosmini lo considera legato indissolubilmente alla persona morale. Sebbene il diritto si riferisca a beni eudemonologici, cioè al godimento e all’uso (non animalesco bensì umano) dei beni materiali, esso è un attributo inscindibile della persona morale, e ha la sua ultima origine nel dovere morale. Nella Filosofia del diritto come nell’opera: Filosofia della politica, Rosmini, subordina la struttura politica della società alla sua struttura sociale, che deve tendere al bene comune. Pur non potendo proporsi come si è visto l’abolizione della disuguaglianza delle fortune, la società deve provvedere ai mali che essa procura, primo tra tutti l’estrema miseria: dell’altra parte della scala sociale. Questa è una delle condizioni fondamentali del perfezionamento della società. Perfezionamento che non può essere inteso come un progresso necessario e fatale, che se ci fosse veramente renderebbe inutile l’opera dell’uomo e dei governi, ma piuttosto, come perfettibile dell’uomo e della società verso l’ideale cristiano di una comunità libera e giusta.

«La grazia riparatrice è personale, cioè è affissa alla persona, ossia al principio supremo della persona umana, l’intellettiva volontà; e le altre potenze inferiori rimangono tuttavia ricalcitranti e ribellanti alla signoria di quella grazia». (Antropologia soprannaturale [1838], Roma 1955, p. 305).

Vincenzo Gioberti (1801-1852)

Nato a Torino morì a Parigi. Fu un sacerdote cattolico di idee liberali e repubblicane. Costretto ad andare in esilio a causa di una violenta reazione in tutto il Regno Sardo contro i mazziniani, egli si recò a Parigi e a Bruxelles, dove insegnò filosofia.

Suo scritto filosofico fondamentale è da considerarsi l’Introduzione allo studio della filosofia; mentre Il Primato morale e civile degli italiani è da considerarsi l’opera più famosa che esercitò un vastissimo influsso sul clima spirituale e politico del Risorgimento italiano. Gioberti ristampando quest’ultima opera nel 1844 vi premetteva una lunga prefazione che intitolò Prolegomeni al Primato, che può considerarsi come uno scritto a parte. Un’altra opera fu destinata a fare la parte opposta nella polemica del primato: Il Gesuita moderno. Nel 1852 pubblicava Del Rinnovamento civile d’Italia.

Negli appunti giovanili, e più compiutamente nella Introduzione allo studio della filosofia, si delinea la falsariga su cui egli condusse la sua speculazione: una condanna totale e senza appello di tutta la filosofia moderna.

“So che Cartesio e tutta la filosofia moderna che da lui prende l’avvio, ha preteso d’introdurre la ricerca e quindi la libera elezione dei princìpi, ma mostrerò nel processo della presente opera come questo assunto sia irragionevole e ridicolo”. Gioberti riproduce in questo suo sistema filosofico i tratti salienti di un neoplatonismo cristiano, quale si trova nella Patristica orientale, esempio in Gregorio di Nissa e in Giovanni Scoto Eriugena. Di originale in questo platonismo c’è solo la dottrina dell’intuito, cioè la pretesa che l’uomo sia spettatore diretto e immediato della creazione. Ma questa pretesa deriva a Gioberti dalla filosofia moderna, quella stessa filosofia che egli vuole combattere ed eliminare: essa è infatti la trascrizione oggettivistica di quel valore della soggettività umana che è appunto il principio stesso di quella filosofia.

Per quanto riguarda le opere politiche, si può dire che in esse si trova rispecchiato quell’assioma che dà l’impronta a tutte le sue opere filosofiche: “L’Ente crea l’esistente”; tranne che questo assioma è adattato al caso e quindi si trasforma in quest’altro: “La religione crea la moralità e la civiltà del genere umano”. Ora, poiché la religione cristiana è la sola religione che mantiene e conserva integra la rivelazione divina, e poiché la Chiesa cattolica è l’unica depositaria e interprete della rivelazione cristiana, Gioberti vede nel cattolicesimo l’intera civiltà del genere umano e nella storia del cattolicesimo la storia della civiltà universale. In effetti si tratta di elucubrazioni utopistiche della mente di Gioberti.

Gli entusiasmi che il Primato suscitò sono da riferirsi al fatto che esso poneva per la prima volta il problema del Risorgimento italiano.

«Il solo modo di spiegare l’esistenza del male è di considerarlo come “una cessione dell’armonia coesistente all’armonia successiva”». (Il gesuita moderno, vol. III, t. II, Losanna 1847, p. 290).

Il positivismo sociale

Il positivismo è il Romanticismo della scienza. La tendenza propria del Romanticismo a identificare il finito e l’infinito, a considerare il finito come la rivelazione e la realizzazione progressiva dell’infinito, è trasferita e realizzata dal positivismo nel seno della scienza.

Con il positivismo, la scienza si esalta, si pone come l’unica manifestazione legittima dell’infinito, perciò si carica di un significato religioso e pretende soppiantare le religioni tradizionali. Il positivismo è parte integrante del movimento romantico dell’Ottocento.

Che il positivismo sia incapace di fondare i valori umani e religiosi e di dare una chiara idea del principio da cui dipende la libertà umana è un punto di vista polemico, che la reazione antipositivistica della seconda metà dell’Ottocento ha fatto prevalere su tutta la storiografia filosofica. Si può anche ritenere giustificato, in tutto o in parte questo punto di vista, ma sta di fatto che il positivismo, almeno nei suoi fondatori, si presenta come l’esaltazione romantica della scienza, la sua infinitizzazione, la sua pretesa di valere come religione autentica, quindi l’unico fondamento possibile della vita umana singola e associata.

Il positivismo accompagna e provoca la nascita e l’affermazione dell’organizzazione tecnico-industriale della società, fondata e condizionata dalla scienza. Esso esprime le speranze, gli ideali e l’esaltazione ottimista, che hanno provocato e accompagnato questa fase della società moderna. L’uomo ha creduto di trovare nella scienza la garanzia infallibile del proprio destino. Ha rigettato perciò, ritenendola inutile e superstiziosa, ogni garanzia soprannaturale e ha posto l’infinito nella scienza, costringendo nelle forme di essa la morale, la religione, la politica, la totalità della sua esistenza. Si possono distinguere due forme storiche di positivismo: il positivismo sociale di Comte e Stuart Mill, nato dall’esigenza di costituire la scienza a fondamento di un nuovo ordine sociale e religioso unitario; e il positivismo evoluzionista di Spencer, nato dall’esigenza di spiegare il valore religioso della scienza con una misteriosa realtà infinita che ne sarebbe la base.

Nonostante le loro comuni pretese antimetafisiche, entrambe queste forme di positivismo sono metafisiche, e la loro metafisica è quella stessa del Romanticismo. Nessuna di esse è necessariamente un materialismo. Il materialismo, che alcuni epigoni deducono dal positivismo evoluzionista, è esso stesso una metafisica romantica fondata sulla deificazione della materia e il culto religioso della scienza.

Auguste Comte (1798-1857)

Nato a Montpellier morì a Parigi. È da considerarsi il vero fondatore del positivismo. Dapprima insegnante privato di matematica divenne in seguito amico e collaboratore di Saint Simon, ma ben presto sciolse questa amicizia appunto per potere effettuare una indipendente elaborazione della sua filosofia.

Caratteristica nella vita di Comte fu una crisi cerebrale che lo condusse in manicomio, ma di cui riuscì a trionfare grazie alla propria forza psichica. Infelice la sua carriera accademica, di modo che egli visse con aiuti e sussidi di amici e discepoli, avendo rinunziato a ogni provento delle sue opere. Separato dalla moglie conobbe Clotilde de Vaux che fu per lui quell’angelo di carità che Beatrice era stata per Dante.

Quella che agli occhi di Comte è la sua maggiore scoperta, e che in realtà è il punto di partenza di tutta la sua filosofia, è la legge dei tre stadi. Ciascuna branca della conoscenza umana passa attraverso tre stadi teorici differenti: il primo è il punto di partenza necessario dell’intelligenza umana e viene detto stadio teologico e fittizio; il terzo è il suo stadio fisso e definitivo che viene detto stato scientifico o positivo; il secondo è unicamente destinato a servire da transizione e viene detto stadio metafisico o astratto.

Nello stadio teologico lo spirito umano dirigendo essenzialmente le sue ricerche verso la natura intima degli esseri e le cause prime e finali, rappresenta i fenomeni come prodotti dall’azione diretta di enti soprannaturali. Nello stadito metafisico, che è solo una modificazione del primo, gli agenti soprannaturali sono sostituiti da forze astratte inerenti ai vari stadi del mondo e concepite capaci di generare da sé tutti i fenomeni osservati. Infine, nello stadio positivo, lo spirito umano, riconoscendo l’impossibilità di raggiungere nozioni assolute, rinuncia a cercare l’origine e il destino dell’universo e a conoscere le cause intime dei fenomeni e si applica unicamente a scoprire, mediante l’uso ben combinato del ragionamento e dell’osservazione, le loro leggi effettive, cioè le loro relazioni invariabili di successione e di somiglianza.

Ora, sebbene varie branche della conoscenza umana sono entrate nella fase positiva, la totalità della cultura intellettuale umana, e quindi dell’organizzazione sociale che su di essa si fonda, non sono state ancora permeate dallo spirito positivo. Comte lamenta infatti la mancanza di una fisica sociale che studi positivamente i fenomeni sociali. Ora, il persistere nel campo della cultura intellettuale di tre filosofie differenti produce uno stato di anarchia intellettuale e quindi la crisi politica e morale della società contemporanea. È evidente che se una della tre filosofie: la teologica, la metafisica e la sociale ottenesse in realtà una preponderanza universale concreta, ci sarebbe un ordine sociale determinato.

Comte si propone perciò di continuare l’opera iniziata da Bacone, Cartesio e Galilei e di costruire il sistema delle idee generali che deve definitivamente prevalere nella specie umana. Ponendo fine così alla crisi rivoluzionaria che tormenta i popoli civilizzati, Comte comincia a stendere una gerarchia delle scienze dalla quale esclude la matematica per la sua fondamentale importanza, in quanto è la base di tutte le altre scienze, e la psicologia, in quanto questa non è scienza e non è suscettibile di diventarlo. La cosiddetta osservazione interiore è impossibile. I fenomeni intellettuali non possono essere osservati nell’atto stesso in cui si verificano. L’individuo pensante non può dividersi in due di cui l’uno ragiona mentre l’altro lo guarda ragionare. L’organo osservato e l’organo osservatore, essendo in questo caso identici, non potrebbe l’osservazione avere luogo.

La sociologia. La scienza alla quale tutte le altre scienze sono subordinate, come al loro ultimo fine, è la sociologia. Compito di questa scienza è quello di percepire nettamente il sistema generale delle operazioni successive, filosofiche e politiche, che devono liberare la società dalla sua fatale tendenza alla dissoluzione imminente e condurla direttamente a una nuova organizzazione più progressiva e più salda di quella che riposava sulla filosofia teologica. A questo scopo la sociologia deve costituirsi nella stessa forma delle altre discipline positive e concepire i fenomeni sociali come soggetti a leggi naturali che ne rendano possibile la previsione, sia pure nei limiti compatibili con la loro complessità superiore.

La sociologia o fisica sociale è divisa da Comte in statica sociale e dinamica sociale, corrispondenti ai due concetti fondamentali su cui essa si basa, quelli dell’ordine e del progresso. La statica sociale mette in luce la relazione necessaria che hanno tra loro le varie parti del sistema sociale: così tra il regime politico e lo stato corrispondente della civiltà umana c’è un rapporto necessario, per il quale un determinato regime, pur essendo in accordo con la fase corrispondente della civiltà, diventa inadeguato a una fase diversa e successiva. L’idea fondamentale della dinamica sociale è quella del progresso, cioè dello sviluppo continuo e graduale dell’umanità. Per la nozione del progresso, ciascuno degli stati sociali consecutivi è il risultato necessario del precedente e il motore indispensabile del seguente, secondo il luminoso assioma del grande Leibniz: il presente è gravido dell’avvenire.

La dottrina della scienza. È la parte dell’opera del Comte che ha avuto più vasta e duratura risonanza nella filosofia e che ha avuto maggiore efficacia sullo sviluppo stesso della scienza. Lo scopo dell’indagine scientifica è la formulazione delle leggi perché la legge permette la previsione, e la previsione dirige e guida l’azione dell’uomo sulla natura. Ogni scienza consiste nella coordinazione dei fatti, e se le osservazioni fossero del tutto isolate non ci sarebbe scienza.

Ma lo spirito positivo tende a dare una razionalità alla scienza a spese dell’empiricità dei fatti osservati. Comte dice che lo spirito positivo senza misconoscere mai la preponderanza necessaria della realtà direttamente constatata, tende sempre ad aumentare il più possibile il dominio razionale a spese del dominio sperimentale, sostituendo sempre più la previsione dei fenomeni alla loro esplorazione immediata.

Sono queste le idee che hanno assicurato per lungo tempo il successo della dottrina della scienza di Comte. Ma purtroppo queste idee sono anche la base di un insieme di limitazioni arbitrarie e dogmatiche che Comte avrebbe voluto imporre alla ricerca scientifica. Egli condannò tutti i lavori sperimentali che gli sembravano produrre una vera anarchia scientifica. Condannò pure l’uso eccessivo del calcolo matematico, e avrebbe voluto anche determinare per ogni genere di osservazione il grado conveniente di precisione abituale, al di là del quale l’esplorazione scientifica degenera inevitabilmente, per un’analisi troppo minuziosa, in una curiosità sempre vana e qualche volta gravemente perturbatrice.

Tali restrizioni sono tuttavia un aspetto essenziale dell’opera di Comte, la quale è esplicitamente diretta a stabilire una sociocrazia cioè un regime fondato sulla sociologia, analogo e corrispondente alla teocrazia fondata sulla teologia. Comte avrebbe voluto essere il capo spirituale di un regime positivo, altrettanto assolutista del regime teologico che avrebbe dovuto soppiantare. Meno fortunato di Hegel, che con l’aiuto del governo prussiano riuscì ad attuare almeno in parte il suo assolutismo dottrinale, Comte non riuscì a tradurre in pratica il suo assolutismo dottrinale.

Nel sistema di politica positiva Comte tende a fondare l’unità dogmatica, culturale e pratica dell’umanità, unità che infranta dalla decadenza del regime teocratico e dal primo sorgere dello spirito positivo, non è stata ancora ristabilita. Questa unità non è soltanto l’unità di una dottrina, ma anche quella di un culto, di una morale e di un costume. Come concetto fondamentale si ha quello dell’umanità che deve prendere il posto di quello di Dio. L’umanità è il grande essere come l’insieme degli esseri passati, futuri e presenti, che concorrono liberamente a formare l’ordine universale. Il culto positivista viene stabilito da Comte con un calendario positivista e perfino con un catechismo positivista. La morale sta tutta nella formula: “Vivere per gli altri”. L’altruismo, che si basa su una benevola valutazione degli istinti dell’uomo che non vengono considerati esclusivamente egoistici.

«Ciascuno degli stadi sociali consecutivi è il risultato necessario del precedente e il motore indispensabile del seguente, secondo il luminoso assioma del grande Leibniz: il presente è gravido dell’avvenire». (Cours de philosophie positive, ns. tr., Paris 1830-1842, vol. IV, p. 292).

John Stuart Mill (1806-1873)

Nacque a Londra da James giornalista e uomo politico, funzionario della compagnia delle Indie e filosofo che si innesta, come del resto anche il figlio, nel tronco secolare dell’empirismo inglese. Ma ben presto il giovane Mill si accorse della inutilità della dottrina utilitaristica del padre e del suo grande amico Jeremy Bentham. Poté uscire della crisi che ne derivò solo riconoscendo che la felicità non si ottiene facendone lo scopo della vita, ma piuttosto dedicandosi ad altro, a un compito che possa concentrare su di sé le energie interne dell’uomo.

In realtà, la differenza fondamentale tra il positivismo di Comte e il positivismo di Stuart Mill è che l’uno è un razionalismo radicale mentre l’altro, nato nel tronco tradizionale della filosofia inglese, è un non meno radicale empirismo. Il positivismo di Comte intende sì partire dai fatti, ma solo per giungere alla legge la quale, una volta formulata, entra a far parte del sistema totale delle credenze dell’umanità, e viene dogmatizzata. Per il positivismo di Stuart Mill invece il richiamo dei fatti è continuo e incessante, e non è possibile nessuna dogmatizzazione dei risultati della scienza. La logica è per Stuart Mill una scienza che ha per scopo quello di battere ogni assolutismo della credenza e di riportare ogni verità, principio o dimostrazione, alla validità delle sue basi empiriche. Per questa via la ricerca filosofica non perde quel carattere sociale che aveva acquistato negli ultimi scritti di Comte, soltanto il fine sociale non è quello di stabilire un unico sistema dottrinariamente e politicamente oppressivo, bensì quello di combattere alle sue basi ogni possibile forma di dogmatismo assolutistico e di fondare la possibilità di una nuova scienza educativa, liberatrice che Stuart Mill chiamò Etologia.

L’indagine logica di Stuart Mill non è fine a se stessa, tende a stabilire un metodo e una disciplina per lo studio e la direzione dell’uomo. I primi cinque libri del Sistema di logica sono, nella mente di Mill, semplicemente preparatori rispetto al sesto, dedicato alla logica delle scienze morali. Qui Mill comincia col riaffermare la libertà del volere umano, libertà che per altro non contraddice a quella che egli chiama la necessità filosofica, la quale implica che dati i caratteri distintivi di un individuo se ne può dedurre infallibilmente la sua condotta futura. Essa non è tuttavia la fatalità, in quanto questa supporrebbe una specie di connessione metafisica tra la volizione e i suoi moventi, mentre la necessità non può significare altro che uniformità di ordine e possibilità di predizione. Proprio su queste due cose si fonda la scienza della natura umana o psicologia. E sulla psicologia e le sue leggi si fonda l’etologia che studia le leggi del carattere.

