Titolo: Lezioni (fuori luogo) di storia della filosofia. Catania
Sottotitolo: Volume II
Presocratici – Galilei, 1954-1955
Note: Pensiero e azione 32
Prima edizione: maggio 2015
SKU: pensiero-000032
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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    La filosofia presocratica

      La scuola ionica

      La scuola pitagorica

      Eraclito da Efeso (544-483 a.C.)

      La scuola eleatica

      Parmenide (fine VI sec. – prima metà del V sec. a.C.)

      Zenone di Elea (490-430 a.C)

      Empedocle (492-432 a.C.)

      Anassagora (499-428 a.C.)

      L’atomismo

    I sofisti e Socrate

      Protagora (485-410 a.C.)

      Il problema della giustizia

      Socrate

    Platone

    Aristotele

    Le scuole post-aristoteliche

      Lo stoicismo

    L’epicureismo

    Lo scetticismo

    La metafisica religiosa di Plotino

    Il cristianesimo e i suoi fondamenti dottrinali

      La Patristica e gli apologeti

      Agostino di Tagaste (354-430)

    Secoli IX e X

    Secoli XI-XIII

    Caratteri generali della Scolastica

    Misticismo e razionalismo

    Tommaso d’Aquino

    La signoria e l’economia rurale

    Evoluzione della rendita signorile

    Il mutamento del XIV secolo

    La crisi

    I Comuni

    Umanesimo e Rinascimento

    L’Italia comunale

    Michel de Montaigne

    Il platonismo. Cusano e Ficino

      Marsilio Ficino (1433-1499)

    L’aristotelismo. Pomponazzi

    Giordano Bruno e Tommaso Campanella

      Giordano Bruno (1548-1600)

      Tommaso Campanella (1568-1639)

    La fine dell’universalismo politico

    Gli Stati regionali italiani

    Il mondo orientale e la rinascita dell’Europa

    Naturalismo rinascimentale e rivoluzione scientifica

    Guerre di religione e lotte politiche

    Le guerre di religione in Francia

    Le origini della scienza. Galilei

      Galileo Galilei (1564-1642)

      Francesco Bacone (1561-1626)

    La crisi economica della prima metà del 1600

    La guerra dei Trent’anni

    Le rivolte antispagnole

      La Fronda

      Nota riguardante il passaggio

    Nota riguardante il passaggio

“Due persuasioni di uguale forza sono all’origine. In forza della prima si ritiene impraticabile la scelta di legare il carattere narrativo della storia alla sopravvivenza di una forma particolare di storia, la storia narrativa. A questo proposito, la mia tesi circa il carattere ultimamente narrativo della storia non si confonde affatto con la difesa della storia narrativa. La mia seconda persuasione è che se la storia rompesse ogni rapporto con la capacita di base che noi abbiamo nel seguire una storia e con le operazioni conoscitive della comprensione narrativa, essa perderebbe il proprio carattere distintivo all’interno delle scienze sociali non sarebbe più storica. Ma qual è la natura di tale rapporto? Ecco il problema”.

(P. Ricoeur, Tempo e racconto)

La filosofia presocratica

Il primo impulso alla speculazione filosofica e scientifica è offerto dal continuo cambiamento dei fenomeni e dalla non definita molteplicità degli oggetti della natura. L’acqua evapora a causa del calore solare, le nuvole prodotte dai vapori si sciolgono e costituiscono la pioggia. Quindi, se lo stesso corpo può trasformarsi da liquido in solido e viceversa, ci si trova di fronte al problema di trovare sotto la variazione qualche cosa di uniforme.

Difatti, per prima cosa i primi scienziati-filosofi cercarono il principio della natura. Ora cercare il principio della natura significa domandarsi: a) quali sono gli elementi della materia, i corpi più semplici, dai quali derivano nella loro complessità e variabilità i fatti e i fenomeni della natura; b) quali sono le forme a causa delle quali ciò che è uno si spezza nel molteplice e ciò che è permanente genera il variabile.

Per quanto riguarda il primo problema, i primi filosofi si sono orientati verso la sostanza fluida e ignea, in quanto è la sostanza che si muove, piuttosto che verso la solida che rimane sempre inerte. Per quanto riguarda il secondo problema tutto il processo del divenire è ricondotto a movimento della materia. Ciò fa sì che i primi filosofi concepiscano la materia come qualche cosa di vivente, questa concezione a chiamata “ilozoismo”. Dal greco hýlē, materia, e zōe, vita. Dottrina filosofica in base alla quale la materia contiene in sé il principio della vita, della sensibilità o di una qualche forma di coscienza. Il termine venne usato per la prima volta dai platonici di Cambridge, in particolare da Ralph Cudworth, e da Kant nella Critica del Giudizio. A questo significato del termine possono essere riportate le dottrine dei fisici presocratici, degli stoici (secondo i quali il fuoco è principio universale del mondo, dotato di anima, sensibilità e intelligenza), della filosofia naturale del Rinascimento (Telesio, Bruno, Campanella) e di una parte del materialismo ottocentesco (Haeckel).

«Sebbene la scienza delle religioni come disciplina-autonoma abbia avuto inizio solo nell’Ottocento, l’interesse per le religioni di altri popoli risale molto più addietro nel passato [...]. Se ne trova documentazione per la prima volta nella Grecia classica, specialmente a partire dal V secolo. Tale interesse si manifestò sia nei resoconti dei viaggiatori, che descrissero i culti di paesi lontani raffrontandoli con le pratiche religiose greche, sia nella critica filosofica della religione tradizionale. Già Erodoto descrisse in modo sorprendentemente preciso diverse religioni barbare ed esotiche (dell’Egitto, della Persia, della Tracia, della Scizia, ecc.), formulando perfino ipotesi sulla loro origine e sulle loro relazioni con i culti e i miti greci. I filosofi presocratici indagarono la natura degli dèi e il valore dei miti, fondando una critica razionalistica delle religioni. Così, ad esempio, per Parmenide ed Empedocle gli dèi erano .personificazioni di forze naturali. Anche Democrito sembra aver mostrato viva curiosità “e interesse per le religioni straniere” con cui era venuto direttamente a contatto durante i suoi numerosi viaggi. Platone fece frequente uso di paragoni con le religioni dei barbari; Aristotele elaborò la prima formulazione sistematica della teoria della degenerazione religiosa dell’umanità (Metafisica, XII, 7), concetto che sarà spesso ripreso in epoche successive Teofrasto, che succedette ad Aristotele come scolarca del Liceo, può essere considerato il primo storico greco delle religioni: secondo Diogene Laerzio (V, 48), egli scrisse una storia delle religioni in sei libri. Ma fu specialmente dopo le conquiste di Alessandro Magno che gli scrittori greci poterono acquisire una conoscenza diretta delle tradizioni religiose dei popoli orientali e quindi descriverle. Durante il regno di Alessandro, Beroso, un sacerdote di Marduk, scrisse una storia della Babilonia in tre libri. Megastene, che tra il 302 e il 297 fu più volte inviato da Seleuco Nicatore come ambasciatore presso il re indiano Candragupta, scrisse un trattato in quattro libri sull’India; Ecateo di Abdera (o di Teo) scrisse sugli Iperborei e dedicò un’opera alla religione degli Egizi. Manetone, un sacerdote egizio, si occupò dello stesso argomento in un’opera che porta un identico titolo. Il mondo alessandrino venne perciò a conoscere un gran numero di miti, riti e consuetudini religiose esotiche. Nell’Atene dell’inizio del III secolo Epicuro elaborò una critica radicale della religione: a suo parere il “consenso universale” prova che gli dèi esistono, ma egli li considera esseri superiori e remoti, che non hanno rapporto alcuno con l’uomo. Le sue teorie incontrarono gran favore nel mondo latino del I secolo a.C., soprattutto grazie all’opera di Lucrezio. Furono però gli stoici che influenzarono profondamente tutto il mondo antico elaborando il metodo dell’interpretazione allegorica, che consentì loro di conservare e al tempo stesso rivalorizzare il retaggio mitologico. Secondo gli stoici, i miti rivelano o concezioni filosofiche sulla natura ultima delle cose o dottrine etiche. I molti nomi degli dèi stanno a indicare un’unica divinità: solo la terminologia varia. Il metodo allegorico degli stoici rese possibile la trasposizione di qualsiasi tradizione arcaica o esotica in un linguaggio universale e facilmente comprensibile; esso ebbe larga fortuna e vasta applicazione». (Mircea Eliade, voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Roma 1975, p. 131).

La scuola ionica

La prima manifestazione di pensiero, omogeneo e continuo, è rappresentato da tre scienzati-filosofi: Talete (624-545 a.C.), Anassimandro (610-548 a.C.), Anassimene (546-525 a.C.). Tutti e tre sono condotti dalle loro ricerche metereologiche, fisiche, e astronomiche a porsi il problema: qual è la materia primordiale dalla quale tutte le cose sono derivate? Talete risponde: l’acqua, o più in generale la materia allo stato liquido, di cui si alimentano le piante e gli animali e di cui si compongono tutti i germi degli esseri viventi. Anassimene risponde: l’aria, ossia la materia allo stato gassoso. Tra l’uno e l’altro Anassimandro risponde: una sostanza particolare che si sottrae ad ogni delimitazione di spazio e di tempo, che è perciò l’infinito o indefinito.

«La maggior parte di coloro che primi filosofarono pensarono che princìpi di tutte le cose fossero solo quelli materiali. Infatti essi affermano che ciò di cui tutti gli esseri sono costituiti e ciò da cui derivano originariamente e in cui si risolvono da ultimo, è elemento ed è principio degli esseri, in quanto è una realtà che permane identica pur nel trasmutarsi delle sue affezioni. E, per questa ragione, essi credono che nulla si generi e che nulla si distrugga, dal momento che una tale realtà si conserva sempre. E come non diciamo che Socrate si genera in senso assoluto quando diviene bello o musico, né diciamo che perisce quando perde questi modi di essere, per il fatto che il sostrato – ossia Socrate stesso – continua ad esistere, così dobbiamo dire che non si corrompe, in senso assoluto, nessuna delle altre cose: infatti deve esserci qualche essenza naturale (o una sola o più di una) dalla quale derivano tutte le altre cose, mentre essa continua ad esistere immutata.

«Tuttavia, questi filosofi non sono tutti d’accordo circa il numero e la specie di un tale principio. Talete, iniziatore di questo tipo di filosofia, dice che quel principio è l’acqua (per questo afferma anche che la terra galleggia sull’acqua), desumendo indubbiamente questa sua convinzione dalla constatazione che il nutrimento di tutte le cose è umido, e che perfino il caldo si genera dall’umido e vive nell’umido. Ora, ciò da cui tutte le cose si generano è, appunto, il principio di tutto. Egli desunse dunque questa convinzione da questo fatto e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno una natura umida e l’acqua è il principio della natura delle cose umide». (Aristotele, Metafisica, I).

Riguardo Anassimandro scrive Diogene Laerzio: «Anassimandro figlio di Praxiade, di Mileto. Costui diceva che principio ed elemento [delle cose] è l’infinito, senza definirlo aria o acqua o altro, che le parti mutano ma il tutto è immutevole e che la Terra sta in mezzo ed ha posizione centrale, a forma di sfera (la Luna non ha luce propria ma è illuminata dal Sole, mentre il Sole non è inferiore alla Terra ed è purissimo fuoco). Scoprì per primo lo gnomone e lo pose a Sparta in luogo sensibile all’ombra, a quanto dice Favorino nella Storia varia, per indicare i solstizi e gli equinozi: costruì anche degli orologi. E per primo disegnò i contorni della terra e del mare e costruì anche una sfera». (Vite dei filosofi, II, 1-2).

La scuola pitagorica

Nella seconda meta del secolo VI e per tutto il secolo successivo fiorì una scuola, la pitagorica. Essa fu fondata da Pitagora da Samo (VI sec. a.C.) e fu un’associazione che ebbe carattere e programma non soltanto scientifico-filosofico, ma politico e religioso.

L’affermazione fondamentale dei Pitagorici è che il numero è la sostanza delle cose e la causa generatrice dei fenomeni nel loro armonico ordinamento. Questa affermazione può essere considerata come il punto di convergenza verso cui confluiscono tutte le vie, per le quali si è messa l’indagine dei Pitagorici.

Innanzi tutto sembra certo che ai Pitagorici spetti la gloria di avere creato la matematica come teoria dei numeri e delle figure in se stesse, e di avere così trasformato in scienza, ossia in ricerca di leggi universali, quello che fino ad allora (ad esempio, presso gli Egizi) era stato semplicemente un complesso di norme empiriche utili per calcolare e misurare. Ora, si può facilmente immaginare lo stupore quasi religioso da cui doveva essere animato chi per la prima volta si trovava davanti a qualcuna di quelle formule espressive di meravigliose corrispondenze tra numero e numero, tra figura e figura. Si capisce quindi come al numero si finisse per attribuire una specie di virtù magica, produttrice della regolarità dei fenomeni.

L’arché, per Pitagora, era il numero. Il numero non era un concetto astratto come lo intendiamo oggi (un simbolo che si riferisce alla quantificazione delle cose), il numero possedeva una propria dimensione geometrica (per cui esistevano numeri triangolari, quadrati, rettangolari, cubici). In particolare, Pitagora sosteneva che tutte le cose sono oggetti geometrici e, come tali, sono composti da numeri, i quali ne costituiscono la struttura. I numeri erano comunque entità materiali (dotati di estensione), simili agli atomi formulati più tardi da Democrito. I numeri dispari erano maschili e perfetti, benevoli, i numeri pari femminili e imperfetti, doppi. Il numero 1 era oggetto di una vera e propria venerazione, in quanto esprimeva l’unità originaria di cui tutti gli altri numeri erano composti (e quindi tutte le cose). Il numero 1 esprimeva quindi l’originaria unità del tutto, mentre il 2 già dimostrava, alla stregua del concetto di contrasto tra gli opposti, l’opposizione doppia degli elementi contrari. Alcuni numeri avevano un significato magico: la duplicità era simbolo di doppiezza e inaffidabilità. Il 2, il primo numero pari, esprimeva per Pitagora la contrapposizione al vero sapere, ovvero l’1, l’unico. La triplicità esprimeva sin dall’antichità il divino. Esso non è solo un simbolo riscontrabile nella Trinità cristiana, ma anche nella Trimurti orientale. Il 4 esprimeva la quadruplicità della natura: quattro erano le stagioni. Il 7 era considerato invece il numero perfetto.

Inoltre il pitagorico coltivava la musica, e vedeva in essa che gli accordi dei suoni sono traducibili in numeri e che la presenza o l’assenza di un certo rapporto numerico in un complesso di quantità uditive fa sì che vi sia un accordo piuttosto che un altro. Il numero quindi è anche la forma generatrice, e diciamo pure la sostanza dell’armonia musicale. Anche la musica, come del resto tutta la realtà, era una combinazione di numeri. Pitagora basava la sua tesi sull’osservazione di alcune stringhe di uguale spessore e tensione ma di diversa lunghezza che faceva vibrare. La musica era un rapporto numerico misurato secondo intervalli, le note dipendevano dalla quantità di vibrazioni emesse. Da questa intuizione affermò che le sfere celesti (Pitagora sosteneva la sfericità dei pianeti), a causa del loro movimento, emettevano una musica continua, un’armonia celestiale, che l’orecchio non sentiva perché ne era ormai assuefatto.

Conducendo l’indagine su questo tenore il pitagorico trovava che l’alternarsi del giorno e della notte, il succedersi delle stagioni, il procedere del ciclo vegetativo, ecc., erano regolati da un ritmo analogo a quello della successione dei suoni, e questo ritmo si poteva dunque esprimere in leggi eguali a quelle acustiche.

Tutti gli oggetti hanno poi una forma, un volume, un peso, tutte cose che sono misurabili, ed esprimibili con dei numeri. Insomma la realtà delle cose è il numero.

«Come l’azione interiore, in quanto ricerca nell’ambito del possibile, prepara la via dell’azione esteriore, così l’azione interiore incondizionata è la radice di ogni decisione autentica nell’azione esteriore. Mentre la cura degli stati di coscienza si traduce in una psicologia confusa nelle sue fonti e nelle sue finalità dove si perde anche il se-stesso, l’incondizionatezza dell’azione interiore può impadronirsi di una tecnica, senza peraltro lasciarsi dominare. Solo perdendo l’incondizionatezza l’azione può ridursi all’ambito finito della cura del se-stesso e dell’esserci nel mondo. La tecnica è solo uno strumento a disposizione non la verità in se stessa. Non crea un se-stesso, ma può essere utilizzata dal se-stesso in opposte possibilità. Per questo non si devono rifiutare le abilità da impiegare nella conduzione della vita, nel tratto con se-stesso, nell’ambito della quotidianità; il se-stesso le domina senza sottomettervisi. Anche se non si può disporre di alcun dispositivo per produrre l’incondizionatezza dell’azione interiore, perché ogni dispositivo è determinato dall’incondizionatezza di questa azione, detti dispositivi, che rispondono a regole, possono essere occasioni per la decisione dell’incondizionato, per stare all’erta e per ricordare. Le regole dell’autocontrollo nella riflessione della vita quotidiana (nelle forme che questa ha assunto fin dal tempo dei pitagorici) e gli esercizi del comportamento interiore possono giungere al limite pericoloso di una vuota pedanteria che si esprime in un’egoista e compiaciuta autosufficienza o in una forma altrettanto egoista di autovittimismo. Ma l’ordinamento disciplinato del giorno e le regole del lavoro sono dispositivi che, se anche non sono incondizionati, si dirigono all’incondizionato quando da esso traggono la loro origine. La lettura regolare dei testi filosofici che fondano la nostra coscienza dell’essere, il loro approfondimento nella rilettura, la contemplazione nell’arte e nella poesia sono, come ricordi, dei mezzi che nella vita quotidiana mi mantengono in quell’essenzialità che mi sostiene in qualunque cosa faccia. Nei momenti di quiete la riflessione quotidiana è, nell’esserci, quel fenomeno senza cui il se-stesso si disperde e la direzione si indebolisce. Questa riflessione è il filosofare come incondizionatezza dell’azione interiore. Filosofare. La filosofia dell’esistenza, quando si sviluppa sulla base di un’appropriata tradizione, è, di volta in volta, l’ideazione delle possibilità che al presente si offrono all’uomo nel suo rapporto trascendente. Ma l’ultimo senso di ogni pensiero filosofico è la vita filosofica considerata come quell’agire individuale che nell’azione interiore consente all’individuo di diventare se-stesso. I pensieri formulati, che nelle opere diventano dottrina, sono delle semplici conseguenze che non servono ad altro se non a suscitare quest’azione interiore. L’autentico pensiero filosofico, essendo il più prossimo alla vita, è, nell’origine, quell’agire che produce l’essere nel se-stesso; è invece la più grande delle illusioni possibili se si riduce a mero esercizio intellettuale privo di ogni sincerità e di ogni aggancio alla vita. Se voglio esser me stesso non posso riuscirci meditando su di me nel tentativo di conoscermi oggettivamente, o ricorrendo ad una tecnica educativa che disciplini l’atteggiamento della mia coscienza, perché in entrambi i casi mi ridurrei ad un esserci oggettivo da osservare e da elaborare come si fa per qualsiasi essere sussistente. Tanto meno posso pensare di giungere ad esser-me-stesso riflettendo sui concetti creati dai filosofi. Filosofare pensando e ripensando quanto è già stato pensato non significa ancora esser presso di sé. Ciò che importa è che il pensiero filosofico divenga un’azione incondizionata. La pienezza del pensiero, la sua verità e la sua forza di penetrazione fanno tutt’uno con questo agire interiore che si produce da sé. Riflettere su di sé a livello psicologico, impiegare una tecnica per ordinare la condotta della vita, ripensare filosoficamente pensieri già pensati sono solo preparazione o conseguenza dell’autentico filosofare, questo è incondizionato solo nell’autochiarificazione che è ad un tempo apprensione e conoscenza della coscienza assoluta; è origine di ciò che non è più mezzo, ma pienezza della coscienza dell’essere. L’autochiarificazione è stata realizzata in modo esemplare dai grandi filosofi. Nella loro luce si accende la nostra, come se ci si passasse la torcia di mano in mano. Ma il contatto con l’esistenza dei filosofi si concreta solo nel momento in cui il senso del pensiero si identifica con un se-stesso o si traduce in una realtà presente. Filosofare significa sottoporre se stessi ad un esame quotidiano. Il pensiero diventa uno stimolo, e nella sua manifestazione agisce come agisce un oggetto, nella deviazione rappresenta un punto d’appoggio, ed evocando la trascendenza la rende presente. Ma tutto ciò dimora nella realtà del se-stesso chiamato in causa dalla sincerità del pensiero; non è questo un pensiero che si possa percepire o ricevere, ma è un pensiero che riproduce quello che io sono così come riesco ad essere pensando. Sembra più facile che sia la perseveranza nella continuità dell’esserci a sperimentare talvolta i grandi dolori, il destino e, in generale, quanto è decisivo; tutto ciò eleva mentre distrugge, perché ci sottrae all’ordine quotidiano, dove solamente c’è una continua conferma dell’essere. Le sollecitazioni più forti, uniche nel loro genere, creano le possibilità estreme, ponendo il fondamento per tutto ciò che è futuro. Ciò che s’è prodotto è autentico nella sua realtà solo quando, nel corso degli anni, nella rievocazione del ricordo, nelle conseguenze inevitabili, si apprende la stessa cosa. Il filosofare si applica indifferentemente alle grandi sollecitazioni come al quotidiano. L’incondizionatezza dell’uno è l’eco dell’altro, l’uno senza l’altro è problematico. Infine il filosofare si arresta di fronte a ciò che nell’esserci è insuperabile quando, come dottrina stoica, insegna a sopportare i contrasti con quegli uomini con cui non abbiamo una vera e continua relazione e da cui, peraltro, dipendiamo; quando ci consente di sopportare lo spavento davanti alla realtà fisiognomica delle masse, le molestie della vita quotidiana, la fretta che sottrae spazio alla meditazione, lo stato fisico di malessere, di dolore, di decadenza, il proprio naufragio. Conservare sempre l’impassibilità, senza cadere nell’indifferenza, e non perder di vista l’essenziale è possibile solo sullo sfondo di un filosofare totale e mai compiuto. La rassegnazione che induce a sopportare è spesso considerata come una deficienza. Quando l’azione interiore del filosofare non può originare un’azione nel mondo, né produrla in un rapporto di comunicazione reciproca, si ritira nell’isolamento del proprio esserci dove, se abbraccia definitivamente questa forma, si riduce a un punto vuoto, ma solo per conservarsi, nelle situazioni abnormi, come disposizione per una nuova positività. Nella sua realizzazione specifica, il filosofare può essere una contemplazione attiva che si esprime in un’azione interiore attraverso il pensiero della trascendenza. Come tale, è analoga all’azione religiosa anche se, a differenza di questa non si propone di realizzare alcun fine nel mondo. Nella sua incondizionatezza si differenzia dall’intuizione gratuita, dalla riflessione e dall’indagine oggettiva; dalla contemplazione attiva nasce la chiarificazione del se-stesso attraverso la coscienza della trascendenza. Anche se in essa non c’è un rapporto reale con Dio, e Dio non fa udire immediatamente e sensibilmente la sua parola, in questa contemplazione si incontra un cammino che dalla libertà conduce alla trascendenza nascosta. L’esistenza avverte indirettamente la divinità se si realizza partendo dalla propria libertà. La contemplazione si esplica in atti formalmente trascendenti, nell’apprensione del rapporto esistenziale con la trascendenza, nell’indeterminabile lettura delle cifre dell’esserci. Questa contemplazione, che è poi l’apice del filosofare, è l’accertamento della coscienza assoluta nel suo riscoprirsi nella trascendenza. La forza concessa dall’oggettività religiosa nella presenza sensibile della divinità, qui si radica nella libertà dell’esistenza personale. In questo rapporto con se-stesso, la manifestazione dell’esistenza è più vacillante, più equivoca, più debole della manifestazione dell’esistenza assicurata e confermata da legami oggettivi; inoltre, data la debolezza del nostro essere, il maggior pericolo per la libertà è dato dal dubbio e dalla disperazione; la libertà è un rischio. Il suo sguardo può essere confuso, mentre il suo abbandono alla trascendenza realmente presente può accogliere la visione vuota dell’essere che non c’è assolutamente più. La libertà dell’essere originario, e con essa il rapporto con la trascendenza, devono essere conquistati ogni giorno con decisioni sempre diverse, perché non si tratta di un possesso individuale, né di qualcosa che si possa trasmettere oggettivamente. Nella mia debolezza, partendo da questa libertà, non posso fermarmi ad una qualsiasi oggettività consistente, ma solo ad una realtà che, sia pure relativamente, suscita e ridesta. Come il rapporto reale con Dio è l’incondizionatezza filosoficamente incomprensibile dell’azione religiosa, così la contemplazione attiva è il contenuto dell’incondizionatezza dell’azione interiore e dell’azione nel mondo. La realtà dell’essere è presente nell’interiorità e nella finalità solo per l’autocoscienza che, realizzandosi nella pienezza della contemplazione, si accerta del carattere cifrato dell’esserci. In questo modo, l’incondizionatezza etica conosce un’azione esente da fini che, nella lettura delle cifre, si accosta al segreto della trascendenza senza, per questo, scoprire o conoscere qualcosa. Nel senso della mia azione, così come nell’assunto e nell’assenza di senso, parla una realtà trascendente che non ha bisogno di proferire parola, perché, nel suo permanente segreto, carica tutto sul singolo esistente, quando questi, senza saperlo esplicitamente, crede, anche solo per un momento, di essere da essa guidato. Incondizionatezza nel non-volere. Nell’esserci temporale il volere incondizionato è legato a un non-volere. La manifestazione dell’esserci è esistenzialmente possibile solo sulla via degli impedimenti e delle esclusioni. È la rottura nell’esserci che alla fine rende possibile un non-volere come volontà della negazione. Nell’ambito biologico è oggettivamente possibile l’organizzazione dei riflessi attraverso una connessione di impedimenti che sono poi le reazioni di una totalità in sé assestata. Nell’ambito psicologico ogni impulso è limitato da un altro impulso; il timore induce a rinunciare; l’impedimento è una funzione del gioco immanente delle forze psichiche in un rapporto di reciproco condizionamento. Nell’esserci dell’uomo sono, fin dall’inizio, essenziali delle proibizioni, di cui se ne può indagare l’origine biologica, psicologica e sociologica, per vedere se in queste connessioni empiriche ci sono effetti e interventi osservabili. I tabù, il timore davanti all’assurdo pensato o vissuto, la rinuncia, l’ascesi sono attività contro il proprio esserci, sono un sacrificio che, in parte, si interpreta come mezzo magico per condizionare e costringere gli dèi, come un procedimento per eliminare il male, come una funzione sociologica, anche se, sulla base di tali condizioni, non si giunge ad esaurirne il senso. In definitiva, è impossibile fondare l’incondizionatezza nel non-volere. Come volontà formale di libertà, essa è la possibile negazione di ogni esserci, e si svuota quando è impiegata per guadagnare un punto d’appoggio esterno. Come volontà d’ordinamento è volontà di misura e limitazione da impiegare non per eliminare l’esserci, ma per costruirlo nell’unità di un tutto; come tale è disciplina e forma, e cessa immediatamente d’essere incondizionata a causa dei rapporti di dipendenza che da ogni parte essa detiene in una totalità che suppone universale. Nell’esclusione di ogni possibile legame con l’uno, essa è la manifestazione dell’esistenza nella sua storicità. Come volontà di negazione è orientazione verso la trascendenza; nell’esserci del mondo, che è la conseguenza di una caduta, c’é un errore, c’è qualcosa che non deve essere assoluto; l’ascesi incondizionata, la negazione universale diventano un’apertura per la trascendenza senza mondo. L’incondizionatezza del no, contraddicendo l’esserci, si volge alla trascendenza o attraverso l’esserci che ad essa appartiene nell’esclusione delle possibilità, o senza esserci in un rapporto di negazione assoluta. Nell’incondizionatezza del non-volere c’è una profonda negazione sul cui fondamento inaccessibile anche il fatto d’abbracciare l’esserci può tradursi in manifestazione dell’esistenza riferita alla sua trascendenza; un essere in sospensione che trova il suo punto d’appoggio dove ciò che è autentico non è mai posseduto dalla coscienza in generale mediante una certezza sensibile o intellettuale. Il mondo prodotto dagli uomini è tanto un caos in cui si muovono confusamente e vertiginosamente degli individui, quanto una compagine umanamente ordinata. Una realtà mondana completamente disorganizzata, in cui solo un eroe potrebbe creare da sé, per sé e per i suoi, un ordine autonomo, è una rappresentazione-limite. Nella sua singolarità l’uomo non possiede una grandezza sovrumana, rivolto a sé solo potrebbe vivere nel mondo solo a livello germinale. L’uomo non è soddisfatto dal mondo e dall’ordinamento del suo esserci a cui, tra l’altro, anch’egli collabora. La sua azione condizionata e relativizzata da tutto l’ordine delle finalità e dei desideri potrebbe mantenere ed estendere il suo esserci, ma non realizzare nell’esserci l’esistenza possibile. Solo con la sua azione incondizionata nel mondo l’uomo può dirigersi a finalità mondane, oltre le quali, poter cogliere un senso. L’incondizionatezza si realizza nella tensione delle antinomie a cui la sua chiarificazione conduce. Se concepiamo l’incondizionatezza, come un’azione conforme a una legge universale, la sua verità è nella concretezza della sua storicità. Dopo aver colto nel mondo la dispersione della molteplicità e dopo averla percorsa e oltrepassata, l’incondizionatezza giunge all’uno nella sua storicità. La legge è la determinatezza storica. In tutto ciò che si può fare nel mondo c’è sempre l’arbitrio della finalità. Con i mezzi tecnici posso indifferentemente distruggere e costruire». (K. Jaspers, Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 807-814).