L’economia politica. Una branca indipendente dell’indagine sociologica è l’economia politica. Essa è quella scienza che considera quei fenomeni sociali che si verificano in conseguenza della ricerca della ricchezza e fa interamente astrazione da ogni altra passione o movente umano, eccetto che dai princìpi antagonisti come l’avversione al lavoro e il desiderio del godimento presente. L’economia politica delinea su questo presupposto un ordine uniforme di fenomeni, che rende possibile la revisione delle azioni economiche. Per quanto riguarda il problema della libera concorrenza Stuart Mill ritiene che l’intervento di un’autorità qualsiasi nella condotta di un individuo non può essere accettato se non nella misura in cui tale intervento è giustificato dalla difesa degli stessi diritti individuali.

Dottrina della sostanza. Il problema che Stuart Mill si propone di risolvere è quello di mostrare in che modo lo spirito non avendo a sua disposizione che il materiale sensibile, può organizzare un mondo che ha almeno l’apparenza dell’esteriorità. Per risolvere questo problema egli ricorre, come aveva fatto Hume, alle leggi dell’associazione. Quando diciamo che l’oggetto percepito è esterno a noi intendiamo dire che è nelle nostre percezioni qualche cosa che esiste anche quando non ci pensiamo, che esisteva prima che ci pensassimo e che esisterà anche qualora fossimo annichiliti. A queste determinazioni si riduce l’idea della sostanza esterna. Esse si spiegano tutte con quelle che Stuart Mill chiama possibilità di sensazioni. Ora mentre le sensazioni presenti sono poco importanti perché fuggitive, le possibilità di sensazioni sono permanenti e possiedono quindi il carattere principale della sostanza esterna. In questo modo il mondo esterno non è altro che una permanente possibilità di sensazioni.

Il demiurgo. Nei tre saggi postumi: Natura; Utilità della religione e Teismo, si delinea il concetto di demiurgo. Che il creatore del mondo debba avere un’intelligenza e una potenza enormemente superiore a quella dell’uomo, è evidente; ma non perciò è evidente che egli debba essere dotato di onnipotenza e di onniscienza. Al contrario, l’esistenza stessa di un disegno sembra escludere l’onnipotenza del suo autore. Il disegno implica infatti l’adattamento dei mezzi al fine e la necessità di adoperare dei mezzi implica una limitazione di forza. Un uomo non usa macchine per muovere le sue braccia. L’onnipotenza non può essere pertanto attribuita al creatore. Potrebbe essergli attribuita l’onniscienza ma niente lo dimostra. Il creatore risulta quindi una sorta di demiurgo, la cui forza è limitata o dalla qualità del materiale adoperato, le sostanze e le forze di cui si compone l’universo, o dall’incapacità di realizzare in modo migliore i fini stabiliti.

«La costante abitudine a correggere e a completare la propria opinione confrontandola con quelle degli altri, non solo non causa dubbi o esitazioni nel tradurla in pratica, ma anzi è l’unico fondamento stabile di una corretta fiducia in essa. Le nostre convinzioni più giustificate non riposano su altra salvaguardia che un invito permanente a tutto il mondo a dimostrarle infondate». (Citato in G. Boniolo, Filosofia della scienza, tr. it., Milano 2002, p. 130).

Il positivismo evoluzionista

L’altro indirizzo del positivismo è quello evoluzionista. Questo indirizzo consiste nell’assumere l’evoluzione come la base di una realtà soprannaturale o metafisica, infinita e ignota. Il punto di partenza di questo indirizzo è la dottrina biologica elaborata da Darwin: esso è infatti, in primo luogo, una generalizzazione metafisica di tale dottrina. Ma questa generalizzazione metafisica è condizionata dal presupposto romantico che il finito è la manifestazione o la rivelazione dell’infinito giacché solo a causa di questo presupposto, i singoli processi evolutivi frammentariamente sperimentabili dalla scienza in alcuni aspetti della natura, si saldano in un processo unico, universale e continuo, che abbraccia tutta la realtà. La teoria biologica della trasformazione della specie è il punto di partenza del positivismo evoluzionista.

La teoria del trasformismo biologico si può fare risalire, nei suoi precedenti prossimi ad alcune intuizioni di Buffon che, pur definendosi partigiano della dottrina tradizionale della fissità delle specie viventi, aveva ammesso ipoteticamente la possibilità che esse si fossero sviluppate partendo da un unico tipo comune. Dallo stesso Buffon Kant trasse probabilmente l’ispirazione per l’ipotesi da lui presentata nel paragrafo 80 della Critica del giudizio, di una reale parentela delle forme viventi e della derivazione da una madre comune. Anche la voce di Lamarck non ebbe nessuna risonanza perché la teoria della fissità delle specie era sostenuta dall’autorità di Cuvier, il fondatore della paleontologia moderna, che sosteneva che le varie specie di animali si fossero distrutte, dando occasione a Dio di produrne specie nuove. Tale teoria fu distrutta da Charles Lyell che nei Princìpi di geologia dimostra la tesi che la moderna struttura della terra non è dovuta a successivi cataclismi, ma all’azione lenta e insensibile delle cause che continuano ad agire sotto i nostri occhi. Questa dottrina spianò enormemente la via al trasformismo biologico.

Charles Darwin (1809-1882)

Nipote di un naturalista, Erasmus, Darwin fu il tipo di scienziato tutto dedito alle sue ricerche. Dopo un viaggio per mare durato cinque anni, si dedicò a raccogliere e a ordinare il materiale per la sua grande opera L’Origine delle specie che apparve nel 1859. Il libro ebbe un successo fulmineo e la prima edizione (circa 1000 copie) si esaurì il primo giorno di vendita.

Il merito di Darwin consiste nell’avere data una compiuta e sistematica teoria scientifica del trasformismo biologico fondandola su un numero enorme di osservazioni e di esperimenti, e di averla presentata proprio nel momento in cui l’idea romantica del progresso, nata sul terreno della indagine storica, si affermava nella sua massima universalità e pareva incrollabile. La teoria di Darwin si fonda su due ordini di fatti: 1) l’esistenza di piccole variazioni organiche che si verificano negli esseri viventi lungo il corso del tempo e sotto l’influenza delle condizioni ambientali, variazioni che, in parte, per la legge della probabilità sono vantaggiose agli individui che le presentano; 2) la lotta per la vita che si verifica necessariamente tra gli individui viventi per la tendenza di ogni specie a moltiplicarsi secondo una progressione geometrica.

Ora, ciò che l’uomo fa per le piante e per gli animali domestici producendo gradatamente le varietà di essi che sono più utili ai suoi bisogni, la natura può farlo su scala immensamente più vasta. Accanto allo studio dei fossili, quello degli organi rudimentali, delle specie così dette aberranti e della embriologia può condurre a determinare l’ordine progressivo degli esseri viventi. La conclusione di Darwin è nettamente ottimistica: egli crede di aver stabilito l’inevitabile processo biologico allo stesso modo che il Romanticismo credeva all’inevitabile processo spirituale.

Darwin fu e volle essere esclusivamente uno scienziato. Solo raramente, e si può dire malvolentieri, si decise a esprimere le sue convinzioni filosofiche e religiose; e sempre in linea privata, in lettere personali non destinate alla stampa. Tali dottrine gli furono però ispirate dalla profonda convinzione della discendenza inferiore dell’uomo, discendenza che non può autorizzare una grande fiducia nella capacità dell’uomo stesso a risolvere grandi problemi.

«La legge della selezione naturale tende al perfezionamento di ciascuna creatura vivente in rapporto alle sue condizioni di vita organiche e inorganiche, e conseguentemente, nella maggior parte dei casi, a un progresso dell’organizzazione. Tuttavia le forme semplici inferiori possono perpetuarsi per lungo tempo se sono convenientemente adattate alle loro semplici condizioni di vita». (On the origin of species, ns. tr., London 1859, par. 18).

Herbert Spencer (1820-1903)

Nacque a Derby in Inghilterra e morì a Brighton. Divenne ingegnere delle ferrovie, ma in seguito ricevuta una piccola eredità poté dedicarsi esclusivamente alla sua vocazione di scrittore.

L’epoca era molto propizia per una teoria del progresso che non si restringesse al destino dell’uomo nel mondo, ma si estendesse al mondo intero nella totalità dei suoi aspetti. Elaborare la dottrina del progresso universale e mettere in luce il valore infinito, quasi religioso (per quanto solo misteriosamente religioso), del progresso, fu il compito che si assunse Spencer, diffondendo nel marzo del 1820 il prospetto di un suo vastissimo sistema di filosofia. Il primo volume si intitola Primi princìpi e la prima parte di esso “L’inconoscibile”. Questa parte tende a dimostrare l’inaccessibilità della realtà ultima e assoluta nello stesso senso in cui questa tesi era stata sostenuta da Hamilton. Ma la tesi viene fatta servire da Spencer a dimostrare la possibilità di una conciliazione tra la religione e la scienza.

Ora, la verità ultima inclusa in ogni religione è che l’esistenza del mondo con tutto ciò che contiene e con tutto ciò che lo circonda è un mistero che sempre esige di essere interpretato. Tutte le religioni falliscono nel dare questa interpretazione: le diverse credenze in cui esse si esprimono non sono logicamente definibili.

Dall’altro lato anche la scienza urta contro il mistero che avvolge la natura ultima della realtà di cui essa studia le manifestazioni. Che cosa siano il tempo e lo spazio, la materia e la forza, quale sia la durata della coscienza se finita o infinita e che cosa sia il soggetto stesso del pensiero, sono per la scienza enigmi impenetrabili. Ciò accade perché la nostra conoscenza è chiusa dentro i limiti del relativo. Certamente per mezzo della scienza essa progredisce e si estende incessantemente, ma questo progresso consiste nell’includere verità speciali in verità generali e verità generali in verità ancora più generali; sicché ne consegue che la verità generale, la quale non ammette inclusioni in una verità ulteriore, non è comprensibile. Spencer quindi ammette senz’altro che l’assoluto, l’incondizionato è inconoscibile per l’uomo, data la relatività costitutiva della sua conoscenza. Ora, che la scienza sia limitata al fenomeno non significa che sia confinata all’apparenza. Il fenomeno non è l’apparenza, è piuttosto la manifestazione dell’inconoscibile. E la prima manifestazione dell’inconoscibile è il raggrupparsi dei fenomeni stessi in due gruppi principali che costituiscono l’io e il non-io: il soggetto e l’oggetto.

Tra la religione, alla quale spetta il riconoscimento dell’inconoscibile, e la scienza alla quale spetta l’intero dominio del conoscibile, quale posto ha la filosofia? Spencer la definisce come la conoscenza nel suo più alto grado di generalità. La scienza è conoscenza parzialmente unificata, la filosofia conoscenza completamente unificata. Le verità della filosofia stanno alle verità scientifiche più alte come queste stanno alle verità scientifiche più basse. La filosofia è il prodotto finale di quel processo che comincia con la raccolta di osservazioni isolate e termina con le proposizioni universali. Essa perciò deve assumere come suo proprio materiale e punto di partenza i princìpi più vasti e più generali ai quali è giunta la scienza. Tali princìpi sono l’indistruttibilità della materia, la persistenza della forza e le conseguenze di questi due princìpi, tra le quali è la legge del ritmo cioè dell’alternarsi dell’elevazione e della caduta nello sviluppo di tutti i fenomeni. La formula sintetica che questi princìpi generali richiedono è una legge che implichi la continua ridistribuzione della materia e della forza: cioè la legge dell’evoluzione. La filosofia è dunque essenzialmente teoria dell’evoluzione.

Biologia. La biologia è la scienza che studia l’evoluzione dei fenomeni organici e la loro causa. La vita, secondo Spencer, consiste nella combinazione di fenomeni diversi, contemporanei e successivi, la quale si verifica in corrispondenza con mutamenti contemporanei o successivi dell’ambiente esterno. Essa consiste nella funzione dell’adattamento e, appunto attraverso questa funzione, si formano e si differenziano gli organi, per l’esigenza di sempre meglio rispondere alle sollecitazioni dell’esterno.

Sociologia. Pur utilizzando alcuni risultati della sociologia di Comte e accettando il nome della scienza che Comte aveva inventato, Spencer modifica radicalmente il concetto di essa. La sociologia deve limitare il suo compito a descrivere lo sviluppo della società umana sino al punto in cui essa è giunta finora, e non, come vuole Comte, prevedere e guidare i fatti sociali. Essa può tutt’al più determinare le condizioni alle quali lo sviluppo ulteriore dovrà soddisfare, ma non le mete e gli ideali di esso.

La sociologia determina le leggi dell’evoluzione superorganica e considera la stessa società umana come un organismo i cui elementi sono prima le famiglie e poi i singoli individui. La sociologia di Spencer è nettamente orientata verso l’individualismo e quindi verso la difesa di tutte le libertà individuali, in contrasto con la sociologia di Comte che costituisce l’indirizzo sociale del positivismo.

«Supponiamo ora che al libero regime industriale, che attualmente si muove spontaneamente, venga sostituito un regime d’obbedienza imposto da pubblici ufficiali. Chi non vede che una vastissima rete amministrativa si renderà necessaria per la distribuzione dei beni occorrenti a villaggi e città, una distribuzione che oggi viene effettuata esclusivamente e spontaneamente dalla gente d’affari? Pensiamoci che accadrà mai quando i vari reparti di siffatto nutrito esercito di burocrati avranno a propria disposizione la forza necessaria per reprimere ogni forma d’insubordinazione e agire in veste di salvatori della società? Quale sarà la fine degli attuali sterratori, minatori, fonditori, tessitori, quando coloro che sono preposti all’ordine e alla sorveglianza, assestate che siano le differenti classi, si saranno fusi, dopo alcune generazioni, con individui di classi congeneri, così da formare delle classi obbedienti a sentimenti non dissimili da quelli delle classi attuali? Quando costoro avranno dato origine a una serie di caste e, assorbita ogni cosa in loro potere, assunto modi di vivere vantaggiosi unicamente a loro, in guisa da creare un’aristocrazia di nuovo conio, di gran lunga più complessa e meglio organizzata dell’antica?». (Dalla libertà alla schiavitù, tr. it., Venezia 1945, p. 93-94).

Linee guida della filosofia contemporanea

Con la reazione antipositivistica inizia la filosofia contemporanea. L’espressione “filosofia contemporanea” implica una certa difficoltà di interpretazione. Essa dovrebbe designare l’insieme di quelle correnti che agiscono come forze presenti e attuali nella ricerca filosofica, come lieviti o fermenti del suo lavoro in gestazione. Ma in questo senso è evidente che si dovrebbero considerare contemporanei movimenti e dottrine cronologicamente lontani dall’epoca presente e altri invece cronologicamente vicini non sarebbero contemporanei. Meglio, dunque, assumere questa espressione, se la si vuol conservare, nel senso approssimativo e convenzionale che le è proprio: come l’insieme di quelle correnti che fanno capo a filosofi a noi cronologicamente vicinissimi, e che entrano a costituire in una certa misura la problematica viva della filosofia.

Della filosofia contemporanea così intesa occorre distinguere quella che si può dire filosofia militante, che rappresenta la punta avanzata, la linea di lotta, e che è contrassegnata dallo sforzo di rinnovare la problematica in atto, con il ritorno a filosofi vecchi e nuovi insufficientemente valutati, e con la costruzione di un nuovo linguaggio. Un quadro della filosofia contemporanea deve assumere come suo punto di riferimento e suo criterio sistematico il problema del metodo della filosofia.

Tale quadro consentirà di rendersi subito conto delle affinità tra pensatori apparentemente lontani e talora indicati con etichette diverse; consentirà di determinare più rigorosamente il significato del termini con i quali si designano le varie correnti; consentirà infine di conservare e legittimare quei raggruppamenti nazionali o locali (esempio spiritualismo francese, idealismo italiano) che sono giustificati non dall’elemento nazionale o locale, ma dalla affinità del problema.

E poiché la crisi del concetto di filosofia è stata prodotta dal positivismo, che ha inteso ridurlo a quello di scienza, un primo passo per ottenere il quadro complessivo e comparativo degli indirizzi fondamentali della filosofia contemporanea può consistere nel fissare l’atteggiamento di questi indirizzi di fronte alle tesi del positivismo.

Queste tesi possono riassumersi così: 1) Non c’è altra realtà che il fatto naturale e non c’è altra possibile conoscenza dei fatti che la scienza studia. 2) Sussistono tra i fatti rapporti costanti che costituiscono leggi immutabili e necessitanti. Queste tesi escludono che l’uomo e il suo mondo spirituale abbiano una qualsiasi originalità e autonomia nei confronti del resto della natura; anch’essi dovrebbero ridursi a una collezione di fatti, dominati da leggi che escludaono ogni libertà e ogni valore. Le correnti di filosofia contemporanea hanno tra loro spiccati caratteri di somiglianza, ma si diversificano nel loro atteggiamento nei confronti della scienza e della realtà che è l’oggetto della scienza, e per l’appunto tale atteggiamento può servire a darne una prima caratterizzazione.