Eraclito da Efeso (544-483 a.C.)

Nato nella Ionia, visse per tutta la vita solitario e sdegnoso, rinchiuso nella speculazione della sua attività filosofico-scientifica. Nel cercare il principio dell’universo, sostituisce all’acqua di Talete e all’aria di Anassimene, il fuoco. Se egli si fosse limitato a questo, non avrebbe superato l’ingenuo ilozoismo dei suoi predecessori. Ma in realtà non è questo l’oggetto diretto dell’interesse di Eraclito. Il suo genio speculativo è fisso su un’idea centrale radicalmente metafisica. Ed è questa: l’essere è fluire, è processo. Tutto scorre, nulla permane. Il mondo consiste in una trasformazione perenne, in un dissolversi e risolversi con ritmo incessante, con moto infaticabile. Di questa idea, la figura fisica più adegnata è il fuoco; la fiamma sembra una cosa che permanga identica a se stessa, ed invece continuamente si trasforma in calore e riceve alimento dal combustibile che arde.

Ora la legge di questo divenire sempre eterno è la lotta. Nella lotta è la vita dell’essere: “la guerra, di tutte le cose è padre, di tutte re”. L’armonia non è per Eraclito la sintesi degli opposti, la conciliazione e l’annullamento della loro opposizione; ma è l’unità che sta sotto all’opposizione e la rende possibile. A Omero che auspicava la scomparsa della discordia tra gli dèi e tra gli uomini, Eraclito replica che Omero non si accorge che egli auspica con ciò la distruzione dell’universo. Infatti, se la sua preghiera fosse accolta, tutte le cose perirebbero. La tensione è un’unità (cioè un rapporto) che può esserci solo tra cose opposte in quanto opposte. La conciliazione, la sintesi, l’annullerebbero. L’unità propria del mondo è, secondo Eraclito, una tensione di questo genere: non annulla né concilia né supera il contrasto, ma lo fa essere, e lo fa intendere, come contrasto.

Hegel vide in Eraclito il fondatore della dialettica e affermò che non c’era proposizione di Eraclito che egli non avesse accolto nella sua logica. Ma egli aveva interpretato la dottrina eraclitea della tensione tra gli opposti come conciliazione o armonia degli opposti stessi. Secondo Eraclito, gli opposti sono bensì uniti ma mai conciliati: il loro stato permanente è la guerra. Secondo Hegel, gli opposti sono continuamente conciliati e la loro conciliazione è anche la loro verità. Eraclito non è un filosofo ottimista che considera (come Hegel) la realtà in pace con se stessa. È un filosofo estremamente pessimista e amaro.

Così Eraclito nei Frammenti: «Di questo lógos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo lo stesso lógos, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole ed in opere tali quali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo.

«Bisogna dunque seguire ciò è comune. Ma pur essendo questo lógos comune, la maggior parte degli uomini vive come se avesse un propria e particolare saggezza.

«L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia.

«Congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose.

«Come potrebbe uno nascondersi a ciò che non tramonta mai?

«La maggior parte degli uomini non intende tali cose, quanti, in esse s’imbattono, e neppur apprendendole le conoscono, pur se ad essi sembra.

«Morte è quanto vediamo stando svegli, sonno quanto vediamo dormendo.

«Rispetto a tutte le altre una sola cosa preferiscono i migliori: la gloria eterna rispetto alle cose caduche; i più invece pensano solo a saziarsi come bestie.

«La legge è anche ubbidire alla volontà di uno solo.

«Assomigliano a sordi coloro che, anche dopo aver ascoltato, non comprendono, di loro il proverbio testimonia: “Presenti, essi sono assenti”.

«Sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza: l’avrebbe altrimenti insegnato a Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo». (22, B,1).

La scuola eleatica

Al punto estremo di Eraclito, che pretendeva di ridurre l’essere al divenire, si trova la scuola eleatica che afferma la recisa negazione del divenire e l’irrigidimento dell’essere in una assoluta unità: identità e immobilità. Fondata ad Elea da Senofane di Colofone nel sec. VI a.C., secondo questa scuola la conoscenza sensibile, che fa apparire le cose mutevoli, deve essere superata a favore della conoscenza razionale, che permette all’uomo di conoscere la realtà nella sua vera essenza, unica, immobile e immutabile.

Parmenide (fine VI sec. – prima metà del V sec. a.C.)

È la figura dominante di questa scuola.

Per Parmenide di fronte all’uomo ci sono due vie: il sentiero della verità (aletheia), che ci porta a conoscere l’Essere vero, e il sentiero dell’opinione (doxa) che ci porta a conoscere l’Essere apparente. Al contrario di Eraclito afferma che la realtà per essere vera deve essere stabile, cioè costante ed obiettiva, e non un continuo fra apparenti contrari. Si basa su due princìpi, il principio di identità (ogni cosa è se stessa) e il principio di non-contraddizione (è impossibile che una stessa cosa sia e insieme non sia nello stesso tempo ciò che è), e afferma: l’essere è e non può non essere, mentre il non essere non è e non può essere. La negazione qui implica la non esistenza assoluta. Per fare un esempio, la nascita e la morte secondo Parmenide non sono nient’altro che apparenze: non si può, in un certo momento, dall’essere passare al non essere, e neanche il contrario. Il non essere non può nemmeno essere pensato, perché il non essere è il nulla, e il nulla non si può pensare e neanche dire, mentre l’essere rende possibile il pensare e il dire. L’aletheia è una e immutabile, la doxa è molteplice e ingannevole. L’essere è uno, immobile, finito, immutabile. L’essere non può e non potrà mai dissolversi. Di fronte alle discordanze dei Pitagorici e degli Ionici sulla determinazione della specifica natura e delle proprietà essenziali della realtà, Parmenide afferma che tutte le differenti rappresentazioni della realtà sono illusioni e che una sola è la realtà indiscutibile: l’Essere, in quanto esso è. Ma nonostante questo vigoroso sforzo di pensiero per raggiungere la realtà assoluta, metafisica al di là delle apparenze fisiche, Parmenide conserva come essenziale all’essere la sua esistenza nello spazio. Non c’è in lui ancora nessuna consapevolezza della distinzione tra corporeo e incorporeo, tra materiale e spirituale. Parmenide con queste sue idee sull’uomo e sull’essere, prelude da un lato alla concezione dell’Assoluto e di Dio, e dall’altro alla concezione della indistruttibilità della materia: al principio che niente si crea e niente si distrugge.

La tesi parmenidea dell’inesistenza della pluralità delle cose suscita nei circoli scientifici del mondo ellenico la più viva reazione e anche gli scherzi più clamorosi. Parecchia gente sosteneva di confutare la dottrina di Parmenide dell’irrealtà del movimento, alzandosi e mettendosi a camminare.

«È necessario dire e pensare che l’essere è. L’essere infatti è,
mentre nulla non è; che è quanto ti ho costretto ad ammettere.
Da questa prima via di ricerca infatti ti allontano,
eppoi inoltre da quella per la quale mortali che nulla sanno
vanno errando, gente dalla doppia testa. Perché è l’incapacità che nel loro
petto dirige l’errante mente; ed essi vengono trascinati
insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi,
da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici
e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino.
Perché non mai questo può venir imposto, che le cose che non sono siano:
ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero
né l’abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa lungo questa via,
a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusori
e la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina
che io ti espongo».

(Parmenide, Sulla natura, V)

«Non resta ormai che pronunciarci sulla via
che dice che è. Lungo questa sono indizi
in gran numero. Essendo ingenerato è anche imperituro,
tutt’intero, unico, immobile e senza fine.
Non mai era né sarà, perché è ora tutt’insieme,
uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare?
Come e donde il suo nascere? Dal non essere non ti permetterò
né di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare
ciò che non è. E quand’anche, quale necessità può aver spinto
lui, che comincia dal nulla, a nascere dopo o prima?
Di modo che è necessario o che sia del tutto o che non sia per nulla.
Giammai poi la forza della convinzione verace concederà che dall’essere
alcunché altro da lui nasca. Perciò né nascere
né perire gli ha permesso la giustizia disciogliendo i legami,
ma lo tien fermo. La cosa va giudicata in questi termini;
è o non è. Si è giudicato dunque, come di necessità,
di lasciar andare l’una delle due vie come impensabile e inesprimibile (infatti non è
la via vera) e che l’altra invece esiste ed è la via reale.
L’essere come potrebbe esistere nel futuro? In che modo mai sarebbe venuto all’esistenza?
Se fosse venuto all’esistenza non è e neppure se è per essere nel futuro.
In tal modo il nascere è spento e non c’è traccia del perire.
Neppure è divisibile, perché è tutto quanto uguale.
Né vi è in alcuna parte un di più di essere che possa impedirne la contiguità,
né un di meno, ma è tutto pieno di essere.
Per cui è tutto contiguo: difatti l’essere è a contatto con l’essere.
Ma immobile nel limite di possenti legami
sta senza conoscere né principio nè fine, dal momento che nascere e perire
sono stati risospinti ben lungi e li ha scacciati la convinzione verace.
E rimanendo identico nell’identico stato, sta in se stesso
e così rimane lì immobile; infatti la dominatrice Necessità
lo tiene nelle strettoie del limite che tutto intorno lo cinge,
perché bisogna che l’essere non sia incompiuto:
è infatti non manchevole: se lo fosse mancherebbe di tutto.
È la stessa cosa pensare e pensare che è:
perché senza l’essere, in ciò che è detto,
non troverai il pensare: null’altro infatti è o sarà
eccetto l’essere, appunto perché la Moira lo forza
ad essere tutto intiero e immobile. Perciò saranno tutte soltanto parole,
quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero:
nascere e perire, essere e non essere,
cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore.
Ma poiché vi è un limite estremo, è compiuto
da ogni lato, simile alla massa di ben rotonda sfera
di ugual forza dal centro in tutte le direzioni:
che egli infatti non sia né un po’ più grande né un po’ più debole qui o là è necessario.
Né infatti è possibile un non essere che gli impedisca di congiungersi
al suo simile, nè c’è la possibilità che l’essere sia dell’essere
qui più là meno, perché è del tutto inviolabile.
Dal momento che è per ogni lato uguale, preme ugualmente nei limiti».

(Parmenide, Sulla natura, III)

«La traduzione della nostra lingua nella parola che le è più propria rimane sempre la cosa più difficile. Così, per esempio, la traduzione della parola di un pensatore tedesco nella lingua tedesca è particolarmente ardua, poiché si mantiene qui l’ostinato pregiudizio secondo il quale comprenderemmo la parola tedesca da sè, dal momento che appartiene senza alcun dubbio alla nostra lingua, mentre, al contrario, nel tradurre una parola greca dobbiamo prima studiare questa lingua straniera. Tuttavia, in che misura e perché ogni colloquio e ogni dire siano un tradurre originario in seno alla propria lingua, e che cosa in tal caso significhi propriamente “tradurre”, sono questioni che qui non possono essere discusse in modo approfondito. Forse nel corso di questa lezione introduttiva sull’alètheia avremo talora l’occasione di esperire qualcosa in proposito. Per essere nella condizione di tradurci nell’ambito della parola greca àlètheia, e quindi di poter d’ora innanzi dire tale parola pensandola, dobbiamo prima risvegliarci e seguire l’indicazione fornitaci anzitutto dalla parola che traduce “svelatezza”. Tale indicazione mostra per così dire la direzione del tradurre. Se ci limitiamo ai suoi tratti principali, l’indicazione conduce a un qualcosa di quadruplice». (M. Heidegger, Parmenide, tr. it., Milano 1999, pp. 49-50).

Zenone di Elea (490-430 a.C)

Discepolo di Parmenide, prese le difese della dottrina del maestro con una serie di argomentazioni che conducevano all’assurdo le idee dei sostenitori del movimento. Aristotele chiamò Zenone l’inventore della dialettica, giacché la dialettica è l’arte di argomentare partendo non già da premesse vere, ma da ipotesi ipotetiche ammesse dall’avversario.

Zenone ha esercitato una potente influenza stimolatrice del pensiero filosofico posteriore forzandolo ad una analisi approfondita dei concetti dell’infinito e di continuo, di numero, di tempo, di spazio, di movimento, che per l’innanzi erano passivamente ammessi con ingenuo dogmatismo.

Le origini di un metodo che si chiama dialettico le troviamo negli argomenti di Zenone contro il movimento e la molteplicità. Famosi sono il paradosso di Achille che non raggiunge la tartaruga, della freccia che non giunge al bersaglio. Zenone vi applica il principio di non contraddizione (considerato da Aristotele l’assioma fondamentale del sapere), cioè è impossibile che una stessa cosa sia e insieme non sia, ovvero se una teoria contiene in sé una contraddizione non può essere vera. Con le sue argomentazioni Zenone conferma la tesi di Parmenide secondo cui l’essere vero non è quello in cui viviamo, quindi, se si scambia il mondo apparente con quello reale, parlando di molteplicità e movimento si incontrano contraddizioni delle quali non si viene più a capo .

In Zenone la dialettica è soltanto un metodo. Fa difetto il momento concreto del dialogo tra persone che svilupperà Socrate. È con un colloquio incessante, un continuo dialogo interpersonale, rapportandosi con gli altri, uomo tra gli uomini, che Socrate persegue la sua ricerca della verità. La dialettica è un insieme di tecniche, ed egli con la sua ironia ne sfrutta le potenzialità. Utilizza l’arma del dubbio e manovra abilmente la tecnica della confutazione (dimostrare la falsità di un discorso, di un pensiero) dimostrando così l’inconsistenza delle tesi del suo antagonista.

«Se infatti venisse aggiunto a un altro essere non lo renderebbe per nulla maggiore. Difatti, non avendo esso grandezza alcuna, quando venga aggiunto non è possibile che nulla aumenti di grandezza. E così senz’altro ciò che venne aggiunto non sarebbe nulla. Se poi, quando venga sottratto, l’altro essere non diventerà per nulla minore, e neppure, d’altro canto, quando quello venga aggiunto questo diventerà maggiore, è chiaro che non era nulla né ciò che venne aggiunto né ciò che venne sottratto.

«Qualora l’essere non avesse grandezza neppure sarebbe, se esiste, è necessario che ciascuna cosa abbia una certa grandezza e spessore e che in essa una parte disti dall’altra. Lo stesso ragionamento vale anche della parte che sta innanzi: anche questa infatti avrà grandezza e avrà una parte che sta innanzi. Questo vale in un caso come in tutti i casi: nessuna infatti di tali parti sarà l’ultima e non è possibile che non ci sia una parte a precedere l’altra. Così, se sono molti, è necessario, che essi siano piccoli e grandi: piccoli fino a non avere grandezza, grandi fino a essere infiniti». (Frammenti, 25-29)

«A noi pare prima di tutto necessario collocare la Stoa nella storia. Ciò significa due cose: primo, descrivere la situazione della società greca nel tempo in cui vissero i filosofi stoici, perché i loro pensieri sono l’espressione delle intenzioni di strati sociali determinati in una determinata situazione storica; secondo, tener conto che “la Stoa” non rappresenta un sistema stabilito una volta per tutte, mediante il quale si possa porre una sezione trasversale, ma ha addirittura avuto uno sviluppo storico e, per conseguenza, le tesi di Zenone, nonostante l’identità verbale, nei suoi successori mutano spesso in larga misura il loro contenuto». (Heinrich und Marie Simon, Die alte Stoa und ihr Naturbegriff. Ein Beitrag zur Philosophiegeschichte des Hellenismus, ns. tr., Berlin 1956, p. 9).

Empedocle (492-432 a.C.)

Empedocle di Agrigento fu naturalista e medico, mistico e mago. Nel cercare il principio delle cose, egli si riconnette agli ionici. Questi avevano considerato alcune sostanze come fondamentali: ma tra esse ognuno ne sceglieva una sola come principio originario e le altre le abbassava al livello di effetti della trasformazione di quella. Empedocle afferma invece l’uguale originarietà di quelle sostanze, affermando che quattro sono le radici di tutto: terra, aria, acqua e fuoco. Non per questo il nascere, il morire e la trasformazione sono fatti illusori: gli esseri particolari nascono e muoiono e mutano in varie proporzioni di mescolanza degli elementi: il morire consiste nel dissolversi di essi.

Il mescolarsi e il dissolversi degli elementi sono processi dovuti al gioco di due forze esterne alle quattro radici e eternamente lottanti tra di loro: l’Amore e l’Odio, l’Amicizia e la Contesa. Un organismo rimane in vita finché agisce una forza che tiene legati armonicamente degli elementi disparati; unendo il dissimile col dissimile. La morte dell’organismo è determinata da una forza opposta, l’Odio, che separa questi elementi dissimili e fa tornare la terra alla terra, l’acqua all’acqua, l’aria all’aria, il fuoco al fuoco. La lotta eterna tra codeste due forze fondamentali genera la storia del mondo. Questa si svolge in un ciclo eternamente ricorrente, che ha identico il suo inizio e il suo termine: termine provvisorio, punto di arresto temporaneo, dopo il quale si riapre un nuovo ciclo cosmico. I quattro princìpi e le due forze spiegano ogni cosa del mondo nel suo mutare a livello di esperienza e nel suo permanere identico a livello dei princìpi. Inoltre questi sei elementi servono a spiegare anche la conoscenza, che è possibile secondo Empedocle proprio perché il simile conosce il simile, e quindi siccome tutto è composto dagli stessi princìpi così sarà possibile la conoscenza umana. Empedocle non distingue fra sensazione e pensiero, e ritiene che l’uomo pensi mediante il sangue, perché è prossimo al cuore e perché sarebbe un miscuglio perfettamente proporzionato dei quattro elementi: questa concezione emo-cardiocentrica costituisce un passo indietro rispetto a quella encefalocentrica di Alcmeone, Ippocrate e Anassagora.

Tornando al processo, ogni cosa è formata dall’aggregarsi degli elementi fondamentali, Empedocle parla di un ciclo amore-odio-amore, vale a dire aggregazione-disgregazione-aggregazione. La formazione di questi aggregati è del tutto casuale e il tutto avviene all’interno di una ferrea necessità per la quale ciò che accade non potrebbe non accadere.

«O amici, che la grande città lungo il biondo Akragas
abitate nell’alto della polis, occupati in opere buone,
venerabili porti di stranieri, inesperti di cattiveria,
salve! Io tra voi come un dio imperituro, non più mortale,
cammino onorato da tutti, come pare,
cinto di nastri e di corone fiorite.
E da quelli cui giungo in fiorenti città,
uomini o donne, sono riverito: essi mi seguono
a miriadi, cercando qual è la via verso il vantaggio,
gli uni consultando la divinazione, gli altri per malattie
d’ogni genere chiedono di udire la voce guaritrice,
trafitti da tempo da aspri dolori».

(Purificazioni, 31 B 112).
«Ascolta anzitutto le quattro radici di tutte le cose:
Zeus lo splendido, Era la vivificante, poi Idoneo
e Nesti, che con lacrime alimenta la sorgente mortale».

(Purificazioni, 31 B 6).
«Ti dirò un’altra cosa: nascita non c’è di nessuna
cosa mortale, né alcun termine di morte distruttrice,
ma c’è solo mescolanza e scambio di cose mescolate,
e questa viene chiamata “nascita” tra gli uomini».

(Purficazioni, 31 B 8).
«Stolti: infatti non hanno pensieri a lungo riflettuti
coloro che s’aspettano che nasca il precedente non ente
o che muoia qualcosa o che si distrugga del tutto.
Perché dal non ente non c’è modo di nascere
e che l’ente si distrugga è impossibile e incredibile:
sempre infatti sarà così come uno ogni volta lo fissa».

(Purificazioni, 31 B 11-12).
«Dirò due cose: talora cresce per diventare uno
da più cose, talaltra di nuovo si scinde per essere più cose da una. [...]
E questo scambio continuo delle cose non cessa mai,
talora convergendo tutte quante in una cosa sola con Amorevolezza,
talaltra di nuovo separandosi ciascuna nell’inimicizia dell’Odio».

(Purificazioni, 31 B 17, 1-8).
«Tu osservala con la mente, e non essere stupito con gli occhi:
essa è ritenuta innata nei corpi mortali,
grazie ad essa desiderano amicizia e compiono opere concordi,
chiamandola con l’appellativo di Delizia e Afrodite.
Nessun uomo mortale la riconobbe mentre a loro si volgeva: ma tu senti le parole veritiere del discorso».

(Purificazioni, 31 B 17, 21-26).

«Di tanto in tanto, soprattutto nelle pagine non pubblicate, viene fuori che proprio in tutti questi campi egli conserva degli ideali che non soggiacciono alla critica – Goethe nell’arte, Spinoza nella filosofia, Eraclito ed Empedocle nella poesia filosofica, e Zarathustra nella religione e morale. Per questo Così parlò Zarathustra è la sua opera più costruttiva, perché qui egli dà il suo mito di una religione non negativa, che pallidamente si appoggia a un personaggio storico. Per contro la critica alla religione negativa non è mai da lui condotta convincentemente sino in fondo: il suo obiettivo è Schopenhauer, colpito nei punti deboli, ma non toccato nella sua profondità, mentre la religione e la filosofia indiana non è mai affrontata di petto. All’apparenza, il suo nichilismo – distrutto arte, filosofia, religione, scienza, morale – lascerebbe sussistere soltanto l’uomo politico, nella sua naturale violenza. Ma quest’apparenza è esattamente agli antipodi della sua intenzione». (G. Colli, La ragione errabonda, Milano 1982, p. 149).

Anassagora (499-428 a.C.)

Per Anassagora le sostanze sono irriducibili l’una all’altra per le loro differenze di qualità, ma se noi li dividiamo all’infinito notiamo che sono omogene tra di loro e col corpo stesso che si è diviso. Dividiamo un organismo animale nelle sue membra: queste risultano eterogene tra loro, braccia, gambe, testa, ecc. Dividiamo ancora ognuna di queste membra nelle sue parti; anche queste ci risultano eterogene: muscoli, ossa, nervi, tendini. Ma se dividiamo l’osso nelle sue particelle, ognuna di queste particelle è identica a quella delle altre particelle del corpo stesso che è stato diviso.

L’origine dell’universo, secondo Anassagora ebbe luogo così: da principio tutte le sostanze erano insieme mescolate in modo perfetto ed in particelle così piccole che era impossibile distinguere le qualità proprie di ognuna di esse, perciò il miscuglio non presentava alcuna qualità determinata. L’universo ebbe origine quando in seno a questa massa omogenea ed inerte, si originò un moto rotatorio, tendente a separare le une dalle altre sostanze insieme mescolate e aggregarle secondo la loro similarità: moto che si è poi propagato ad una zona sempre più vasta del miscuglio e che continua ancora. Ma questo moto di separazione, che dà origine ai vari esseri particolari, si compie in maniera che l’unità originaria del Tutto non vada perduta, ma si conservi e in un certo senso si produce in ognuno degli esseri particolari. Tutto è in tutto, ossia, nessuna sostanza originaria può mai esistere per se stessa, separatamente da tutte le altre. Quindi perchè tutto è in tutto, tutto può derivare da tutto, e perciò è possibile l’apparizione di una nuova qualità nella materia, senza che questa implichi l’apparizione di qualche cosa di nuovo nel mondo.

Per quanto riguarda l’essere che ha impresso alla materia il movimento onde è generato e si genera il moto, Anassagora, definisce che sia stato l’Intelletto, la più sottile e pura delle cose. Come si vede questa idea di Anassagora è un poco oscura e ricorda quella dell’aria di Anassimene.

«Socrate: Ma ecco che un giorno io sentii un tizio che leggeva un libro di Anassagora, almeno così mi diceva, dove c’era scritto che esiste una Mente ordinatrice, causa di tutte le cose. Io mi rallegrai al pensiero che ci fosse una Mente, causa di tutto e lo trovai giusto: se è così, pensai, questa Mente ordinatrice, deve effettivamente presiedere all’ordine universale e disporre nel modo migliore possibile ogni cosa. Se uno, dunque, volesse trovare la causa di ciascuna cosa, come essa, cioè, nasca, perisca o esista, costui deve scoprire, di ciascuna cosa, il suo modo migliore di essere, di subire o di fare alcunché. Partendo da questa premessa, io ritenni che un uomo, se avesse voluto indagare su se stesso o sulle altre cose, non avrebbe dovuto far altro che scoprire ciò che è perfetto ed eccellente; questo lo avrebbe necessariamente portato a conoscere anche il pessimo, perché unica è la scienza in proposito. E, così ragionando, io mi rallegravo di aver trovato chi avrebbe potuto insegnarmi, nel modo a me più confacente, le cause di ciò che è, Anassagora, che mi avrebbe detto se la terra è piatta o è rotonda e poi me ne avrebbe spiegato la causa e la necessità, persuadendomi del perché è meglio che sia così; e se avesse affermato che la terra è il centro dell’universo, mi avrebbe certamente anche spiegato perché è meglio che essa stia al centro. Oh, se mi avesse spiegato tutto questo io ero pronto ad abbandonare ogni altra ricerca sulla causalità delle cose. Naturalmente ero disposto a ricevere un simile insegnamento, anche per ciò che riguarda il sole, la luna e gli altri astri, la loro reciproca velocità, le loro orbite, le altre loro vicende e sentirmi dire perché è meglio che ciascuno di essi produca o subisca simili fenomeni. In effetti io non avrei mai pensato che egli, dichiarando che tutte queste cose erano state ordinate da una Mente, poi attribuisse loro una causa diversa da questa, che cioè il meglio per esse è di essere come sono; quindi, ritenevo che egli, dopo aver attribuito a ciascuna di esse e a tutte insieme questa causa, avrebbe chiarito quale fosse il meglio per ciascuna e il bene comune a tutte. Ah, a nessun costo avrei ceduto queste speranze e così, con grande entusiasmo, mi gettai sui suoi libri e li lessi di furia per sapere, il più presto possibile, il meglio o il peggio delle cose». (Platone, Fedone, XLVI).

«La città è il primo saldo e consistente organismo collettivo di raggruppamento sociale. Quando ai nostri tempi Max Weber ne studierà la storia e il carattere dovrà riconoscere che le origini della città possono essere varie, sia il campo trincerato che la fortezza e il mercato o, in generale, l’insediamento mercantile. Ma ciò che decide dell’importanza della città greca per la civiltà è il fatto che la polis non è soltanto una realtà storica ma un problema e un’idea. Ponendosi il problema della città-Stato, i Greci hanno affrontato per primi la complessa dialettica dei rapporti tra individuo e Stato, tra situazione sociale, diritto, morale e religione e, infine, tra Stato e Stato. Risolvere questo problema era fondare l’ordine dei rapporti umani su una visione filosofica soprattutto per quanto riguarda i rapporti tra l’individuo, l’organismo politico e la trasformazione e la dialettica degli organismi politici. Nella Ionia si formano i primi nuclei cittadini ma nella Ionia nacque anche il primo grande e fecondo contrasto tra la libertà individuale e la struttura politica. Si trattava di risolvere soprattutto due punti. Primo: in che misura l’organismo collettivo doveva assorbire la personalità individuale e fino a che punto l’uomo doveva risolversi nel cittadino? Secondo: di fronte alle lotte sociali e alle lotte con le altre città e con gli altri Stati, di fronte cioè al processo della storia, fino a che punto la città poteva mutarsi e rinnovarsi, conservarsi e nello stesso tempo mutare se stessa? Se la città aveva alla base una concezione religiosa ed etica, che implicava una concezione generale della vita umana, un mutamento della città comportava un mutamento di quella visione generale e un mutamento della tradizione etico-religiosa. Fu chiaro per gli Ioni che il problema della vita umana e cittadina richiedeva un saggezza ed un sapere di carattere generale, una concezione della natura e della vita fondata su princìpi universali, in breve una vera e propria filosofia. Il problema della città conduce alla filosofia e la filosofia a sua volta conduce alle riforme e alla trasformazione della vita della città e dei suoi fondamenti religiosi etici e sociali. Da vari punti di vista ed in vario modo i filosofi diventeranno così i teorici e i critici della polis e la filosofia dovrà rinnovare l’idea della polis e scontrarsi con la concezione della vita già codificata e tradizionalmente accettata dalla città-Stato; alla fine la critica filosofica, con Alcidamante, si porrà contro l’istituzione basilare della società greca, contro la schiavitù. Empedocle, tra i filosofi presocratici, rappresenta quasi miticamente il contrasto dialettico tra la filosofia e la polis. Quando la filosofia dalle colonie si trasporterà nella madrepatria, Anassagora, pur amico di Pericle, subirà il primo processo di empietà; Protagora, accusato di ateismo, dovrà prendere la via dell’esilio; ed infine Socrate rappresenterà sempre, per l’umanità, il tipico contrasto dialettico tra la filosofia, incarnata in un individuo che annuncia un nuovo vangelo etico, e la tradizione storico-politica e religiosa. Giacché se il contrasto, all’interno della città, era contrasto tra classi, e tra le libertà individuali e lo Stato, il filosofo rappresenta spesso l’urto tra la forza storica conservatrice, che tende a permanere uguale a se stessa e a fissarsi in concezioni ed ordinamenti stabiliti, e la tendenza al rinnovamento in funzione di nuove idee, di una nuova ed emergente concezione del mondo. Per l’ordine tradizionale delle città l’individualità filosofica che parla in nome di una saggezza universale e in nome della ragione sarà un’individualità pericolosa e rivoluzionaria. Se la polis deve fondarsi sull’armonia tra gli individui e lo Stato, l’individualità filosofica, richiamandosi alla ragione e alla saggezza, rappresenta l’esigenza del rinnovamento storico, e mentre da un lato cerca di sottomettere la polis all’enciclopedia filosofica del sapere, dall’altro considera la polis transeunte, mutevole, trasformabile secondo nuove concezioni scientifiche e filosofiche. La libera individualità degli Ioni sente profondamente che lo Stato non esaurisce l’umanità, che la personalità umana ha un valore più profondo dello Stato. La poesia ionica-eolica (Archiloco, Semonide d’Amorgo, Mimnermo, Alceo, Saffo) rappresenterà in forma eminente la scoperta dell’autonomia della persona umana mentre la filosofia darà addirittura, all’uomo che ha scoperto se stesso come individuo, un sapere universale che si porrà di fronte alla città in funzione critica e rinnovatrice. Quando l’individuo, di cui la poesia ionica ed eolica ci testimoniano l’autoformazione, scoprirà in sé i principi ed i mezzi di una saggezza che, pure nata da lui, cercherà di conquistare un valore superindividuale, nasceranno le prime sintesi filosofiche vere e proprie. Il problema della polis è dunque strettamente collegato al problema della filosofia. È il problema del rapporto, sentito vissuto e sperimentato soprattutto dagli Ioni, tra l’illimitata libertà individuale e la disciplina politico-sociale, tra gli esseri molteplici, tra loro distinti e separati, e l’unità che deve accordarli, problema che i filosofi sapranno elevare alla sua più alta universalità. Diventerà allora sia il problema del divenire storico della natura e della vita, che il problema della permanenza di una realtà che superi il divenire o lo regoli secondo una legge. Sarà il problema del divenire di Eraclito e dell’essere di Parmenide». (E. Paci, Storia del pensiero presocratico, Torino 1957, pp. 30-31).

L’atomismo

Nell’atomismo noi troviamo quella distinzione che nei tempi moderni sarà detta distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie. Le prime sono quelle inerenti agli oggetti quali sono in se stessi, derivati cioè da rapporti meccanici tra gli atomi: così ad esempio: il pesante e il leggero, il duro ed il molle. Le seconde: il sapore, l’odore, la temperatura, il calore, ecc, sono modificazioni della sensibilità, il cui contenuto dipende sì dalla forma degli atomi di cui si costituisce l’oggetto, ma non esiste in natura e si costituisce soltanto attraverso il rapporto in cui quegli atomi vengono a trovarsi con gli organi di senso.

La mutabilità e la relatività delle sensazioni fa sì che esse possano darci soltanto una conoscenza oscura non genuina della realtà. Distinta da essa è la conoscenza schietta che ci dà la verità. Compito della scienza è appunto quello di scoprire quali processi reali sfuggenti alla percezione diretta si compiono sotto i fenomeni che i nostri sensi apprendono.

«Riguardo ai primi Presocratici Popper rileva: “In essi troviamo concezioni audaci e affascinanti, alcune delle quali costituiscono anticipazioni singolari, e addirittura sorprendenti, di moderne acquisizioni, mentre molte altre sono assai lontane dal bersaglio, da un moderno punto di vista, ma la maggior parte di esse, e proprio le migliori, non hanno comunque niente a che fare con l’osservazione”. Egli considera poi le teorie di Mileto sulla forma della terra e il modo in cui vengono sostenute. Talete pensava che la terra galleggiasse sull’acqua come un tronco (così anche Aristotele) o come una nave (così Seneca, ripetendo Teofrasto); i terremoti erano provocati dall’oscillazione dell’acqua sotterranea. Popper ammette che l’analogia della nave, in Talete, deve essersi basata sull’osservazione, ma sostiene che per la congettura che la terra è sorretta dall’acqua egli “non poteva trarre alcuno spunto dalle sue osservazioni”. Più oltre leggiamo che la teoria di Talete, “per quanto non fondata in nessun senso sull’osservazione, è perlomeno ispirata da un’analogia empirica e osservativa”. La distinzione tra “fondata in” e “ispirata da” è piuttosto speciosa, ma ciò che egli ha in mente è che nella natura non c’è nessuna prova diretta che la terra galleggi sull’acqua (benché io possa osservare che lo scaturire delle sorgenti di sotto la superficie della terra, per esempio, potrebbe prendersi come una prova indiretta). Concediamolo pure a favore dell’argomento. Dobbiamo perciò inferire, con Popper, che la teoria di Talete deve essersi fondata su un’intuizione non empirica? Tale supposizione, diversamente da quella che è in se stessa, dimostra che Popper non prende affatto in considerazione tutte le recenti discussioni su Talete. Qui non si tratta delle “minuzie della critica testuale”, ma della conoscenza generale della mitologia del Vicino Oriente e della sua influenza sulla cosmologia greca. Limiti della creazione delle culture fluviali della Mesopotamia e dell’Egitto hanno immaginato il mondo come costruito su una zattera sull’acqua primordiale o come emergente di sotto la sua superficie. Quest’ultima è la comune versione egiziana; non è difficile vedere quanto fosse naturale questa idea per un popolo la cui vita girava tutta intorno all’emergere, ogni anno, dei loro campi rivitalizzati in seguito al recedere delle acque del Nilo. Benché mitica nella forma, quindi, questa idea era solidamente fondata, per gli Egiziani, sull’osservazione e l’esperienza. Appare largamente diffusa anche la concezione che vi fossero delle acque sotto la terra – in Mesopotamia, ovviamente, nello stesso Egitto (la nave del sole naviga ogni notte sotto la terra), e nell’Antico Testamento (per es. Tehom è l’“abisso nel profondo”, Genesi 49, 25). Il lume Oceano che circonda la terra, in Omero, e la sua descrizione atipica nel libro 14 dell’Iliade come “origine di tutto”, sono quasi certamente prodotti indiretti del medesimo complesso di idee. La cosmologia di Talete, nel suo aspetto principale, è un altro prodotto, in cui però è stata abbandonata la forma mitologica. In questo, e senza dubbio nel rendere esplicito ciò che prima era solamente implicito – in particolare, che è questo il modo in cui il mondo è sorretto –, risiede in gran parte la sua importanza storica. Per Talete, tuttavia, la prova è così esile, che non possiamo dire con tutta certezza che la sua teoria si basava su precedenti racconti mitologici – ai quali, comunque, egli aveva accesso attraverso l’Egitto (un paese per il quale mostrò grande interesse e che può aver anche visitato), probabilmente attraverso l’Iliade. Nondimeno è assai probabile che la sua teoria fosse fondata in questo modo – o quanto meno perfettamente possibile. Non sarebbe stato meglio per Popper informare i suoi uditori e lettori di questa possibilità? In tal modo essi sarebbero stati in grado di vedere più chiaramente che 1’“intuizione” di Talete può anche aver avuto, dopo tutto, il suo ultimo fondamento in un’esperienza affatto specifica: non dello stesso Talete, bensì degli influenti popoli fluviali, coi quali ebbe origine, molto tempo prima, il racconto largamente diffuso. Pertanto, la teoria di Talete sul modo in cui la terra è sorretta si fonda probabilmente nell’esperienza, benché forse non in prima istanza nella sua esperienza personale. Il fatto che questa esperienza fosse cristallizzata e ridotta in forma mitica, per essere poi di nuovo razionalizzata da Talete, non ne sminuisce la natura empirica, quantunque diminuisca la qualità “scientifica” della teorizzazione di Talete su questo punto. In tal contesto, ciò rende Talete addirittura meno valido come esempio del metodo intuitivo nella scoperta scientifica, che Popper cerca di illustrare. Possiamo essere ben certi che Talete non disse a se stesso: “Io devo razionalizzare un mito o due”. La natura pragmatica di molte sue attività, come le sue gesta di misurare e deviare un fiume, e così via, indica che egli deve essersi servito delle sue osservazioni personali, come pure di teorie preesistenti, per isolare e risolvere un problema fisico. Potrebbe aver usato anche l’intuizione – ciò si può ammettere; ma un’intuizione basata su e sorretta da l’osservazione e l’esperienza. Popper afferma che la teoria di Talete “anticipa così singolarmente la moderna teoria della deriva dei continenti”. Noi dobbiamo respingere questa implicazione che il modo in cui si formò la sua teoria abbia poi avuto una rilevanza specifica per lo studio del metodo scientifico. La coincidenza tra la teoria antica e quella moderna non è né notevole né significativa. Non è nemmeno particolarmente “singolare”, dato il fenomeno del pensiero presocratico. I Presocratici tiravano fuori teorie cosmologiche d’una tale varietà e immaginazione, che la cosa singolare sarebbe che non si fosse trovata una qualche coincidenza tra quelle e le moderne esposizioni cosmologíche. Pochissime di queste coincidenze sono realmente significative; tuttavia, la coincidenza tra l’atomismo antico e quello moderno è un’eccezione fino a un certo punto, giacché, sebbene i motivi e l’essenza di ciascuno siano del tutto distinti, fu la conoscenza storica della teoria antica a promuovere le teorie atomistiche del XVIII secolo. Dubito però che sia stato Talete a suggerire a Wegener l’idea della deriva dei continenti». (G. S. Kirk, Popper on Science and the Presocratics, in Aa.Vv., Studies Presocratic Philosophy, ns. tr., London 1970, pp. 163-165).

I sofisti e Socrate

I sofisti vogliono essere educatori della vita dei giovani greci della classe dirigente. E nello stesso tempo vogliono tradurre in termini e formule di riflessione lo spirito della società in mezzo a cui vivono. Si presentano come maestri di sapienza e di virtù, e come maestri di retorica ossia l’arte di persuadere con l’eloquenza. I sofisti da ogni parte del mondo greco affluirono ad Atene, senza però stabilirvi dimora: passavano girovagando da città in città, ovunque raccogliendo allori e denari, in quanto essi furono i primi ad esigere un compenso per il loro insegnamento, ciò che li fece apparire ai Greci più attaccati alla tradizione, dei mestieranti e degli affaristi

Protagora (485-410 a.C.)

L’umanesimo che è caratteristico del movimento spirituale di quest’epoca, ha la sua espressione più esplicita e sintetica nella formula di Protagora: “di tutte le cose è misura l’uomo, di quelle che esistono in quanto esistono e di quelle che non esistono in quanto non esistono”. Difatti supponendo un oggetto senza soggetto, un essere privo di qualsiasi corrispondenza con la coscienza umana, si vede come noi nulla possiamo dire sulla sua natura, sarebbe come inesistente.

L’uomo misura delle cose. Ora, secondo Protagora, l’uomo come misura delle cose non è altro che un fluire continuo di impressioni sensoriali; egli è coscienza sensoriale: vedere, udire, sentire, gustare. La sensazione provoca risultati differenti da soggetto a soggetto, una cosa può essere dolce per una persona e amara per un’altra; un soffio d’aria può essere caldo per una persona e freddo per un’altra. Perciò Protagora giunge a dire che la verità delle cose è relativa ai vari individui, anzi ai diversi momenti e stati dei vari individui. Fissare una verità che valga per tutti significherebbe volere fermare quella corrente mutevole che costituisce la realtà, non soltanto della natura esterna, ma della stessa vita interiore dell’uomo.

«Socrate: E allora, Protagora, come ci regoleremo con la tua teoria? Dovremo dire che gli uomini hanno sempre opinioni vere, oppure che le hanno ora vere ora false? In tutti e due i casi, mi sembra, ne viene che non hanno sempre opinioni vere, ma sia vere sia false. E difatti, Teodoro, c’è sempre un seguace di Protagora, o tu stesso, che non sosterrebbe che un altro è ignorante o ha opinioni false?

Teodoro: Non sarebbe credibile, Socrate.

S.: Eppure, proprio a questo dovrebbe portare la sua teoria dell’uomo misura di tutte le cose.

T.: In che modo?

S.: Quando tu [...] esprimi un’opinione, questa, secondo la teoria di Protagora, dovrebbe essere vera; ma per gli altri? [...] Non succede mille volte che ti oppongano opinioni contrarie, sostenendo che pensi il falso?

T.: Per Zeus, Socrate, mille volte sì.

S.: E allora? Vuoi che diciamo che in tali circostanze per te la tua opinione è vera, per quei mille falsa?

T.: È necessario, almeno in base a quella teoria.

S.: E riguardo a Protagora stesso? Se non avesse pensato che l’uomo è misura [...] questa verità non esisterebbe per nessuno, no? Se invece l’ha pensata, ma i più non sono d’accordo, tu capisci che quanto maggiore è il numero di quelli a cui non pare, tanto meno essa è [vera].

T.: È inevitabile, se è vero che è o non è a seconda dell’opinione di ciascuno.

S.: E c’è un’altra conseguenza, più raffinata: riconoscendo che tutte le opinioni sono vere, Protagora viene ad ammettere l’opinione dei suoi oppositori, secondo cui lui è nel falso.

T.: Non c’è dubbio.

S.: Via, facciamo a Protagora o a un altro qualunque di quelli che professano la stessa dottrina sua, questa domanda: – “Di tutte le cose” come voi dite e tu dici, o Protagora, bianche pesanti leggere, e insomma di tutte quante, senza eccezione, le cose di questo genere, “è misura l’uomo”: infatti, avendo in se stesso ogni uomo la misura per giudicarle, poiché pensa che esse siano tali qual è l’impressione che ne riceve, egli pensa cosa che per lui sono realmente vere e presentemente esistenti. Non è vero?

T.: Sì.

S.: Ma anche per le cose future noi diremo, o Protagora, che l’uomo ha in sé questa misura di giudizio; e, quali pensa che esse saranno, tali anche effettivamente saranno per colui che così ha pensato? Prendiamo, per esempio, il caldo: se uno, non medico, pensa di se stesso che sarà colto da febbre e che quindi patirà questa specie di calore, e un altro, medico, pensa il contrario; come diremmo che andrà a finire la cosa, secondo l’opinione di uno dei due, o secondo l’opinione di tutti e due, cosicché a sentire il medico costui non avrà né caldo né febbre, a sentire lui stesso avrà l’una cosa e l’altra?

T.: Sarebbe un’assurdità da far ridere.

S.: Ma per sapere se un vino riuscirà dolce o aspro avrà peso, credo, l’opinione del vignaiolo, non quella del citarista.

T.: Certamente.

S.: Così pure di una scrittura musicale, se dovrà riuscire all’esecuzione scordata o accordata, il maestro di ginnastica non sarà miglior giudice del musico; sebbene poi anche il maestro di ginnastica la potrà giudicare, accordata o no.

T.: Non c’è dubbio.

S.: E se uno sta per essere convitato a un banchetto, il giudizio di lui, che di cucina non si intende, e mentre il banchetto è ancora in preparazione, sul piacere che ne avrà, sarà certo meno autorevole di quello del cuoco. Perché noi non dobbiamo più qui ormai ragionare e disputare del piacere che uno già prova o ha provato, bensì del piacere che uno proverà o crederà di provare nel futuro, se egli ne sia da sé a se stesso il giudice migliore, oppure no; e così, per esempio, anche dei discorsi che si dovran fare in tribunale, quali siano per essere a ognuno di noi persuasivi, potrai meglio tu, o Protagora, prevedere e giudicare, che uno qualunque di quelli che non se ne intendono.

T.: Ma di certo, Socrate; che anzi, in questo, egli dichiarava di essere di gran lunga superiore a tutti gli altri!

S.: E ne aveva ben ragione, amico mio; altrimenti nessuno gli avrebbe dato tanti denari per sentirlo disputare [...]. E dunque sarà ragionevole da parte nostra dire al tuo maestro [Protagora] che gli non può non riconoscere che uno è più sapiente di un altro; e che quello, sì, è misura; ma non c’è nessunissima necessità che abbia da essere misura io che sono un ignorante [...].

T.: Mi pare, o Socrate, che proprio entro codesto nodo sia stata chiusa e presa la dottrina di Protagora: essa che già in quest’altro era stata presa, quando lo stesso Protagora riconosceva valore alle dottrine altrui, le quali manifestamente negavano la verità della dottrina sua». (Platone, Teeteto, 166-178).

Il problema della giustizia

L’estremo relativismo riguardo alla verità in generale porta all’estremo relativismo anche nel campo della vita pratica. Nel passato era valsa, come criterio di distinzione tra giusto e ingiusto, la legge dello Stato consacrata dalla tradizione e dalla religione. Ma al senso critico di questa età non era sfuggito che le leggi degli Stati erano variabili, particolari, contraddittorie: quel che era giusto per uno Stato e in un dato periodo storico, diventa ingiusto in un altro Stato o in altro tempo. Si tratta dunque di determinare ciò che è per natura, fisso e uniforme attraverso il variare delle convenzioni sociali. I sofisti trovano la soluzione del problema nella distinzione che c’è tra gli uomini in deboli e forti: il debole per natura è destinato ad obbedire, giusto è per lui subire la violenza del forte. Il forte è destinato a comandare senza limite, giusto è per lui esercitare la violenza.

«Bisogna notare che la filosofia e il teatro greco furono, almeno in parte, gli eredi della religione orfica. In quanto la filosofia nasce dalla sintesi dell’individualismo del pensatore libero da ogni pregiudizio e dal valore universale del sapere essa eredita i due caratteri tipici dell’orfismo: l’individualismo e l’universalismo: saranno proprio questi due caratteri che, alla conclusione del pensiero presocratico, trionferanno in Ippia di Elide. Non solo ma la filosofia si presenterà come un’enciclopedia del sapere che avrà per scopo di rinnovare la vita storico-sociale e di trasformare la vita politica. In questo senso i filosofi presocratici e gli stessi sofisti sono gli eredi del vangelo etico sociale e religioso annunciato dalla grande e domata eresia orfica. Accanto alle teogonie orfiche bisogna ricordare quelle attribuite a Museo, ad Acusilao, ad Epimenide di Creta e a Ferecide di Siro. Nei Frammenti dei presocratici del Diels leggiamo questo verso attribuito a Museo: “Tutte le cose appare che nascano dall’uno e che nell’uno si dissolvano”. È chiara qui l’unità come un principio originario da cui tutto deriva e a cui tutto ritorna e si rivela in questa idea uno dei caratteri della filosofia greca: spesso, posta tra l’unità e la molteplicità, la filosofia greca si orienta verso l’unità. Ma l’unità, una volta riconosciuta come realtà prima ed ultima, come si accorderà con le molteplici cose del mondo? Il problema sarà fondamentale, non solo per tutti i presocratici, e in modo particolare per gli Eleati, ma anche per Platone che lo discuterà in uno dei suoi dialoghi più profondi: il Parmenide. Alla Ionia la madrepatria non è debitrice soltanto della poesia epica e della filosofia ma anche dell’istituto giuridico-politico della polis. Prima della colonizzazione i Greci abitavano in villaggi e borghi. Per conquistare l’Asia furono costretti, in terra nemica, a fortificarsi in campi trincerati, furono questi campi che formarono i primi nuclei della città. I coloni d’Asia, scrive Gaetano De Sanctis, furono per lunghi anni costretti a stanziare in permanenza entro le fortificazioni dei loro campi [...]. Quindi il formarsi di vere unità cittadine con propria vita economica, politica, religiosa, quasi isole nel territorio che talora era coltivato soprattutto dagli indigeni ridotti a servi della gleba. Codesta nuova organizzazione che i coloni si diedero per forza di cose si riverberò sulla madrepatria e fece che anche qui, di mano in mano che si attuavano le condizioni per un maggiore agglomeramento della popolazione, questa si organizzasse in città”. Nella “autonomia dei centri cittadini – continua De Sanctis – abbandonati ciascuno a sé, sta in Asia l’originalità loro di fronte all’ambiente anatolico, sta nello stesso tempo la loro forza e la loro debolezza: la forza, cioè l’impulso a quella attuazione concreta di tutte le libertà di cui per la prima volta nella storia universale fu teatro la Ionia; la debolezza, cioè la radice della incapacità degli Ioni a mantenere in vita quel fuoco di libertà che essi primi avevano acceso”». (E. Paci, Storia del pensiero presocratico, op. cit., pp. 28-29).

Socrate

La sofistica è espressione del generale indirizzo degli spiriti. Socrate con la sua filosofia, con il suo esempio e con l’insegnamento della sua morte indica alla coscienza greca una via per uscire da quella crisi. La sua opera fu un esame continuo: esame dell’anima propria e dell’altrui; per scoprire quello che fosse, per sé e per gli altri, per gl’individui e per la comunità sociale, il bene, il vero bene.

Egli, al pari di Protagora, considera l’uomo la misura di tutte le cose: ma non l’uomo dagli impulsi ciechi e dagli interessi mutevoli e passionali, che aveva presentato Protagora, ma un uomo come essere ragionevole. Tale individuo è spinto alla ricerca di ciò che vale per tutti gli uomini, quindi alla ricerca universale, nozioni comuni, princìpi e criteri fissi di misura.

Ma affinché l’uomo possa partire alla ricerca di queste cose, occorre che prima conosca la vera essenza del bene, quel bene nel cui conseguimento sta l’essenza stessa della vita. Conoscere il nostro vero bene significa quindi conoscere quello che noi siamo veramente. Conosci te stesso. Questo motto del tempio di Delfi fu assunto da Socrate come emblema di tutta la sua filosofia.

Per conoscere il nostro bene, e quindi noi stessi, bisogna stabilire quali sono le condizioni del sapere, ossia della verità e della certezza: bisogna vincere l’opinione scettica dei sofisti, per cui tutte le ide, anche opposte sono egualmente vere. Ora, secondo Socrate l’uomo è capace di accorgersi che basandosi sulle sensazioni è costretto continuamente a dire e a disdire. Quando si accorge che tutto ciò che ha è niente, cioè quando si rende consapevole della propria ignoranza, allora è in grado di superare l’ignoranza stessa e aspirare al vero sapere. Socrate si vanta continuamente di non sapere, e di sapere di non sapere, mentre gli altri non sanno e credono di sapere. Liberare gli altri da queste illusioni è il compito della filosofia di Socrate. I sofisti avevano dissertato su ciò che è bello, su ciò che è giusto, su ciò che è religioso, ecc. Socrate tronca gli indugi e non vuol sapere ciò che è bello, giusto e religioso; ma che cosa sia la bellezza, la giustizia e la religione. La speculazione di Socrate è condotta sotto forma di dialogo: l’interrogato è posto sotto processo dalla stringente dialettica di Socrate e si trova continuamente in contraddizione con se stesso, per cui giunge ineluttabilmente a convenire con Socrate sulla propria ignoranza; ottenendo così quel dubbio salutare che è il principio del sapere. Socrate in questa ricerca non giunge purtroppo a risultati definiti e compiuti, non trova una definizione soddisfacente di questo o di quel concetto: egli tende a mostrare la necessità di ricercare su ogni cosa una definizione.

Il vero sapere non si ha che per mezzo di concetti. E il concetto è trama di rapporti fissi, incorruttibili, immutabili tra dati sensoriali, contingenti, mutevoli. I casi di giustizia e ingiustizia sono infiniti: ma che cosa sia giustizia e ingiustizia, il concetto di queste due entità, è uno solo, sempre lo stesso. Il concetto è legge, secondo la quale i dati debbono essere organizzati.

« – Come determinare il valore relativo di un piacere e di un dolore se non nell’eccesso o nel difetto dell’uno rispetto all’altro, cioè nell’essere l’uno maggiore o minore, più o meno abbondante, più o meno intenso rispetto all’altro? Qualcuno potrebbe dire: – Ma c’è molta differenza, Socrate, fra il piacere immediato e il piacere o il dolore futuro; – ed io risponderei: – Questa differenza non è altro che la differenza tra piacere e dolore. Da uomo abile a pesare con esattezza, poni insieme i piaceri e insieme i dolori e aggiungi anche il peso del vicino e del lontano; e dimmi da che parte penderà la bilancia. Se misuri piacere con piacere dovrai scegliere sempre il piacere maggiore e più abbondante; se misuri dolore con dolore dovrai scegliere il dolore minore e più piccolo; se misuri il piacere col dolore e questo è superato da quello del piacere vicino dal lontano o il lontano dal vicino, dovrai scegliere tenendo conto di tutte le circostanze; ma se il dolore prevarrà sul piacere, dovrai astenerti dal piacere. Come è possibile condursi diversamente?... Se dunque la felicità dipendesse per noi dalla nostra attenzione scegliere nelle nostre azioni ciò che è più grande evitando ciò che più piccolo, quale sarebbe la condizione della nostra salvezza? Sarebbe essa l’arte di misurare o la sottomissione all’apparenza? Non ci farebbe quest’ultima deviare, facendoci scambiare continuamente le grandezze le une con le altre facendoci continuamente pentire degli atti con cui apprezzeremmo il grande ed il piccolo? L’arte di misurare rende invece vane queste illusioni, e, con la conoscenza della verità assicurando alle nostre anime una tranquilla salvezza nel possesso del vero, di salute alla nostra vita... Poiché è risultato evidente che la salute della nostra vita dipende dalla giusta scienza del piacere e del dolore, cioè da una scelta che calcoli il più e il meno, il maggiore ed il minore, il più lontano ed il più vicino, non è anche evidente che questa ricerca del più o del meno e dell’uguaglianza è una specie di misura? Tale misura non sarà necessariamente arte e scienza?». (Platone, Protagora, 353 c-357 b).

Ritornando sul concetto di bene in Socrate, egli insiste nel dire che il bene morale non è conosciuto, finché la conoscenza è fredda e astratta formula che non si traduce in elemento attivo della nostra stessa vita. Il bene si conosce nell’atto che viene operato. Conoscere il bene è la stessa cosa che amarlo, e amarlo non si può senza volerlo e praticarlo. I cattivi che non conoscono la virtù non hanno per Socrate alcuna importanza, in quanto pur conoscendo la superiorità di un bene si lasciano trasportare della passione verso un altro bene inferiore o al male.

L’ultima domanda che Socrate si pone è, qual è il bene o fine ultimo dell’uomo? la felicità. Tutti gli uomini, senza eccezioni, vogliono la felicità. La sola differenza tra essi è nel grado di conoscenza dei mezzi per il conseguimento di questo fine: chi più sa, riesce nel suo intento e quindi è più virtuoso. «Non rumoreggiate Ateniesi, per quel che dico, ma state ebeti a udire come vi ho pregato; che, udendo, penso che ne riceverete giovamento. Perché altre cose vi ho a dire io, che forse vi faran gridar forte: ma no, state quieti, via, sappiate che se ucciderete me che son quale dico, più che me, danneggerete voi medesimi. A me non farebbe niuno danno né Meleto né Anito, che non potrebbero; imperocché, seconda che credo io, non è lecito che il più buono possa essere danneggiato dal più tristo. Ucciderebbe egli, o caccerebbe in bando, o disonorerebbe; che forse le dette cose egli e alcun altro credono grandi mali; ma io no, male piuttosto è fare quello che costui fa, tentando di uccidere ingiustamente un uomo. Dunque io non difendo ora me per me, come penserebbe alcuno, ma per voi; acciocché condannando me, non pecchiate contro il dono di Dio. Invero se mi ucciderete, non vi sarà agevole cosa (la dirò anche se farà ridere) trovare un altro come me, messo da Dio addosso alla città come addosso a un grande e generoso cavallo, ma per la grandezza un poco sonnolento e abbisognoso di essere destato da sprone; che con tale ufficio direi che Dio ha deputato me alla città, me che scotendo, persuadendo, rampognando, vi sto tutto il dì addosso. Sì, cittadini, un altro come me non vi nascerà facilmente; e voi se mi date retta, mi risparmierete. Ma forse, da subita ira presi come sonnecchianti desti per forza, tirando calci, dando retta ad Anito, uccidereste leggermente e consumereste la rimanente vita dormendo, se pure l’Iddio non mandasse alcun altro, avendo di voi cura. E che io sia alla città un dono di Dio, potete intendere considerando che non par cosa umana che abbia trascurato i fatti miei, la mia casa, già è tanti anni, e curi i fatti vostri stando ai fianchi di ciascuno, predicando virtù, come padre o fratello più vecchio. E se da questi conforti e consigli mia utilità ne traessi, se ne ricevessi mercede, ci sarebbe una ragione. Ma vedete anche voi, che gli accusatori, pur accusandomi di tante altre cose spudoratamente, non hanno avuto tanta spudoratezza da addurre testimoni che io abbia patteggiato mai o dimandato mercede. Colui vuole dunque la mia morte? Sia. Ma che pena mi assegnerò da me, Ateniesi? È chiaro: quella che merito. E quale pena debbo patire o pagare, io, perciò che in mia vita non mi quietai mai dalla voglia di apprendere…». (Platone, Apologia, 30 c-40).