Esso può consistere: 1) Nel rigettare il valore della scienza come conoscenza e nell’ammettere al di là dei fatti naturali, ridotti a semplici apparenze, una realtà assoluta di natura spirituale, o testimoniata direttamente della coscienza dell’uomo (spiritualismo) o riconosciuta come una coscienza infinita nel cui processo razionale-dialettico si risolve la stessa coscienza umana (idealismo). 2) Nell’accettare la scienza come unica conoscenza vera e nel ridurre la filosofia a una riflessione sulla scienza e sui poteri umani che le danno origine (neocriticismo). 3) Nell’accettare la scienza come conoscenza valida, ma nel ritenerla subordinata alla vita e alla azione, riconosciute come la realtà autentica (filosofia della vita, pragmatismo). 4) Nel riconoscere, nella scienza, e in tutti gli altri aspetti della vita spirituale e pratica, atteggiamenti e manifestazioni dell’uomo e nell’intendere la filosofia come analisi del modo di essere dell’uomo che è a fondamento di quelle manifestazioni (fenomenologia, esistenzialismo).

Questo prospetto, che risulta immediatamente dall’atteggiamento che le varie correnti assumono nei confronti della scienza, diventa più significativo se in esso si pone in evidenza il concetto che le singole correnti si fanno della natura e del metodo della filosofia cioè se quell’atteggiamento stesso viene considerato nei confronti del problema della filosofia.

Si hanno allora le seguenti specificazioni: a) Per lo spiritualismo il filosofare è l’atto del ripiegamento interiore, della ricerca sulla propria spiritualità. Quest’atto è la coscienza come atteggiamento filosofico. Le esigenze morali, religiose, estetiche e l’esigenza della libertà che le condiziona tutte, diventano in questo caso la guida della ricerca filosofica e il loro appagamento diventa il termine finale di essa. b) Per l’idealismo il filosofare è l’atto della coscienza e dello spirito infinito che si riconosce come tale nelle sue manifestazioni finite. La risoluzione del finito nell’infinito, nell’universale, è l’esigenza iniziale e il termine finale dell’idealismo. c) Per il neocriticismo il filosofare è una riflessione sul sapere scientifico, che non accresce il volume di questo sapere, ma solo riconosce le condizioni di questa validità. Tali conclusioni sono categorie, cioè determinazioni universali e originarie della ragione umana. L’estensione di questo procedimento di ricerca dalle scienze naturali alle scienze dello spirito, e in particolare alla storia, costituisce la caratteristica di altre correnti contemporanee che si riconnettono al neocriticismo, la filosofia dei valori e lo storicismo. d) Per le filosofie dell’azione e il pragmatismo, il filosofare è essenzialmente un atto pratico e orientativo nel quale viene in luce e si riflette la superiorità dell’azione sul pensiero. Esso perciò non istaura una conoscenza superiore a quella della scienza, ma mette in chiaro la subordinazione d’ogni conoscenza possibile ai fini dell’azione e della vita. e) La critica della scienza, che tende a mettere in luce il carattere artificiale e convenzionale delle strutture scientifiche, viene spesso utilizzata nelle correnti precedenti per la difesa delle loro rispettive tesi. Nel suo sviluppo più moderno e originale (metodologia della scienza o positivismo logico) essa si presenta come analisi logico-linguistica della scienza, e perciò come riduzione della filosofia a metodologia scientifica. f) Per la fenomenologia, la filosofia è essenzialmente l’analisi degli atteggiamenti fondamentali da cui si origina tutto il mondo della conoscenza e della vita dell’uomo. Quest’analisi è intesa come una scienza descrittiva e contemplativa. g) Per l’esistenzialismo, l’analisi del modo di essere dell’uomo (esistenza) è una ricerca in cui il soggetto stesso che la istituisce è direttamente coinvolto, e che perciò non ha il carattere di disciplina contemplativa. A queste correnti si deve aggiungere quella del realismo, sotto la cui etichetta si possono considerare tutti quegli indirizzi non riducibili ai precedenti, dominati dalla preoccupazione di riaffermare l’oggettività del reale contro l’idealismo gnoseologico condiviso dalla maggior parte della filosofia contemporanea.

«L’idea di natura che Löwith contrappone allo storicismo è l’immagine che gli uomini sanno farsi del loro ambiente, e riguarda quindi il mondo. E si tratta fin dall’inizio di un mondo comune, essenzialmente umano. Nella sua prima opera importante – Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, dissertazione sostenuta con Heidegger nel 1929 – Löwith discute la struttura relazionale del mondo umano, e quindi l’identità dell’individuo come Mitmensch. Pur muovendo da categorie heideggeriane (e in particolare dalla posizione dell’“essere-nel-mondo”), Löwith articola la sua analisi in una critica implicitamente radicale dell’unicità e della funzione ontologicamente dominante del Dasein heideggeriano. L’altro (il “prossimo”) non viene da Löwith genericamente assegnato al mondo che fa da sfondo al Dasein, ma distaccato da esso e implicato nella stessa realtà costitutiva del Dasein. L’altro non è alius (il terzo estraneo), ma essenzialmente alter, cioè l’altra faccia dello stesso Dasein. Mentre però la filosofia classica della relazionalità oggettiva poneva l’altro come conseguenza dell’intenzionalità del soggetto, Löwith si sforza di concepire la relazione con il prossimo come costitutiva della stessa personalità dell’individuo, del suo esistere in un mondo comune. Collegandosi idealmente non solo alle filosofie della relazione che si sviluppano sul terreno fenomenologico (Sartre), ma anticipando singolarmente la svolta etica anti-heideggeriana della filosofia contemporanea (per esempio Lévinas), Löwith fa della relazionalità la stessa fonte dell’ethos umano. Nella dissertazione di Löwith due sono le linee di riflessione che verranno riprese e approfondite nelle opere mature: in primo luogo la critica di ciò che potremmo chiamare il “solipsismo esistenziale” della filosofia successiva all’idealismo, della distruzione della tradizione e, in un certo senso, dello stesso Heidegger (l’irresponsabilità morale e politica in cui sfocia la filosofia della decisione discende anche, per Löwith, dall’aver ignorato o sottovalutato il dialogo costitutivo dell’essere umano nel mondo); in secondo luogo, l’articolazione del nesso tra natura e mondo in quanto costitutivo della realtà umana sulla terra. Le nozioni con cui Löwith ricostruisce questo nesso (Natura dell’uomo come realtà di base, necessaria ma non sufficiente, dell’esistenza, Umwelt, o “mondo soggettivo”, Mitwelt, o “mondo comune”, relazione implicante una reciprocità o un dialogo) compongono l’immagine dell’uomo nel mondo in una posizione di equilibrio. Gli elementi naturali e sociali del comportamento umano devono integrarsi se l’individuo vuole concepirsi come essere relazionale. Così, la presenza dell’altro significativo non avrebbe senso senza integrazione, e comunanza delle Umwelt – ma, d’altra parte, ciò che è naturale nell’uomo (l’appetizione, la sfera dei bisogni primari) trova la sua destinazione auto-trascendendosi nella Umwelt, e quindi entrando in relazione con il mondo del prossimo. In questo contesto, la realtà della natura, lungi dall’essere il senso del mondo umano, ne costituisce la condizione essenziale. E, a ben vedere, questa proporzione tra mondo naturale e mondo umano riecheggia l’antica nozione di kosmos, che non deve essere concepito come raffigurazione di una naturalità oggettivata o incombente, ma come contemplazione delle proporzioni esistenti tra tutte le cose create». (Alessandro Dal Lago, “L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut”, n. 222, 1987, pp. 16-17).

«L’idea di proporzione, o di equilibrio, è dunque il filo conduttore della riflessione di Löwith fin dalla sua prima opera. Ora, è evidente come nei suoi lavori successivi cresca la consapevolezza di una distorsione crescente di tale equilibrio. Mentre nell’ordine del Kosmos antico non si dà soluzione di continuità tra esperienza nella natura ed esperienza nella città (e quindi tra contemplazione del cosmo e conoscenza degli affari umani, tra cosmologia e politica), la cultura post-antica conosce una frattura insanabile tra mondo e mondo umano. La “trascendenza” antica, se così si può chiamare, si indirizzava, al di là del travaglio degli affari umani, alla contemplazione di ciò che evidentemente esisteva prima degli uomini e sarebbe rimasto dopo la loro scomparsa. Così le vicissitudini della vita della polis trovavano il loro senso in un ordine trascendente. Nella storicità post-antica, al contrario, la trascendenza si indirizza al superamento dell’ordine mondano illegittimo. L’equilibrio cosmico viene spezzato in quanto la vita beata non è più di questo mondo ma sarà possibile soltanto nel ricongiungimento con Dio dopo questo mondo. Al tempo stesso, l’amore per il mondo (ma solo per il mondo umano) è per la teologia cristiana (in particolare, per Agostino) soltanto una conseguenza della fede in Cristo e nella sua testimonianza storica, e non più una condizione primaria dell’esistenza». (Ib., pp. 17-18).

«L’analisi della rottura dell’equilibrio antico e dell’instaurarsi della storia, ovvero di una cultura orientata prima verso il regno di Dio e poi, con la secolarizzazione, verso un futuro illimitato, è al centro dell’opera più nota e controversa di Löwith, Significato e fine della storia. Non cercheremo di riprodurre qui le argomentazioni di Löwith e le critiche che esse hanno incontrato. Ma vorremmo osservare come la tesi della secolarizzazione, che è al centro di quelle argomentazioni, si presti a una duplice lettura. La tesi di Löwith, secondo cui le teorie illuministiche del progresso e lo storicismo del XIX secolo (grazie alla sintesi hegeliana) sono una declinazione e una conseguenza dell’escatologia cristiana, appare come la traduzione filosofica della tesi weberiana della secolarizzazione. Per Max Weber il razionalismo occidentale è impensabile senza l’orientamento storico attuato nella tradizione ebraica e poi nel cristianesimo. La svolta decisiva del processo di razionalizzazione – e cioè l’individualismo ascetico e inframondano del protestantesimo – presuppone per Weber la razionalizzazione della condotta di vita attuata nella cultura cristiana. Le caratteristiche principali del razionalismo occidentale (l’attivismo nel mondo come manipolazione della natura, il senso incrollabile del progresso, il dominio dei mezzi sui fini) presuppongono la trasformazione del mondo naturale in mera risorsa, in realtà manipolabile e modificabile; e quindi, in questo senso, esse non contraddicono il cristianesimo. Analogamente, per Löwith, il nazionalismo filosofico non si alimenta da sé ma è una conseguenza diretta della storicizzazione del mondo operata dal cristianesimo. In questo senso, la moderna cultura occidentale e la sua filosofia sono illegittime, proprio perché conseguono da un’altra legittimità, quella religiosa. Ora, questa ricostruzione della genesi del pensiero moderno conduce a conseguenze necessariamente ambigue». (Ib., pp. 18-19).

Benedetto Croce

Per Croce (1866-1952) la storia si presenta come il processo di realizzazione di un principio infinito, cioè dello spirito. Questo processo è intrinsecamente razionale. I suoi legami sono: a) positivismo: respinto a causa della sua riduzione naturalistica dell’uomo e del suo mondo spirituale alle condizioni logico-ambientali. b) neocriticismo: assente del tutto.

Lo sviluppo del suo pensiero. La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. Polemica contro la tesi positivista del carattere scientifico della storia, storia come arte che tende a rappresentare l’accaduto. Ricerche storico-erudite.

Incontro con Marx. Tenta di svincolare il marxismo dalle formule metafisiche di derivazione hegeliana e non lo presenta come una filosofia della storia, ma come una specie di canone interpretativo della storia. In seguito si allontanerà da Marx ma la lezione marxista sarà operante anche all’interno della filosofia dello spirito quando tenterà di rivendicare il mondo dell’utile come forma autonoma di attività spirituale.

L’Estetica. Parte da De Sanctis e da Vico, collabora con Gentile e definisce la piattaforma idealistica della propria filosofia.

L’incontro con Hegel. Fino al periodo dell’Estetica la natura era un presupposto dell’attività spirituale; dopo le opere su Hegel la natura si risolve nello spirito. Egli assume una posizione critica limitando la validità della dialettica degli opposti all’interno di ogni forma spirituale e contrapponendovi la dialettica dei distinti. La storia diventa opera dello spirito e non più degli individui. Ora se lo spirito coincide con la storia, la conoscenza diventa conoscenza storica, il giudizio definitorio (filosofia) e quello individuale (storiografia) si identificano, sono solo due tipi logicamente distinti ma si identificano. La natura non possiede una sua realtà, le scienze naturali perdono il loro valore conoscitivo e si presentano come pseudo-concetti a scopo pratico, cadendo sotto il dominio delle forme economiche dello spirito.

Teoria e storia della storiografia. Contemporaneità della storia e distinzione dalla cronaca (attività pratica). Tra le due guerre Croce ha riveduto la filosofia dello spirito centralizzando questo libro nel sistema dello spirito. Tono provvidenzialistico della sua concezione. Riprende la polemica hegeliana contro il dover essere che si contrappone all’essere.

Identificazione di libertà e necessità. La libertà non è degli individui ma dello spirito, la storia è quindi storia della libertà perché è storia dello spirito, da qui la concezione liberale.

Opposizione al fascismo. Rottura con Gentile. In questo periodo da un lato si sviluppa un atteggiamento di giustificazione integrale della storia perché storia della libertà, dall’altro un atteggiamento di discriminazione delle varie epoche in base al contributo da esse dato al progredire dell’ideale morale della libertà.

Lo storicismo assoluto. Polemica con lo storicismo tedesco e meineckiano in particolare. Egli ribadisce: a) negazione della natura come mondo autonomo e sua risoluzione nello spirito, b) riconoscimento del carattere spirituale di ogni realtà, c) rifiuto della trascendenza e affermazione dell’immanenza dello spirito nella storia, d) riduzione della conoscenza a conoscenza storica, e) riduzione della filosofia a momento metodologico della storia

Ultimo periodo, dopo il fascismo. Lotte politiche ma viene messo al margine. Sostituisce la categoria dell’utile con quella del vitale (Filosofia e storiografia e Indagini su Hegel) riconoscendo in essa un momento originario di “naturalità” antecedente allo spirito e capace di limitarne la realizzazione. Nell’insorgere di questo fondo primigenio della storia, mai soggiogato, egli ha visto la perenne possibilità di un ritorno alla barbarie. Da ciò la fede provvidenziale verso lo spirito che risolve in sé gli individui, quindi una polemica aspra contro il marxismo, l’esistenzialismo e gli altri indirizzi di pensiero. La presenza di Dio nel mondo, la celebrazione dell’eternità dello spirito diventa tema centrale degli ultimi scritti.

«E su quel vostro “faro” mi sono permesso più volte di celiare nei miei libri e l’ho chiamato il “lanternone”, sospeso dal cielo sulla vita terrena, e gli ho preferito il lume portatile, quello che sorge dal seno della coscienza, e non può sorgere d’altronde se prendiamo sul serio l’immanenza, della quale anche voi avete professato la teoria, né so che siate passato a una concezione trascendente, nel qual caso ammetto che la presente questione sarebbe tra di noi da terminare o da sospendere, come terminiamo o sospendiamo le questioni quando si urta in un dissenso radicale nelle premesse». (Nuove pagine sparse, vol. I, Bari 1996, pp. 155-156).

Lo storicismo contemporaneo

Il termine storicismo non ha un significato unitario se si esclude quello generico di ricorso alla considerazione storica come strumento per comprendere la realtà e la vita sociale.

Il primo contrasto è quello tra il movimento storicistico tedesco e lo storicismo di derivazione idealista. Quest’ultimo vede nel processo storico la realizzazione di un principio spirituale infinito, di uno “spirito del mondo” o di uno “spirito del popolo” nel quale il primo si incarna. Invece lo storicismo tedesco contemporaneo vede la storia come opera degli uomini e dei loro rapporti condizionati dall’appartenenza a un processo temporale.

Da ciò deriva l’antitesi fatta valere della filosofia tedesca contemporanea tra mondo umano e natura, che invece la cultura romantica aveva asserito in base alla comunanza della loro origine metafisica. Al contrario lo storicismo di derivazione idealista ha rielaborato questa concezione romantica fondandosi sull’identità della storia con il processo evocativo dello spirito. A esempio Croce: “la storia è opera dello spirito universale”. In questo modo la storicità diventa un attributo costitutivo dell’intera realtà, in quanto la realtà è spirito e lo spirito, da parte sua è storia. Conseguentemente viene da ciò negata l’esistenza di una natura distinta dallo spirito, per cui anche gli eventi naturali rivestono carattere storico.

Nello storicismo tedesco contemporaneo, fu fin dall’inizio chiara l’opposizione alla filosofia hegeliana della storia, mentre vennero accettati i risultati della scuola storicistica, anche se non lo spirito che animava quelle ricerche. A questa scuola venne riconosciuto il merito di avere fondato le scienze storico-sociali in un organismo unitario.

Solo con Max Weber ci si libera dall’eredità metodologica della scuola romantica, di cui la scuola storica era portatrice.

I nuovi elementi filosofici che troviamo nello storicismo tedesco sono: il positivismo e il neocriticismo.

Dal positivismo ricava l’esigenza della ricerca concreta su base empirica e il concetto che solo la scienza può consentirci di penetrare la realtà. Rifiuta invece la riduzione delle scienze storico-sociali a scienza della natura, sul modello appunto della scienza della natura. Quindi rifiuto di Comte.

Dal neocriticismo ricava la considerazione della filosofia come strumento per fondare criticamente le scienze storico-sociali. È quindi un’estensione del compito di Kant alle discipline di cui non si era occupato: le scienze dello spirito (Dilthey) o scienze sociali (Weber).

A differenza della formulazione kantiana, però (escludendo Windelband e Rickert) il soggetto della conoscenza non è più il soggetto trascendentale nelle sue funzioni a priori, ma l’uomo come essere storico concreto, nei limiti conoscitivi dell’orizzonte storico in cui è inserito. In questo modo, secondo Dilthey, la critica della ragione storica diventa una critica storica della ragione.

La fonte dello storicismo di derivazione idealistica è Hegel. Di Hegel viene respinto il sistema ma viene accolta la concezione della storia e soprattutto il postulato della razionalità. Vedere Croce.