«Inoltre Agostino così scrive nel XII libro del De Trinitate: bisogna piuttosto credere che la natura dell’anima intellettiva è stata fatta in modo che in contatto con gli intelligibili li percepisca in una luce incorporea del suo stesso genere, allo stesso modo in cui l’occhio carnale percepisce ciò che lo circonda nella luce corporea. Questa luce con la quale la nostra mente intende è l’intelletto agente. Da questo consegue che l’intelletto agente appartenga all’anima e si moltiplichi per tanti quanti sono gli uomini e le anime. Ma perché si possa scrutare più profondamente l’intenzione di Agostino e conoscere la verità di questa questione, bisogna sapere che alcuni filosofi antichi, negando che vi fosse un’altra fonte di conoscenza al di fuori dei sensi e altri enti che non fossero sensibili, dissero che noi non possiamo avere alcuna certezza su ciò che è vero, e ciò in virtù di due ragioni. La prima dipendeva dal fatto che assumevano il continuo divenire delle cose sensibili senza che nulla vi potesse essere di stabile. La seconda derivava dal fatto che diversi giudicavano diversamente circa il medesimo oggetto, come se fossero gli uni svegli, gli altri dormienti, gli uni malati, gli altri sani. Né si poteva trovare un criterio per stabilire chi di questi giudicasse più veritieramente, per una vicinanza oggettiva alla verità. E queste sono le due ragioni a causa delle quali Agostino riferisce che gli antichi dissero che noi non possiamo conoscere la verità. Fu per questo che Socrate, disperando di poter cogliere la verità ultima delle cose, si dedicò tutto all’etica. Ma Platone, suo discepolo, pur convenendo con i filosofi antichi che le cose sensibili sono in perpetuo divenire e che la virtù non può raggiungere un giudizio certo intorno alle cose, al fine di stabilire i fondamenti della scienza pose da una parte le forme delle cose separate dalle cose sensibili e per loro stesse immutabili, e disse che queste erano il fondamento; dall’altra parte pose nell’uomo una potenza cognoscitiva, superiore al senso, la mente cioè o l’intelletto illuminato da un certo superiore sole intellegibile. Agostino, poi, dopo aver seguito Platone per quel tanto che era possibile alla fede cattolica, non stabilì che le forme delle cose fossero per sé sussistenti, ma le pose come archetipi delle cose nell’intelletto divino, e argomentò che noi giudicassimo, mediante loro, di tutto per mezzo dell’intelletto illuminato dalla luce divina; però noi non giudichiamo vedendo gli archetipi stessi, cosa che sarebbe impossibile a meno di dire che noi vediamo l’essenza stessa di Dio; ma intendeva dire che noi giudichiamo in virtù di ciò che quelle ragioni supreme imprimono nella nostra mente». (S. Tommaso, Quaestiones Disputatae, De spiritualibus creaturis, tr. it., vol. II, Torino 1953, pp. 407-410).

Platone

Platone nacque ad Atene nel 427 a. C. da famiglia nobile. Egli passò gli anni della sua giovinezza in quel periodo della storia di Atene, quando questa perdette l’egemonia sulla Grecia, che passò a Sparta. Alla famiglia di Platone appartenevano rappresentanti cospicui del partito aristocratico, ed in questo dovette dapprima militare lo stesso Platone. Ma ben presto egli si ritirò dalla politica disgustato dalla meschinità e dalle ingiustizie. Questo disgusto per le miserie della vita sociale presente lo indusse a rifugiarsi nella contemplazione di uno Stato ideale conforme a ragione.

Agli studi filosofici fu indirizzato da Cratilo, un seguace di Eraclito. Ma ben diversa fu l’influenza che su di lui ebbe l’insegnamento di Socrate. Con la morte del maestro si inizia per Platone un periodo di viaggi che durò ben dodici anni. A Siracusa cercò di attuare con Dionigi, il tiranno della città, il suo ideale politico, finché il tiranno insospettito non lo licenziò bruscamente. Ritornato ad Atene, aprì la sua scuola in un ginnasio detto l’Accademia, e per quaranta anni consecutivi, fino alla morte, dispiegò la sua attività di maestro, di cui la sua opera di scrittore è la rielaborazione artistica.

Di Platone noi possediamo 36 scritti, quasi tutti dialoghi, sulla cui autenticità e cronologicità la critica non è mai giunta a risultati sicuri. Le indagini più fondate arrivano alla conclusione che la speculazione platonica si può dividere in quattro periodi e i suoi dialoghi si possono distinguere in quattro gruppi corrispondenti. 1) Dialoghi socratici: in cui Platone rimane sotto la scuola di Socrate senza alcun cenno alle proprie teorie, che sono quelle delle idee. Questi dialoghi sono: Apologia di Socrate, Critone (sul dovere e sull’obbedineza alle leggi), Ione (sull’ispirazione poetica), Protagora (sull’insegnamento della virtù), Lachete (sul coraggio), Repubblica Libro I (sulla giustizia), Liside (sull’amicizia). 2) Dialoghi in cui con una più accentuata polemica contro la Sofistica si delinea una prima chiarificazione della dottrina delle idee. Questi dialoghi sono Gorgia (sulla retorica), Menone (sull’insegnamento della virtù), Ippia Maggiore (sulla bellezza), Cratilo (sul linguaggio), Menesseno (sulle orazioni politiche). 3) I grandi dialoghi della costruzione della teoria della idee, teoria che è posta quindi a fondamento della gnoseologia, della metafisica, della psicologia, etica, politica, religione, estetica. Questi dialoghi sono: Simposio (sull’amore), Fedro (sulla retorica e sulla natura dell’anima), Fedone (sull’immortalità dell’anima); Repubblica libri II-X ). 4) I dialoghi della maturità, Teeteto, Parmenide, Sofista, Filebo, Timeo.

Socrate aveva limitato la sua indagine all’analisi dei concetti morali, riguardanti l’uomo; e del concetto in generale aveva accentuato più l’utilità pratica che la validità conoscitiva. Platone estende anche alla natura il metodo socratico, e cerca di interpretare la realtà in genere mediante il “concetto”.

«Socrate – Questi tali, che così parlano, sono sacerdoti e sacerdotesse, i quali si sono presi pensiero d’essere in grado di dar ragione delle cose del loro ministero; e così pure parla Pindaro con molti altri poeti, quanti sono di schiatta divina. Ciò ch’essi dicono è questo: ma tu poni mente, se ti paia che dicano il vero dicono pertanto che l’anima dell’uomo sia immortale, e che essa ora finisca di vivere, che muoia, ed ora alla vita rinasca, ma che non muoia mai. E per ciò stesso dover essa più santamente nella vita condursi... così dunque immortale l’anima essendo è più volte nata alla vita, e veduto avendo le cose di quassù e quelle dell’Ade e così tutte le cose, nulla v’ha che non abbia appreso; onde non è meraviglia affatto che è per la virtù e per tutto il resto essa si ricordi di quello che già prima abbia appreso. Essendo infatti la universa natura stretta in congiunzione, e già prima avendo l’anima acquistate le nozioni tutte quante, nulla vieta che, richiamata a mente una sola notizia, ciò che gli uomini chiamano apprendere, si ritrovi poi anche tutto il resto da chi coraggio abbia e di cercar non si stanchi. Chè di fatti ricercare e apprendere è soltanto un ricordarsi. Né quindi bisogna dar fede a quel tuo discorso tutto pieno di discussioni; che esso ci ridurrebbe a starcene oziosi ed è buono per la gente molle, laddove questo invece ci fa laboriosi e investigatori. Ed io perciò, credendolo vero, voglio teco cercare quello che sia virtù...». (Menone, 80 a-81e).

Con la realtà esterna io mi metto in rapporto solo attraverso la percezione sensoriale: ma ciò che a questa si presenta è particolare, molteplice, mutevole, corporeo; mentre il concetto è universale, uno, immutabile e immateriale. Io vedo, ad esempio, tanti alberi – questo o quell’albero – tutti diversi tra loro, ma concepisco l’albero, con un unico concetto e sempre lo stesso. Insomma la realtà naturale che appare alla percezione, presenta caratteri opposti a quelli che sono propri del concetto. E allora il concetto non mi fa conoscere nulla di reale? A questo problema e a quelli collaterali, Platone dà una risposta nella sua opera. Noi possediamo e usiamo continuamente concetti che non possono essere tratti in alcun modo dagli oggetti sensibili e particolari: concetti la cui origine in noi e il cui valore è del tutto indipendente dalla esperienza. Tali sono, ad esempio: a) I concetti morali ed estetici, coi quali noi giudichiamo se un’azione o cosa sia buona o cattiva, bella o brutta. Questi giudizi presuppongono che noi conosciamo un ideale di bello o di brutto, di giusto o di ingiusto che nella realtà non può esistere. b) I concetti matematici, questi non sono certo ricavati dall’esperienza: un circolo o un triangolo sono forme perfette che non hanno mai riscontro alcuno in natura.

«Socrate – ... Non per altra cagione, ripresi allora, io fo tutte queste domande, se non per voler conoscere come stieno le cose quanto alla virtù, e che mai ella si sia la virtù. Perché io mi so bene che, dove tutto questo fosse messo in aperto, chiaro ci si farebbe massimamente anche ciò, intorno a cui tu e io abbiamo così a lungo discorso ciascuno, io sostenendo che la virtù non possa insegnarsi e tu all’incontro che la si possa insegnare. Ed ora, all’ultimo atto della nostra discussione, mi pare quasi che essa ci accusi e ci dia la baia, quasi avesse persona; sì che, se potesse usar la favella, ci direbbe: Oh! voi siete uomini ben strani, o Socrate e Protagora: tu, avendo già premesso che la virtù non possa insegnarsi, ora poi ti affretti a contraddire te stesso, mettendoti a fare dimostrazione che tutto a scienza si riduce e la giustizia e la prudenza e la fortezza, per il quale modo apparirebbe massimamente possibile insegnare la virtù; dove la virtù fosse altra cosa dalla scienza, come Protagora s’era messo a dire, manifestamente non la si potrebbe insegnare: ma se paia invece che tutto si riduca a scienza, come tu sostieni, o Socrate, sarebbe invero una cosa strana che la virtù non potesse insegnarsi. Dall’altra parte Protagora, avendo già prima affermato che la virtù possa insegnarsi, ora all’incontro par che si sforzi a mostrare come la virtù sembri essere tutto piuttosto che scienza: e così ella non potrebbe affatto insegnarsi. Tu dunque, o Protagora, essendo che tutto è andato ormai malamente sossopra, sento grandissimo desiderio che si faccia luce in questa questione, e vorrei che, tra noi conversando, ne uscissimo a bene intendere che cosa veramente sia virtù, e poi anche quest’altro capo considerassimo se essa possa o no essere insegnata...». (Protagora, 360e-361c).

Queste idee sono nella nostra anima, e non potendo derivare, come abbiamo visto dall’esperienza, devono derivare da realtà e oggetti ideali del tutto diversi da quelli sensibili. Questi esseri Platone chiama idee. Le essenze delle cose non sono soltanto pensieri nostri, entità che sussistono solamente in noi, in quanto le pensiamo: ma esistono in un mondo metafisico, che Platone chiama appunto mondo delle idee.

«Diotima – Dubito, o Socrate, che tu possa penetrare in quelle profondità arcane, in cui i pochi iniziati che vi pervengono, attingono i beni supremi. Te ne parlerò tuttavia e ci metterò tutto l’impegno: se ti riesce, procura di seguirmi. È necessario, adunque, soggiunse, che chi vuole percorrere tutta la via della perfezione, incominci fin da fanciullo ad ammirare le belle forme e sia guidato saggiamente a concentrare la sua ammirazione in un essere soltanto, per concepire sopra di esso elevati pensieri; ma tosto, nel progresso della sua educazione, avvertendo che la stessa bellezza, che rifulge in un corpo, è sorella di quella che rifulge altrove, e che, pur cercando il bello sensibile, sarebbe stolto non scorgere l’unica bellezza che s’incarna nei vari corpi, avvertendo questo, dico, estenderà ad altri esseri il suo vero amore e la sua ammirazione, già concentrati in un essere solo, abituandosi a considerare come gretta la passione violenta che si esaurisce in un solo oggetto. E così a poco a poco alleverà in sé l’amore per la bellezza spirituale più che per quella materiale, fino al punto di riposarsi soddisfatto accanto a un’anima ben fatta, ancorché non incarnata in una forma perfetta, prodigandole cure amorose, generando con lei pensieri eletti che valgano per le novelle generazioni. Di qui è breve il passo a considerare la bellezza degli ordinamenti civili e delle leggi, nelle quali troverà armoniosa rispondenza alle esigenze spirituali, sì vana cosa gli sembrerà ormai la bellezza sensibile. E, progredendo ancora, dallo studio dei costumi, passerà alla scienza pura, contemplandone la bellezza e, allora, non più servile e abietto, si appagherà degli amoruzzi per un solo fanciullo o per una sola persona, né attenderà a una sola occupazione manuale dimenticando tutto il resto, ma emergerà sovrano sul mare sconfinato della bellezza e nel contemplarla l’animo suo, acquistata inesauribile fecondità, andrà spandendo fiumi di sapienza e di filosofia, finché, assorto nella sublime visione, esisterà per lui una sola scienza, la scienza del bello. Aguzza qui l’intelligenza, soggiunse, se vuoi seguirmi nel regno delle supreme verita». (Convito, 210a).

In questa soluzione del problema della realtà, vengono sintetizzate le opposte tesi dell’essere eleatico e del divenire eracliteo. Solo le idee, appunto perché incorporee, possono avere quei predicati che per Parmenide erano essenziali all’essere: hanno cioè assoluta unità, non sono generate e non sono periture. Al mondo delle idee poi si oppone quello della natura, che è il dominio del divenire, del molteplice, del relativo. Esso, perciò non si può dire che sia nel vero senso della parola. Ma dall’altra parte non è come voleva Parmenide – il nulla, se tale fosse, di esso non potremmo neppur parlare. Esso è, come voleva Eraclito – un misto di essere e di non essere: partecipa dell’essere, ha dell’essere, ma non è l’essere. Ecco perché gli oggetti della natura divengono sempre e non sono mai.

Ecco perché nel mondo della natura non troviamo che il relativo; un oggetto sensibile diciamo che è non in se stesso, bensì in relazione ad un altro oggetto che diciamo brutto; ma quello stesso oggetto noi diremo che non è bello rispetto ad altro oggetto superiore; è bello oggi, non è più bello domani, è bello per me non è bello per gli altri: dunque non si può dire che sia bello in se stesso e neanche che non lo sia; appare bello, diviene bello. E questo significa che tutto il mondo naturale è qualche cosa di mezzo tra l’essere e il non essere.

Il sensibile è contrapposto all’idea come molteplice all’uno? Ma tuttavia la molteplicità si annida anche nel mondo ideale. Di idee infatti ve ne sono molte: tante per lo meno quante sono le specie di esseri umani, naturali e animali. Pertanto l’unità del mondo intelligibile non è l’unità dell’essere parmenideo, escludente da sé ogni molteplicità; è bensì l’unità di un sistema, rispetto al quale è misurato il valore di ogni idea.

In questa organizzazione armonica e unificazione sistematica delle idee, domina un ideale di perfezione rispetto al quale è misurato il valore di ogni idea. Le idee sono connesse in una gerarchia che culmina nella idea sovrana di bene, e tale gerarchia è ordinata in modo che si svolga nel migliore dei modi. Il bene è Dio, essenzialmente buono e artefice del mondo (Demiurgo).

Stabilito in queste linee il mondo delle idee, che definisce come la sola realtà concreta è la sola realtà intelligibile, Platone passa a considerare come possiamo noi prendere conoscenza di essa.

Platone distingue quattro grandi conoscenze:

a) L’apprensione di pure e semplici parvenze sensoriali: io sono colpito ad esempio da viva luce rossa.

b) La conoscenza percettiva degli oggetti sensibili, e giudizio su di un oggetto particolare; noi esprimiamo la nostra credenza sull’esistere o sul non esistere di esso, e sull’esservi o meno presente una o un’altra qualità. Ad esempio questo lume emana una luce rossa, questa luce è bella.

c) La conoscenza matematica: esempio il cerchio, forma circolare che ho percepito nel fascio di luce, è uno spazio chiuso in una curva che ha tutti i punti equidistanti dal centro.

d) la conoscenza filosofica: apprensione di idee come assoluta colleganza di rapporti che fanno di esse un tutto armonico; in questo ordine sistematico ogni idea occupa il posto che deve occupare e che è bene che occupi, perché risponde alle finalità intrinseche del mondo ideale.

«Socrate: Considera dunque, come noi dicevamo, trattarsi qui di due princìpi che imperano l’uno sulla specie e nel dominio dell’intelligibile, l’altro del visibile e non ti dico del celeste perché non creda che io ti giochi, come i sofisti, sul nome. Hai tu dunque dinanzi alla mente queste due specie: il visibile e l’intelligibile?

Glaucone: Le ho bene.

S.: Come dunque fosse una linea spezzata in due, prendi le due parti disuguali tra loro, e di bel nuovo le due sezioni seziona secondo lo stesso criterio della specie visibile e della intelligibile; e così avrai per la rispettiva lucentezza e oscurità, in una delle due sezioni, le immagini. Immagini poi chiamo le ombre primieramente, poi i riflessi nell’acqua e in ciò che sia denso, leggiero e lucente e tutto ciò che a ciò si assomigli, se bene m’intendi.

Gl.: Ma benissimo intendo.

S.: Poni in appresso l’altra sezione, ciò a cui quella prima sezione per somiglianza riportasi, i nostri animali e ogni specie di piante quanto è opera della nostra industria.

Gl.: Ed io ve lo pongo, diss’egli.

S.: Vorresti ora dividere tutto ciò in rispetto del vero e del suo contrario, sì che l’opinabile stia al conosciuto, come appunto ciò che è assomigliato a quello cui assomiglia?

Gl.: Io sì, rispose.

S.: Considera in appresso la sezione dell’intelligibile per che modo la sia da dividere.

Gl.: Per che modo?

S.: Ecco: una è quando l’anima è costretta a far la sua indagine con gli elementi or ora divisi da noi, quasi fossero immagini, movendo per via d’ipotesi non già al principio ma al termine; l’altra è quando, dall’ipotesi movendo al principio assoluto, senza le immagini di cui usa l’altro procedimento, con le sole idee compie sua strada.

Gl.: Questo tuo discorso, soggiunse egli, io non l’ho bene inteso.

S.: Ebbene, di nuovo, ripresi io: che già lo potrai intendere meglio che non gli antecedenti. Io credo tu sappia che coloro i quali si occupano della geometria, dei calcoli e simili studi suppongono numero pari e dispari, e poi una quantità di figure, e angoli di tre specie e altre cose del medesimo genere per ogni loro dimostrazione; ciò, quasi l’abbiano per certa scienza, pongono a fondamento di loro ipotesi, senza credere d’averne a dar ragione né a loro stessi né agli altri, come universalmente ammesso che sia, e di qui movendo a tutto il loro svolgimento, compiono, perfettamente intesi, l’assunta dimostrazione.

Gl.: Perfettamente, soggiunse egli, questo mi va benissimo.

S.: E non sai ancora che usano di visibili immagini e fanno intorno ad esse ragionamenti; non già che pensino ad esse propriamente, ma sì a ciò cui esse figure assomigliano, facendo così ragionamento del quadrato e della diagonale di esso, ma non già di quella che han segnato essi stessi; e così anche di tutte le altre figure che costruiscono o disegnano e delle quali hanno i disegni dinanzi o nell’acqua le immagini, ma sì di esse immagini usano a loro volta per cercare d’intendere ciò che uno non può intendere se non per questo procedimento del pensiero.

Gl.: Verissimo parli, disse egli.

S.: Questa pertanto è la specie dell’intelligibile, per la ricerca della quale, dicevo, che l’anima era costretta ad usar delle ipotesi, non già sino al principio innalzandosi, da che non le è dato d’andare più in là delle ipotesi; ma ella usa delle immagini che le sono porte dagli oggetti di quaggiù, trascegliendo quelle che relativamente meglio evidenti si stimano e di maggior conto.

Gl.: Intendo, disse, tu parli di quello che si pratica nella geometria e nelle altre discipline sorelle.

S.: Ora intendi quella che io chiamo l’altra sezione dell’intelligibile, alla quale la ragione attinge per la facoltà dialettica, pur facendo ipotesi, ma non già per riguardarle come princìpi, ma come proprie ipotesi, cioè passaggi e gradini, onde s’innalza all’assoluto principio di tutto; raggiunto il quale, attenendosi a tutte le conseguenze che ne dipendono, scende alla conclusione finale senza far uso d’alcun sensibile, ma alle idee sole appoggiandosi e per esse procede e termina in esse.

Gl.: Intendo, diss’egli, ma non chiaramente, da che parmi tu parli di grave argomento; ma tu vuoi stabilire che in conoscenza che s’acquista dell’essere e dell’intelligibile per la scienza dialettica e per chiara di quella che si ha per le così dette arti che muovono dalle ipotesi, ancorché usino del processo mentale e non già del sensibile quelli che esse medesime esercitano; per ciò che non muovono alla speculazione dal principio, ma dalle ipotesi; e quindi ti pare non abbia proprio vigore d’intelligenza, sebbene intelligibile per il principio addivenga. Raziocinamento poi parmi tu chiami, e non già intellezione, il procedimento dei geometri e d’altri cotali, essa cognizione essendo quasi intermedia tra la opinione e la intellezione.

S.: Ottimamente, diss’io, tu hai compreso. Ed ora m’applica a queste quattro distinzioni i quattro stati che si danno dell’anima: la intellezione alla più alta, la ragionata cognizione alla seconda, alla terza assegna la fede e la congettura; e classificale per ordine in modo che a seconda è loro concesso di partecipare al vero, così tu le giudichi fornite d’evidenza.

Gl.: Intendo, diss’egli, e sono d’accordo e così le dispongo come tu dici». (Repubblica, Libro VI, 509d-511e).

I primi due gradi della conoscenza costituiscono l’opinare che ha per oggetto il mondo di ciò che appare; gli ultimi due, l’intendere, che ha per oggetto ciò che è, l’essere nel pieno senso della parola.

Per Platone i gradi inferiori del conoscere non sono forme di conoscenza sufficiente a se stessi: anzi in quanto sono propriamente conoscenza, in quanto esprimono la necessità di qualcosa che le trascenda, che faccia appello ai gradi superiori e infine alle idee. Non sono essi punti di arresto per l’anima che voglia acquistare conoscenza vera: sono gradi attraverso i quali l’anima può compiere la sua ascensione verso il mondo delle idee. L’Essere intelligibile certo si rivela luminosamente solo nel grado supremo del conoscere; ma esercita la sua influenza sull’anima umana, influenza che, purché questa non sia legata dalle passioni del sensibile, la porta sempre di più verso la più alta conoscenza. Questo movimento ascensionale dell’anima è detto da Platone Dialettica, che significa discorrere e trascorrere: discorso interiore dell’anima e suo trascorrere attraverso le parvenze sensoriali. L’ascensione dialettica dell’anima attraverso i quattro gradi del sapere è raffigurata nel famoso mito della caverna. D’altro canto il giudizio percettivo presuppone già posseduti dall’anima concetti ai quali riferire le impressioni sensoriali e inoltre, potendo essere tanto vere quanto false, implica una verità superiore su cui fondare quella distinzione. Bisogna dunque staccarsi affatto dal sensibile e cercare la verità nell’intelligibile puro. A questo ci avvia e prepara la matematica, che costringe l’anima a guardare in alto e a staccarsi dalle cose sensoriali. Con la filosofia o intellezione il distacco dal sensibile è compiuto: nella filosofia l’anima, tutta raccolta e concentrata in se stessa, contempla ed intuisce le idee, che già si trovavano allo stato latente in se stessa, e solo alla luce di queste idee può misurare la verità delle conoscenze inferiori. Bisogna dunque ammettere come innate le idee dell’anima. Essa nel venire in contatto col corpo ha perduto il ricordo di quello che era il mondo anteriore alla nascita. L’esperienza sensibile è occasione perché dal fondo dell’anima affiorino i ricordi di quel mondo superiore. Secondo Platone la conoscenza umana è processo di rifacimento di un sapere che è già fatto in noi, è ricostruzione di un sistema di idee che già è costituito nell’anima nostra.

Ora, se l’esperienza delle cose naturali è capace di risuscitare nell’anima i ricordi delle idee, ciò vuol dire che la natura non è estranea del tutto al mondo delle idee. Il rapporto tra la natura e le idee è qualificato da Platone con l’espressione generica “partecipazione”, cioè le cose sensibili partecipano delle idee, cioè sono copie o immagini delle idee.

Ora, per spiegare come si è formata la natura, bisogna ammettere innanzi tutto qualche cosa di contrapposto alle idee, su cui le idee si riflettono e agiscono. Questo qualche cosa è il sottostrato del mondo sensibile: la materia. Essa viene presentata da Platone come parto indeterminato e vuoto, come movimento caotico di una massa informe che lo riempie. Questo sottostrato è originario ed eterno al pari del mondo soprasensibile, contrapposto ad esso. Dio, quale ente supremo di intelligenza e di bontà, quale Demiurgo volle che la massa informe del caos originario si plasmasse nel migliore dei modi. Nell’ordinare la natura egli guardava a modello il mondo delle idee, e quindi, dato che il mondo sensibile è stato fatto ad immagine del mondo delle idee, deve riflettere in qualche modo l’ordine invisibile che regna in quello e accogliere l’intelligenza ordinatrice. È l’idea della bontà divina quella che spiega l’esistenza d’un mondo sensibile razionalmente ordinato, a fianco del mondo eterno delle idee.

«Forestiero di Elea: Che non si dica, dunque, che, non avendo chiarito che il non ente sia il contrario dell’ente, noi osiamo dire che sia. Giacché da un pezzo noi diciamo che a qualsiasi contrario facciamo i nostri complimenti, o che ci sia o che non ci sia, o che si possa concepire o che sia affatto inconcepibile. Quanto a quello che noi ora abbiamo detto essere il non ente, o uno ci persuade che non abbiamo detto bene, confutandoci, o, finché non ci riesce, deve dire anche lui come diciamo noi, che cioè i generi si mescolano gli uni con gli altri, e che l’ente e il diverso, trascorrendo attraverso tutti quelli, e l’uno attraverso l’altro, il diverso che partecipa dell’ente e appunto per via di questa partecipazione, è non già quello di cui partecipa, ma diverso. Ed, essendo diverso dall’ente, è chiarissimamente necessario che sia non ente; e l’ente, d’altra parte, partecipando del diverso, deve pur essere diverso dagli altri generi; ed, essendo diverso da tutti questi, non è ciascuno di essi né tutti quanti gli altri, eccetto se stesso: di maniera che l’ente, senza dubbio, infinite volte per infinite cose non è; e così anche le altre cose, ma per una e tutte insieme parecchie volte sono e parecchie non sono.

Teeteto: Vero». (Platone, Teeteto, 256d-257c).

Il bene non può non espandersi fuori di sé.

Per quanto riguarda la concezione dell’anima umana, in Platone confluiscono due motivi: uno mistico-religioso e uno più propriamente filosofico. Dalle credenze orfico-pitagoriche, largamente diffuse in Grecia in quel periodo, Platone aveva derivato l’idea fondamentale dell’anima, quale entità metafisica assolutamente semplice, demone di natura divina. Originariamente appartenente ad un mondo invisibile e del tutto estranea al corpo, sarebbe stata poi relegata in questo come in una prigione o in una tomba, ad espiazione di una colpa. La serie delle trasmigrazioni da corpo in corpo è più o meno lunga a seconda del tipo di vita che si conduce. Tale credenza poteva così essere introdotta da Platone nel suo sistema filosofico. Riceveva da questo come una base scientifica e dava ad esso a sua volta un contenuto ed un colorito religioso.

Il motivo più prettamente filosofico dice come l’anima sia costituita da un elemento superiore: la ragione, opera diretta del divino artefice del mondo, preesistente alla sua unione col corpo e indipendente da esso, e di un elemento inferiore, l’“anima irascibile”, che può essere di ausilio all’anima della ragione; e di un altro elemento l’“anima concupiscibile”, nettamente ostile alla ragione.

«Socrate: Ebbene, vi sia un uomo che della giustizia di per sé concepisca quello che essa sia e abbia un discorso consono col suo intendere, e tutte le altre cose che sono le pensi del pari.

Protarco: Ci sia.

S.: Ora, avrà questo abbastanza di scienza quando del circolo e della sfera divina per sé sia in grado di discorrere, ma ignori questa nostra sfera umana e questi circoli nostri, e nel fabbricare case e altre opere usi di regoli somiglianti a quei circoli?

P.: Oh! la ridicola condizione che tu dici sia la nostra, Socrate, quando si stia colle scienze divine soltanto.

S.: Come tu dici? che si debba gettare insieme la non ferma né pura arte del regolo falso con quella del circolo, e mischiarla?

P.: Necessario, se deve ciascuno di noi ritrovare, non ch’altro, la via di casa.

S.: E non altresì la musica, che poco innanzi dicemmo difettare di purità, perché piena di congettura e d’imitazione?

P.: A me almeno par necessario, se la nostra deve pur essere come che sia una vita.

S.: Sicché tu vuoi che io, come portinaio spinto e violentato da una turba, datomi per vinto, lasci, spalancando le porte, correr dentro le scienze tutte e mescolarsi colla pura quella che in purità difetti alquanto?

P.: Quanto a me io certo non so che danno gliene verrebbe, o Socrate, se uno accogliesse tutte le altre scienze, da poi che ha le primarie.

S.: Che io, dunque, le lasci entrar tutte nel seno di questa omerica e assai poetica convalle?

P.: Certo sì...». (Platone, Filebo, 62a).

In seguito all’unione col corpo e a contatto con l’elemento irrazionale, l’anima perde il ricordo delle idee che essa aveva intuito nella sua esistenza originaria, e deve quindi faticosamente riconquistare la verità e la purezza mediante l’errore e l’esperienza sensibile.

«La dottrina di Platone è detta idealismo appunto perché pone la vera realtà nel mondo delle idee. Viceversa è detta realismo in quanto considera le idee come realtà. Come alla metafisica manca il “progresso” cumulativo, che appartiene all’essenza della scienza positiva, così le manca anche il fenomeno che sempre si accompagna al “progresso”: la svalutazione della “situazione della scienza” di volta in volta precedente. I sistemi di Platone e di Aristotele, di Agostino, di Descartes, di Leibniz, di Kant, ecc., non sono invecchiati come è invecchiata oggi la chimica di Lavoisier o la meccanica di Newton. Non possono mai invecchiare. La metafisica “cresce” nei suoi diversi tipi e perviene a compimento in quanto cresce; ma non progredisce. La metafisica, inoltre, in quanto è opera del saggio ed è un sistema, non è suscettibile di una gestione basata sulla divisione del lavoro come avviene invece nel caso della scienza positiva. Essa rimane legata in maniera personale alla fisionomia spirituale del suo autore, e il suo “mondo” è il suo riflesso. I grandi metafisici sono pertanto insostituibili. Le grandi scoperte delle scienze positive, per esempio, il principio d’inerzia, il principio della conservazione dell’energia, il secondo principio della termodinamica, sono state invece compiute insieme da molti scienziati. La situazione dei problemi e l’automatismo del metodo sembra far emergere quasi da sé i risultati delle scienze positive. Gli “scienziati” appaiono spesso soltanto come servitori, come portavoce del metodo e del processo scientifico, continuo, logico-obiettivo. Le opere di Platone e di Kant, invece, sono irripetibili, e non si può pensare che un altro avrebbe trovato ciò che essi hanno trovato». (M. Scheler, Filosofia della storia e filosofia del sapere nel positivismo (legge dei tre stadi), in Lo spirito del capitalismo, Napoli 1988, pp. 123-124).

Aristotele

Il più grande discepolo di Platone fu Aristotele di Stagira (384-322 a.C.). il padre, medico alla corte macedone di Filippo, lo avviò agli studi naturalistici. A diciott’anni si recò ad Atene e fu tra gli uditori dell’accademia di Platone per ben vent’anni. In seguito venne chiamato alla corte del re di Macedonia per curare l’educazione di Alessandro. Dopo che ebbe assolto questo compito ritornò in Atene e fondò la sua scuola, che venne detta peripatetica, dal peripato o giro dei viali, nei quali Aristotele soleva insegnare passeggiando. Dopo dodici anni di fecondo insegnamento; si ebbe in Atene un forte movimento antimacedone, e benché da parecchio tempo Aristotele avesse sciolto ogni rapporto con il suo discepolo, venne ipocritamente accusato di empietà e di favoreggiamento con i Macedoni e costretto a riparare a Calcide nell’Eubea, dove morì l’anno seguente (322).

Degli scritti che Aristotele designò a tutto il pubblico (opere essoteriche) non ci è rimasta traccia alcuna; mentre ci sono rimaste le opere che egli destinò alla sua scuola (opere acroamatiche).

L’opera di Aristotele è enciclopedica: abbraccia tutto lo scibile del suo tempo. Ricercatore minuzioso e accurato di fatti particolari in ogni campo (dall’astronomia alla meteorologia, dalla fisiologia e dall’anatomia alla grammatica, dalla retorica e dalla storia all’economia e alla politica), tendeva poi uniformemente a interpretare e illuminare quei fatti inquadrandoli in una vasta e sistematica concezione filosofica dell’universo. I suoi scritti possono distinguersi: 1) Scritti di logica: Le categorie, Sull’interpretazione, I primi Analitici (2 libri), I secondi Analitici (2 libri), I Topici, I ragionamenti sofistici. 2) Scritti di filosofia: Metafisica in 14 libri, detti così perché collocati nella raccolta generale degli scritti aristotelici, dopo la fisica. 3) Scritti di fisica: sulla natura in genere, di zoologia, di fisiologia, di psicologia. 4) Scritti di Scienze pratiche e poetiche: di morale, di politica, di estetica, di retorica.

Aristotele muove nella speculazione dalla critica alla dottrina del maestro intorno alle idee. Secondo Platone è realtà per se stante, ossia idea, tutto ciò che può essere ideato, o pensato da noi, tutto ciò che noi possiamo dire, è o non è. Contro questa opinione Aristotele osserva che non tutto ciò che noi pensiamo è realtà per se stante; le idee di qualità, come la bianchezza, o le idee di quantità come dieci chili, possono pensarsi solo come modi di essere o proprietà esistenti in qualche cosa d’altro, che è la sostanza concreta (l’errore di Platone fu quello di avere sostanzializzato tutti i modi di essere). Per Aristotele, realtà concrete sono soltanto gli individui: l’uomo, l’animale, la pianta: ecco le sostanze. Nelle sostanze individuali hanno il loro sostegno o il loro centro di riferimento le altre forme dell’essere. Solo gli individui sono nel vero senso della parola, tutto il resto è in essi e per essi.

Ma che cosa è propriamente l’individuo? Esso è ciò che presenta una intrinseca unità, ossia ciò che è tale da non potere essere decomposto, senza che le stesse parti componenti perdano la loro vera natura e la loro reale ragione d’essere. Una montagna o una pianta sono degli individui, ma per Aristotele l’individuo per eccellenza è l’organismo vivente, in quanto in esso risiede il tipo della realtà, il tipo dell’essere.

Alla vita organica Aristotele chiede il segreto dell’essere, come Platone lo aveva chiesto alle entità matematiche e alle idee modello del bene e dell’essere bello.

Ora, caratteristica dell’individuo è la nascita, lo sviluppo e la morte. Il nascere è generazione ossia passaggio dal non essere all’essere; lo sviluppo è movimento, ossia passaggio da uno stato di essere ad un altro successivo; il morire è corruzione, passaggio dall’essere al non essere. Pertanto la realtà diventa un continuo divenire, come aveva detto Eraclito, ma un divenire che a differenza di Eraclito lascia un essere ben definito: l’individuo, essere che segna i limiti del divenite e predetermina, momento per momento, la direzione del processo del divenire.

Lo sviluppo implica quattro cause: a) causa motrice, atto di generazione da un animale, da una parte, e da un altro animale, dall’altra; b) causa materiale (esempio, il germe); c) causa formale (l’idea della specie); d) causa finale, (formazione d’un dato individuo d’una certa specie). Queste quattro cause possono ridursi a due: forma (idea della specie) e materia (condizioni presupposte all’attuazione della specie).

«Invece anche noi diciamo che partendosi da ciò che è assolutamente non-ente nulla è generato, ma non neghiamo che qualche cosa possa essere generata partendosi dalla sua privazione, la quale propriamente è un non-ente e non inerisce come realtà a qualche altra realtà. Gli antichi si sarebbero meravigliati e sarebbe loro sembrato impossibile che partendosi dal non-ente qualche cosa possa essere generata. Similmente diciamo che nemmeno partendosi dall’ente l’ente è generato, se non impropriamente. E ciò avviene allo stesso modo, come se dicessimo che l’animale viene generato partendosi dall’animale, e un determinato animale partendosi da qualunque animale, come se da un cavallo fosse generato un cane. Avverrebbe infatti che non solo un cane sarebbe generato da un certo animale, ma anche da un animale; non sarebbe però generato l’animale in quanto animale, perché altrimenti l’animale in quanto tale sarebbe esistito prima. Ma se qualche cosa deve generarsi non impropriamente ma propriamente come animale, non potrebbe generarsi partendosi dall’animale. Così, se qualche ente è generato, non generato né dall’ente né dal non-ente in quanto tali; è stato infatti detto che cosa significhi essere generato dal non-ente, cioè in quanto è non-ente assoluto. E con ciò non si è negato che ciò che è sia, e ciò che non è non sia.

«Questa è una soluzione, ma non è sufficiente (poiché l’improprio deve sempre fondarsi su un proprio). La vera soluzione sta in ciò che l’essere può darsi sia in atto sia in potenza». (Aristotele, Fisica, I, VIII).

Ma questa distinzione non va intesa come una contrapposizione di due elementi. Non v’è materia che non sia in qualche modo “formata”, ma possiede questa forma in potenza, il risultato dello sviluppo sarà poi l’attualità di questa potenza, il tradursi in atto di questa possibilità. Il bambino è l’uomo in potenza. Il rapporto tra materia e forma si traduce quindi, secondo Aristotele, nel passaggio dalla potenza all’atto. Questo passaggio è chiamato “movimento”.

L’universo fisico è un sistema organico di forme viventi gerarchicamente ordinate, alcune più in basso altre più in alto, secondo la maggiore o minore indeterminazione che esse presentano. Il divenire della natura è analogo allo sviluppo del singolo individuo. Tutto tende nella natura a progressivamente sciogliersi dalla materia. Natura inorganica, regno vegetale, regno animale, regno umano, formano i gradini di una progressione dell’essere indeterminato all’essere determinato. Progressione che non si arresta all’uomo, il quale è il compendio di tutta la natura inferiore, ma che di gradino in gradino conduce sino alla forma pura, esente da materia: Dio.

«L’ente si divide in ente in atto e in ente in potenza. L’ente poi in atto si divide in sostanza, in quantità, in qualità, e similmente nelle altre categorie degli enti. Uno poi di questi enti in atto, per esempio, la relazione, si divide o in quanto è fondata nella quantità, come il più e il meno, o nell’essere qualche cosa attiva e passiva, o in generale nell’essere movente mobile. È chiaro infatti che il movente è tale per riguardo al mobile, e mobile per riguardo al movente.

«Il movimento non è qualche cosa di distinto dalle cose stesse che sono in moto. Muta infatti sempre il mutevole secondo la categoria o della sostanza, o della quantità, o della qualità, o del luogo; e non si dà, come è stato detto, qualche cosa di comune a tutte queste categorie che non sia né sostanza né quantità né qualità né qualche cosa delle altre categorie. Sicché né il movimento né la mutazione di alcuna cosa è qualche cosa d’altro dalle cose già dette, poiché di altre non ce ne sono affatto.

«Inoltre ciascuna cosa può darsi in generale secondo un doppio modo, per esempio, in sostanza, cioè secondo una sua forma o secondo la privazione della medesima; così in qualità può darsi secondo il bianco o secondo il nero; così la quantità secondo il regolare e perfetto o secondo l’irregolare e imperfetto; così nella traslazione, secondo che avviene o verso l’alto o verso il basso si ha il leggero o il grave. Tante sono le specie del movimento e della mutazione quante sono le specie degli enti.

«Perciò, siccome in ogni genere di ente si ha ciò che è in atto e ciò che è in potenza, il divenire o movimento è l’atto dell’ente in potenza in quanto in potenza; per esempio, l’alterazione è l’atto dell’alterabile in quanto alterabile, in quanto, cioè va alterandosi, l’accrescimento o la diminuzione (si devono adoperare due parole perché non ce n’é una comune ai due opposi mutamenti, come c’é la parola alterazione per le qualità) sono gli atti di ciò che va crescendo e dell’opposto che va diminuendo, la generazione e la corruzione sono gli atti di ciò che va generandosi o corrompendosi, e la traslazione è l’atto di ciò che va muovendosi localmente». (Aristotele, Fisica, III, I).

Dio come motore immobile, pensiero di pensiero.

Tutto nella natura è moto, ma ogni movimento presuppone un motore come causa, niente può muovere se stesso, come erroneamente pensava Platone dell’anima, e anche negli oggetti che sembra si muovano da se stessi, occorre distinguere tra ciò che si muove e ciò che è mosso, ossia la forma immanente che è già attuata e donde proviene l’impulso e la materia che tende allo stato compiuto del primo. E ciò che si muove è mosso a sua volta, e così via di grado in grado, in una progressione all’infinito. Ma per Aristotele la progressione all’infinito non è ammissibile: dunque bisogna fermarsi a un primo Motore Immobile, causa prima da dove il movimento universale riceve la sua spinta. Il primo Motore deve essere considerato come Atto puro, cioè come forma pura da qualsiasi materia, non soggetto perciò al divenire. Muove il mondo rimanendo impassibile ed immoto, lo muove per attrazione, come l’oggetto amato muove verso di sé l’amante. Tutto l’universo in tutta l’estensione degli esseri è pervaso dal desiderio di Dio. In tutti gli esseri è qualche cosa di divino, la forma. E siccome nella gerarchia la cosa superiore conserva in sé e migliora le prerogative della cosa inferiore: Dio che è al culmine della gerarchia, contiene in sé nella sua piena realtà, tutte le forme degli esseri inferiori.

«Che il divenire o movimento sia ciò che è stato detto è evidente da quanto segue. L’edificabile infatti, in quanto lo diciamo tale, è in atto mentre viene edificato: e questa è l’edificazione. È quindi un atto. Così pure è dell’insegnamento, della medicazione, della rotazione, del salto, della crescita, dell’invecchiamento.

«È da notarsi che pur dandosi le stesse cose in atto e in potenza, non si danno come tali insieme né sotto lo stesso riguardo, ma, come ciò che è caldo in potenza è freddo in atto, così molte cose sono vicendevolmente attive e passive. Ogni cosa infatti è insieme attiva e passiva. Così anche ciò che naturalmente muove, insieme e mobile, poiché ogni cosa di tal genere muove essendo mossa a sua volta. Ad alcuni anzi sembra che ogni cosa che muove sia anche mossa; ciò non è certamente vero, ma come stanno le cose riguardo a ciò apparirà chiaro altrove; si dà infatti qualche cosa che muove ed è immobile.

«È dunque divenire e movimento l’atto dell’ente in potenza quando come atto perfeziona detto ente non in quanto ente, ma in quanto ancora mobile e in potenza. Dico “in quanto in potenza” nel senso seguente. Il bronzo è in potenza statua, è mobile per divenire statua, ma il movimento non è l’atto del bronzo in quanto bronzo; non è infatti la stessa cosa essere bronzo e essere mobile o in potenza; se i due esseri fossero la stessa cosa, sia in sé sia in quanto pensati, il movimento sarebbe atto del bronzo in quanto bronzo. Ma non è così, come è stato detto. Ciò appare in modo evidente nei contrari. Altra cosa infatti è la potenza a star bene e la potenza a star male, altrimenti sarebbe lo stesso star bene o star male». (Aristotele, Fisica, III, I).

Ora siccome la forma è l’intelligibile, cioè quello che è oggetto di pensiero: Dio contiene in sé tutto il pensabile contenendo il grado massimo di forma. D’altra parte, pensabile significa possibilità di essere pensato, in Dio questa possibilità non si può avere, egli è possibilità in atto; nel concetto di pensabile è implicito che qualche cosa di sconosciuto esista fuori della conoscenza di Dio, e che egli lo possa in un secondo tempo soltanto pensare. Quindi possiamo dire che Dio sia pensiero di pensiero, in quanto è unità eterna di pensiero, e il suo pensiero è tutto in atto. Tutte le forme dell’essere sono l’essere di Dio, in quanto è ripensato da se stesso. E in questa inalterabile contemplazione di se stesso, Dio trova il massimo grado possibile di felicità.

Ed eccoci, insuperato, nonostante tutto, di fronte al dualismo platonico, tra il mondo ideale e il mondo sensibile. Da una parte c’è Dio, assolutamente trascendente il mondo e separato da esso, pura forma, inattivo contemplatore di se stesso, incapace di conoscere ciò che è inferiore a lui. Egli conosce solo ab aeterno le forme che si attuano nel mondo, ma le conosce in quella piena attuazione di esse che costituisce la sua essenza. Dall’altra parte vi è il mondo, il cui presupposto ideale è una materia eterna; materia che aspira alla forma sotto l’influsso della forma medesima ad essa immanente. Ed è appunto per l’immanenza della forma nella materia, se Dio resta completamente indifferente nei riguardi del mondo.

«Appartiene alla stessa scienza, e cioè alla metafisica, la considerazione e della sostanza e di quei primi princìpi che in matematica sono detti assiomi o dignità...; essi infatti ineriscono a tutte le cose esistenti..., e sono presupposti e usati da tutte le scienze, appunto perché sono princìpi dell’ente in quanto ente... E infatti nessuna scienza particolare ne fa oggetto delle sue speculazioni... Assolutamente inconcusso e notissimo fra tutti i princìpi è quello contro cui è impossibile mentire, dubitare ed errare: non si è ingannati infatti se non intorno a ciò che non si conosce necessario pure che non sia condizionato, dipendente ciò da un altro, perché dev’essere il principio con cui si deve giudicare di tutti gli altri. Ciò poi che è necessario che sia posseduto da chiunque si appresta a conoscere qualunque cosa, è come se venisse a essere conosciuto da chi già lo conosce (e quindi quasi innato). Tale è il principio che afferma che la stessa cosa non può insieme esistere e non esistere in un’altra stessa cosa secondo lo stesso rispetto. Infatti è impossibile pensare che la stessa cosa insieme esista e non esista. Qualcuno ha detto aver Eraclito pensato possibile la contraddizione. Non è però necessario che ciò che è detto sia anche pensato... Inoltre, se ben si osserva, tutte le dimostrazioni rimandano a questo principio. Questo poi è segno che, secondo la natura, esso è innanzi a tutti gli altri princìpi e come innato...

«Alcuni hanno tentato di dimostrare la verità del primo principio; errarono però, perché è errare non sapere che alcune verità hanno bisogno di dimostrazione e altre no. E impossibile che si dia la dimostrazione di tutte le verità, si avrebbe infatti un processo all’infinito; se quindi di alcune verità non si deve dare la dimostrazione, certamente ciò dev’essere del primo principio. Anche in questo caso però si dà una certa dimostrazione, quella “ad hominem”, purché chi dubita del primo principio almeno affermi qualche cosa. Se infatti non dice nulla è ridicolo domandare una spiegazione a chi non ne ha; un tale è simile a una pianta... Se però dice qualche cosa, questo qualche cosa, o un nome o un verbo, ha un significato e non anche qualunque altro; dunque non può stare insieme averne uno e non averlo». (Aristotele, Metafisica, III, III-IV).

La natura. Una visione organica e sistematica della natura è il termine a cui tende il pensiero di Aristotele. E appunto questa organizzazione dello scibile gli è valso per due millenni il titoli di “maestro di color che sanno”. La natura nella sua totalità, come regno del movimento, è una sfera perfetta nella quale si distinguono due mondi: il mondo celeste e il mondo terrestre.

«L’ente significa varie cose, come s’è già detto nel libro quinto. Significa infatti così l’essenza e sostanza, come la qualità, la quantità, e ciascuna di tutte le altre categorie dell’essere. Dato però che l’ente significa tali cose, è chiaro che primo significato fra tutti è la sostanza. Quando infatti parliamo della qualità di una cosa, diciamo che essa è buona o cattiva, e non che è alta tre cubiti o che è un uomo; quando invece parliamo dell’essenza stessa della cosa, non diciamo che essa è bianca, o calda, o alta tre cubiti, ma semplicemente che è un uomo o un dio. Gli altri enti sono detti enti perché sono o certe quantità, o certe qualità, o certe affezioni o certe altre simili cose di quell’ente che è ente in senso pieno e proprio... Di tutte le categorie dell’ente soltanto la sostanza è separata (capace di esistere da sola, in sé e per sé)...

«La sostanza significa, se non più, almeno quattro cose: è detta sostanza di una cosa la sua essenza, il suo universale separato, il suo genere supremo, e in quarto luogo è detto sostanza il soggetto o individuo esistente. Il soggetto è ciò di cui si afferma ogni attributo, e che non è affermato di nessuno come attributo. Incominciamo a trattare di questo, sembra infatti che sia sostanza soprattutto questo soggetto primo. In un certo senso è detta soggetto primo la materia, in un altro la forma, e in un terzo ciò che risulta da esse; chiamo materia, per esempio, il bronzo, forma la configurazione simile all’idea dell’artefice, e ciò che risulta la statua, il composto. Ne segue che, se la forma è anteriore alla materia ed è ente più nobile della materia, per la stessa ragione, essa è pure anteriore al composto.

«Con ciò è stato detto molto sommariamente che cos’è la sostanza in quanto soggetto, cioè che essa è ciò che non è affermato da nessuno come attributo e di cui si afferma ogni attributo. Non dobbiamo però fermarci a questo solo; ciò non è sufficiente. E non è nemmeno chiaro in che senso la materia sia sostanza. S’è pensato infatti da alcuni che, se la materia non è sostanza, ci sfugga del tutto la sostanza. Sembra infatti che, tolte tutte le altre cose, non resti che la materia; le altre cose infatti sono o qualità dei corpi, o azioni, o poteri attivi; la lunghezza poi, la larghezza e la profondità sono estensioni e non sostanze. La quantità infatti non è sostanza, ma piuttosto è sostanza ciò cui ineriscono tutte queste cose». (Aristotele, Metafisica, VI, I-III).

Il primo mondo è costituito dal cielo delle stelle fisse, che forma la periferia dell’universo in immediato contatto col primo Motore, e dai cieli dei sette piani, tutte sfere trasparenti alle quali sono fissati gli astri, tutte forme concentriche, ognuna animata e mossa da un essere divino, superiore all’uomo. Il cielo è formato da un elemento incorruttibile, l’etere, la così detta quinta essenza.

Il secondo mondo è costituito della terra, immobile, in quanto in essa si è spenta l’azione diretta delle stelle fisse. È costituito dai quattro elementi, che si muovono rettilineamente, in quanto il moto circolare è ammissibile solo nell’etere. La terra e l’acqua essendo pesanti si muovono dall’alto verso il basso, dalla circonferenza verso il centro; il fuoco e l’aria, che sono leggeri, si muovono dal centro alla circonferenza. Questo movimento di traslazione si accompagna a quello di alternazione qualitativa per cui un elemento si trasforma in altri.

L’anima. Gli esseri viventi sono costituiti da semplici combinazioni dei quattro elementi, e soggetti dunque al moto rettilineo e alla trasmutazione dei quattro elementi stessi. Ma vi sono poi i corpi le cui parti sono conformate e ordinate tra loro in modo che il moto di ognuna di esse è diretto a un dato fine e tutte operano al conseguimento di un fine superiore, nel quale consiste la natura propria di quel corpo.

Il principio interno che agisce determinando la costituzione e il moto del corpo organico, servendosi delle sue parti come di suoi organi separati, è l’anima. Questa è la causa motrice e la causa finale del corpo. Il rapporto tra corpo e anima è quello di materia e forma, di potenza e atto. Quindi non si può considerare l’anima come una potenza a sé, che possa sussistere indipendentemente dal corpo. Corpo e anima formano una unità indissolubile.

Per Aristotele aveva torto Democrito a considerare la vita umana come la semplice risultante d’un meccanico accozzo di atomi, disconoscendo quel che vi è di finalistico nel funzionamento del corpo. E aveva torto egualmente Platone, l’idealista, a considerare l’anima come una entità astratta e a sé stante rispetto al corpo, capace anzi di passare indifferentemente da uno all’altro degli organismi viventi.

«Ricapitolando, si può dire che l’anima sia tutti gli enti perché quella sensitiva è in potenza tutti gli enti sensibili, e quella intellettiva è in potenza tutti gli enti intelligibili. Non ne segue che quando queste facoltà conoscono in atto, siano ontologicamente gli stessi enti, ma hanno le forme dei medesimi in quanto conosciute. Non è errata l’analogia tra la mano e l’anima: come la mano è lo strumento degli strumenti, così l’intelletto è la forma delle forme e il senso la forma delle forme sensibili. Non esistono però nel mondo della nostra esperienza cose che non siano estese e sensibili; perciò gli enti intelligibili, sia quelli che sono detti esistere nell’astrazione (come gli enti matematici), sia quelli che rappresentano le nature e le proprietà delle cose sensibili, esistono nelle forme o specie sensibili. Da ciò segue che se qualcuno non avesse alcuna sensazione, non potrebbe conoscere nulla intelligibilmente. Ne segue pure che, mentre l’uomo con l’intelletto conosce qualche cosa intelligibilmente, deve avere dinanzi a sé anche un qualche corrispondente fantasma: i fantasmi infatti sono similitudini degli oggetti sensibili, svincolati però dalla materia. D’altra parte, benché in qualche modo svincolate dalla materia, non sono né come le proposizioni intelligibili, nelle quali c’è la verità o la falsità, né i semplici concetti. In che relazione allora stanno i concetti e i fantasmi? I concetti non sono fantasmi, ma non si possono avere senza i fantasmi». (Aristotele, L’anima, I, VIII).

La conoscenza. Prima di Aristotele il problema della conoscenza era risolto con il sensualismo e con il platonismo. Per il sensualismo l’unica forma di conoscenza è l’esperienza sensoriale. Per il platonismo il conoscere è possesso originario, da parte della ragione, di idee universali (innatismo).

Aristotele parte dal principio socratico proprio del platonismo, che vi è conoscenza soltanto dell’universale, dato dal concetto: ma nega che i concetti siano posseduti dall’anima prima e indipendentemente da ogni esperienza sensoriale. L’anima è originariamente una “tabula rasa”, come una tavoletta liscia, del tutto omogenea, la quale soltanto attraverso le impressioni sensoriali si viene via via differenziando e determinando di questa o quella idea. D’altra parte egli applica qui il suo principio generale che tutte le determinazioni, le quali in seguito al divenire sono in atto, erano anche prima in potenza.

Il processo della conoscenza si attua quindi attraverso vari gradi: 1) Gradi che rientrano nella funzione dell’anima sensitiva e sono comuni all’uomo e agli animali inferiori. a) Sensazione: l’anima sensitiva attraverso l’impressione dell’organo corporeo, assume la forma dell’oggetto sensibile, che essa aveva potenzialmente in sé. b) Il senso comune: una qualità di un oggetto appresa con un senso particolare – ad esempio, il colore appreso per mezzo della vista – è connessa con altre qualità sensoriali dello stesso oggetto, ad esempio, col sapore, l’odore, ecc. c) Immaginazione e memoria: che conservano e riproducono le tracce delle sensazioni passate. d) Immagine schematica o rappresentativa dell’oggetto: proprietà dell’anima sensitiva è quella di fondere insieme le singole immagini di oggetti simili (ad esempio, vari alberi), e di trarre una loro rappresentazione schematica, dell’albero ad esempio. 2) Gradi che rientrano nella funzione dell’anima intellettiva: a) Avvertimento da parte dell’intelletto dell’esistenza di qualche cosa di indeterminato, di qualche cosa che è ma che avrebbe potuto essere altrimenti, ed è quindi variabile e fluttuante. Ma l’intelletto avverte che quella cosa indeterminata potrebbe determinarsi in una forma intelligibile, che è l’essenza concettuale virtualmente contenuta nella immagine sensibile. b) Aristotele risolve così la difficoltà di un intelletto che pur essendo “tabula rasa”, possa lo stesso captare l’essenza concettuale delle cose. Su questo intelletto agisce in occasione dell’immagine sensibile ad esso presente un principio superiore, nel quale ogni intelligibile è già in atto. Questo principio è detto intelletto attivo. Esso è nell’intellezione quello che la luce è nella visione. La luce rende possibile l’agire dell’oggetto sensibile sull’organo visivo: così suscita il colore nel primo e la visione di esso nel secondo. Questo intelletto attivo è ciò che di divino esiste in noi se non è addirittura lo stesso intelletto di Dio che agisce sulla nostra anima in ciascun atto di intellezione.

«Le cose eterne sono prima, secondo l’essere e la perfezione, di quelle corruttibili, e niente di ciò che è in potenza è eterno... Ciò che è incorruttibile, secondo che è incorruttibile, non è in potenza... Niente di ciò che è incorruttibile, semplicemente e sostanzialmente, è sostanzialmente in potenza, ma può essere in potenza secondo la qualità o l’ubicazione. Le cose eterne e incorruttibili, in quanto tali, sono in atto. E le cose necessarie, in quanto tali, esse pure non pos-sono essere in potenza; esse poi sono prime perché se esse non esistessero, non esisterebbe nulla. L’atto dunque è sempre prima...

«La nostra dottrina riguarda la sostanza... Si danno tre specie di sostanze; una infatti, di sostanze sensibili, si divide in due: di sostanze eterne e di sostanze corruttibili. Le sostanze corruttibili sono ammesse da tutti; sono, per esempio, le piante e gli animali. Di esse bisogna ricercare i princìpi o elementi, siano questi uno, oppure molti. L’altra, la terza, è la sostanza immobile, che molti affermano essere separata dalla materia; gli uni la dividono in due: le specie (o essenze universali) e le essenze matematiche, altri non la dividono; e alcuni ammettono, come immobili e separate, solo le essenze matematiche. Le due specie di sostanze sensibili sono studiate dalla Fisica, poiché implicano movimento; la terza, quella immobile e separata, che non ha un principio comune con le altre due, è studiata da un’altra disciplina.