Lo storicismo tedesco

Dibattito metodologico sulle possibilità delle scienze storico-sociali. Questo dibattito determina all’inizio i differenti indirizzi del movimento storicistico tedesco.

Dilthey: le scienze storico-sociali sono “scienze dello spirito” in antitesi alle “scienze della natura”. In queste il soggetto conoscente è estraneo all’oggetto conosciuto, nelle prime vi appartiene.

Windelband: distingue tra “scienze nomotetiche” (naturali) dirette alla conoscenza di leggi naturali e “scienze idiografiche” orientate verso l’individuazione del loro oggetto (non importa se si tratta di un evento naturale o umano).

Rickert: partendo da Windelband qualifica le scienze storico-sociali come “scienze della cultura”.

Simmel: indica nella comprensione il procedimento proprio delle scienze sociali e della conoscenza storica.

Weber: partendo da Rickert ammette che le scienze sociali non siano dirette alla determinazione di un complesso di leggi generali ma soltanto alla individuazione di oggetti. Ma poi afferma l’indispensabilita dell’impiego di concetti e di regole generali anche per il sapere storico, e pone in luce il carattere tipico-ideale di queste leggi, questo compito sarà svolto dalla sociologia.

La struttura del mondo umano come campo di ricerca delle scienze storico-sociali.

Dilthey: la storicita è il fondamento del mondo umano in quanto l’uomo è un essere storico e tutte le manifestazioni della sua esistenza si collegano a un orizzonte storico.

Windelband e Rickert: ciò che determina la struttura del mondo umano è il rapporto con i valori universali e necessari da cui i fenomeni culturali traggono significato. Nella natura la relazione ai valori è assente, la cultura costituisce la sede della loro realizzazione storica.

Weber: partendo da Windelband e Rickert lascia però cadere il presupposto della validità incondizionata dei valori, per riconoscerne invece la storicità, il legame con le forme storiche della cultura. I valori non sono trascendenti rispetto alla storia, l’uomo vivendo prende posizione nei loro confronti accettandone alcuni, rifiutandone altri.

Con Spengler si ha la riduzione dello storicismo in termini relativisti, determinata dalla sfiducia prodotta dalla sconfitta tedesca. Per Spengler ogni civiltà è caratterizzata da un complesso di valori inaccessibili a un’altra civiltà. Questa conclusione determina in Troeltsch e Meinecke la necessità di sottrarre lo storicismo all’anarchia dei valori da esso stesso determinata, affermando l’assolutezza dei valori.

Quando Meinecke dice con Ranke che la presenza dell’assoluto nella storia dà significato a ogni sua epoca, il movimento storicistico tedesco, sorto attraverso il distacco dalla concezione romantica della storia, si conclude con il ritorno a essa.

Lo storicismo idealistico

L’opposizione al fascismo ha determinato una revisione della teoria crociana della storia così come era stata redatta prima del 1917. La rivendicazione della libertà, nella quale si esprimeva la polemica con il regime e con Gentile e il suo stato etico, viene ricondotta alla storia considerando la libertà come principio costitutivo e normativo della storia. In altri termini la libertà diventa per Croce da un lato sostanza dello spirito e dall’altro ideale morale al quale deve tendere lo sviluppo storico. In questo modo Croce ha fatto coincidere lo sviluppo storico con la realizzazione progressiva della libertà.

Lo storicismo assoluto diventa pertanto una teologia della storia a base immanente che si regge su di una fede religiosa della presenza dello spirito nel mondo.

La seconda guerra mondiale farà mettere in dubbio questa visione teologico-provvidenziale sostituendola con la consapevolezza del carattere problematico di ogni civiltà. Davanti al conflitto Croce era costretto a lasciare cadere l’atteggiamento di giustificazione totale della storia, riconoscendo il contrasto tra razionalità storica e razionalità morale.

L’incontro con il materialismo dialettico. Questa dottrina era rimasta un filone eretico della cultura tedesca senza rapporti con gli indirizzi dominanti. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento si ha l’opera di Sombart che propone il problema del capitalismo moderno determinando un dibattito estesosi in Francia con l’opera di Sorel e in Italia con Labriola e Croce. Weber interviene segnando una svolta fondamentale.

Il suo rifiuto del condizionamento unilaterale del processo storico da parte dello sviluppo economico e quindi la contrapposizione tra struttura e sovrastruttura cerca di provare l’insostenibilità della tesi di Engels. Per far fronte a questa critica Lukács respinge l’interpretazione engelsiana come prodotto di una deformazione positivista della dottrina di Marx (Storia e coscienza di classe), richiamandosi al metodo dialettico quale fondamento del processo storico.

Mannehim indica nella considerazione sociologica della storia il risultato più importante dello storicismo.

Con questo incontro si apre un rinnovamento della dottrina marxista e il fondamento sociologico del sapere che indaga il rapporto tra manifestazioni culturali e situazione storico-sociale.

Wilhelm Dilthey (1833-1911)

Prima espressione dello storicismo tedesco contemporaneo. Costruisce una critica della ragione storica. Vuole: a) fondare l’analisi metodologica delle scienze storico-sociali, b) determinare la struttura storica del mondo umano.

In lui si incontrano due correnti. Il positivismo accoglie: a) il rifiuto della metafisica, b) la relazione scienza-filosofia, c) la polemica contro l’idealismo post-kantiano. Rifiuta: a) la riduzione del mondo storico a natura, b) lo schema deterministico, c) il ritorno a Kant e il compito della filosofia come analisi critica dei poteri conoscitivi.

L’altra corrente è il neo-criticismo. Accoglie: a) il ritorno a Kant e il compito della filosofia come analisi critica dei poteri conoscitivi, b) allarga quest’analisi dal campo fisico-matematico a quello storico. Rifiuta: a) l’indagine critica come studio delle funzioni a priori del soggetto trascendentale (cioè della struttura interna della ragione). Essa deve essere diretta verso l’uomo come essere concreto e storico.

Sviluppo del suo pensiero. Inizia sotto la scuola romantica (Ranke, Ritter) con studi artistico-letterari, religiosi, filosofici che sboccano nella vita di Schleiermacher.

Nello scritto di abilitazione rivendica contro l’etica kantiana il carattere storico delle prescrizioni dell’imperativo categorico e quindi la variabilità del contenuto della morale.

Con la cattedra di Berlino incomincia il lavoro della differenziazione delle scienze dello spirito dalle scienze della natura.

Dal punto di vista metodologico le scienze dello spirito: a) studiano fenomeni di cui l’uomo è parte, b) il loro procedimento è la comprensione, c) i dati derivano dall’esperienza interna dell’Erlebnis che l’uomo ha di sé e della comprensione che può avere degli altri.

Le scienze della natura: a) studiano i fenomeni esterni all’uomo, b) il loro procedimento è la spiegazione, c) i dati derivano dall’esperienza esterna.

Le scienze storiche: si fondano sull’individuo che costituisce il nucleo elementare del mondo umano. Da questo mondo sorgono i sistemi di cultura e di organizzazione sociale. In questo modo le scienze dello spirito si ripartiscono in: a) storia, indaga le manifestazioni del mondo umano nella loro individualità, b) discipline di tipo generalizzante (psicologia, antropologia) cercano di scoprire le uniformità del mondo umano.

La critica della ragione storica. Le scienze dello spirito si basano sul rapporto tra 1’Erleben (il divenire della vita), l’espressione e l’intendere.

La conoscenza del mondo umano diventa quindi una conoscenza dall’interno, ma non legata alla semplice introspezione: essa può essere ottenuta solo attraverso lo studio dei prodotti storici dell’attività umana.

Questo studio mette in luce il fatto che ogni fenomeno del mondo umano non è altro che una connessione dinamica che produce valori e realizza scopi, avendo se stessa come centro.

Fenomeni di questo tipo sono i sistemi di cultura e di organizzazione sociale e le singole epoche storiche. Infatti ogni epoca può essere compresa solo sulla base del proprio sistema di valori.

La sua concezione della filosofia. La storicità del mondo costringe a qualificare la filosofia una forma di intuizione del mondo. Le forme tipiche sono: naturalismo, idealismo oggettivo e idealismo della libertà. Queste concezioni ispirano: i primi studi sulle figure del mondo culturale romantico, le ricerche sulla cultura filosofica del Settecento, le ricerche biografiche sul giovane Hegel.

«Le scienze dello spirito formano una connessione conoscitiva, la quale mira a una conoscenza oggettiva della concatenazione degli Erlebnisse umani nel mondo storico-sociale dell’uomo». (Critica della ragione storica, tr. it., Torino 1954, p. 48).

Wilhelm Windelband (1848-1915)

Insieme a Rickert la loro dottrina, su base geografica, è stata detta scuola del Baden o sud-occidentale. Il punto di partenza è che la filosofia deve avere come oggetto non la realtà, ma la conoscenza della realtà, lo scopo diventa quindi quello di determinare i princìpi a priori che garantiscono la validità oggettiva del conoscere.

I legami sono: a) neo-criticismo. È molto stretto. Dalla partenza neocriticista arriva a formulare una teoria dei valori che fa appello al postulato metafisico della trascendenza, oltre a quello dell’oggettività dei valori.

Sviluppo del suo pensiero: a) Inizia sotto la scuola di Fischer e Lotze, succede a Lotze a Heidelberg. b) Il Manuale. È un modello di interpretazione neocriticista della storia della filosofia. Il pensiero moderno ha il suo centro nello sviluppo della teoria della conoscenza. I suoi principali indirizzi – razionalismo e empirismo – confluiscono nella critica kantiana. Fa proprio il “ritorno a Kant”. c) Nei Preludi indica la sua interpretazione della filosofia. Individuati i valori dice che essi fanno parte di una “coscienza normale” che sussiste su di un piano trascendentale rispetto alla realtà empirica. d) Distinzione tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche. In polemica con Dilthey basa la distinzione su un fondamento oggettivo, egli fa una distinzione di metodo dicendo scienze nomotetiche le discipline dirette alla determinazione di leggi generali e scienze idiografiche le discipline dirette alla comprensione dell’individuale.

«Il sole della necessità naturale splende ugualmente sul giusto e sull’ingiusto. Ma la necessità che avvertiamo nella validità delle determinazioni logiche, etiche ed estetiche, è una necessità ideale, una necessità che non è quella del Müssen e del non-poter-essere-altrimenti, ma quella del Sollen e del poter-essere-altrimenti». (Präludien, vol. II, ns. tr., Tübingen 1911, p. 69).

Heinrich Rickert (1863-1936)

Allievo di Windelband. Stessa derivazione filosofica.

Da quest’ultimo ricava la distinzione tra scienze nomotetiche e idiografiche.

Sviluppo del suo pensiero: a) Inizia professore a Friburgo. b) Dalla distinzione windelbandiana ricava le caratteristiche oggettive della natura e del mondo della cultura. La stessa realtà si presenta come natura e come cultura secondo il punto di vista dal quale è considerata.

La natura è la realtà considerata in generale (cioè nelle sue leggi).

La cultura è la realtà considerata in senso individuale (cioè nei suoi fatti).

Ma il fatto storico emerge come individualità solo in quanto certi valori sono preesistiti alla sua elaborazione congettuale, cioè alla sua scelta. La cultura è perciò la realizzazione storica dei valori e il suo rapporto con questi costituisce il “senso” della cultura.

I valori sussistono in sé, indipendentemente dalla loro eventuale realizzazione a opera degli uomini e danno origine alla diverse forme di cultura. In questo modo il processo storico riceve una interpretazione metafisica, l’iniziale impostazione neocriticista è attutita.

Ultimo periodo. Influenza di Hartmann e Heidegger, accentuazione del carattere ontologico della teoria dei valori.

«L’atto di affermare o di negare si contrappone alla rappresentazione ed è al tempo stesso la parte essenziale del giudizio, quella attraverso la quale conosciamo effettivamente, e possiamo quindi anche impadronirci dell’oggetto della conoscenza. In breve, rispetto alla verità, conoscere non è rappresentare, bensì affermare o negare. Se l’affermare è la forma del conoscere, il suo oggetto deve essere allora ciò che viene affermato. Ma che cosa possiamo affermare se l’affermazione è un atto di presa di posizione analogo al volere? L’oggetto deve rivolgersi al soggetto che conosce come un’esigenza, cioè come qualcosa che chiede approvazione. Abbiamo ottenuto così anche il concetto più generale dell’oggetto della conoscenza. Ciò che è conosciuto, che è cioè affermato o riconosciuto nel giudizio, deve trovarsi nella sfera del dover essere... Quando diciamo che l’oggetto è un dover essere, questo “è” non ha nulla in comune con l’essere nel senso dell’esistere. È una difficoltà puramente linguistica che non deve cancellare la differenza di principio tra i concetti di essere e di dover essere. Con dover essere intendiamo proprio ciò che non è o esiste. Ogni conoscenza deve sì essere riconoscimento di un dover essere, ma non ogni riconoscimento di un dover essere è conoscenza, non ogni affermazione è vera. La verità dell’atto di pensiero dipende da quale tipo di dover essere esso riconosce». (Il neocriticismo tedesco, tr. it., Torino 1983, pp. 227-228).

Georg Simmel (1858-1918)

Ritarda l’inserimento accademico. Pregiudizi razziali, religiosi e di dilettantismo. Respinge l’eterogeneità tra contenuto e forma e concepisce la distinzione tra i due termini come una semplice distinzione funzionale.

I suoi legami sono: a) Neo-criticismo: viene trasformato nel senso di un’analisi metodologica concreta delle scienze sociali. b) Positivismo: accoglie la tesi di critica della nozione kantiana di apriori. Le categorie diventano presupposti forniti di validità ipotetica e non le strutture permanenti della conoscenza. c) Relativismo: (costituisce una fase intermedia del suo pensiero. Il riconoscimento della relatività non solo del conoscere ma di ogni aspetto della vita lo porta a fare di questo il principio incondizionato.

Sviluppo del pensiero. a) Inizi difficili come visto. b) Il problema della possibilità delle scienze sociali. Partendo dal metodo descrittivo di queste discipline respinge l’idea di una struttura fissa della scienza storico-sociale – come aveva fatto la sociologia positivista – e cerca di determinare le categorie delle scienze sociali. Queste sono interpretate non come princìpi a priori in senso kantiano ma come punti di vista relativi. c) La conoscenza storica trova la sua validità nel rapporto con le scienze sociali. Il fondamento della conoscenza storica tra soggetto e oggetto (Dilthey) rende possibile la comprensione. In questo modo le categorie storiografiche diventano presupposti psicologici e quindi relativi. d) La prospettiva relativistica si ha nei Problemi fondamentali della filosofia. e) Il principio incondizionato è sviluppato nel lavoro Intuizione della vita. La vita è questo principio da cui traggono origine tutte le forme della realtà le quali non appena nate si contrappongono alla vita. La vita è quindi un processo infinito creatore di forme finite che si organizzano su un piano trascendente rispetto alla vita. f) La dialettica della vita e delle sue forme, parte finale del pensiero di Simmel, giustifica il suo pensiero storico. La storicità diventa l’attributo di un mondo ideale che cerca di contrapporsi alla vita e di resistere alla sua opera distruttrice.

«Quando prendiamo come oggetto processi psico-sociali e li riproduciamo empateticamente, non abbiamo l’idea di affidarci alla nostra soggettività e alla casualità delle sue esperienze interne, bensì di pensare qualcosa di assolutamente oggettivo. Si mostra qui ancora una volta l’intreccio e la dissociazione tra il motivo psicologico e il motivo metodico-oggettivo. Quelle due tendenze della storiografia costituiscono unificazioni scientifiche del contenuto oggettivo della storia, ricostruzioni di un accadere infinitamente complesso a partire da un determinato concetto supremo. Il mezzo che consente loro il raggiungimento effettivo di questa immagine logicamente intelligibile è però la funzionalità psicologica delle loro categorie decisive, la situazione vantaggiosa per la ricostruzione psicologica derivante dal modo in cui i loro punti di vista organizzano il materiale storico. In ultima analisi, infatti, anche le situazioni e i movimenti sociali – l’equilibrio della vita civile garantito dal diritto, i rapporti di subordinazione all’interno del gruppo, l’unificazione per fini comuni, la forma conferita alla vita comune dalle motivazioni ideali o materiali – sono giudicabili, anzi constatabili solo in virtù di una immedesimazione empatetica personale. Anche quel che in tali movimenti crediamo di poter toccare con mano, possiamo invece toccarlo solo con l’anima. Nella semplicità dell’“universale”, che sta al di dentro e al di sopra dei soggetti dell’accadere, la teleologia del presupposto più adeguato alla comprensione psicologica si salda con l’unità scientifico-oggettiva; per quanto poco questa unità si ponga da sola il problema delle condizioni della sua realizzazione psichica, tuttavia essa ammette queste condizioni proprio attraverso la struttura psicologica che la storia grazie a lei acquisisce». (I problemi della filosofia della storia, tr. it., Genova 1982, pp. 71-72).

Oswald Spengler (1880-1936)

Inizia il processo di involuzione dello storicismo tedesco che si riduce a relativismo storico.

I legami sono: a) Eredità romantica: già preannunciata da Simmel, appare nella sua pienezza. Una necessità organica regge lo sviluppo storico. Le diverse civiltà che costituiscono nel loro insieme il mondo storico sono organismi biologici. Tra le civiltà non esiste possibilità di rapporto perché eterogenee. Le manifestazioni di ogni civiltà hanno una validità limitata alla civiltà stessa. b) relativismo: sbocco conclusivo della partenza romantica.