«La sostanza sensibile è soggetta al mutamento... Le mutazioni sono quattro, o secondo la sostanza, o secondo la qualità, o secondo la quantità, o secondo l’ubicazione... Esistendo l’ente in doppio modo, tutto ciò che muta, muta dall’ente in potenza all’ente in atto… Tutte le cose che mutano hanno una materia, diversa però secondo che è delle cose corruttibili o incorruttibili... Nelle mutazioni, né la materia (propriamente) è prodotta, né la forma... È sostanza (incompleta) la materia, e sostanza (incompleta) la forma, e sostanza (completa) ciò che da esse risulta, l’individuo esiste: Socrate o Callia... Le cause moventi ed efficienti esistono prima dei loro effetti; insieme invece esistono le forme da cui derivano le definizioni... Che qualche forma esista anche dopo il composto che costituiva, è da vedersi; in certi casi niente lo vieta, come nel caso dell’anima, non di qualunque però, ma di quella intellettiva; delle altre è forse impossibile...

«Date queste cause, non occorre porre le idee o essenze universali; l’uomo infatti genera l’uomo, un singolare un singolare... Le cause e i princìpi delle sostanze sono in qualche modo anche le cause e i princìpi degli accidenti, e in qualche modo non lo sono... Oltre alle cause particolari e ai moventi particolari, v’è il primo di tutti gli enti, che li muove tutti... Vi sono poi enti che esistono in sé e per sé, le sostanze, e altri no, gli accidenti; le sostanze sono in certo modo cause degli accidenti, quali sono le proprietà e i movimenti, perché questi non possono esistere senza di quelle... Sono princìpi primi di tutte le cose l’ente in atto e l’ente in potenza...

«Essendo dunque tre le specie della sostanza, due naturali (sensibili e materiali) e una immobile, è ora da provarsi che necessariamente esiste una qualche sostanza eterna e immobile. Le sostanze infatti, fra tutti gli enti, sono gli enti primi e principali; se esse quindi fossero tutte corruttibili, tutte le cose sarebbero corruttibili. Ma, per esempio, è impossibile, che il movimento sia generabile o corruttibile, dato che è sempre stato. Così è pure del tempo; non è infatti possibile che vi sia un prima o un poi se non c’è il tempo. Il movimento poi è continuo ed eterno come il tempo; il tempo infatti o si identifica col movimento o ne è una proprietà. Certo è continuo ed eterno soltanto il movimento locale e circolare. Esiste dunque anche una qualche sostanza eterna e immobile, causa del movimento continuo ed eterno.

«Ora: questa sostanza, essendo causa di un movimento continuo ed eterno, deve muovere sempre in atto; se infatti ciò che muove e produce, non muove e produce attualmente, non si avrebbe il movimento. Ciò infatti che è, circa l’operare, solo in potenza, può anche non operare attualmente». (Aristotele, Metafisica, XI, VI).

Questa forma di conoscenza che abbiamo esaminato potrebbe prendere il nome di conoscenza intuitiva, in quanto in essa l’apprensione della forma sensibile (nella percezione) e della forma intelligibile (nella intellezione) è immediata, cioè si ha per intuizione.

Bisogna esaminare ora quella che è la conoscenza discorsiva: quella conoscenza per cui l’intelletto lungi dall’essere come fissato in un solo oggetto “trascorre-discorre” da uno a un altro oggetto, da uno a un altro concetto, per trovare in uno la fonte o le cause della verità, dell’altro.

La logica del pensiero discorsivo tende a dimostrare le relazioni che tengono legate tra di loro i singoli concetti. E per raggiungere questo scopo essa si serve dell’analisi, di questi concetti, scomponendo cioè il concetto in modo da stabilire: a) quali sono gli elementi logici, ossia gli altri concetti da cui esso è costituito; b) quale è la zona di realtà in cui esso può venire applicato, il numero di esseri che per mezzo di esso può venire pensato, e le specie in cui essi possono venire raggruppati. Ogni concetto ha dunque una sua comprensione (il complesso delle note che contiene in sé) e una sua estensione (il numero delle specie di esseri che esso abbraccia). Ad esempio, il concetto di quadrato ha una comprensione maggiore di quello del quadrilatero, perché contiene in sé, oltre le note del quadrilatero, anche quelle dell’uguaglianza dei lati e degli angoli; ma ha un’estensione minore in quanto è contenuto nel quadrilatero.

In tal modo tutti i concetti vengono disposti in una scala. Essa se viene percorsa dall’alto in basso, nel senso del passaggio da genere a specie, dà un progressivo aumento di comprensione e una pari progressiva diminuzione di estensione, fino a giungere ai concetti di individui che presentano il massimo grado di comprensione ed il minimo di estensione. Se invece viene percossa nel senso inverso si giungerà ad individui che posseggono il massimo grado di estensione ed il minimo di comprensione. Tali concetti sono le categorie, e Aristotele ne elenca dieci: sostanza, qualità, relazione, quantità, luogo, tempo, azione, passività, stato, possesso.

Ogni cosa viene definita nella sua essenza, in quanto si vede quale è l’idea più generica nella quale questa rientra. L’essenza uomo, l’intelletto l’intuisce in ogni essere umano in modo immediato: ma essa deve divenire oggetto di riflessione analitica se se ne vuole dare questa definizione: “l’uomo è animale (genere) ragionevole” (differenza specifica). Con ciò il pensiero discorsivo si manifesta sotto forma di giudizio, con cui esso afferma o nega qualche cosa di qualche cosa altro.

Il ragionamento tipico per Aristotele è il sillogismo.

«Il sillogismo è un discorso nel quale, poste alcune premesse, ne segue una conclusione diversa dalle stesse premesse, ma che segue proprio in virtù delle medesime». (Aristotele, Analytica priora, I, I).

Esso risulta formato da tre giudizi concatenati in modo che poste la verità nei primi due, ne deriva la necessità di verità nel terzo. Esempio: Tutti gli uomini sono mortali – Socrate è uomo – Socrate è mortale. Questo significa dimostrare la verità di un giudizio deducendola dalla verità di altri giudizi.

«Noi assentiamo come a vero a ciò che ci viene provato o col sillogismo o coll’induzione». (Ib., I, XXIII).

«La filosofia attualistica storicamente si riconnette alla filosofia tedesca da Kant a Hegel, direttamente e attraverso i seguaci, espositori e critici che i pensatori tedeschi di quel periodo ebbero in Italia durante il secolo scorso. Ma si riconnette anche alla filosofia italiana della Rinascenza (Telesio, Bruno, Campanella), al grande filosofo napoletano Giambattista Vico, e ai rinnovatori del pensiero speculativo italiano dell’età del Risorgimento nazionale: Galluppi, Rosmini e Gioberti. I primi scritti in cui comincia a delinearsi la filosofia attualistica risalgono agli ultimi anni del secolo XIX. Essa si è venuta sviluppando nei primi decenni di questo secolo parallelamente alla “filosofia dello spirito” di Benedetto Croce. La mia assidua collaborazione alla rivista che nel 1903 fu fondata dal Croce, “La Critica”, e che per molti anni condusse in Italia vittoriosamente una tenace lotta contro le tendenze positivistiche, naturalistiche e razionalistiche del pensiero e della cultura, e il fatto che la “filosofia dello spirito” maturò all’incirca un decennio prima, attirando fin da principio sopra di sé l’universale attenzione, fecero apparire generalmente le due filosofie molto più affini, che esse fin da principio non fossero. Ma le divergenze vennero naturalmente sempre più in luce a mano a mano che i principii delle due filosofie spiegarono le loro conseguenze. E oggi, anche per circostanze contingenti, che qui non accade ricordare, appariscono molto più le divergenze che le affinità e quei motivi che hanno certamente comuni. La filosofia attualistica è così denominata dal metodo che propugna: che si potrebbe definire “metodo della immanenza assoluta”, profondamente diversa dalla immanenza, di cui si parla in altre filosofie, antiche e moderne, e anche contemporanee. Alle quali tutte manca il concetto della soggettività irriducibile della realtà, a cui si fa immanente il principio o misura della realtà stessa. Immanentista Aristotele rispetto all’idealismo astratto di Platone, la cui idea nella filosofia aristotelica diviene forma della stessa natura: forma inscindibilmente connessa con la materia, nella sintesi del concreto individuo: dal quale l’idea, suo principio e misura, non si può separare se non per astrazione. Ma l’individuo naturale per la filosofia attualistica è esso stesso qualche cosa di trascendente: perché in concreto non è concepibile fuori di quel rapporto, in cui esso, oggetto di esperienza, è indissolubilmente congiunto col soggetto di questa, nell’atto del pensiero mediante il quale l’esperienza si realizza. Tutto il realismo fino al criticismo kantiano rimane sul terreno di questa trascendenza. Vi rimane ogni filosofia la quale, anche se riduca tutto all’esperienza, questa intenda come qualche cosa di oggettivo, e non come l’atto dell’Io pensante in quanto pensa, realizzando la realtà dello stesso Io: una realtà fuori della quale non è dato pensare nulla di indipendente e per sé stante. Questo è il punto fermo, a cui si attacca l’idealismo attuale. La sola realtà solida, che mi sia dato affermare, e con la quale deve perciò legarsi ogni realtà che io possa pensare, è quella stessa che pensa; la quale si realizza ed è così una realtà, soltanto nell’atto che si pensa. Quindi l’immanenza di tutto il pensabile all’atto del pensare; o, tout court, all’atto; poiché di attuale, per quel che s’è detto, non c’è se non il pensare in atto; e tutto quello che si può pensare come diverso da questo atto, si attua in concreto in quanto è immanente all’atto stesso». (G. Gentile, Introduzione alla filosofia, Firenze 1952, pp. 18-19).

Le scuole post-aristoteliche

La conquista macedone e il conseguente rivolgimento della vita politica e sociale del popolo greco trovano espressione nel carattere fondamentale della filosofia post-aristotelica. Tale carattere si suole esprimere dicendo che questo periodo della filosofia segna la prevalenza del problema morale.

Lo stoicismo

Il fondatore fu Zenone (333-263 a.C.), scolaro del cinico Cratete, che fondò la sua scuola nel portico dipinto (Stoa poikile) donde suoi scolari si chiamarono stoici. Dei suoi scritti non ci restano che frammenti. Morì di morte volontaria, come quasi tutti i maestri che gli succedettero.

Lo stoicismo ci si presenta in generale come la continuazione ed il completamento della dottrina cinica. Come i cinici, gli stoici cercano non già la scienza, ma la felicità per mezzo della virtù. Ma a differenza dei cinici ritengono che per raggiungere felicità e virtù è necessaria la scienza.

Logica dello stoicismo. Col termine logica, adoperato per la prima volta da Zenone, gli stoici intendono la scienza che ha per oggetto i logoi, i quali sono discorsi interni oppure discorsi esterni, cioè espressioni verbali. Come dottrina dei discorsi interni la logica è dialettica, come dottrina dei discorsi esterni è retorica. Il problema fondamentale della logica stoica è quello del criterio della verità. Per gli stoici il criterio della verità è la rappresentazione catalettica o concettuale, cioè l’azione dell’intelletto che afferra e prende l’oggetto. Questa spiegazione è quella che ha dato Zenone, fondatore della scuola, secondo una testimonianza di Cicerone. Ma per Sesto Empirico la rappresentazione catalettica è l’immagine che è impressa dall’oggetto nell’intelletto, cioè l’azione dell’oggetto sull’intelletto. Entrambi questi significati entrano a far parte delle antiche esposizioni dello stoicismo. Per quanto riguarda il problema dell’origine della conoscenza lo stoicismo è empirismo. Tutta la conoscenza deriva dall’esperienza e l’esperienza è passività perché dipende dall’azione che le cose esterne esercitano considerata come una carta (tabula rasa) su cui vengono a rappresentarsi le immagini.

«Volendo spiegare come la dialettica si distingue dall’oratoria, Zenone soleva chiudere il pugno e poi di nuovo apriva la mano, dicendo che col pugno chiuso indicava il carattere conciso e serrato della dialettica, mentre con la palma e le dita distese voleva significare l’ampio giro e la potenza della oratoria». (Sesto Empirico, Adversus mathematicos, II, 7).

Fisica dello stoicismo. L’universo è per essi come un unico organismo vivente, che ha in se stesso il principio del suo movimento e del suo sviluppo. Pertanto l’universo è composto da anima e corpo, entrambi materiali; ma distinti l’una come principio attivo, l’altro come principio passivo. Il corpo del mondo è fatto di acqua e di terra, l’anima di aria e di fuoco. Questo spirito cosmico è il Dio degli stoici. Anima e corpo del mondo sono differenziazioni di un’unica sostanza originale: il fuoco. Questo subì un progressivo abbassamento della sua tensione dando luogo all’aria fredda, all’acqua e alla terra.

«Gli Stoici distinguono il tutto e l’universo. Il tutto infatti comprende il vuoto infinito, l’universo il mondo che è senza vuoto». (Aezio, Placita, II, 1, 7).

«Il sistema stoico tratta tutti i grandi temi affrontati dalla religione caldea, da quella persiana e dal Buddhismo. Come la prima, esso sottolinea l’esistenza di un Destino immutabile, secondo il quale gli eventi in ogni parte dell’universo sono predeterminati da tutta l’eternità. Come la seconda, esso stabilisce l’adorazione e l’obbedienza degli uomini a una Divinità Suprema, che governa il mondo con potere illimitato e volontà benevola e si manifesta agli uomini come Logos o “Parola divina”. Nella sua interpretazione dell’universo fisico il sistema stoico accetta come primo principio un fuoco vivente e creatore, in ultima analisi identico con la divinità e contenente i germi dell’intera creazione. Esso vede nella volontà dell’uomo un potere indipendente e divino, che non è soggetto ad alcuna costrizione esterna, ma raggiunge il suo culmine e la sua perfezione col volere la sottomissione all’Essere Supremo. Nella sua etica pratica, benché non pretenda la soppressione di tutti i desideri, è in tale accordo col Buddismo da sostenere che la felicità si trova solo nella subordinazione delle pretese individuali alla voce della ragione universale. Infine, i suoi maestri sono attivamente impegnati nella diffusione delle dottrine e nella guida dei discepoli. In breve, lo stoicismo ha le caratteristiche interne ed esterne degli altri grandi movimenti che abbiamo descritto e può pretendere, senza presunzione, di essere incluso tra le religioni mondiali». (E. Vernon Arnold, Roman Stoicism, ns. tr., Cambridge 1911, pp. 17-18).

L’epicureismo

Epicuro (341-270 a. C.), figlio di Neocle, nacque a Samo ed ebbe come maestri di filosofia il platonico Panfilo e il democriteo Nausifone. Iniziò la sua scuola all’età di trentadue anni. Egli teneva le sue lezioni nel giardino per cui i suoi discepoli furono detti filosofi del giardino. L’autorità di Epicuro sui suoi discepoli era grandissima. Come le altre scuole l’epicureismo formava una congregazione di carattere religioso; ma la divinità alla quale questa associazione era dedicata fu il fondatore stesso della scuola: Epicuro. Le grandi anime epicuree non le fece la dottrina di Epicuro, ma la sua assidua compagnia.

Tra i suoi discepoli ricordiamo Lucrezio autore del De rerum natura opera di grandissimo valore poetico, ma anche espressione fedele dell’epicureismo.

Epicuro vede nella filosofia la via per raggiungere la felicità, intesa come liberazione dalle passioni. Il valore della filosofia è quindi puramente strumentale, il fine è la felicità. La filosofia deve convincere l’uomo: a) della inutilità del timore degli dèi, perché non si interessano di lui; b) della inutilità del timore della morte, in quanto quando egli è vivo la morte non c’è e quando c’è la morte, egli non è, quindi la morte non ha niente a che vedere con l’uomo; c) della facilità di ottenere il piacere; d) della provvisorietà del dolore.

La fisica epicurea. Scopo di tale fisica è quello di liberare gli uomini dal timore degli dèi e della morte. Gli dèi secondo Epicuro sono prodotti al pari degli altri dal corso naturale della realtà e vivono nella loro beatitudine negli spazi vuoti tra mondo e mondo.

La formazione dell’universo è dovuta al movimento eterno degli atomi infiniti nell’infinito spazio vuoto: principio di questo movimento è il peso degli atomi stessi che li porta dall’alto in basso nello spazio. Ne deriva una pioggia di atomi in linee perpendicolari e parallele. Ora questo movimento durerebbe all’infinito senza una proprietà che è intrinseca agli atomi, quella di deviare dal loro corso e di far sì che avvenga l’urto tra di loro, urto che è necessario perché gli atomi aggregandosi nelle maniere più varie costituiscano i corpi.

L’etica dell’epicureismo. La felicità consiste nel piacere: il piacere è il principio e fine di ogni vita beata, dice Epicuro (Diog. Laerzio, X, 128). Ma vi sono due specie di piaceri, il piacere stabile che consiste nella privazione del dolore, e il piacere in movimento, che consiste nella gioia e nell’allegria. La vera felicità consiste nel piacere stabile: nel non agitarsi, nel non soffrire, e viene detta atarassia o aponia.

In polemica con i cirenaici che dicevano che il piacere è soltanto nella sua positività, Epicuro afferma che il culmine del piacere è la pura e semplice distruzione.

«Per prima cosa, o Erodoto, bisogna aver ben chiaro ciò che sottostà alle parole, per potere, riferendoci ad esso, giudicare delle opinioni e di ciò che è oggetto di indagine o che presenta difficoltà, e perché tutto per noi non sia confuso, procedendo all’infinito nelle dimostrazioni, e perché non si possiedano altro che delle vuote parole. Bisogna che l’idea fondamentale che ogni parola richiama possa esser colta senza bisogno di dimostrazioni se è vero che dobbiamo avere a che cosa fare riferimento nelle nostre indagini e dubbi e opinioni. Inoltre è in base alle sensazioni che bisogna tener conto di tutto, e in generale in base agli atti apprensivi immediati, sia della mente sia di qualsiasi altro criterio, ugualmente in base alle affezioni che si producono, per poter avere con che procedere a delle induzioni sia su ciò che attende conferma, sia su ciò che non cade sotto il dominio dei sensi; infatti, dopo aver distintamente colto questi princìpi si può considerare nell’insieme quel che non cade sotto i nostri sensi.

«Prima di tutto nulla nasce dal nulla; perché qualsiasi cosa nascerebbe da qualsiasi cosa, senza alcun bisogno di semi generatori; e se ciò che scompare avesse fine nel nulla tutto sarebbe già distrutto, non esistendo più ciò in cui si è dissolto. Inoltre il tutto sempre fu come è ora, e sempre sarà, poiché nulla esiste in cui possa tramutarsi, né oltre il tutto vi è nulla che penetrandovi possa produrre mutazione.

«E inoltre il tutto è costituito di corpi e di vuoto [e questo lo dice anche nella Grande Epitome, all’inizio, e nel I libro dell’opera Sulla natura]. Che i corpi esistano infatti lo attesta di per sé in ogni occasione la sensazione, in base alla quale bisogna, con la ragione, giudicare di ciò che sotto i sensi non cade, come abbiamo detto prima; se poi non esistesse ciò che noi chiamiamo vuoto o luogo o natura intattile, i corpi non avrebbero né dove stare né dove muoversi, come vediamo che si muovono.

«Oltre a queste due realtà, né in base all’esperienza, né in analogia ai dati di essa si può arrivare a concepire alcuna altra cosa nel modo in cui queste appunto vengono colte in tutte le nature, diverso è il caso di ciò che di queste nature chiamiamo qualità accidentali o essenziali.

«E poi [e questo lo dice anche nel I libro dell’opera Sulla natura e nel XIV e XV e nella Grande Epitome] dei corpi alcuni sono aggregati, altri i componenti degli aggregati. Questi sono indivisibili e immutabili dato che tutto non deve distruggersi nel nulla, ma permanere essi saldi nella dissoluzione degli aggregati, avendo natura compatta, né esistendo dove o come possano essere distrutti. Per cui è necessario che i princìpi costitutivi dei corpi siano indivisibili.

«Oltre a ciò il tutto è infinito, poiché ciò che è finito ha un estremo, e l’estremo si può scorgere rispetto a qualcos’altro, ma il tutto non si può scorgere da qualcos’altro, di modo che non avendo estremo non ha nemmeno limite, e ciò che non ha limite è illimitato, non limitato.

«E anche per la quantità dei corpi e per la grandezza del vuoto il tutto è infinito. Se infatti il vuoto fosse infinito e i corpi finiti, questi non potrebbero rimanere in alcun luogo, ma vagherebbero per l’infinito vuoto, sparsi qua e là, non sostenuti né mossi da altri corpi nei rimbalzi; se poi fosse finito il vuoto, i corpi infiniti non avrebbero dove stare.

«Per di più i corpi che sono indivisibili e solidi – dei quali sono formati gli aggregati e nei quali si disgregano – hanno un inconcepibile numero di forme; perché non è possibile che possano sussistere tante differenze negli aggregati prodotti dalle stesse forme limitate. E per ciascuna forma vi è un numero assolutamente infinito di atomi simili, ma per diversità di forma non sono infiniti, ma solo inconcepibili [né, dice più sotto, con la divisione si può procedere all’infinito; e lo dice perché le qualità cambiano] se non si vuole farli infiniti anche per grandezza.

«Gli atomi poi hanno moto continuo [più sotto dice che i loro moti sono equiveloci perché il vuoto lascia passare sia i più leggeri che i più pesanti] e eterno e alcuni rimbalzano via lontano gli uni dagli altri, alcuni invece trattengono lì il loro rimbalzo quando siano compresi in un aggregato o impediti da altri atomi intrecciati; infatti la natura del vuoto che separa gli uni dagli altri è causa di tale fenomeno non essendo tale da opporre resistenza, e d’altra parte la solidità, che è loro propria, è causa del loro rimbalzare negli urti nei limiti in cui l’eventuale presenza di un intreccio di atomi non li rimette nella primitiva posizione turbata da tali urti. Non c’è un inizio di questi moti, essendo eterni sia gli atomi che il vuoto. [Dice più sotto che gli atomi non hanno alcuna qualità, all’infuori della forma della grandezza e del peso, e nei Dodici Elementi dice che il colore cambia con la posizione degli atomi; che non hanno qualsiasi grandezza: infatti un atomo non fu mai percepito dai sensi]. Tutto quanto è stato detto, se viene tenuto bene a mente, fornisce un compendio sufficiente di quanto si deve pensare riguardo alla natura delle cose.

«I mondi poi sono infiniti, sia quelli uguali al nostro sia quelli diversi; poiché gli atomi, che sono infiniti come abbiamo or ora dimostrato, percorrono i più grandi spazi. Non vengono esauriti infatti tali atomi, dai quali ha origine o viene costituito un mondo, né da un solo né da un numero finito di mondi, né da quanti sono simili né da quanti sono dissimili a questo; di modo che niente si oppone a che i mondi siano infiniti.

«Esistono inoltre delle immagini che hanno la stessa forma degli oggetti solidi, ma per sottigliezza sono molto differenti da ciò che si vede. Né è impossibile che nell’ambiente che ci circonda si producano tali efflussi, e che siano adatti a riprodurre le parti cave e quelle piane, o emanazioni tali da conservare la disposizione e l’ordine che avevano anche nei corpi solidi: queste immagini noi le chiamiamo simulacri.

«Oltre a ciò il moto attraverso il vuoto, che avvenga senza nessun ostacolo di urti, compie ogni percorso immaginabile in un tempo inconcepibilmente breve. La presenza o l’assenza di urti prende rispettivamente l’aspetto di lentezza e di velocità. Certamente un corpo in moto non giungerà contemporaneamente in tempi concepibili solo col pensiero in molteplici luoghi, poiché è impensabile, e per di più questo corpo giunto in un tempo percepibile da un punto qualsiasi dell’infinito non sarebbe partito da quel luogo dal quale noi percepiamo l’inizio del suo moto; infatti la velocità del suo moto sarà pari agli intoppi incontrati, anche se fino a questo punto l’abbiamo posta non condizionata da essi. È utile tenere a mente anche questo principio». (Epicuro, Lettera sulla natura).

«La rovina dell’idea della polis aveva introdotto nel mondo ellenico un grave motivo di crisi. Epicuro trovò larghissimo seguito quando, fondandosi su una visione materialistica del mondo, proclamò un individualismo etico che teneva conto solo delle tendenze egoistiche dell’uomo e non ammetteva doveri verso la società aventi la loro base nella natura. La filosofia classica non aveva nulla da contrappor-gli. L’appello al sentimento della polis non aveva più effetto alcuno, né trovava risonanza l’esaltazione dello spirito immateriale. Il platonismo si ripiegò su se stesso in un isolamento quasi monastico e smarrì il contatto con le nuove condizioni di vita. Per la scuola peripatetica costituì invece un pericolo proprio l’essere aperta verso il mondo e le più disparate attività: si disperse in tante scienze speciali, che rinunciarono a proporre un ideale di saggezza e trovarono ad Alessandria un terreno più propizio, mentre la scuola ateniese, sotto la lunga direzione di Licone, divenne un’istituzione educatíva a carattere mondano, che curava lo sport e la bella forma oratoria, ma non offriva agli uomini un valido sostegno per la vita. Solo Zenone fu in grado allora di esercitare un’azione sugli uomini della sua età: a questi uomini egli parlò nel loro stesso spirito e alla loro vita indicò una meta che era diametralmente opposta a quella di Epicuro. Al materialismo, che non vedeva nello spirito se non un prodotto della materia, contrappose un monismo che, pur legando lo spirito alla materia, gli assicurava il dominio sopra di essa. Benché personalmente non avesse interesse per le scienze naturali, Zenone propose una spiegazione del mondo che, pur tenendo nel debito conto i processi meccanici, non assumeva come ultima causa agente il caso o la cieca necessità, ma la forza proveniente dallo spirito che tutto ordina e plasma. In questo medesimo logos egli additò la vera essenza dell’uomo, un’essenza che non lo destina al piacere fisico della bestia, ma ad una vita fondata sullo spirito e sulla moralità. Riconobbe la naturalità dell’egoismo, ma mise in evidenza anche l’istinto che porta l’uomo ad associarsi con l’uomo. In tal modo Zenone salvò, consegnandola alla nuova età, la convinzione che era stata propria della civiltà ellenica in genere e di quella ateniese in particolare, che cioè l’uomo diventa veramente uomo solo in seno alla comunità, e la adattò al mutato sentimento della vita, mettendo al posto della polis la grande associazione formata da tutti gli esseri razionali. Così, per la prima volta nella storia, al posto dell’antico ideale ellenico del cittadino fu proclamata l’idea dell’umanità. La dottrina zenoniana della naturale inclinazione che ci lega agli esseri della nostra stessa specie precorre il cristiano amore del prossimo, e se la sottovalutazione delle cose esterne impedì a Zenone di trarre da quella dottrina tutte le conseguenze che ne trasse il cristianesimo, pure egli, contrapponendosi nel modo più preciso ad Epicuro e superando altresì consapevolmente il cinismo, dedusse dalla natura stessa dell’uomo il dovere che l’uomo ha di mettersi al servizio della comunità organizzata e di cooperare ad assolvere i suoi fini. Il mondo intero egli sottopose poi alla legge razionale, e introdusse così nel pensiero occidentale l’idea del diritto di natura, che, senza distinzione di nazione o di Stato, vincola tutti gli uomini». (M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, tr. it., vol. I, Firenze 1967, pp. 331-332).

Lo scetticismo

La ricerca fiduciosa che avevano iniziato e portato a termine Socrate, Platone e Aristotele, si può chiamare scepsi, ma scepsi come ricerca critica della possibilità di giungere al vero; indagine che muove dal dubbio per acquistare la certezza. Ora questa scepsi viene travisata in una ricerca critica mirante a raffermare il dubbio e a dimostrare l’impossibilità di pronunziarsi su qualsiasi cosa. Questo secondo tipo di scepsi e quello di Pirrone di Elide (365-275 a. C.) e di tutti gli accademici scolari e discepoli spirituali di Platone e Socrate, come Carneade (214-129 a. C.).

Lo scetticismo si rivolge contro ogni forma di dogmatismo, cioè contro ogni dottrina che pretende enunciare verità sicure o dogmi. Le affermazioni dogmatiche, secondo gli scettici, sono espressione della presunzione che la mente umana possa afferrare il reale e disponga di un criterio che le permetta di stabilire con certezza quando essa afferra la realtà. Secondo gli scettici la realtà è conosciuta non quale è, ma secondo come diviene nel suo apparire a noi, nel suo trasformarsi in impressione della nostra coscienza.

Quanto poi alle opinioni della ragione non ve ne è una la quale poggi su argomenti incontrastabili: ad essa si può sempre contrapporne un’altra a favore della quale militano argomenti altrettanto forti.

Da tutte queste critiche gli scettici traggono la conseguenza che l’unico partito da prendere è quello di sospendere in ogni questione il proprio giudizio, sia dall’affermare, come dal negare. L’indifferenza di fronte a tutte le opinioni, libererà l’animo del saggio e gli darà quella imperturbabilità che è il suo ideale.

Certo, gli Scettici dell’Accademia, come Carneade, ammettono che appunto la vita pratica non ci consente sempre la sospensione del giudizio e ci costringe ad accogliere una data opinione come punto di appoggio per la volontà. Ma non è necessario per questa una certezza reale, basta che questa poggi su una qualche probabilità, sufficiente per meritare la nostra fiducia.

Lo scetticismo, specie quest’ultimo probabilistico, ha una funzione storica importante, in quanto aborre e vuole con la sua critica implacabile fiaccare qualsiasi forma di dogmatismo intollerante e unilaterale; ciò che intende suscitare è la coscienza critica.

“Ogni cosa, isolata dalle altre, non ha più senso. Ogni cosa ha significato solo in rapporto alle altre”. (Enesidemo).

“Non esiste alcuna garanzia che i fenomeni che ci appaiono nella loro evidenza sensibile corrispondono realmente alle cose in sé, come realmente sono”. (Sesto Empirico).

“Ogni verità è provata da teoremi, i quali sono provati da altri teoremi, e questi a loro volta da altri. Nulla prova che un teorema che si pone come principio non possa in realtà avere alle sue spalle un altro teorema. In questa tesi si evidenzia come il processo dei passaggi logici possa in realtà essere infinito”. (Agrippa).

«L’assoluta conoscenza che noi esigiamo non è più che un abbozzo. È una conoscenza che sembra soddisfacente da un lato ad assicurare le principali esigenze della sua natura, e che si astiene d’altra parte dalle pretese che tutti dobbiamo riconoscere non essere giustificate. Noi insistiamo che tutta la Realtà deve avere un certo carattere, tutto il suo contenuto deve essere esperienza e sistema, e questa unità stessa deve essere esperienza. Essa deve includere e armonizzare ogni possibile frammento di apparenza. Ogni cosa, che in un senso può essere qualche cosa di più di ciò che sperimentiamo e trascendere la nostra esperienza, deve inevitabilmente essere qualche cosa di più della stessa specie. Noi persistiamo in questa conclusione e affermiamo che così si arriva alla conoscenza assoluta, ma questa conclusione d’altra parte non va molto lontano. Essa ci lascia liberi di ammettere che ciò che conosciamo è dopo tutto nulla in relazione al mondo della nostra ignoranza. Noi non sappiamo quali altri modi d’esperienza possano esistere, e in paragone ai nostri quanti possano essere, non sappiamo che in un modo vago che cosa sia l’Unità, o perché essa appaia nelle nostre forme particolari di pluralità. Noi possiamo anche intendere che tale conoscenza è impossibile, e abbiamo trovato la ragione del perché ciò sia così. Possiamo conoscere la verità solo in quanto essa esiste come se stessa, e l’unità di tutti i lati della nostra natura li tramuterebbe in ogni caso da ciò che essi sono. La verità, se adeguata alla Realtà, verrebbe così trasformata da diventare qualche cos’altro che verità, e per noi irraggiungibile. Noi abbiamo così lasciato il dovuto posto al dubbio e alla meraviglia, ammettiamo un sano scetticismo per cui ogni conoscenza in un senso è verità, per cui la scienza è una povera cosa se è misurata al valore del reale universo. Noi giustifichiamo la naturale meraviglia che si diletta a trascendere il nostro mondo comprensibile, e a seguire vie che ci portano verso regioni per metà sconosciute e per metà incono-scibili. La nostra conclusione in breve spiega e conferma l’impressione irresistibile che tutto ci trascende». (F. H. Bradley, I principi della logica, tr. it., Milano 1951, pp. 127-128).

La metafisica religiosa di Plotino

Il neoplatonismo è l’ultima manifestazione nel mondo antico del platonismo. Elementi pitagorici, aristotelici, storici vengono fusi col platonismo in una vasta sintesi che doveva influenzare potentemente tutto il corso del pensiero moderno.

Il neoplatonismo quindi non ha niente a che fare con il platonismo originario e autentico. È invece una sorta di scolastica che utilizza il platonismo, in mescolanza con altri elementi eterogenei, allo scopo di giustificare un atteggiamento religioso.

Vero fondatore del neoplatonismo è Plotino (204-270), da Licopoli in Egitto. Partecipò alla spedizione dell’imperatore Gordiano contro i Persiani e gli Indiani, per conoscere le loro dottrine; al ritorno a Roma fondò la sua scuola che ebbe come ascoltatori e ammiratori quasi tutti i senatori romani.

I motivi principali della filosofia di Plotino sono: 1) L’uno. Tutte le cose per lui sono e vivono in Dio, da lui scaturiscono e a lui tendono; e tuttavia Dio è al di là del mondo, ed esclude da sé ogni molteplicità e ogni determinazione. Possiamo dirlo uno, solo per designare una negazione, ossia l’assenza di molteplicità. Il mondo deriva da Dio non per creazione, bensì per emanazione. Dio è energia infinita, l’espandersi di questa energia sovrabbondante dà origine al mondo. È come il traboccare del liquido da una coppa continuamente riempita da una sorgente invisibile. L’emanazione del mondo da Dio ha luogo per diversi gradi. 2) I gradi dell’essere. Per Plotino sono tre: l’intelletto, che è la prima irradiazione dell’uno, quella nella quale l’unità si differenzia nella dualità di Intelligenza e di Mondo intelligibile, di Soggetto pensante e Oggetto pensato. Ma codesta dualità non esclude l’unità: il Mondo intelligibile è tutt’uno con l’Intelligenza, è il Pensiero che pensa se stesso. 3) L’Anima. Come l’uno emana l’Intelletto, così l’Intelletto emana l’Anima: l’Anima del mondo, immagine dell’Intelletto e principio della molteplicità che è nella vita cosmica. L’Anima ha come due facce, l’una è volta verso l’Intelletto, nella sua unità impartibile, come attività di pensiero capace di accogliere in sé il riflesso delle idee e di ragionarvi su. L’altra faccia è volta alla materia sottostante, per costituire le infinite forme corporee, servendosi delle nozioni derivate dall’intelletto. 4) Il mondo corporeo e la materia. L’estrinsecarsi dell’anima universale nella sua espansione e nelle sue successive esplicazioni dà luogo al mondo corporeo e con ciò genera lo spazio e il tempo, e quindi il frazionarsi dell’essere in una serie di esseri posti gli uni a fianco degli altri, separati tra loro. È come l’estremo impallidire delle irradiazioni della luce, che man mano viene meno e si spezza con tratti d’ombra; i quali costituiscono la materia.

«L’Uno è “tutte le cose” e al tempo stesso non è neppure una di esse; principio di tutto, voglio dire, non è “tutte le cose” in una maniera qualunque ma è tutto in una maniera trascendente. Lassù, difatti, le cose tutte devono trovarsi come dopo una corsa; o, meglio le cose non si trovano ancora nell’Uno, ma vi si troveranno. Come possono allora derivare dalla semplicità dell’Uno, mentre in una pura identità non si può mostrare mai nessuna varietà, nessuna piegatura, quale che sia, assolutamente? Orbene, proprio perché nulla fu mai in lui, proprio per questo, dico, tutto deve sgorgare da lui; anzi, affinché l’essere sia, per questo Egli non è “essere”, ma solo il genitore dell’essere; e questa che vorrei chiamare “genitura” è primordiale. Mi spiego; perfetto com’è, giacché nulla ricerca, nulla possiede, di nulla ha bisogno, Egli trabocca, per così esprimerci, e la sua esuberanza dà origine a una realtà novella; ma l’essere così generato si rivolge appena a Lui ed eccolo già riempito; e, nascendo, volge il suo sguardo su di se stesso ed eccolo Spirito. Precisiamo ancora: il suo fermo orientamento verso l’Uno crea l’Essere; la contemplazione che l’Essere volge a se stesso crea lo Spirito. Ora, poiché lo Spirito, per contemplarsi, deve pur stare orientato verso se stesso, Egli diviene simultaneamente Spirito ed Essere. Così, dunque, l’Essere è un “secondo Lui” e perciò crea ciò che gli è simile, versando fuori la sua forza esuberante; ma, immagine, anche questa, dell’Essere corrisponde a Colui che già prima dell’Essere s’effuse. E questa forza operante che sgorga dall’Essere è “Anima” che diviene quello che è, mentre lo Spirito è fermo; poiché anche lo Spirito sorse mentre “Ciò che era prima di Lui” perseverava nell’immobilità. L’Anima però non è immobile nel suo creare; tutt’al contrario, ella generava la sua immagine, allorché aveva già subito il movimento. Ora, finché ella guarda lassù donde nacque, si riempie di Spirito; ma se avanza su un’altra ed opposta direzione, genera – immagine di se stessa – la sensibilità e, nelle piante, la potenza vegetativa. Nulla, peraltro, è separato, nulla è scisso da ciò che precede. Sotto questo rispetto, sembra persino che l’anima umana s’inoltri, pur essa, sino alle piante: vi si inoltra, intendiamoci, in questo senso che la potenza vegetativa ch’è nelle piante appartiene all’Anima; certo, ella non è, tutta quanta, nelle piante, ma se è nelle piante è in questo senso ch’ella è procedura sino a tal punto, nel basso, da creare un essere novello in quel suo processo e in quella sua premura del “peggiore”. Del resto, anche la sua parte superiore, quella sospesa allo Spirito, lascia che se ne stia quieto e fermo lo Spirito che è in essa [...]. Tutte queste gradazioni sono Lui e non sono Lui: sono Lui poiché da Lui derivano; ma non sono Lui, poiché Egli, fermo in se stesso, non ha fatto altro che dare. Concludendo, gli è come un corso lento di vita che si protenda in lunghezza: ognuno dei tratti successivi è “un diverso”, ma il tutto è compatto in se stesso e se, per via di differenze, ogni cosa sorge perennemente nuova, l’antico però non si perde nel nuovo». (Plotino, Enneadi, V, 2, I-II).

L’uomo e il ritorno a Dio. Le singole anime sono quindi contenute nell’anima universale e sono riflessi delle idee di spiriti individuali pensate dall’intelletto divino. In questi riflessi è dunque la vera realtà dell’individuo. Pertanto ogni uomo nella sua realtà originaria è un’idea, un essere intelligibile spirituale ed eterno al pari dell’intelletto divino in cui è immanente. Al pari l’anima nel corpo è una parvenza della vera anima, l’una crede che tale anima sia il nostro vero io e quindi crea un’illusione fatale che la rinsalda sempre più alla sua degradazione.

Bisogna spezzare questa illusione, convincersi che quell’io che soffre quaggiù e che si agita e si affatica, è un’ombra del nostro vero io, remoto affatto al mondo sensibile, e in generale alle vicende della natura e della storia, che sono dei giochi di ombre.

Il compito dell’anima è perciò quello di elevarsi a Dio, di portarsi dal sensibile all’intelligibile con un processo di conversione opposto a quello di emanazione. I gradi di questo ritorno sono: a) disciplina della vita sensibile, costituente in una catarsi dell’anima, cioè in uno sforzo di liberazione delle passioni e dagli inganni dei sensi; b) contemplazione dell’intelligibile nel sensibile, per mezzo dell’arte (musica) e dell’amore; c) attraverso il pensiero discorsivo o ragionamento, per cui l’anima come ragione si avvia verso l’essere vero; d) infine, più in alto della visione intuitiva dell’intelligibile, uno stato d’anima, in cui essa è rapita – al di là dell’intelligenza – nell’uno immobile, in un abbandono d’ineffabile amore, in un dissolvimento della propria coscienza individuale nel tutto (estasi).

«Ma, se uno di noi – mal riuscendo a vedere se stesso – ghermito dal dio superno, trasporta al di fuori la visione per poter vederla, egli allora trasporta al di fuori anche se stesso e guarda semplicemente un’abbellita immagine di sé. Ma se lascia cadere tale immagine, per bella che sia, e giunge a unificarsi con se stesso senza spezzarsi più, egli è uno e tutto a un tempo, in compagnia di quel dio che è lì presente, nel silenzio, e allora egli se ne sta con Lui, sino al limite del suo potere e della sua brama. Se, per contro, egli si volge indietro e ricade nella dualità, fino a che resti puro, egli è sempre in immediata vicinanza con Lui, sì da rientrare ancora – in quel modo trascendente – proprio nel suo essere, purché solo si rivolga, di bel nuovo, a Lui; comunque, da quel suo volgersi indietro, egli ha tratto il seguente guadagno: al principio, egli acquista una percezione di se stesso, fino a che sia distinto da Lui; ma allora egli si affretta a entrare nel suo interno e riguadagna il tutto, tanto che, facendo getto della percezione, torna indietro, per paura di esser diverso da Lui, e ritorna così uno, lassù. Se però egli brama vederlo come un diverso, egli rende esteriore pure se stesso. Chi però fermo in una qualche traccia di Lui lo va scoprendo, deve anzitutto a furia di cercare, vagliarne la cognizione; ma, dopo avere così saggiato, con la prova dovuta, il valore della cosa in cui deve entrare – come, cioè, entri in una somma beatitudine – egli deve oramai abbandonarsi al suo intimo e tramutarsi alfine, risplendendo di pensieri, da “veggente” in “visione”, la visione, voglio dire, di un altro Contemplante, com’è Colui che ci si fa incontro di lassù… Ora, come può uno essere nel bello e tuttavia non vederlo? Ecco: fino a che uno vede il bello come altro da sé, non è ancora nel bello costui; se invece è divenuto bello, allora soltanto, egli si trova, al più alto grado, nella bellezza. Se pertanto il vedere si riferisce a ciò che sta fuori, non vuol essere visione, questa, se non sia tale da identificarsi con la cosa vista: ma questa è, per così dire, intelligenza e coscienza di sé, e qui si deve fare attenzione a che non si corra il rischio di allontanarsi da se stesso, proprio mediante una più intensa coscienza! Occorre pure riflettere al fatto che le percezioni di cose cattive ci colpiscono più violentemente e indeboliscono la conoscenza che viene sbalzata fuori dai loro urti: una malattia, ad esempio, ci inebetisce; la sanità invece, benché tranquilla compagna, sa farsi avvertire di più poiché essa sta in noi, come a casa sua, al primo posto, anzi s’unifica con noi, mentre la malattia è un’estranea e non è appropriata al nostro essere ed è visibilissima proprio per questo che si manifesta violentemente diversa dal nostro essere […]. Pure, su ciò che rientra nel nostro “io” e sullo stesso nostro “io”, noi non rivolgiamo normalmente la nostra avvertenza; ma proprio così, più che mai, noi siamo consci di noi, in quanto abbiamo operato l’unità tra il nostro sapere e il nostro “io”. Lassù pertanto, allorché il nostro sapere corrisponde nel grado più alto allo Spirito, abbiamo l’impressione di non saper nulla, poiché attendiamo l’impronta della coscienza, la quale dice di non aver visto nulla; in realtà essa non ha visto nulla né potrebbe mai vedere cose siffatte. Così, la fonte del dubbio è la coscienza: tutt’altro, invece, è Colui che vede; o, se dubitasse lui pure, non dovrebbe neppure credere a se stesso. Mai e poi mai, in verità, lo Spirito potrebbe trasferire se stesso al di fuori e guardarsi con occhi corporei come se fosse un oggetto sensibile». (Plotino, Enneadi, V, 8, XI).

«L’assurdo è essenzialmente un divorzio, che non consiste nell’uno o nell’altro degli elementi comparati, ma nasce dal loro confronto. Nella fattispecie e sul piano dell’intelligenza, posso dunque dire che l’Assurdo non è nell’uomo (se una simile metafora potesse avere un senso), e neppure nel mondo, ma nella loro comune presenza. Per il momento, è il solo legame che li unisca. Se voglio fermarmi all’evidenza, so ciò che vuole l’uomo e ciò che gli offre il mondo; e ora posso dire che so anche ciò che li unisce. Non ho bisogno di approfondire oltre, perché una sola certezza basta a colui che cerca. Si tratta soltanto di trarne tutte le conseguenze. La più immediata di queste è, al tempo stesso, una regola di metodo. La singolare trinità che si mette, in tal modo, in luce, non è certo l’improvvisa scoperta dell’America, ma ha di comune i dati dell’esperienza il fatto di essere insieme infinitamente semplice e infinitamente complessa. Il primo suo carattere, a tal riguardo, è quello di non potersi dividere. Distruggere uno dei termini, è distruggerla interamente. Non può esistere assurdo al di fuori dello spirito umano. Così l’assurdo finisce, come tutte le cose, con la morte. Ma non può neppure esistere assurdo al di fuori di questo mondo. Ed è alla luce di questo criterio elementare che giudico che la nozione di assurdo sia essenziale e possa figurare come la prima delle mie verità. Qui appare la regola del metodo sopra richiamata. Se reputo che una cosa sia vera, devo preservarla; se mi occupo di apportare a un problema la soluzione, bisogna almeno che non faccia sparire, in virtù di questa soluzione stessa, un termine del problema. L’unico dato per me è l’assurdo. Il problema è sapere come uscirne, e se da codesto assurdo debba dedursi il suicidio. La prima e, in fondo, l’unica condizione delle mie ricerche, è preservare proprio ciò che mi schiaccia, rispettare di conseguenza quello che in esso giudico essenziale. Ho così definito l’assurdo un confronto e una lotta senza sosta. Ora, spingendo fino all’estremo questa logica assurda, devo riconoscere che tale lotta suppone la totale assenza di speranza (che non ha nulla a che vedere con la disperazione), il rifiuto continuo (che non deve essere confuso con la rinuncia) e l’insoddisfazione cosciente (che non dev’essere assimilata all’inquietudine giovanile). Tutto ciò che distrugge, sopprime o assottiglia queste esigenze (e in primo luogo il consenso che distrugge il divorzio) rovina l’assurdo e avalla l’atteggiamento che può essere allora proposto. L’assurdo ha senso solo nella misura in cui gli venga negato il consenso. Esiste un fatto evidente che sembra assolutamente di ordine morale, ed è che un uomo è sempre preda delle proprie verità. Quando le abbia riconosciute, egli non è capace di staccarsene. Bisogna pur pagare qualche cosa. Un uomo divenuto cosciente dell’assurdo, è legato a questo per sempre. Un uomo senza speranza e cosciente di esserlo, non appartiene più all’avvenire. Questo è nell’ordine delle cose. Ma è pure naturale che egli si sforzi di sfuggire all’universo di cui è il creatore. Tutto ciò che precede, per l’appunto, non ha senso che in rapporto a questo paradosso. Nulla può essere più istruttivo in proposito, che esaminare il modo con cui gli uomini – i quali, partendo da una critica del razionalismo, riconobbero il clima assurdo – hanno spinto le loro conseguenze. Ora, per attenermi alle filosofie esistenzialiste, vedo che tutti, senza eccezione, mi propongono l’evasione. Con un singolare ragionamento, costoro, partiti dall’assurdo sulle rovine della ragione, in un universo chiuso e limitato all’umano, divinizzano ciò che li schiaccia e trovano una ragione di sperare in ciò che li spoglia. Per gli esistenzialisti, la negazione è il loro Dio. Esattamente, questo dio non si sostiene che in virtù della negazione della ragione umana. (Precisiamo, ancora una volta: non è l’affermazione di Dio che è qui messa in discussione, ma la logica che vi conduce). Ma, come i suicidi, gli dèi cambiano con gli uomini. Vi sono molti modi di saltare, quando l’essenziale è saltare. Queste negazioni redentrici, queste contraddizioni finali, che negano l’ostacolo che non è stato ancora saltato, possono nascere (è il paradosso a cui mira questo ragionamento) tanto da una certa ispirazione religiosa quanto dall’ordine razionale. Esse pretendono sempre l’eterno. È a questo riguardo soltanto che esse compiono il salto. Bisogna ancora dirlo: il ragionamento, che segue questo saggio, lascia interamente da parte l’atteggiamento spirituale più diffuso nel nostro secolo illuminato: quello che si appoggia al principio per cui tutto è ragione e che mira a dare una spiegazione del mondo. È naturale darne una chiara visione, quando si ammette che esso debba essere chiaro. Tutto ciò è anche legittimo, ma non interessa il ragionamento che noi qui inseguiamo, e che consiste appunto nello spiegare il processo dello spirito, quando, partendo da una filosofia del non significato del mondo, finisce per trovargli un senso e una profondità. Il più patetico di questi processi è di essenza religiosa e si illustra nel tema dell’irrazionale. Ma il più paradossale e significativo è proprio quello che attribuisce le ragioni ragionanti a un mondo che, all’inizio, veniva immaginato senza principio direttivo. Ad ogni modo non si potrebbe giungere alle conseguenze che ci interessano, senza aver dato una idea di questo nuovo acquisto dello spirito di nostalgia. [...]. Ci si meraviglierebbe invano dell’apparente paradosso che conduce il pensiero alla sua stessa negazione, attraverso le opposte vie della ragione umiliata e della ragione trionfante. Dal dio astratto di Husserl al dio folgorante di Kierkegaard la distanza non è tanto grande. La ragione e l’irrazionale conducono alla stessa predicazione. Il fatto è che, in verità, il cammino ha poca importanza e la volontà di arrivare basta a tutto. Il filosofo astratto e il filosofo religioso partono dallo stesso smarrimento e si sostengono nella stessa angoscia. Ma l’essenziale è dare una spiegazione. Qui la nostalgia è più forte della scienza. È significativo che il pensiero dell’epoca sia, insieme, uno dei più penetrati di una filosofia del nonsignificato del mondo e uno dei più straziati nelle sue conclusioni. Esso non cessa di oscillare fra l’estrema razionalizzazione del reale, che spinge a frammentarlo in ragioni-tipo, e l’estrema irrazionalizzazione, che spinge a divinizzarlo. Ma questo divorzio è soltanto apparente. Si tratta di giungere ad una conciliazione e, in entrambi i casi, basta il salto. Si crede, sempre a torto, che la nozione di ragione abbia un senso unico. In verità, per quanto rigorosa essa sia nella sua ambizione, il concetto è instabile né più né meno degli altri. La ragione ha un volto assolutamente umano, ma sa anche rivolgersi al divino. Dopo Plotino, che per primo seppe conciliarla con il clima eterno, ha imparato ad allontanarsi dal più vero dei suoi princìpi, che è la contraddizione, per integrarne il più strano, quello, assolutamente magico, di partecipazione. Essa è uno strumento del pensiero e non il pensiero stesso. Il pensiero di un uomo è innanzi tutto la sua nostalgia. Allo stesso modo che la ragione seppe placare la malinconia di Plotino, essa dà all’angoscia moderna i mezzi per placarsi nella scena familiare dell’eterno. Lo spirito assurdo ha minore fortuna. In quel tempo bisognava che la ragione si adattasse o morisse. Si è adattata. Con Plotino diviene estetica. La metafora sostituisce il sillogismo. D’altronde, non è questo il solo contributo di Plotino alla fenomenologia. Tutto questo atteggiamento è già contenuto nel pensiero, tanto raro al pensatore alessandrino, che non vi sia soltanto un’idea dell’uomo, ma anche un’idea di Socrate. Per lui il mondo non è tanto razionale, né irrazionale fino a tal punto: è irragionevole ed è solamente questo. La ragione in Husserl finisce per non avere limiti. L’assurdo, al contrario, fissa i propri limiti, in quanto la ragione è impotente a calmare l’angoscia. Kierkegaard, da un altro lato, afferma che un solo limite basti a negarla. Ma l’uomo assurdo non va tanto lontano; questo limite, per lui, mira soltanto alle ambizioni della ragione. Il tema dell’irrazionale, quale è concepito dagli esistenzialisti, è la ragione che si confonde e si libera negando se stessa. L’assurdo è la ragione lucida, che accetta i propri limiti. [...]. Ora, la cosa principale è fatta: posseggo alcune evidenze dalle quali non posso staccarmi. Ciò che so, che è sicuro, che non posso negare né rigettare: ecco quello che conta. Posso tutto negare della parte di me stesso che vive di incerte nostalgie, all’infuori di questo desiderio di unità, di questa brama di risolvere, di questa esigenza di chiarezza e di coesione. Posso tutto confutare, in questo mondo che mi circonda, mi urta o mi trasporta, salvo questo caos, questo caos imperante e questa divina equivalenza, che nasce dall’anarchia. Non so se il mondo abbia un senso che lo trascenda; ma so che io non conosco questo senso e che, per il momento mi è impossibile conoscerlo. Che valore ha per me un significato al di fuori della mia condizione? Io posso comprendere soltanto in termini umani. Ciò che tocco e che mi resiste, ecco quanto comprendo. E queste due certezze, la mia brama di assoluto e di unità e l’irriducibilità del mondo a un principio razionale e ragionevole, so anche che non posso conciliarle. Quale altra verità posso riconoscere senza mentire, senza far intervenire una speranza che non ho e che non significa nulla contro i limiti della mia condizione? Se fossi albero tra gli alberi o gatto tra gli animali, questa vita avrebbe un senso o piuttosto questo problema non sussisterebbe, perché farei parte del mondo. Io sarei quel mondo, al quale mi oppongo ora con tutta la mia coscienza e con tutta la mia esigenza di familiarità. Questa ragione tanto inconsistente è quella che mi pone contro tutta la creazione. Ma, poiché non posso negarla con un tratto di penna, devo dunque mantenere ciò che credo vero e sostenere ciò che mi appare tanto evidente, anche se contro me stesso. E che cosa forma il fondamento del conflitto, della frattura fra il mondo e il mio spirito, se non la coscienza che io ne ho? Se voglio dunque conservare tale conflitto, devo farlo per mezzo di una coscienza perpetua, sempre rinnovantesi, sempre tesa. Ecco ciò che per il momento devo ritenere. A questo punto, l’assurdo, così evidente e insieme così difficile da conquistare, rientra nella vita di un uomo e ritrova la propria patria; e, a questo punto ancora, lo spirito può lasciare lo sterile e arido cammino dello sforzo lucido, che sboccia ora nella vita quotidiana. Tale via ritrova il mondo dell’anonimo impersonale, ma l’uomo vi rientra ormai con la sua rivolta e la sua perspicacia, poiché ha disimparato a sperare. L’inferno del presente è finalmente il suo regno. Tutti i problemi riprendono il loro carattere perentorio, l’evidenza astratta si ritira di fronte al lirismo delle forme e dei colori. I conflitti spirituali si incarnano e ritrovano il miserabile e magnifico rifugio del cuore umano. Nessuno è deciso, ma tutti sono trasfigurati. Si deve morire, sfuggire con il salto, ricostruire una casa di idee e di forme su misura? O si deve, invece, accettare la scommessa straziante e meravigliosa dell’assurdo? Facciamo a questo riguardo un ultimo sforzo e tiriamo tutte le conseguenze. Il corpo, la tenerezza, la creazione, l’azione, la nobiltà umana riprenderanno allora il proprio posto in questo mondo insensato. L’uomo vi ritroverà infine il vino dell’assurdo e il pane dell’indifferenza, di cui nutre la sua grandezza. Insistiamo ancora sul metodo: si tratta di ostinarsi. A un certo punto del cammino, l’uomo assurdo è incalzato. La storia non è priva di religioni né di profeti, anche senza dèi. Gli si chiede di strillare. Tutto quello che può rispondere è che non comprende bene, perché ciò non è evidente. Egli, appunto, non vuol fare quello che non capisce. Lo si assicura che è peccato di orgoglio (ma egli non afferra la nozione di peccato); che forse, alla fine, c’è l’inferno (ma egli non ha sufficiente immaginazione per raffigurarsi questo strano avvenire); che perderà la vita immortale (ma questo gli sembra futile). Si vorrebbe fargli riconoscere la sua colpevolezza, ma egli si sente innocente. A dire il vero, egli non sente che questo: la propria innocenza irreparabile. È questa che gli permette tutto. Cosicché, ciò che egli richiede da se stesso è solamente vivere con ciò che sa, adattarsi a ciò che è, e non far intervenire nulla che non sia certo. Gli viene risposto che niente lo è; ma questa, almeno, è una certezza. È con questa che ha a che fare: egli vuol sapere se è possibile vivere senza ricorso. Posso affrontare ora la nozione di suicidio. Si è già notato quale soluzione sia possibile darle. A questo punto, il problema è invertito. In precedenza, si trattava di sapere se la vita dovesse avere un senso per essere vissuta; appare qui, al contrario, che essa sarà tanto meglio vissuta in quanto non avrà alcun senso. Vivere un’esperienza, un destino, è accettarlo pienamente. Ora, non si vivrà tale destino, se non si farà di tutto per mantenere davanti a sé quell’assurdo posto in luce dalla coscienza. Negare uno dei termini dell’opposizione di cui esso vive, significa sfuggirgli; abolire la rivolta cosciente, equivale eludere il problema. Il terreno rivoluzionario permanente viene così importato nell’esperienza individuale. Vivere è dar vita all’assurdo. Dargli vita è innanzi tutto saper guardarlo. Al contrario di Euridice, l’assurdo muore soltanto quando gli si voltano le spalle. Così, una delle sole posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo confronto dell’uomo e della sua oscurità; che è esigenza di una trasparenza impossibile e che mette in dubbio il mondo ad ogni istante. Come il pericolo offre all’uomo l’insostituibile occasione di comprenderla, così la rivolta metafisica estende la coscienza per tutto il campo dell’esperienza: essa è la costante presenza dell’uomo a se stesso. Tale rivolta non è aspirazione, poiché è senza speranza; è la certezza di un destino schiacciante, meno la rassegnazione che dovrebbe accompagnarla. È qui che si vede fino a qual punto l’esperienza assurda si scosti dal suicidio. Si può credere che il suicidio sia la rivolta, ma a torto, poiché esso non rappresenta il logico sbocco di questa, ma è, anzi, esattamente il suo contrario, a causa del consenso che presuppone. Il suicidio, come il salto, è l’accettazione del proprio limite. Tutto è consumato; l’uomo ritorna nell’ambito della sua storia essenziale. Il suo avvenire, il solo e terribile avvenire, egli lo discerne e vi si precipita. A suo modo, il suicidio risolve l’assurdo, perché lo trascina nella stessa morte. Ma io so che per mantenersi, l’assurdo non può risolversi. Esso sfugge al suicidio nella misura in cui è al tempo stesso coscienza e rifiuto della morte; è, alla più alta cima dell’estremo pensiero del condannato a morte, quel correggiuolo da scarpe che, nonostante tutto, egli scorge a qualche metro di distanza, sull’orlo stesso della sua vertiginosa caduta. Il contrario del suicida, è appunto, il condannato a morte. Questa rivolta dà alla vita il suo valore. Diffusa per tutta un’esistenza, quella restituisce a questa la sua grandezza. Per un uomo senza paraocchi, non vi è spettacolo più bello di quello dell’intelligenza alle prese con una realtà che la supera. Lo spettacolo dell’orgoglio umano è ineguagliabile. Non v’è diminuzione di valore che lo colpisca. Questa disciplina, che lo spirito detta a se stesso, questa volontà coniata con ogni materia, questo faccia a faccia hanno qualche cosa di singolare. Impoverire tale realtà, l’unità della quale fa la grandezza dell’uomo, significa impoverire contemporaneamente anche questo. Capisco allora perché le dottrine, che mi spiegano tutto, mi indeboliscono nel medesimo tempo. Esse mi sgravano dal peso della mia vita, ma con tutto ciò bisogna bene che io lo porti da solo. A questa svolta non posso concepire che una metafisica scettica possa accordarsi con una morale della rinunzia. Coscienza è rivolta: questi rifiuti sono il contrario della rinuncia. Tutto ciò che vi è di irriducibile e di appassionato in un cuore umano li anima, al contrario della propria vita. Si tratta di morire irreconciliati e non già di pieno accordo. Il suicidio è una sconoscenza. L’uomo assurdo non può far altro che tutto esaurire ed esaurirsi. L’assurdo è la sua estrema tensione, quella che egli conserva costantemente con uno sforzo solitario, poiché sa che in questa coscienza e in questa rivolta, giorno per giorno, egli attesta la sua sola verità, che è la sfida. Questa è una prima conseguenza. Se mi tengo nella posizione stabilita, che consiste nel trarre tutte le conseguenze (e null’altro che queste), che la scoperta di una nozione porta con sé, mi trovo di fronte a un secondo paradosso. Per restar fedele a questo metodo, non devo aver nulla a che fare con il problema della libertà metafisica. Non mi interessa sapere se l’uomo è libero; io non posso provare che la mia propria libertà. Su questa io non posso avere nozioni generali, ma alcune chiare idee sintetiche. Il problema della “libertà in sé” non ha senso, perché è congiunto, in modo diverso, a quello di Dio. Sapere se l’uomo è libero, impone che si sappia se egli può avere un padrone. L’assurdità particolare a questo problema deriva dal fatto che la stessa nozione, che rende possibile il problema della libertà, gli toglie al tempo stesso ogni senso in quanto di fronte a Dio esiste piuttosto un problema del male che un problema della libertà. Conosciamo l’alternativa: o non siamo liberi, e Dio onnipotente è responsabile del male; o siamo liberi e responsabili, ma Dio non è onnipotente. Tutte le sottigliezze delle scuole non hanno aggiunto né tolto nulla al carattere perentorio di questo paradosso». (A. Camus, Il mito di Sisifo, tr. it., in Opere, Milano 1969, vol. II, pp. 39-42).