Sviluppo del suo pensiero. a) Inizia dagli studi di matematica, scienze naturali e filosofia. Insegnante di liceo diventa poi scrittore indipendente a Monaco. b) Il tramonto dell’Occidente. Opera in connessione con il clima politico della sconfitta tedesca. I presupposti filosofici sono tratti da Dilthey (sviluppato unilateralmente in senso relativistico), da Goethe e da Nietzsche. Da Goethe deriva la prospettiva biologica. La “natura vivente” di Goethe si trasforma nel “mondo come storia”. Da Nietzsche deriva lo schema ciclico di interpretazione della storia. Il processo di ogni civiltà appare come ripetizione di uno schema sempre uguale.

Su questa base Spengler ecletticamente conclude che ogni civiltà, essendo un organismo biologico, nasce si sviluppa e muore e a nulla valgono gli sforzi degli uomini per farla sopravvivere. Ma se il ciclo evolutivo è uguale per ogni civiltà, diverso è il patrimonio biologico di ognuna. Ognuna dà origine a un proprio mondo simbolico che vale solo all’interno di essa: conclusione relativistica. I sintomi di questa decadenza sono: a) affermazione della classe borghese, b) prevalere dell’economia sulla politica, c) la democrazia, d) l’organizzazione capitalista.

Anni decisivi. In questo lavoro, comparso nel 1933, egli approfondisce la sue analisi in polemica col liberalismo, il regime parlamentare, i partiti politici, affermando la necessità di restaurare l’autorità dello Stato. Pur non avendo aderito al nazismo egli preparò ideologicamente il nuovo regime.

«Noi non abbiamo la possibilità di realizzare questo o quello ma la libertà di fare ciò che è necessario o nulla; ed un compito che la necessità della storia ha posto verrà realizzato con il singolo o contro di esso». (Il tramonto dell’Occidente, tr. it., Milano 1983, p. 630).

Ernst Troeltsch (1865-1923)

In polemica con Spengler, per la sua conclusione relativistica. Afferma l’assolutezza dei valori e il necessario riferimento del processo storico a valori assoluti

I legami sono. Concezione romantica: viene respinta. Resta soltanto il concetto d’individualità. In questo modo, attraverso l’individualità, egli determina la struttura ontologica del processo storico nella presenza immanente dei valori all’interno di esso. Nel riconoscimento della individualità di ogni fenomeno storico egli vede il principio fondamentale della considerazione storicistica della realtà.

Sviluppo del suo pensiero. a) Inizia compiendo studi teologici e diventa professore di teologia. b) Contrasto storia-religione. Da un lato la conoscenza storica ci mostra il condizionamento di ogni forma di religione, dall’altro la religione avanza una prevedibilità assoluta. In questo modo si è avuta una crisi: il cristianesimo si presenta non più come la religione assoluta ma come quella più alta, quella in cui si realizza non il possesso ma la partecipazione alla verità. Egli cerca quindi un elemento a priori autonomo della vita religiosa e lo trova in un complesso di valori del tutto diverso da quelli etici o estetici. c) Lavoro. Significato del protestantesimo per l’origine del mondo moderno. L’influenza di Weber pone in risalto le relazioni tra cristianesimo e lo sviluppo politico, economico e sociale della civiltà occidentale.

Il periodo di Berlino. È chiamato nel 1915 a insegnare filosofia. I suoi interessi si rivolgono ad affrontare in termini generali il problema dello storicismo. Lo storicismo e i suoi problemi. Egli attacca la crisi del pensiero storico che si manifesta nell’anarchia dei valori e nel relativismo conseguente.

«La relatività dei valori, ha senso soltanto se in questo relativo è vivente e creante qualcosa di assoluto. Altrimenti essa sarebbe mera relatività, non già relatività dei valori. Essa presuppone un processo vitale dell’Assoluto, nella quale l’Assoluto può venir colto e formato da ogni punto nella maniera corrispondente a quel punto». (Gesammelte Schriften, vol. III, ns. tr., Tübingen 1925, pag.212)

Friedrich Meinecke (1862-1954)

In polemica con Spengler come Troeltsch. I legami sono: a) concezione romantica. Nello sforzo di combattere il relativismo di Spengler, Meinecke come Troeltsch finisce per recuperare gli strumenti romantici. Si conclude così l’arco dello storicismo tedesco con il recupero della riaffermazione di valori assoluti.

Sviluppo del suo pensiero. a) Inizia con Droysen, entra nell’amministrazione degli archivi prussiani. Dirige poi la “Rivista storica” fino al 1935, quando il nazismo lo estromette. Insegna a Friburgo e Berlino. Incentra le sue ricerche sulla lotta della Germania contro il dominio napoleonico e la formazione nazionale dello Stato tedesco. Esamina anche i rapporti tra nazione culturale tedesca e nazione territoriale prussiana. Enuncia anche il concetto di Stato fondandolo sulla sua individualità e quindi ne deriva la possibilità che lo Stato ha dell’autodeterminazione. Il compito dello Stato diventa quello di provvedere alle condizioni che garantiscono la permanenza e l’accrescimento della sua potenza. b) L’opposizione al nazismo. Verso il 1919, in un lavoro sulla rivoluzione, egli sottolinea la revisione delle prospettive tradizionali storiografiche intorno alla soluzione bismarckiana del problema tedesco. Contrappone la Germania di Goethe a quella di Bismarck. L’antitesi tra kratos e ethos, tra potenza e spirito, si presenta qui nell’analisi costitutiva del mondo della politica. Nel prevalere della potenza (Bismarck) egli addita il demone della politica. La ragione di Stato è il ponte gettato tra i due termini. Lo Stato è spirito e potenza, e questo ponte è permanenza dello spirito nella vita politica.

Il problema dello storicismo. Attraverso lo studio dell’idea della ragion di Stato arriva al problema dello storicismo. Qui la sua difesa dal relativismo è affermazione della fede in valori assoluti. Così egli descrive lo sviluppo dello storicismo nell’opera Origine dello storicismo: all’inizio si è affermato in antitesi al giusnaturalismo e al suo presupposto di una ragione umana immutabile, depositaria di un sistema di verità eterne, facendo valere (Moser, Herder, Goethe e Ranke) il riconoscimento dell’individualità di ogni storico. Ma lo stesso pensiero di Goethe e Ranke è la prova che lo storicismo non esclude il rapporto della storia con i valori assoluti, cioè non è destinato a trasformarsi necessariamente in relativismo. Il mistero di questa immanenza e trascendenza dei valori può configurarsi solubile solo attraverso la fede.

«Fra kratos e ethos, fra la condotta guidata dall’impulso della forza e la condotta guidata dalla responsabilità morale esiste, alla sommità della vita politica, un ponte, che è la ragion di Stato: la considerazione di ciò che è conveniente, utile e benefico, di ciò che lo Stato deve fare per raggiungere in ogni circostanza il più alto punto della sua esistenza». (Die Ideen der Staatsräson in der neueren Geschichte, ns. tr., München 1957, p. 121).

Max Weber (1864-1920)

Una svolta decisiva nello sviluppo dello storicismo tedesco. I legami sono: a) Eredità romantica. Rottura definitiva e strutturazione delle scienze storico-sociali su base indipendente. b) Critica di Menger, diretta contro l’impostazione storica dell’economia politica. c) Tiene conto del processo di formazione della sociologia come scienza. d) Impostazione rickertiana, viene messa da parte definitivamente la distinzione e la problematica tra scienze dello spirito e scienze della natura. e) Neocriticismo, abbandono definitivo del terreno gnoseologico e fondamento di un’analisi che parte dall’interno delle caratteristiche distintive delle scienze storico-sociali. f) Marxismo, vi vede solo la dipendenza esclusiva della sovrastruttura (fenomeni politici, giuridici, religiosi, ecc.) dalla struttura economica. Vi contrappone una impostazione metodologica facente appello al condizionamento reciproco dei diversi settori della realtà storica. Egli fa quindi una critica “positiva”.

Sviluppo del suo pensiero. 1) Inizia in un ambiente bismarkiano, madre colta padre deputato. Precoce. Mommsen lo spinge allo studio di Roma antica, scrive un’opera fondamentale sul diritto agrario romano. Con i socialisti della cattedra (Smoller, Wagner, Brentano) e con la partecipazione al “Verein” si accosta alla ricerca sociologica. Si dedica a ricerche sul lavoro agricolo nella Germania orientale. Studia in particolare la struttura della proprietà signorile e della proprietà capitalista. Si delinea il centro delle sue ricerche sul capitalismo moderno e la sua individualità storica. Dopo una crisi nervosa che lo allontana dalla cattedra e dopo un periodo di lungo riposo, assume la direzione dell’“Archiv”, rivista nella quale compariranno i suoi migliori saggi.

2) Critica della scuola storica, in un lavoro su Roscher e Knies, attacca l’eredità romantica e la sua pretesa di considerare la conoscenza storica come procedimento di comprensione immediata diretto a cogliere intuitivamente i fenomeni storici nella loro individualità. Quindi il suo richiamo a Rickert è evidente.

3) L’oggettività delle scienze storico sociali. Le condizioni di questa oggettività sono: a) esclusione di ogni giudizio di valore dal campo delle scienze storico-sociali, b) spiegazione causale del proprio oggetto, come le altre discipline.

Ma, se il giudizio di valore è estraneo alla conoscenza storica, come a ogni altra disciplina scientifica, ciò che consente la distinzione tra scienze sociali e scienze naturali è solo il metodo di scelta dei dati. Tale metodo di scelta costituisce il significato culturale di un oggetto storico, cioè la sua individualità.

Weber parte da Rickert, i valori sono tenuti presenti ma hanno perduto la loro essenza metastorica, essi sono sempre i valori di una certa cultura a cui appartiene il soggetto.

In questo modo la stessa spiegazione causale non mette capo a rapporti necessari ma solo a formulazioni di giudizi di possibilità oggettiva, il modello tradizionale di spiegazione causale è abbandonato e accettato il modello di spiegazione condizionale.

Certo le scienze storico-sociali, nell’individuare di volta in volta una serie di condizioni che rendono possibile il verificarsi di un determinato avvenimento, tengono presente anche concetti generali, come “fini ideali” i quali possono organizzarsi con una certa autonomia in discipline teoriche come la scienza economica o la sociologia. L’edificio del sapere storico comprende non solo le scienze sociali astratte.

4) Il capitalismo moderno. Weber lo definisce come una struttura economica a carattere razionale, tipica del processo di razionalizzazione della civiltà moderna, per questo si differenzia da forme simili, come per esempio il capitalismo antico.

In polemica coi marxisti sostiene che non è possibile spiegare la genesi del capitalismo moderno facendo appello solo a condizioni economiche. Vi contribuiscono anche un certo spirito, lo spirito capitalistico che è un prodotto dell’etica calvinista e della sua forma di ascesi mondana, diretta a comprovare la grazia divina mediante il lavoro e il successo negli affari.

5) La sociologia come disciplina autonoma. In Economia e società: vasta opera postuma, la sociologia è contrapposta alla storiografia. Essa assume a oggetto le uniformità dell’atteggiamento umano in quanto fornite di senso: a) atteggiamento razionale rispetto allo scopo, b) atteggiamento razionale rispetto al valore, c) atteggiamento affettivo, d) atteggiamento tradizionale.

In Economica e società Weber conduce un’analisi delle forme del rapporto tra i vari settori dello sviluppo sociale e le forme dell’economia.

6) Periodo successivo alla Prima guerra mondiale. Durante la guerra critica la politica bismarkiana e dopo partecipa alla formazione della repubblica di Weimar aderendo al partito repubblicano. Ritorna all’insegnamento a Monaco dove tiene due conferenze sul senso della scienza e della politica e un corso di lezioni sulle categorie sociologiche. In questo periodo riprende la riflessione sul problema del valore, imposto dal conflitto mondiale e dalle relative questioni etico-politiche. Negazione della validità incondizionata dei valori e affermazione della loro irriducibile molteplicità. L’agire umano è il terreno in cui si manifesta il contrasto reciproco dei valori.

«Non si può disconoscere che già la parola tedesca Beruf come, e forse in modo ancor più chiaro, quella inglese calling, per lo meno riecheggia un concetto religioso – quello di un compito imposto da Dio – e che esso diventa tanto più percepibile, quanto più, nel caso concreto, noi accentuiamo con energia tale parola». (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, tr. it., in Sociologia delle religioni, vol. I, Torino 1976, pp. 157-158).

Friedrich Nietzsche

Il mito di Dioniso è centrale in questo filosofo. In lui non c’è nulla che ricordi l’accettazione rassegnata della vita, ma al contrario un atteggiamento di chi vede in essa la negatività dei valori di bontà, di perfezione, di umiltà, che sono la caratteristica del possesso e della garanzia di ogni civiltà degna di questo nome. Dioniso è la volontà orgiastica della vita nella totalità della sua potenza. È il dio dell’ebbrezza e della gioia, il dio che canta, ride e danza: che nega ogni rinuncia, ogni paura di fronte alla vita. Ciò vuol dire, secondo Nietzsche (1844-1900), che l’accettazione integrale della vita trasforma il dolore in gioia, la lotta in armonia, la crudeltà in giustizia, la distruzione in creazione. Essa rinnova profondamente la tavola dei valori morali. Tutti i valori fondati sulla rinuncia e sulla diminuzione della vita, tutte le cosiddette virtù che cercano di mortificare l’energia vitale, di spezzare e impoverire la vita, gli sembrano un abbassamento dell’uomo al di sotto di sé e quindi come indegne dell’uomo. Questo filosofo dà alla virtù il significato amoralistico che essa ebbe nel Rinascimento italiano. È virtù ogni passione che dice di sì alla vita e al mondo.

Le passioni che non hanno più nulla di primitivo, perché sono il ritorno consapevole dell’uomo alle fonti originarie della vita, costituiscono la nuova tavola dei valori fondata sull’accettazione della vita. Nietzsche pone crudamente il dilemma tra la morale tradizionale e quella che egli difende; ma in realtà questo dilemma è già incluso nell’altro, che è il solo valido, tra l’accettazione della vita e la rinunzia alla vita, tra il sì e il no di fronte al mondo. Solamente l’atto dell’accettazione, la scelta libera e gioiosa di ciò che la vita è nella sua potenza primitiva, determina la trasfigurazione dei valori e indirizza l’uomo verso l’esaltazione di sé anziché verso l’abbandono e la rinuncia.

La base romantica dell’atteggiamento di Nietzsche è chiara in questa divinizzazione della vita. Dioniso ignora e disconosce ogni limite umano. La vita è dolore, ma è essenzialmente arte. La filosofia quindi può essere considerata come una medicina e un soccorso alla vita che migliora nella lotta.

I punti essenziali della morale cristiana: disinteresse, abnegazione, sacrificio di sé, sono il frutto del risentimento dell’uomo debole verso la vita. E la vita che si mette contro la vita, la fuga di fronte alla vita. L’ideale ascetico è un espediente per conservare la vita nello stato di degenerazione e di decadenza a cui l’ha ridotta la mancata accettazione di essa. I puri di cuore, le anime belle che si avvolgono nella loro virtù, sono anch’essi uomini del risentimento, che fremono di un sotterraneo spirito di vendetta contro coloro che incarnano la ricchezza e la potenza della vita. La scienza stessa non è lontana dall’ideale ascetico del cristianesimo per la sua adorazione della verità oggettiva, per il suo stoicismo intellettuale che interdice il sì e il no di fronte alla realtà, per il suo rispetto dei fatti e la rinunzia all’interpretazione di essi. La credenza nella verità oggettiva è l’ultima trasformazione dell’ideale ascetico.

Il tipo ideale della morale corrente, l’uomo buono, esiste soltanto a costo di una fondamentale menzogna: giacché chiude gli occhi di fronte alla realtà e non vuole a nessun costo vedere com’è realmente fatta: essa infatti non è tale da stimolare a ogni momento gli istinti di benevolenza né tanto meno da consentire in qualsiasi momento un intervento stupidamente bene intenzionato.

«Ci sono persone lucide e abili nel loro lavoro, alle quali la religione sta cucita come un orlo di umanità superiore: queste fanno molto bene a restare religiose, ciò le rende più belle. Tutti coloro che non si intendono di qualche mestiere di armi – e tra le armi vanno annoverate anche lingua e penna – diventano servili: a essi la religione torna molto utile, perché così la loro servilità prende l’abito della virtù cristiana e ne esce sorprendentemente abbellita. Le persone alle quali la vita quotidiana appare troppo vuota e monotona, facilmente diventano religiose: ciò è comprensibile e scusabile; solo che non hanno alcun diritto di esigere religiosità da coloro per i quali la vita quotidiana non scorre vuota e monotona». (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, 115).

Altri grandi filosofi

Henri Bergson (1859-1941)

Questa filosofia, sviluppatasi dal tentativo di approfondire su di un aspetto specifico l’evoluzionismo di Spencer, si presenta nella sua formulazione originaria come la trasformazione dell’evoluzionismo naturalistico in un evoluzionismo spiritualistico, per il quale il processo continuo, incessante e progressivo dell’evoluzione viene identificato col divenire temporale della coscienza.

La durata reale è infatti il dato della coscienza, spogliato da ogni sovrastruttura intellettuale o simbolica e riconosciuto nella sua semplicità originaria. L’esistenza spirituale è un cambiamento incessante, una corrente continua priva di interruzioni che varia senza tregua, non sostituendo a ogni stato di coscienza un altro stato, ma sciogliendo gli stati stessi in una continuità fluida. Non c’è un substrato immobile dell’io sul quale venga a proiettarsi la successione degli stati coscienti. La durata è il progresso continuo del passato che rode l’avvenire e si accresce avanzando. La memoria è lo stesso divenire spirituale che spontaneamente conserva tutto di sé. Questa conservazione totale è nello stesso tempo una creazione totale, perché in essa, ogni momento, pur essendo il risultato di tutti i momenti precedenti, è assolutamente nuovo rispetto a essi.

La vita spirituale è essenzialmente autocreazione e libertà. Nel Saggio sui dati immediati della coscienza (1889) Bergson ha mostrato come l’intera disputa tra deterministi e indeterministi nasce dal tentativo di intendere la vita della coscienza, che è movimento e durata, con gli schemi desunti dalla considerazione della materia che è estensione e immobilità. Non è possibile ridurre la durata della coscienza al tempo omogeneo di cui parla la scienza, costituito da istanti uguali che si succedono. Il tempo della scienza è un tempo spaziato e quindi un tempo che ha perduto il suo carattere originale. Né è possibile parlare di una molteplicità di stati di coscienza analoga alla molteplicità degli oggetti spaziali che si separano e si escludono l’uno dall’altro. Tutti gli stati di coscienza si unificano nella fluida corrente della coscienza, dalla quale non possono essere distinti se non per un atto di astrazione e il tempo è nella coscienza la corrente del mutamento, non una successione regolare di istanti omogenei. Soltanto l’opera astrattiva dell’intelletto e l’uso del linguaggio rendono il tempo disomogeneo.

Ciascuno di noi, considerando retrospettivamente la sua storia, constaterà che la sua personalità infantile, per quanto indivisibile, riuniva in sé persone diverse che potevano restare insieme allo stato nascente, ma che sono via via divenute incompatibili, ponendoci più volte di fronte alla necessità di una scelta. “La via che percorriamo nel tempo, dice Bergson, è cosparsa dei frammenti di tutto ciò che cominciavamo a essere, di tutto ciò che avremmo potuto diventare”. Noi non possiamo vivere che una sola vita, perciò dobbiamo scegliere. La vita della natura, invece, non è costretta a simili sacrifici: essa conserva le tendenze che si sono a un certo punto biforcate e crea serie divergenti di specie che si evolvono separatamente. In altri termini, la vita non segue una linea di evoluzione unica e semplice. Si sviluppa “come un fascio di steli” creando, per il solo fatto della sua crescita, direzioni divergenti fra le quali si divide il suo slancio originario. Le biforcazioni del suo sviluppo sono state quindi numerose. Ma molte sono state anche le vie senza uscita, di fronte alle poche grandi strade che essa si è create.

L’unità delle varie direzioni non è un’unita di coordinazione, di convergenza, quasi che la vita realizzasse un disegno preformato. Il finalismo in questo senso è escluso. La vita è creazione libera e imprevedibile. Si tratta invece di un’unità che precede la biforcazione, cioè dell’unità dello slancio che la vita via via va realizzando. Lo slancio della vita, conservandosi lungo le linee di evoluzione tra le quali si divide, è la causa profonda delle variazioni, almeno di quelle che si trasmettono regolarmente con l’eredità, che si addizionano e creano nuove specie. Tutto ciò, se esclude il disegno prestabilito di ogni teoria finalistica, esclude pure che l’evoluzione sia avvenuta per cause puramente meccaniche. Il meccanismo non può spiegare la formazione di organi complicatissimi che hanno tuttavia una funzione assai semplice, com’è il caso dell’occhio.

«Diviene evidente a questo punto che, senza una qualsiasi rappresentazione simbolica, il tempo non assumerebbe mai per la nostra coscienza l’aspetto d’un mezzo omogeneo, in cui i termini d’una successione siano esteriori l’uno all’altro. Ma noi giungiamo naturalmente a questa rappresentazione simbolica grazie al semplice fatto che, in una serie di termini identici, ognuno prende per la nostra coscienza un doppio aspetto: l’uno sempre identico a sé, quando noi pensiamo all’identità dell’oggetto esterno, l’altro specifico, in quanto l’addizione del termine provoca una nuova organizzazione dell’insieme. Di qui la possibilità di sviluppare nello spazio, sotto forma di molteplicità numerica, ciò che abbiamo chiamato una molteplicità qualitativa, e di considerare l’una come l’equivalente dell’altra. Ora, in nessun caso questo doppio processo si compie, tanto facilmente quanto nella percezione del fenomeno esterno, in sé inconoscibile, che prende per noi la forma del movimento. Qui si ha bensì una serie di termini identici tra loro, poiché si tratta sempre dello stesso mobile; ma, d’altra parte, la sintesi operata dalla nostra coscienza tra la posizione attuale e ciò che la nostra memoria chiama posizioni anteriori, fa sí che queste immagini si compenetrino, si completino e si continuino, in qualche modo, a vicenda. Attraverso dunque l’intermediario del movimento la durata può, in particolare, prendere la forma d’un mezzo omogeneo e il tempo proiettarsi nello spazio. Ma, in mancanza del movimento, ogni ripetizione d’un fenomeno esterno ben determinato avrebbe suggerito alla coscienza lo stesso modo di rappresentazione». (Saggio sui dati immediati della coscienza, tr. it., Torino 1951, pp. 103-104).

Giovanni Gentile (1875-1944)

Il pensiero in atto è l’unica realtà. Il soggetto che pensa è sempre un soggetto di un oggetto, in quanto chi pensa, pensa necessariamente qualcosa, ma l’oggetto del pensiero, sia esso la natura o Dio, il proprio io o quello degli altri, non ha realtà fuori dell’atto pensante che lo costituisce e lo pone. Questo atto è dunque creatore e, in quanto creatore, infinito, perché non ha nulla fuori di sé che possa limitarlo.

Questo principio, che estremizza la tesi di Fichte contenuta nella prima Dottrina della scienza, realizza la rigorosa e totale immanenza di ogni realtà nel soggetto pensante. Né la natura né Dio e neppure il passato e l’avvenire, il male e il bene, l’errore e la verità, sussistono comunque fuori dell’atto del pensiero. Gli sviluppi che Gentile ha dato alla sua dottrina consistono essenzialmente nel mostrare l’immanenza di tutti gli aspetti della realtà nel pensiero che li pone, e nel risolverli in questo. Il pensiero in atto è il soggetto trascendentale, l’io universale o infinito. Il soggetto empirico, cioè l’uomo individuale e singolo, è un oggetto dell’io trascendentale, un oggetto che esso pone (cioè crea), pensandolo, e di cui quindi supera l’individualità nell’atto stesso che lo pone. Il vero soggetto, infinito o trascendentale, non può mai diventare oggetto a se stesso. Gli altri io sono anche essi oggetti, in quanto altri; ma nell’atto di conoscerli l’io trascendentale li unifica. I problemi morali sorgono sul terreno della diversità e dell’opposizione reciproca fra gli io empirici; ma non si risolvono su tale terreno.

Il presupposto di tutto ciò è che conoscere è identificare, superare l’alterità come tale. Il pensiero in atto è sempre come tale, verità, realtà, bene, piacere, positività. L’errore, il male, il dolore, ecc., sussistono in esso soltanto come suoi momenti superati, come posizioni già oltrepassate e svalutate. L’errore è sempre immanente alla verità come il non-essere e immanente all’essere che diviene. La conoscenza dell’errore infatti è verità; la conoscenza come tale è sempre vera. Naturalmente, questa teoria dell’errore non spiega l’errore che non sia conosciuto o riconosciuto come tale; non spiega, per esempio, le dottrine o le opinioni filosofiche diverse da quelle del filosofo idealista. Ma Gentile dichiara che il filosofo idealista non ha l’obbligo di spiegare questo genere di errori.

«A me ora non corre l’obbligo di difendere dai soliti attacchi la metafisica; io guardo alla storia della filosofia: e nella storia la filosofia è stata metafisica. Per altro, anche in Italia è oggimai caduta in disuso la moda di screditare la scienza delle scienze, la scienza prima, che il caso ha voluto si chiamasse metafisica. Oggi i vecchi nemici di essa cercano di scusare e attenuare le critiche d’una volta; e i grandi sommovimenti morali della seconda metà del secolo testè finito hanno svegliato in tutti il sentimento profondo della filosofia come scienza della vita, scienza rischiatrice e orientatrice dello spirito del mondo; scienza essenzialmente morale perché intimamente metafisica, perché ricostruttiva dello spirito, non nella sua astratta fenomenalità, ma nella sostanzialità della sua natura nell’universo. Non già, si badi, che per qualche decennio l’andazzo positivistico prevalso negli studi filosofici abbia realmente sospeso il dominio della metafisica, che abbiamo detta immanente nello spirito umano; non sarebbe stato possibile. Quanti fra i positivisti hanno veramente filosofato, avranno combattuto una maniera dì metafisica; e avran detto di aver seppellita essa stessa la metafisica; ma che essi poi, filosofando, abbiano fatto altro che una nuova metafisica (se più nuova e migliore della precedente, non occorre qui definire) non c’è più nessuno così ingenuo da ammetterlo. Basterebbe citare il famoso inconoscibile e il famoso indistinto, che per lo Spencer e per l’Ardigò sono appunto l’aristotelico tò on e on. La metafisica da Aristotele in qua ha fatto lungo cammino. E quando nella prima metà del sec. XIX qualcuno credette di poter tornare al movimento di Aristotele, mostrò di disconoscere la radicale trasformazione dello spirito filosofico moderno rispetto all’antico. Tale trasformazione piuttosto è opportuno qui di lumeggiare perché essa ha reso possibile il concetto di una storia vera e propria della filosofia». (G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 111-112).

Charles Sanders Peirce (1839-1914)

Le idee di Peirce si sono dimostrate feconde nella logica e nella semiotica contemporanee: come si sono dimostrate utili le molteplici distinzioni e classificazioni dei segni che egli ha dato nei suoi scritti.

La tesi filosofica fondamentale di Peirce è che l’unico fine di ogni indagine o procedimento razionale è lo stabilimento di una credenza: intendendosi per credenza un’abitudine o una regola d’azione che, anche se non conduce immediatamente ad agire, rende possibile comportarsi in un certo modo quando l’occasione si presenta. Peirce ammette che ci sono tanti metodi per stabilire una credenza e riconosce che ciascuno di questi metodi ha i suoi vantaggi. Il metodo della tenacia, proprio di chi si rifiuta di porre in discussione le proprie credenze, può condurre al successo la persona ostinata. Il metodo dell’autorità, vietando le opinioni difformi, può condurre alla pace. Il metodo a priori, o metafisico, che ammette solo princìpi che sono in accordo con la ragione, produce costruzioni intellettuali brillanti anche se disparate e incontrollabili. Tutti questi metodi hanno in comune il tratto che non possono, in base a se stessi, essere dichiarati falsi: escludono la possibilità dell’errore e quindi della correzione eventuale. Solo il metodo scientifico include in sé la possibilità dell’errore ed è organizzato in vista della propria correzione.

Da questo punto di vista tutti i processi di ragionamento sono caratterizzati dal fatto che essi tendono a correggere se stessi. Così fa l’induzione che procede per campionamenti e che a ogni nuovo campionamento corregge le sue premesse, così fa la deduzione, la cui certezza è fondata non sull’assenza di errori ma sulla possibilità di usare controlli che consentono di riconoscere e correggere gli errori.

«Considerare quali effetti, che possono concepibilmente avere portate pratiche, noi pensiamo che l’oggetto della nostra conoscenza abbia. Allora la concezione di questi effetti è l’intera nostra concezione dell’oggetto». (Scritti scelti, tr. it., Torino 2005, p. 215).

William James (1842-1910)

Gli scritti filosofici di James sono raccolte di saggi, di letture o corsi di conferenze: La volontà di credere (1897); Pragmatismo: nome nuovo per vecchi modi di pensare (1907); Il significato della verità: seguito a pragmatismo (1909); Un universo pluralistico (1909). Sono i suoi principali lavori.

James ha definito empirismo radicale la sua filosofia; ma il suo empirismo è, come quello di Peirce, una prospettiva per il futuro anziché un bilancio del passato. Nell’azione riflessa, che è il tipo di ogni attività mentale, James accentua, conseguentemente, l’importanza del termine finale. L’impressione sensoria esiste, da questo punto di vista, solo per risvegliare il processo centrale di elaborazione o di riflessione e il processo centrale esiste solo per provocare l’atto finale. Ogni azione è così una reazione al mondo esterno; e lo stadio mediano (pensiero, riflessione, contemplazione) è solo un posto di transito per condurre all’azione. Tutto questo è la ripetizione della tesi di Peirce che ogni procedimento d’indagine mette capo alla determinazione di una credenza. Ma mentre Peirce è avviato da questa tesi alla considerazione dei metodi che consentono la determinazione delle credenze e alla preferenza di quel metodo che rende possibile la loro incessante rettifica (metodo che Peirce ritiene proprio della scienza), James assumendo già acquisite (o acquisibili indipendentemente da ogni metodo) le credenze di cui l’uomo dispone, trasforma la tesi stessa in un criterio per giudicare la validità delle credenze. Da questo punto di vista diventano vere le credenze che sono utili all’azione. James sostiene che la scienza stessa vada giudicata con questo metro.

«Tra il credere la verità o l’errore, raramente la scelta è inevitabile. Perciò l’esitazione scettica è qui l’atteggiamento più adatto, se ci preme evitare gli errori. Restiamo comunque su ciò, che dovunque non sia il caso di una scelta inevitabile, il nostro ideale deve essere la mente che giudica spassionatamente, senza alcuna ipotesi preferita, in modo da evitarci ogni errore. Sorge adesso un’altra domanda: nelle nostre questioni speculative, non possono, in determinate circostanze, presentarsi delle scelte inevitabili? Possiamo (come uomini interessati alla conquista vera e propria della verità, per lo meno quanto lo siamo alla eliminazione pura e semplice dell’errore) attendere sempre impunemente finché sia giunta la prova irrefutabile? Sembra poco probabile che la verità a priori possa adattarsi fino a questo punto ai nostri bisogni e alle nostre possibilità. Nel gran banchetto della natura, raramente le focacce, il burro e gli sciroppi sono così ben misurati e lasciano i piatti così puliti. Perché se, d’altra parte, ciò avvenisse, dovremmo scientificamente dubitarne». (Aspetti essenziali del pragmatismo, tr. it., Lecce 1967, p. 91).

John Dewey (1859-1952)

Secondo questo filosofo l’instabilità, la precarietà, il rischio e l’incertezza, sono i tratti caratteristici dell’esistenza in tutte le sue forme e in tutti i suoi gradi. Non è il timore che fa nascere gli dèi, ma piuttosto la situazione precaria dalla quale nasce il timore. L’appello a forze magiche e soprannaturali è la prima garanzia a cui l’uomo si appiglia contro tale precarietà. Quando essa diminuisce, altre ne prendono il posto: l’immutabilità dell’essere, le leggi universali e necessarie, l’uniformità della natura, il progresso universale, la razionalità inerente dell’universo. La filosofia prende il posto della superstizione e della magia, ma ne prende anche l’ufficio: quello di addormentare l’uomo nell’illusione che le cose che gli stanno a cuore, i valori da cui dipende la sua esistenza, siano garantiti dalla realtà stessa in cui vive e che perciò saranno conservati e preservati in ogni caso.

Ogni filosofia di questo genere è frutto di una semplificazione e di una sofisticazione dell’esperienza: semplificazione, perché si considera soltanto uno dei suoi tratti, quello più favorevole, che si manifesta nelle uniformità e nelle ripetizioni approssimative dei suoi caratteri; sofisticazione, perché questo tratto, considerato astrattamente, viene esteso alla totalità dell’esperienza. I sistemi filosofici tradizionali, siano essi realisti o idealisti, materialisti o spiritualisti, non si sono sottratti a questa sofisticazione. Le stesse filosofie come quelle di Eraclito, di Hegel e di Bergson, che insistono sull’incessante mutamento della realtà finiscono per divinizzare il mutamento del divenire, per farne un elemento di stabilità e di ordine, quindi una garanzia per i desideri o gli scopi umani.

Questo è appunto per Dewey l’errore filosofico per eccellenza. Fare prevalere la stabilità sull’instabilita, garantirsi, per quanto è possibile, l’uso e il godimento dei beni e dei valori che gli sono necessari, è bensì il compito fondamentale di una direzione intelligente della vita umana; ma è un compito che niente può garantire se non appunto l’opera attiva dell’intelligenza umana nei limiti in cui quest’opera ha successo. Trasformare questo compito in una realtà, antecedente a esso è condizione causale di esso, è ciò che costituisce il sofisma fondamentale della filosofia tradizionale. La quale perciò confina nell’apparenza, nell’errore, nell’illusione, tutto ciò che le pare incompatibile con l’immutabilità, la necessità, la razionalità e la perfezione dell’essere; e così scinde il mondo dell’esperienza in due pezzi o tronconi, facendo nascere il problema del loro rapporto. La persistenza con cui il problema del male, dell’errore, dell’illusione, ricorre nella storia della filosofia è una prova della tendenza inerente della filosofia a considerare reale il limite e il difetto della realtà.

«Perché non domandarsi fino a che punto ciò che viene preso a prestito ha un vero e proprio status scientifico? Perché nella ricerca scientifica i metodi rifiniti si giustificano aprendo all’esplorazione nuovi spazi di contenuti oggettivi; creando nuove tecniche di osservazione e di sperimentazione. Così quando l’esperimento di Michelson-Morley rivelò, come questione di esperienza grossolana, fatti che non concordavano con le leggi fisiche accettate, i fisici non pensarono a negare per un momento la validità di ciò che si era trovato nel corso di quell’esperienza, sebbene mettesse in discussione un apparato e un sistema intellettuale complesso. La coincidenza delle bande dell’interferometro venne accettata nel valore che aveva a prima vista, nonostante la sua incompatibilità con la fisica di Newton. Poiché i ricercatori scientifici la accettarono nel valore che essa sembrava avere a prima vista, si misero immediatamente al lavoro per ricostruire le loro teorie; essi misero in discussione le premesse della riflessione, non la piena “realtà” di ciò che vedevano. Questo lavoro di riadattamento non solo costrinse a nuovi ragionamenti e a nuovi calcoli per lo sviluppo di una teoria più comprensiva, ma aprì la possibilità di nuovi tipi di indagine sul contenuto oggettivo esperito. Neanche per un momento essi pensarono a sbarazzarsi delle caratteristiche di un oggetto dell’esperienza grossolana solo perché non era in armonia logica con la teoria, come hanno fatto così spesso i filosofi. Se avessero fatto così, avrebbero reso inutile la scienza e si sarebbero preclusi l’accesso a nuovi problemi e a nuove scoperte di contenuti oggettivi. In breve il materiale del metodo scientifico rifinito è continuo rispetto a quello del mondo reale così come viene concretamente esperito. Un lavoro scientifico in fisica o in astronomia fornisce un ordine di calcoli e di ragionamenti derivati dalle precedenti osservazioni ed esperimenti. Ma è più che una registrazione, è anche un’indicazione, un suggerimento di ulteriori osservazioni ed esperimenti che devono essere svolti. Nessun resoconto scientifico riscuoterebbe una qualche attenzione se non descrivesse l’apparato per mezzo del quale sono stati condotti degli esperimenti e ottenuti dei risultati; non per culto dell’apparato sperimentale ma perché questo modo di procedere dice agli altri ricercatori come devono mettersi al lavoro per ottenere risultati che saranno in accordo o in disaccordo, nella loro esperienza, con quelli conseguiti precedentemente e in tal modo confermare, modificare e rettificare questi ultimi. Il risultato scientifico riportato è in realtà la designazione di un metodo da seguire e la previsione di ciò che si troverà quando verranno approntate specifiche osservazioni. Questo è quanto la filosofia può essere o fare». (John Dewey, Esperienza e natura, tr. it., Milano 1973, pp. 43-44).

Empiriocriticismo

Richard Avenarius (1843-1896)

La sua vuole essere una filosofia come scienza rigorosa. Gli elementi di essa sono le azioni reciproche dell’ambiente e del sistema nervoso dell’individuo, quindi si hanno due forme distinte. Gli elementi e i caratteri.

La prima conseguenza fondamentale che deriva da questo punto di vista è l’eliminazione di ogni contrapposizione tra il fisico e lo psichico. Questi sono soltanto caratteri i quali derivano dal costituirsi di una relazione di dipendenza biologica fra l’individuo umano e l’ambiente circostante, ma non determinano una qualsiasi dualità reale nell’esperienza pura.

Ciò che chiamiamo “cosa” e “pensiero” sono soltanto forme diverse di posizione degli stessi insiemi di elementi. Il pensiero è soltanto una sensazione caratterizzata in modo diverso dalla cosa: questa è percepita, quello e rappresentato. Ma ogni complesso di elementi può essere caratterizzato sia in un modo che nell’altro. La seconda conseguenza è che anche i termini “esistente” e “non esistente” non hanno alcun significato logico ed oggettivo ma sono semplicemente caratteri, i quali dipendono dal corso degli eventi biologici, e mutano con essi. È perciò evidente l’impostazione biologica dell’intera filosofia di Avenarius.

L’esperienza pura è falsificata da un processo fittizio, detto introiezione. Tutto ciò che l’esperienza consente di affermare è che una cosa (a esempio, un albero) che esiste per me, esiste allo stesso modo per gli altri individui umani: in questo riconoscimento non si oltrepassano i limiti di una analogia logico-formale fra me e gli altri individui. L’introiezione consiste invece nell’interiorizzare la cosa, nel considerarla come una mia rappresentazione o sensazione e nell’ammettere quindi un rapporto tra gli elementi dell’ambiente esterno e la mia coscienza o il mio pensiero. Poiché l’esperienza testimonia soltanto un rapporto tra gli elementi dell’ambiente esterno e il mio corpo, l’introiezione è una falsificazione dell’esperienza ed è impossibile ogni tentativo di metterla d’accordo con i fatti dell’esperienza. Essa rompe l’unita naturale del mondo empirico e lo divide in mondo esterno e mondo interno, in oggetto e soggetto, in essere e pensiero. Nasce allora l’insolubile problema d’intendere il rapporto fra i due tronconi così ottenuti dell’esperienza originaria; e nascono i concetti di anima, di immortalità, di spirito, con tutte le difficoltà che vi si connettono. La questione dei rapporti fra anima e corpo è un’altra delle difficoltà che scaturiscono dall’introiezione. Dal rigetto dell’introiezione Avenarius deduce la conseguenza che la psicologia non può essere che fisiologica.

«Ogni individuo umano ammette originariamente di fronte a sé un ambiente, costituito di parti molteplici, altri individui umani che pronunciano diverse espressioni, e ammette che queste espressioni siano in una certa dipendenza dall’ambiente. Tutti i contenuti conoscitivi delle concezioni filosofiche – critiche o non critiche – sono modificazioni, variazioni di questa ammissione originaria». (Kritik der reinen Erfahrung, ns. tr., Leipzig 1921-1928, p. XXI).

Ernst Mach (1838-1916)

Una integrazione della filosofia di Avenarius, con una dottrina dei concetti scientifici è data dal pensiero di Mach.

L’io non è un’unita sostanziale, ma soltanto l’unita pratica di elementi sensibili più fortemente connessi fra loro e meno connessi con altri, unità che ha un valore semplicemente orientativo, biologico. I limiti fra fenomeno fisico e fenomeno psichico sono di uso esclusivamente pratico e puramente convenzionale. Il fenomeno fisico si ottiene facendo astrazione da ogni rapporto col corpo umano; se invece si considera questo rapporto si ha il fatto psichico. Ma interiorità ed esteriorità non hanno alcun senso: gli elementi ultimi sono gli stessi.

Da questo punto di vista, il concetto deve trovare il suo punto di partenza e il suo punto di arrivo nelle sensazioni. Il concetto è una reazione dell’attività sensibile che ha per risultato un’estensione e un arricchimento di questa stessa attività. Il principio dell’economia domina nella costruzione e nell’uso dei concetti. L’economia è richiesta dal fatto che la varietà delle reazioni biologicamente importanti è molto minore della varietà che esiste realmente. Da ciò l’uomo è condotto a classificare i fatti mediante i concetti. Il concetto ha l’ufficio di richiamare l’insieme di tutte le reazioni relative all’oggetto designato e di attirare questi ricordi nella coscienza quasi tirando un filo. Perciò il concetto non ha di per se stesso carattere intuitivo ma rappresenta e simboleggia grandi classi di fatti. Esso sostituisce all’intuizione attuale un’intuizione potenziale che consiste nel sentimento della possibilità certa di riprodurre gli elementi intuitivi. Il concetto scientifico realizza in pieno queste caratteristiche.

«Si parla spesso di leggi di natura. Cosa significa questa espressione? Avviene spesso di imbattersi nell’opinione che le leggi di natura sono regole secondo le quali devono muoversi i processi naturali, in modo simile alle leggi civili, secondo le quali devono orientarsi le azioni del cittadino. In genere se ne vede una distinzione nel fatto che le leggi civili possono anche essere trasgredite, mentre si ritiene impossibile che i fenomeni naturali deviino dalle loro leggi. Ma questa concezione della legge di natura viene scossa se riflettiamo che prendiamo, astraiamo le leggi di natura dai fenomeni stessi e che nel far questo non siamo affatto garantiti contro gli errori. Ovviamente ogni violazione delle leggi di natura è spiegabile con l’erroneità della nostra interpretazione, e l’idea della loro inviolabilità perde di senso e di valore. Se invece si enfatizza il lato soggettivo dell’interpretazione della natura si arriva facilmente all’idea estrema che sono solo la nostra intuizione e i nostri concetti a prescrivere leggi alla natura». (Conoscenza ed errore. Abbozzi per una psicologia della ricerca, tr. it., Torino 1982, p. 443).

Fenomenologia ed esistenzialismo

Edmund Husserl (1859-1938)

Caratteristica del metodo fenomenologico è l’epoché, cioè la sospensione del giudizio. Se questo atteggiamento viene considerato dal punto di vista dell’io che lo pratica, si può affermare che la percezione del mondo, fatta in modo ingenuamente interessato al mondo, si può mettere da parte e aversi una visione fenomenologicamente modificata, cioè una scissione dell’io: al di sopra dell’io ingenuamente interessato al mondo si stabilisce l’io fenomenologico come spettatore disinteressato.

Operando l’epoché, noi diventiamo osservatori completamente disinteressati del mondo, del mondo in quanto soggettivo-relativo (cioè di quello in cui si svolge la nostra vita in comune nel suo complesso con i suoi sforzi, le sue cure, le sue operazioni), e gettiamo su di esso un primo sguardo ingenuo che non tende a indagarne l’essere e il modo d’essere ma a considerare ciò che sempre vale e continua a valere per noi come esistente ed esistente così, a considerarlo dal punto di vista del suo modo soggettivo di valere, dei suoi aspetti, ecc.

L’atteggiamento fenomenologico così descritto ha dunque due condizioni fondamentali: la riduzione eidetica, che sostituisce alla considerazione dei fatti o delle cose naturali l’intuizione delle essenze; e l’epoché che sospende o mette in parentesi la tesi dell’esistenza del mondo in generale.

Ma talvolta Husserl si avvale dell’epoché anche per isolare domini specifici di indagine fenomenologica. Così fa, per esempio, per effettuare la riduzione dell’esperienza trascendentale alla sfera di proprietà, cioè alla sfera di ciò che appartiene in proprio al mio io e dalla quale è stato eliminato ogni rinvio alle altre soggettività. Nella sfera così isolata, l’esperienza dell’altro è una specie di empatia per la quale l’altro si costituisce per appresentazione come un altro me stesso.

Infine Husserl si avvale dell’epoché nei confronti di tutte le scienze oggettive per raggiungere il cosiddetto mondo della vita; si tratta di un altro atto di epoché per raggiungere “l’io costitutivamente fungente nell’intersoggettività” e di un terzo e ultimo atto di epoché per raggiungere l’ego assoluto, l’ego in quanto centro funzionale ultimo di qualsiasi costituzione. Con questo ultimo atto, si arriva al punto finale dell’epoché: al di là dell’io nessun’altra riduzione è possibile, perché si è nella sfera dell’evidenza apodittica.

Poiché la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, ogni pensiero ha evidentemente il suo pensato, l’analisi della coscienza è analisi degli atti con cui la coscienza stessa si rapporta ai suoi oggetti; o, il che è lo stesso, dei modi in cui questi oggetti si danno alla coscienza. Gli atti della coscienza o i modi di datità degli oggetti di coscienza costituiscono l’intenzionalità della coscienza.

La caratteristica fondamentale dell’intenzionalità sta nel fatto che il rapporto che essa instaura tra la coscienza e il suo oggetto non fa di quest’oggetto una parte o elemento della coscienza nel senso in cui una realtà o cosa può essere parte o elemento di un’altra cosa. Il mondo e i suoi oggetti rimangono trascendenti anche se a essi non si può dare altro senso che quello che noi desumiamo dalle nostre esperienze, dalle rappresentazioni, dai pensieri, dai giudizi di valore e dalle azioni; e anche se non possiamo attribuire al mondo un’esistenza evidente se non in base alla nostra propria evidenza e a quella dei nostri atti. Su questa essenza dell’intenzionalità che rapporta il mondo alla coscienza senza fare della coscienza una parte del mondo o del mondo una parte della coscienza, è fondato l’aspetto realistico della fenomenologia.

Ma l’io può anche essere di fronte a uno o più altri io, costituire un oggetto per essi ed essere da essi afferrato, sperimentato, ecc. Ma esso è anche per se stesso costituito ed ha il suo proprio mondo ambiente costituito come un non io, come insieme di puri oggetti che sono soltanto costituiti per un io ma non sono, come tali, in se stessi costituiti, come è l’io. In quanto si costituisce come soggetto di un mondo ambiente, l’io è persona, perché l’essenza della persona è la soggettività. Come tale è anche individualità spirituale, in senso interamente diverso dall’individualità naturale. Quest’ultima è dipendente dalle condizioni reali cioè dall’insieme della natura reale; l’individuo spirituale ha in se stesso la sua individualità perché ha in se stesso la sua motivazione.

L’io è una monade nel senso leibniziano; gli altri io (cioè le altre monadi) si costituiscono nel seno dell’io sulla base di una considerazione analogica che Husserl chiama appresentazione; per la quale, a partire dai corpi viventi che mi sono dati, attribuisco a tali corpi un modo d’essere analogo all’io. Dal punto di vista fenomenologico quindi l’altro è una modificazione del mio io; è proprio l’io, l’io originario che con una operazione motivata e costitutiva fa in modo che una modificazione intenzionale di se stesso e della sua primordialità perviene alla validità, sotto il titolo di percezione dell’estraneità, percezione dell’altro, di un altro io, che per se stesso è un io come io sono io per me. Ciò accade in modo analogo al modo in cui l’io, che è in realtà l’io della presenza attuale, si riconosce tuttavia nel passato e costituisce se stesso come un io che dura attraverso i suoi passati come autotemporalizzazione. Ma l’esistenza di un sistema di monadi risulta poi giustificato da quella di un mondo oggettivo e comune.

«L’essere dell’ego puro e delle sue cogitazioni, come un essere che è primamente in se stesso, è antecedente all’essere naturale del mondo. L’essere naturale è un reame il cui statuto esistenziale è secondario; perpetuamente presuppone il reame dell’essere trascendentale. Il metodo fenomenologico fondamentale dell’epoché trascendentale, poiché riconduce a questo reame, si chiama riduzione trascendentale-fenomenologica».(Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, ns. tr., Den Haag 1963, p. 61).

Max Scheler (1874-1928)

In primo luogo Scheler distingue la simpatia dall’emotività che si manifesta per contagio nelle agglomerazioni gregarie e nelle masse e che è costituita da limitazione o ripetizione delle stesse emozioni. Il caso-limite del contagio emotivo e la fusione emotiva quale si verifica, per esempio, nelle società primitive, in cui l’uomo s’identifica coi suoi antenati e crede d’essere a un tempo se stesso e il proprio antenato. La simpatia non è uno stato ma una funzione affettiva. Tale, per esempio, si rivela nel caso della pietà che non è per niente un soffrire il dolore altrui e quindi un moltiplicare il dolore.

La simpatia suppone, e nello stesso tempo fonda, la diversità tra le persone. Un sentimento considerato come il contenuto di uno spirito sopraindividuale o di una coscienza universale e nel quale perciò le persone si trovassero fuse insieme e formassero un’unità, non avrebbe niente in comune con la simpatia. La vera funzione della simpatia consiste nel distruggere l’illusione solipsistica e nel rivelarci come dotata di un valore uguale alla nostra la realtà dell’altro in quanto altro.

Senza dubbio, la simpatia ha limiti perché, sia nella forma della sofferenza, sia nella forma della gioia, non è un atto spontaneo ma uno stato passivo, una reazione. Essa è una forma di comprensione che è racchiusa nei limiti dei legami che ci connettono con le persone: cameratismo, amicizia, legami coniugali, sociali, collettivi, nazionali, ecc.

Soltanto l’amore è capace di oltrepassare questi limiti e di sostituire al rapporto periferico un rapporto di profondità. Ma l’amore, anche più della simpatia, esige la diversità e l’autonomia della persona. Il suo senso più profondo consiste precisamente nel non considerare e non trattare l’altro come se fosse identico col proprio io. Per questo carattere più radicale e profondo dell’amore, Scheler ritiene che l’amore sia a fondamento della stessa simpatia e che la sfera nella quale questa si muove sia sempre delimitata nella sua ampiezza da un atto d’amore. L’amore si dirige al nucleo valido delle cose, al loro valore. Esso tende a realizzare il valore più alto possibile e a eliminare il valore inferiore.

«Anche la metafisica non progredisce nello stesso senso in cui progredisce la scienza positiva. Le metafisiche possibili sono, in base ai loro schemi principali, una quantità di tipi delimitati (W. Dilthey), che ritornano sempre e che entrano sempre di nuovo in lotta e in reciproca contrapposizione ai più diversi livelli di formazione scientifica e di fondazione. Così si basa sulla natura del tipo di conoscenza metafisico, il cui mezzo fondamentale è la visione d’essenze. Essenze e relazioni d’essenza sono anzi costanti del mondo; la loro conoscenza è evidente, conclusa e, rispetto al quantum di esperienza induttiva, a priori. La conoscenza metafisica è, dunque, per principio, possibile in ogni situazione storica della scienza positiva come quantum – di volta in volta esistente – di esperienza umana. Le manca necessariamente il carattere di “processo infinito”, che è presente ovunque si facciano osservazioni, induzioni e deduzioni». (M. Scheler, Filosofia della storia e filosofia del sapere nel positivismo (legge dei tre stadi), in Lo spirito del capitalismo, tr. it., Napoli 1988, p. 122).

Martin Heidegger (1889-1976)

L’obiettivo della filosofia di Heidegger e quello di fornire un’ontologia che partendo da quella vaga comprensione dell’essere che permetta almeno d’intendere e di porre la domanda intorno all’essere, giunga a una determinazione piena e completa del senso dell’essere.

Poiché in ogni domanda si possono distinguere tre cose: 1) ciò che si domanda; 2) ciò a cui si domanda o che è interrogato; 3) ciò che si trova domandando; nella domanda: che cosa è l’essere? ciò che si domanda è l’essere stesso, ciò che si trova è il senso dell’essere ma ciò che si interroga non può essere che un ente giacché l’essere è sempre proprio di un ente.

Da qui, il primo problema dell’ontologia è quello di determinare qual è l’ente che dev’essere interrogato cioè al quale la domanda sull’essere è specificamente rivolta. Ora questa stessa domanda con tutto ciò che essa implica (intendere, comprendere, ecc.) è il modo d’essere di un ente determinato che è l’uomo, che perciò possiede un primato ontologico sugli altri enti in quanto su di lui deve cadere la scelta dell’interrogato.

L’analisi del modo d’essere dell’esserci è dunque essenziale e preliminare per l’ontologia giacché solo interrogando l’esserci si può cercare che cos’è l’essere, e trovarne il senso. Ma il modo d’essere dell’esserci (cioè dell’uomo) è l’esistenza: l’analisi di questo modo d’essere sarà quindi un’analitica esistenziale e tale analitica sarà l’unica strada per giungere alla determinazione di quel senso dell’essere che è il termine finale dell’ontologia.

Ma con ciò viene già data una determinazione fondamentale dell’esistenza: la comprensione dell’essere è una possibilità dell’esistenza cioè dell’essere dell’esserci. L’esistenza è quindi la possibilità di rapportarsi in qualche modo all’essere.

L’esistenza è costituita pertanto essenzialmente da possibilità che non sono né possibilità pure, cioè semplicemente logiche, né semplici contingenze empiriche ma costituiscono il suo essere proprio. L’esserci è sempre la sua possibilità, perciò egli può sia scegliersi e conquistarsi sia perdersi cioè non conquistarsi.

L’uomo ha bisogno del mondo e delle cose che lo costituiscono, e che sono la sua realtà-utensile, i mezzi della sua vita e della sua azione. Essere nel mondo significa per lui prendersi cura delle cose che gli occorrono: mutarle, manipolarle, ripararle, costruirle; e questo prendersi cura, mentre è costitutivo dell’essere proprio dell’uomo in quanto è nel mondo, costituisce nello stesso tempo l’essere delle cose del mondo.

Il mondo a cui l’uomo è legato dalla stessa struttura trascendente della sua esistenza è, in primo luogo, un mondo di cose. L’essere di queste cose, la loro vera e propria realtà, consiste nel servire come strumenti per l’uomo, nell’essere utilizzabili. L’utilizzabilità non è una qualità delle cose, distinta dalla loro esistenza: è lo stesso essere in sé delle cose del mondo. L’essere delle cose è perciò subordinato e corrispondente all’essere dell’uomo; poiché per l’uomo trovarsi nel mondo significa prendersi cura delle cose, per le cose essere significa essere utilizzate dall’uomo. Il fine ultimo dell’utilizzabilità è quindi l’appagamento. E l’appagamento implica la vicinanza delle cose all’uomo, implica che esse siano alla mano, raggiungibili. Su questa determinazione è fondata la spazialità del mondo.

La coscienza che richiama l’uomo alla sua esistenza autentica è quel fenomeno che si chiama voce della coscienza: questa voce si rivolge all’uomo quando è immerso nel mondo, dominato dalla cura e lo richiama a se stesso, a ciò che egli autenticamente è e non può non essere. Qual è dunque questo nucleo solido, certo, intrascendibile, al quale la coscienza richiama l’uomo e sul quale deve fondarsi la sua esistenza autentica? Nella risposta a questa domanda è la parte centrale dell’esistenzialismo di Heidegger.

Si è visto che l’esistenza umana è costituita da possibilità e che su queste possibilità si fonda ogni suo progettare o trascendere. Ma si è visto pure che ogni progettare o trascendere rigetta l’uomo nel mondo che egli progetta o trascende e lo rinvia al fatto intrascendibile che egli c’è ed è al livello di tutti gli altri esistenti.

Tutte le possibilità umane, sotto questo aspetto, si equivalgono e la scelta fra esse sarebbe indifferente o impossibile. Difatti, in realtà, non c’è scelta: giacché ogni atto possibile di progettazione o di trascendimento non fa che rigettare l’uomo nella condizione di fatto in cui primitivamente si trovava, e rinsaldarlo a questa. Tutte le possibilità che si offrono all’uomo e che costituiscono il suo essere sono quindi equivalenti.

Heidegger non condanna né rigetta i valori o le norme morali che si costituiscono sul piano dell’esistenza quotidiana anonima: li registra come elementi di questa esistenza ma nega che essi costituiscono possibilità autentiche, cioè proprie dell’essere dell’uomo come tale. Appartengono all’uomo in quanto vive sul piano dell’anonimo e si lascia guidare dal si dice così, si fa così, come tutti dicono e fanno. Ma tutto ciò vuol dire che, nella stessa struttura dell’esserci, è inclusa una nullità essenziale. Tutto ciò che l’esserci può progettare a partire dalle sue possibilità, ricadendo su ciò che c’è già, è un progettare nullo o un nulla in quanto progetto. Ciò vale ugualmente per i progetti riusciti come per quelli che non hanno successo.

La morte non è per l’uomo un termine finale, la conclusione, la fine della sua esistenza; non è neppure un fatto perché in quanto tale non è mai la propria morte. Essa è come fine dell’esserci, la possibilità dell’esserci più propria incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile.

«Più precisamente, solleviamo a questo punto le seguenti domande: come è in generale possibile che questa sfera di posizione assoluta, la coscienza pura, che deve essere separata per mezzo di una cesura assoluta da qualsiasi trascendenza, si unifichi al tempo stesso con la realtà nell’unità di un uomo reale, che pure a sua volta si presenta come oggetto reale nel mondo? Come è possibile che gli Erlebnisse costituiscano una regione dell’essere assoluta e pura e nello stesso tempo si verifichino nella trascendenza del mondo? Questa è l’impostazione problematica in cui si muove la rilevazione del campo fenomenologico della coscienza pura in Husserl». (Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, vol XX Gesamtausgabe, ns. tr., Frankfurt/Main 1979, p. 133).

Karl Jaspers (1883-1969)

L’orizzonte conoscitivo non è colmabile o comprensibile. Quello che si cerca è un mondo, quello che si raggiunge è un cosmo. Da questa strettoia non è possibile uscire se non svincolandosi da ogni considerazione oggettivante, per la quale io stesso sono una realtà oggettiva nel mondo, e ponendosi sul piano della considerazione esistenziale, per la quale io non sono mai oggetto a me stesso.

Su questo nuovo piano, l’immagine che io mi formo del mondo non è casuale o accidentale, non posso mutarla d’arbitrio: io sono la mia stessa intuizione del mondo. In questo senso la mia intuizione del mondo non è più un possibile oggetto d’indagine in mezzo a tanti altri; è la mia stessa situazione nel mondo in quanto è l’origine del mio filosofare. Come parte di me stesso, la mia situazione non può essere oggettivata o considerata dall’esterno: è identica con me stesso. Questa identità è il punto centrale della filosofia di Jaspers.

A prima vista, questa filosofia è una filosofia della libertà. L’uomo è ciò che sceglie di essere: la sua scelta è costitutiva del suo essere ed egli non è se non in quanto sceglie. La scelta di me stesso è la libertà originaria, quella libertà senza la quale io non sono io stesso. Jaspers parla del rischio che è inerente alla scelta di se stesso, della decisione esistenziale che non scaturisce dall’io come da una sorgente nascosta, ma costituisce l’io stesso; e scorge nella volontà la chiarezza della scelta originaria.

Ma l’io che sceglie è la sua stessa situazione nel mondo, situazione storicamente determinata, oggettiva, particolare; e la sua scelta autocostitutiva non è che l’autocostituirsi di questa situazione. Ma questo vuol dire: la scelta, radicandosi in una situazione determinata, non può scegliere se non ciò che è già stato scelto e costituito in una situazione di fatto. Io non posso rifarmi da capo e scegliere tra l’essere me stesso e il non essere me stesso, come se la libertà fosse davanti a me solo come uno strumento. Ma in quanto scelgo sono, se non sono non scelgo. Il che vuol dire che davanti alla scelta non si aprono mai alternative diverse che essa non è mai un confrontare, un trascegliere, un cernere, ma sempre e soltanto il riconoscimento e l’accettazione di quell’unica possibilità che è implicita nella situazione di fatto che costituisce il mio io.

Io sono in una situazione storica se mi identifico con una realtà e col suo compito immenso. Io posso appartenere soltanto a un unico popolo, posso avere soltanto questi genitori e non altri, posso amare soltanto un’unica donna; ma io posso in ogni caso tradire. Riconoscere che si possa appartenere a un altro popolo, se quello a cui si appartiene di fatto ci appare estraneo, che si possano disconoscere i propri genitori in quanto non si ha colpa di ciò che essi sono, che si possa amare un’altra donna; e che si possa in generale appigliarsi a quelle possibilità sempre nuove di cui la vita è ricca, significa, secondo Jaspers, tradire se stessi. L’unico modo di essere se stessi, l’unica scelta autentica è quella che accetta incondizionatamente la situazione di fatto a cui si appartiene.

Di fronte a tali situazioni ogni ribellione è insensata: non si può che aprire gli occhi di fronte a esse. La necessità che in esse si manifesta e che è incomprensibile, in quanto non è riducibile a motivi o elementi che cadono nel nostro sapere, mostra appunto che in esse si sperimenta, sia pure nella forma negativa dell’urto, la necessità stessa dell’essere. Trovarsi in una situazione-limite significa non potere non subire, non potere non morire, non potere non peccare. La situazione-limite rivela nella maniera più chiara l’impossibilità costitutiva dell’esistenza.

L’essere sempre in una situazione determinata, il non potere vivere senza lotta e dolore, il dovere prendere su di sé la colpa, l’essere destinato alla morte, sono situazioni-limite nelle quali indubbiamente la trascendenza è presente sotto la forma dell’impossibilità in cui l’uomo si trova di superarle. Il segno più certo della trascendenza è lo scacco che l’uomo subisce nel tentativo di superarle o di comprenderle in qualche modo: in questo scacco la trascendenza stessa fa sentire la sua presenza. Esso è la cifra suprema, quella che meglio simboleggia e descrive la necessità dell’essere.

Certamente, nel naufragio totale di tutte le sue possibilità, l’uomo non può trovare che rassegnazione e silenzio; ma rassegnazione e silenzio costituiscono una pace che non è più illusoria perché si fonda sulla certezza dell’essere che si è rivelato nella sua necessità. Certo, il nostro sapere della divinità appare allora come superstizione; ma la verità è là dove l’esistenza, nel suo naufragio, può tradurre il linguaggio equivoco della trascendenza nella più semplice certezza nei riguardi dell’essere. È la certezza di una necessità incomprensibile, di fronte a cui non si può che chinare silenziosamente il capo, e rassegnarsi.

«Quando nella situazione mi desto sorpreso alla coscienza di me stesso, pongo la domanda relativa all’essere. Trovandomi nella situazione come possibilità indeterminata devo cercare l’essere per trovare veramente me stesso. Eppure solo nel naufragio di questa ricerca, che voleva trovare l’essere puro e semplice, giungo al filosofare. Si tratta del filosofare che parte dall’esistenza possibile e che ha per metodo il trascendere». (K. Jaspers, Filosofia, tr. it., Torino 1978, p. 114).

Jean-Paul Sartre (1905-1980)

Lo scopo di Sartre è una ricerca dell’ontologia della coscienza intesa come essere nel mondo. Di fronte all’essere in sé la coscienza è l’essere per sé, cioè presenza a se stessa. La presenza a se stessa implica una scissione, una separazione interiore nell’essere della coscienza. Una credenza, per esempio, è come tale sempre coscienza della credenza; ma, per attingerla come credenza, occorre in qualche modo fissarla come tale, separarla dalla coscienza alla quale è presente. Separarla con che cosa? Con nulla.

Nulla c’è e ci può essere che separa il soggetto da se stesso. La distanza ideale, il lasso di tempo, la differenza psicologica, implicano certo, come tali, elementi di positività; ma la loro funzione è sempre negativa. Condizionando la struttura della coscienza, il nulla condiziona la totalità dell’essere, che è tale solo per la coscienza e nella coscienza.

Sartre mette in luce il significato negativo dei termini apparentemente positivi con i quali Heidegger descrive o caratterizza l’esistenza. Che il qualcosa sia fuori di sé, nel mondo, che sia un essere della lontananza, che sia cura, che sia le sue proprie possibilità, ecc., equivale a dire, secondo Sartre, che esso non è in sé, che non è a se stesso in una prossimità immediata e che oltrepassa il mondo in quanto pone se stesso come non esistente in sé e come non esistente nel mondo. Queste sono tutte caratteristiche dell’essere per sé, cioè dell’essere della coscienza.

Da ciò la tesi fondamentale di Sartre: l’essere per cui il nulla viene al mondo deve essere il suo proprio nulla. La coscienza è il suo proprio nulla in quanto si determina perpetuamente a non essere l’in sé. Essa fonda se stessa in quanto nega di sé un certo essere o una certa maniera d’essere. In primo luogo, essa nega l’essere in sé; in secondo luogo essa nega o nullifica il suo per sé e si costituisce appunto attraverso questa nullificazione e attraverso la presenza, in essa, di ciò che nullifica, proprio a titolo di nullificato. Il sé come essere in sé mancato è il senso della realtà umana. Che la realtà umana sia nullificazione, mancanza d’essere, è già dimostrato a sufficienza dal desiderio: questo non si spiega se non come una mancanza propria dell’essere che desidera, cioè come un bisogno di completamento. Col riferimento alla coscienza, la stessa realtà oggettiva (l’essere in sé) è affetta dalla mancanza e si nullifica essa stessa. Per suo conto, l’essere in sé è sempre completo, sempre pieno. Un cerchio incompiuto, un quarto di luna, non mancano veramente di nulla: sono ciò che sono.

La libertà, secondo Sartre, è la possibilità permanente di quella rottura o nullificazione del mondo che è la struttura stessa dell’esistenza. La libertà non è l’arbitrio o il capriccio momentaneo dell’individuo: si radica nella più intima struttura dell’esistenza, è l’esistenza stessa. Un esistente che, come coscienza, è necessariamente separato da tutti gli altri, giacché essi sono in rapporto con lui solo nella misura in cui sono per lui, un esistente che decide del suo passato, sotto forma di tradizione, alla luce del suo futuro, in luogo di lasciarlo puramente e semplicemente determinare il suo presente, un esistente che si fa annunciare da ciò che è altro da lui, cioè da un fine che non è e che esso proietta nell’altro lato del mondo, ecco ciò che chiamiamo un esistente libero.

È evidente che la libertà non concerne tanto gli atti e le volizioni particolari, quanto il progetto fondamentale in cui essi sono compresi e che costituisce la possibilità ultima della realtà umana, la sua scelta originaria. Il progetto fondamentale lascia senza dubbio un certo margine di contingenza alle volizioni e agli atti particolari, ma la libertà originaria è quella inerente alla scelta del progetto stesso. Ed è una libertà incondizionata.

Nella Critica della ragione dialettica (1960) Sartre intraprende una revisione di queste tesi per renderle adatte alle esigenze di una teoria dell’azione. In primo luogo viene completamente mutata la nozione di progetto. In Essere e nulla il progetto non ha, come si è detto, alcuna condizione, non parte da dati ma li produce, perché è la manifestazione di una libertà incondizionata. Nella Critica della ragione dialettica il progetto è l’oltrepassamento di una situazione data, che definisce i limiti o le condizioni di possibilità del progetto stesso.

«Io sono un essere che è come essere di cui l’essere è in questione nel suo essere». (L’être et le nèant, ns. tr., Paris 1950, p. 642).

Maurice Merleau-Ponty (1908-1961)

Il tema fondamentale a cui si sono rivolte le indagini di Merleau-Ponty è quello del rapporto tra l’uomo e il mondo, inteso come rapporto tra coscienza e natura. Nella Struttura del comportamento, attraverso l’analisi dei risultati che le ricerche psicologiche sperimentali hanno raggiunto negli ultimi decenni e che consentono di eliminare l’interpretazione causale del rapporto tra anima e corpo, Merleau-Ponty giunge a vedere in questo rapporto una dualità dialettica di comportamenti.

Dire che l’anima agisce sul corpo significa presupporre che il corpo sia una totalità chiusa e perciò invocare una forza esterna che dia conto del significato spirituale di certi suoi comportamenti.

Dire che il corpo agisce sull’anima significa immaginare che l’anima sia una forza costantemente presente nel corpo, che può essere ostacolata dalla forza più potente del corpo. In realtà, queste espressioni indicano soltanto certi livelli di comportamento.

Nel primo caso, le funzioni corporee sono integrate in un livello superiore a quello della vita: il corpo è veramente diventato corpo umano. Nel secondo caso, il comportamento si è disorganizzato lasciando il campo a strutture meno integrate. La pretesa azione reciproca tra le due pretese sostanze si rivela, in realtà, come l’alternativa tra due livelli di comportamento, cioè tra due tipi di comportamento dotati di significati diversi. La struttura del comportamento si conclude appunto con la distinzione tra struttura e significato.

La struttura di un comportamento è visibile dall’esterno quanto dall’interno sicché per essa l’altra persona mi è accessibile come il mio stesso io. Ma come posso ingannarmi sull’altro, se non riesco a decifrare il senso del suo comportamento, così posso ingannarmi su me stesso e non cogliere che il significato apparente del mio comportamento.

La Fenomenologia della percezione si ispira più direttamente alla fenomenologia di Husserl e la corregge nel senso dell’esistenzialismo. La coscienza non è, per Merleau-Ponty, il colpo d’occhio gettato sul mondo da uno spettatore disinteressato ma è sempre la coscienza di un io votato al mondo. Il punto di partenza della filosofia fenomenologica è il cogito ma a condizione che lo s’intenda nel senso che io sono a me stesso in quanto sono al mondo.

«La distinzione tanto frequente di psichico e somatico trova luogo in patologia, ma non può servire alla conoscenza dell’uomo normale, cioè dell’uomo integrato, perché per esso i processi somatici non si svolgono isolatamente ma sono inseriti in un raggio di azione più ampio». (La struttura del comportamento, tr. it., Milano 1963, p. 292).

Fine del primo volume

 
 

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