Il cristianesimo e i suoi fondamenti dottrinali

La Grecia era stata la culla della filosofia, essa l’aveva intesa e realizzata come ricerca: come ricerca autonoma che riceve solo da sé la base e la legge del suo sviluppo.

Il prevalere del cristianesimo nel mondo occidentale determinò un nuovo indirizzo. Ogni religione implica un insieme di credenze che non sono e non possono essere frutto di ricerca, perché consistono nell’accettazione di una rivelazione. La religione è l’adesione ad una verità che l’uomo accetta per la virtù di una testimonianza superiore. Tale è infatti il cristianesimo. Tuttavia l’esigenza della ricerca non poteva morire con la nascita del cristianesimo, perché allora sarebbe morta anche la filosofia; quindi quando l’uomo si chiede il significato della verità rivelata e si domanda per quale via può veramente intenderla e farne carne della propria carne, l’esigenza della ricerca rinasce. Rinasce però con un compito specifico impostole dalla natura di tale verità; ma rimane con tutti i caratteri che sono propri della sua natura e con tanta forza quanto maggiore è il valore che si attribuisce alla verità in cui crede e che vuole fare propria.

Dalla religione cristiana è nata così la filosofia cristiana. La quale si è assunta il compito di portare l’uomo alla comprensione della verità rivelata da Cristo, in modo che egli possa realizzare in sé il significato autentico.

I vangeli sinottici. La predicazione di Cristo, da un lato si ricollega alla tradizione ebraica, dall’altro la rinnova radicalmente. La tradizione ebraica insegnava la credenza in un unico Dio, puro spirito, garante dell’ordine morale nel mondo degli uomini, un Dio che ha scelto come suo popolo eletto il popolo ebraico e che lo sorregge nelle sue difficoltà. L’ultima tradizione ebraica, quella dei profeti, preannunciava la venuta di un rinnovatore della religione dei padri, e il risorgere di una potenza materiale e morale. All’annuncio di questo rinnovamento si riallaccia l’opera di Cristo. Ma la sua predicazione slarga immediatamente l’orizzonte dell’annuncio profetico, estendendolo dal solo popolo eletto, gli Ebrei, a tutti i popoli della terra, a tutti gli uomini di buona volontà.

Il regno di Dio annunziato da Cristo non esige un mutamento politico: date a Cesare quel che è di Cesare e date a Dio quel che è di Dio. Non si può dire che sia qui o che si trovi lì, in quanto esso è dentro di noi. È come il granello di senape che è il più piccolo di tutti e che poi costituirà l’albero più grande; come il lievito che si spande nella farina e la fa lievitare. Nella predicazione di Gesù, Dio più che il Signore, è il Padre degli uomini, più che amministratore della giustizia inflessibile e vendicatrice, che gli attribuivano gli Ebrei, è fonte inesauribile di amore.

La comunità umana che uscirà dalla predicazione di Gesù, sarà quindi una comunità fondata sull’amore. Il rapporto stesso tra l’uomo e Dio deve essere essenzialmente un rapporto di amore.

Il IV vangelo e le Lettere di San Paolo. Nei vangeli sinottici la predicazione di Cristo appare già strettamente legata alla persona di Cristo. Cristo ha dato la testimonianza della verità del suo insegnamento con l’appello al Padre celeste che lo ha mandato tra gli uomini, coi miracoli che ha operato e soprattutto con la sua resurrezione. Il vangelo di Giovanni è dominato dalla figura di Gesù e presenta per la prima volta il tentativo di intendere filosoficamente la figura del maestro e il principio del suo insegnamento. Il prologo del IV vangelo vede in Gesù il Verbo divino.

«In principio era il Logos, ed il Logos era Dio, ed il Logos era presso Dio. In principio, Egli era presso Dio. Tutto è stato creato attraverso di Lui e senza di Lui nessuna cosa creata, è stata creata. In Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. E la luce apparve nelle tenebre e le tenebre non l’hanno compresa».

In queste parole di Giovanni viene per la prima volta determinata la natura di Cristo. Il Logos è il principio divino dell’ordinamento cosmico, in cui e per cui ogni cosa esiste al mondo. Importante nel vangelo di Giovanni l’opposizione tra la vita secondo la carne e la vita secondo lo spirito, che è presentata come l’alternativa cruciale dell’uomo. La vita secondo lo spirito è una nuova vita che implica una nuova nascita. “In verità, in verità vi dico, che se uno non è nato di nuovo, non può vedere il regno di Dio”.

La stessa formulazione del messaggio cristiano si trova nelle Lettere di Paolo, scritte occasionalmente a varie comunità cristiane. La loro importanza sta nel fatto che in esse la dottrina cristiana è considerata come la base della comunità cristiana e il regno di Dio viene identificato con lo spirito e la vita della comunità. La Chiesa cristiana è il corpo di Cristo di cui i cristiani sono le membra diverse e tuttavia armonizzate e concordi. Domina nelle lettere paoline il concetto della vocazione. Nella comunità cristiana vi è posto per i compiti più diversi, ma ognuno deve scegliere quello per il quale è portato.

L’elaborazione filosofica del cristianesimo. Il cristianesimo è essenzialmente religione prima di essere filosofia, ossia è innanzi tutto non un prodotto della riflessione speculativa, un corpo di dottrine svolte a filo di logica, ma è un’esperienza intima scaturita dalla rivelazione. È una fede non è una scienza. Ma d’altra parte non c’è vita religiosa profonda che non contenga in sé implicita una dottrina; e quando si presentano le condizioni favorevoli, quello che è implicito tende a farsi esplicito. Quello che accade non poteva non accadere al cristianesimo quando questo si diffuse fuori delle umili cerchia di pescatori e artigiani nei quali era sorto, e si propagò nella comunità, già impregnata di ellenismo. In un ambiente dove serpeggiavano le filosofie più diverse, principalmente platonica e stoica, la dottrina cristiana correva il rischio di smarrirsi nelle sottigliezze della dialettica razionale. A tale rischio la speculazione cristiana oppose questi tre princìpi: 1) La fede è condizione e presupposto della conoscenza filosofica. Solo chi crede possiede alcune verità determinanti una forma di vita ricca di contenuto nuovo nella quale la ragione può compiere la sua opera di sistemazione. 2) Il contenuto della fede non è traducibile nei termini dello stretto razionalismo. 3) Ogni volta che le interpretazioni della fede si prestano a dubbi bisogna attenersi ad un sicuro criterio di scelta, stabilito dalla Chiesa, che come depositaria della rivelazione non può sbagliare.

La filosofia cristiana si distingue in due grandi periodi: la Patristica (i pensatori ortodossi sono detti Padri della Chiesa) che abbraccia all’ingrosso i primi cinque secoli della nostra era; e la Scolastica (la filosofia delle scuole cristiane) che si estende sino al secolo XV.

Il primo periodo è quello dello sviluppo intenso di quelle idee religiose che erano contenute nella predicazione di Gesù. Il secondo periodo è quello dello sviluppo della dogmatica cristiana.

«L’operazione di tradurre un processo naturale in simboli sempre più generali non implica l’annullamento del processo con la sua sostituzione da parte dei simboli e delle loro manipolazioni. Quanto più i simboli sono astratti e le regole della loro manipolazione sono generali, tanto più diminuisce la tentazione di confondere i simboli stessi con la realtà. Se ne conclude che l’approfondimento dei fenomeni, che è legato al loro inquadramento in teorie sempre più generali, cioè alla loro traduzione in linguaggi matematici sempre più astratti, non favorisce l’interpretazione idealistica dei fenomeni stessi e della scienza che li studia, ma pone sempre più in risalto l’alterità dei fenomeni rispetto alla teoria con cui cerchiamo di comprenderli. In altri termini: non costituisce – come potrebbe apparire a prima vista – un passo verso una soluzione idealistica del problema della conoscenza ma verso una soluzione realistica (materialistica) di esso. Ricapitolando quanto abbiamo esposto nelle pagine precedenti, possiamo certo ripetere ciò che avevamo detto nel primo paragrafo, e cioè che il discorso scientifico si distingue dagli altri tipi di discorso perché è animato da una costante esigenza di rigore, aggiungendo però che questa esigenza è essenzialmente critica, cioè che non pretende mai di pervenire a una conclusione definitiva assoluta, non ulteriormente approfondibile. Si tratta di una esigenza critica che non va confusa con una posizione scettica, perché ammette l’esistenza di un “altro da noi” che noi possiamo e dobbiamo conoscere, sia pure di una conoscenza relativa. Ora siamo in grado di analizzare se questa mentalità critica, tipica dell’attività scientifica, possa venire applicata anche ad altri campi della filosofia e con quali conseguenze. Senza avere la pretesa di esaurire tutto il campo di queste applicazioni, ci limiteremo a segnalarne qualcuna di interesse particolarmente attuale. Si tratta, in poche parole, di estendere l’esigenza di rigore critico dal discorso scientifico ad altri tipi di discorso, ponendo a nudo le assunzioni dogmatiche che sogliono celarsi in essi, per esempio quando si parla dei cosiddetti punti di arrivo della nostra civiltà. Uno dei discorsi più dogmatici riguarda il problema religioso, che per la nostra cultura si identifica con il problema del cristianesimo». (L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza, Bari-Roma 1986, pp. 17-18).

La Patristica e gli apologeti

Il cristianesimo, per difendersi dagli attacchi e dalle persecuzioni, nonché per garantire la propria unità contro sbandamenti ed errori, dovette mettere in chiaro i suoi presupposti teoretici e organizzarsi in un insieme di dottrine. Una volta sul terreno della filosofia, il cristianesimo tese ad affermare la propria comunità con la filosofia greca e a porsi come ultima e compiuta manifestazione di essa.

Era naturale quindi che si tentasse di interpretare il cristianesimo mediante concetti desunti dalla filosofia greca e che si tentasse anche di ricondurre questa filosofia al cristianesimo. Questo duplice tentativo è in effetti uno solo e costituisce l’essenza della elaborazione dottrinale che il cristianesimo subì nei primi secoli dell’età volgare.

Il periodo di questa elaborazione dottrinale è la Patristica. Padri della Chiesa sono gli scrittori cristiani dell’antichità, che hanno contribuito alla elaborazione dottrinale del cristianesimo e la cui opera è stata accettata e fatta propria dalla Chiesa.

I primi apologeti. La più antica apologia di cui si abbia notizia è la difesa presentata all’imperatore Adriano, in occasione di una persecuzione dei cristiani, da Quadrato, discepolo degli apostoli. Di essa abbiamo soltanto un frammento conservatoci da Eusebio. Un’altra antichissima apologia, quella del filosofo Aristide, è diretta all’imperatore Antonino. In essa si afferma il principio che soltanto il cristianesimo è la vera filosofia. Ma la grande figura della patristica è quella del suo fondatore: Giustino (100-168).

Nato in Palestina da genitori pagani, ebbe un’educazione mista di varie scuole filosofiche: stoica, pitagorica e infine platonica. Ma quando venne a contatto col cristianesimo, riconobbe di avere trovato, oltre che la propria filosofia, anche la propria fede e non se ne separò. Visse a Roma molto tempo, vi fondò una scuola e vi subì il martirio. Importanti tra le sue opere: Il Dialogo con Trifone Giudeo, che è diretto essenzialmente a dimostrare come la predicazione di Cristo realizzi e completi l’opera del Vecchio Testamento. Poi si hanno delle apologie, la prima, la più importante, è quella diretta ad Antonino Pio, la seconda è un supplemento della prima, e fu pubblicata in occasione del martirio di tre cristiani, rei di essersi professati tali.

La dottrina fondamentale di Giustino è che il cristianesimo è la sola filosofia sicura ed utile: essa è il risultato ultimo e definito al quale la ragione deve giungere nella sua ricerca. Nelle grandi linee la sua filosofia segue la dirittura morale del Vangelo e delle Lettere di Paolo.

La gnosi e polemica contro di essa. L’opera dei padri apologeti, non si dovette rivolgere soltanto contro i nemici dichiarati della fede cristiana, ma anche contro i nemici interni, contro le tendenze e le sette, che nel tentativo di interpretare il messaggio originale del cristianesimo, ne falsavano lo spirito e la lettera, contaminandolo con elementi eterogenei. Il maggiore pericolo contro l’unità spirituale del cristianesimo fu rappresentato nei primi secoli dalle sette gnostiche, che si diffusero in Oriente ed Occidente, specialmente nella sfera dei dotti e che produssero ricche e varie letterature.

La parola gnosis, come conoscenza religiosa distinta dalla pura fede, è attinta della tradizione greca, specialmente dal pitagorismo, nel quale essa indicava la conoscenza del divino propria degli iniziati.

I principali gnostici sono:

Basilide (117-138), che insegnò in Alessandria e che scrisse un Vangelo, un Commentario e dei Salmi. La sua dottrina ci è pervenuta attraverso le confutazioni di Ireneo (Adversus Haereses) e di Ippolito (Filosofemi). Egli sostiene l’esistenza di due princìpi, la luce e le tenebre. Queste avrebbero voluto unirsi alla prima, ma, non riuscendovi, decisero di formare un’apparenza della luce, che è il mondo, nel quale il male predomina e il bene è in quantità miserevole. Questa concezione è molto simile a quella manichea, ma non ammette, come questa, la lotta tra i due princìpi.

Carpocrate (morto nel 138 circa) di Alessandria, per spiegare la superiorità di Cristo sugli uomini si serve della teoria platonica della reminiscenza. Cristo divenne superiore agli altri uomini perché ricordò più abbondantemente quanto aveva visto durante la sua circolazione col padre ingenerato: onde questi gli mandò una virtù particolare che lo rese capace di fuggire al predominio del mondo e di risalire sino a lui.

Valentino (135-165) ebbe il maggior numero di seguaci, e venne, secondo Ireneo, a Roma al tempo del vescovo Igino. Al culmine della realtà Valentino poneva un essere intemporale e incorporeo, ingenerato ed incorruttibile, che lui chiamava Padre o anche Eone perfetto. Questo principio è costituito da una coppia di termini: Abisso e Silenzio, e tutti gli Eoni che da esso trovano origine si trovano in coppie: la Mente e la Verità, che a loro volta producono la Ragione e la Vita, che a loro volta producono l’uomo (come emanazione divina) e la comunità (come comunità di vita divina). L’insieme di questi Eoni forma il regno della perfetta vita divina o Pleroma.

Bardesane di Edessa (154-222) fu un astrologo e un naturalista che attinse la propria teoria dall’influenza degli astri sugli avvenimenti del mondo e sulle azioni degli uomini.

Mani (nato nel 216), persiano, si proclamò Paracleto, cioè colui che deve condurre il cristianesimo alla sua compiutezza. La sua religione è una mescolanza fantastica di elementi gnostici, cristiani e orientali sul fondamento del dualismo della religione di Zarathustra. Egli ammette infatti due princìpi originali, uno del male e l’altro del bene, che si combattono perpetuamente nel mondo. L’uomo ha anche due anime, una corporea, che è il principio del male, e una luminosa che è quello del bene. Egli raggiunge la perfezione astenendosi dal cibo animale, dai discorsi impuri, dalla proprietà, dal lavoro, dal matrimonio e dal concubinaggio. Il manicheismo trovò in S. Agostino il suo grande avversario.

Nella polemica contro la gnosi, il cristianesimo si avvia verso una più rigorosa elaborazione dottrinale. Ireneo (130-202) per primo fu uno dei grandi apologeti che si scagliarono contro la gnosi. Egli fu vescovo di Lione e morì di martirio. Delle sue opere ci rimangono soltanto dei frammenti, mentre ci rimane intera una grande opera contro lo gnosticismo: Confutazione e smascheramento della falsa gnosi; opera che ci a giunta non nell’originale greco, ma in una versione latina del IV secolo. La vera gnosi è secondo Ireneo quella che è stata tramandata dagli apostoli della Chiesa, ma essa non ha la pretesa di superare i limiti dell’uomo, come la falsa gnosi degli eretici. Dio è incomprensibile ed inconcepibile. Tutti i nostri concetti sono per lui inadeguati. Egli è intelletto, ma non è simile al nostro intelletto, è luce, ma non è simile alla nostra luce. L’altro apologeta contro la gnosi di cui si hanno notizie precise è Ippolito (vissuto nel III sec.), discepolo di Ireneo. Egli si schierò contro Papa Callisto che aveva introdotto delle mitigazioni nella dottrina ecclesiastica, come quella di riaccettare coloro che aveva seguito delle teorie eretiche. Ma in seguito il papa e l’an-tipapa si riconciliarono e quando morirono i loro corpi furono sepolti nello stesso giorno a Roma. Un elenco delle opere di Ippolito si è trovato in una sua statua mutila, che adesso è nel museo Lateranense, ma tale elenco è incompleto. Di lui ci rimangono in modo esauriente uno scritto apologetico Sull’Anticristo, un Commentario al profeta Daniele e i Filosofemi che risultano formati da brani di un’opera: Confutazione di tutte le eresie.

Tertulliano (155-230). La più antica letteratura latina cristiana si può dire che sia come un riconoscente dono dell’Africa a Roma che l’aveva incivilita, e che aveva fatto delle sue maggiori città sedi di fiorentissima cultura. Il cristianesimo si era facilmente introdotto in questa regione di commerci con l’Oriente rimanendovi indisturbato per parecchio tempo e sfuggendo alle prime persecuzioni.

Scrive Tertulliano nell’Apologetico: «Noi siamo di ieri, e già abbiamo riempito di noi il mondo, le città, le isole, i municipi, i borghi, gli accampamenti, i fortilizi, le tribù, le decurie, la reggia, il senato, il foro: a voi non abbiamo lasciato se non i templi».

Qui si nota e già si delinea la figura di Tertulliano, vero ardente figlio dell’Africa. Egli non è uno di quei santi dell’Oriente monastico, vissuti nei deserti, nella solitudine di vasti pensieri, ma è un uomo d’azione, un uomo che vive nel mondo. Nell’Apologetico di Tertulliano si sente la voce rude di un romano che parla ai Romani; fermo nel diritto egli sa di iniziare una lotta senza quartiere, la quale porterà, come difatti portò, alla vittoria: egli non chiede pietà, esige giustizia. Come scrittore e come filosofo non conosce mezzi toni, contorce le frasi come metallo troppo debole per i propri muscoli. Esalta, stimola lo spirito, ed è perciò il più grande animatore del cristianesimo antico.

«Se a voi, dell’Impero romano magistrati, che in luogo pubblico ed eminente, direi quasi proprio al sommo della città presiedete ai giudizi, palesemente investigare e dinanzi a tutti esaminare non è permesso che cosa chiaramente nella causa dei Cristiani si contenga: se per questa unica specie di processi l’autorità vostra di inquisire in pubblico, come esige una giustizia accurata, o teme o arrossisce: se, in una parola, com’è recentemente in processi di casa nostra accaduto, l’ostilità contro questa setta, soverchiamente accanitasi, la bocca chiude alla difesa, sia lecito alla verità arrivare alle orecchie vostre almeno per l’occulta via di uno scritto silenzioso. Essa in favore della propria causa punto non prega, perché della propria condizione nemmeno si meraviglia. Sa essa che straniera vive su la terra, che fra estranei facilmente trova dei nemici: che, del resto, la sua famiglia, la sua sede, la sua speranza, il suo credito, la sua dignità l’ha nel cielo. Un’unica cosa frattanto brama: di non essere, senza essere conosciuta, condannata. Che ci perdono qui le leggi, che nel proprio regno signoreggiano, se essa viene ascoltata? Forse che per questo maggiormente n’avrà del loro potere gloria, perché la verità, pur senza averla udita, condanneranno? Ma qualora senza averla udita la condannino, oltre l’odio per l’ingiusto procedere, anche il sospetto si attireranno di nutrire qualche preconcetto, ascoltare non volendo quello che, ascoltato, condannare non avrebbero potuto. Orbene, questa prima accusa noi contro di voi formuliamo: l’ingiusto odio verso il nome cristiano. La quale ingiustizia dimostra e aggrava lo stesso titolo che sembra scusarla, vale a dire, l’ignoranza. Ché infatti di più ingiusto, che dagli uomini venga odiato quello che essi ignorano, pur se la cosa l’odio meriti? Ché allora lo merita, quando viene conosciuto se lo merita. Ma, se la conoscenza manca di codesto merito, onde dell’odio la legittimità si difende, la quale, non in base ai fatti, ma in base a un preconcetto deve trovare approvazione? Quando, dunque, gli uomini per questo odiano, perché ignorano quale sia la causa che odiano, perché non potrebbe questa esser tale che odiare non la dovrebbero? Perciò noi l’un fatto in base all’altro impugniamo: il fatto che essi ignorano, mentre odiano, e il fatto che ingiustamente odiano, mentre ignorano. Prova dell’ignoranza, che l’ingiustizia condanna, mentre vorrebbe scusarla, si è che tutti coloro, che per l’addietro odiavano, perché ignoravano, appena di ignorare cessano, anche cessano di odiare. E da costoro provengono dei Cristiani veramente con cognizione di causa, e quello che erano stati a odiare prendono, e quello che odiavano a professare; e sono tanti, quanti anche siamo accusati». (Tertulliano, Apologetico I).

Marco Minucio Felice (morto circa nel 260). Quel riposo che la troppo tesa prosa di Tertulliano non concede mai, offre invece l’Ottavio di Minucio Felice, la perla della letteratura apologetica. Tertulliano nell’Apologetico pensa solo ad abbattere gli avversari, non a comprenderli; a levare il grido di trionfo su di loro non a persuaderli. Minucio invece vuole farsi comprendere dai nemici, e sa che il migliore mezzo è quello della dolcezza e non quello della brutalità. La figura di Ottavio, è quella del confutatore dello scettico Cecilio. Egli procede fermamente, ma pacatamente. La sua è un’anima poetica nello stesso tempo che pensosa, egli vede il divino nella bellissima armonia del mondo che gli parla parole di cielo. Nessun troppo brusco rifiuto del passato, nessuna inconciliabilità, nessun tertullianeo anatema contro la filosofia: la fede non distrugge, integra il pensiero filosofico.

«Quando poi ci dite che siamo poveri, non ci recate infamia, ma gloria, perché mentre nel lusso la volontà si infiacchisce, nella frugalità si fortifica. Del resto come può essere povero chi nulla ha bisogno, chi non desidera quello che ad altri appartiene, chi si sente ricco di Dio? Povero è colui che, possedendo molte cose, più ancora ne desidera!». (M. Felice, Ottavio, I).

Arnobio (255-327). Dotto retore dell’età di Diocleziano, fu per molto tempo ardente avversario dei cristiani, poi si convertì per ammonizione di un sogno, e scrisse i sette libri della sua apologia, per convincere il suo vescovo che credeva poco alla sua conversione. In quest’opera egli cerca di abbattere con la goffa mazza dell’antica satira, il regno del passato.

Commodiano (nato alla fine del III sec.). Anche lui rude assalitore dei nemici del cristianesimo. Egli scrive versi in un rude latino pieno di volgarismi in cui la metrica è più volte violentata. Temperamento focoso e ardente, si compiace di visione apocalittiche di inferno e di sangue.

Lattanzio (250-327). La sua opera può essere considerata come il coronamento di tutti gli sforzi degli apologeti. Il suo primo scritto è il trattato De opificio Dei, in cui combatte la dottrina epicurea e chiarisce la condizione infelice dell’uomo rispetto agli animali. Il secondo comprende i sette libri delle Istituzioni Divine, vero trattato di una summa della dottrina cristiana. Lo scopo di quest’opera è quello di dimostrare come la religione cristiana abbia dei fondamenti razionali, e come riesca a soccorrere la filosofia dove essa non giunge.

«Dio ci dette la terra in comune, non perché un’avarizia irritante e spietata si manifestasse, ma perché gli uomini vivessero in comunità e nessuno soffrisse mancanza di quello che la nostra comune madre aveva prodotto con tanta liberalità e magnificenza. Dai dati che ci somministrano i poeti e i primi storici dell’umanità si deduce che quegli uomini primitivi erano così liberali che non nascondevano i frutti della terra, né conservavano con grande attenzione i suoi tesori per godere da soli di essi, ma ammettendo i poveri alla partecipazione del lavoro personale». (Divinae Institutiones, 5, 5).

«Per gli apologeti e gli eresiarchi cristiani, il problema si presentava su un piano diverso, giacché essi opponevano l’unico Dio della religione rivelata ai molti dèi del paganesimo. Essi erano dunque obbligati da un lato a dimostrare l’origine soprannaturale – e la conseguente superiorità – del cristianesimo, dall’altra a spiegare l’origine degli dèi pagani e in particolare a chiarire il perché dell’idolatria che caratterizzava il mondo precristiano. Dovevano anche dar ragione delle analogie fra religioni misteriche e cristianesimo. Furono prospettate diverse teorie: a) i demoni nati dal connubio tra gli angeli caduti e le “figlie degli uomini” (Genesi, 6, 2) avevano spinto l’umanità verso l’idolatria; b) la teoria del “plagio” (gli angeli del male, a conoscenza delle profezie e allo scopo di turbare i fedeli, avevano introdotto nelle religioni pagane alcuni elementi di somiglianza con il giudaismo e il cristianesimo; i filosofi pagani avevano mutuato le loro dottrine da Mosè e dai profeti); c) l’intelletto è in grado di giungere alla conoscenza della verità grazie alle sue facoltà: il mondo pagano aveva quindi potuto acquisire una conoscenza naturale di Dio. La reazione pagana assunse diverse forme. Ne sono espressione l’attacco violento del neopitagorico Celso contro l’originalità e il valore spirituale del cristianesimo; la Vita di Apollonio di Tiana, del sofista Filostrato, in cui vengono messe a raffronto le concezioni religiose degli Indiani, Greci ed Egiziani e viene illustrato un ideale pagano di pietà e tolleranza; l’opera del neoplatonico Porfirio – discepolo di Plotino – che abilmente polemizza contro il cristianesimo ricorrendo al metodo allegorico, e di Giamblico, che propugna un ideale di sincretismo e tolleranza. Le figure preminenti del contrattacco cristiano furono gli africani Minucio Felice, Lattanzio, Tertulliano, Firmico Materno e i grandi eruditi alessandrini Clemente Alessandrino e Origene. Eusebio di Cesarea nella Cronaca, Agostino nel De civitate Dei e Paolo Orosio negli Historiarum adversus paganos libri septem criticarono radicalmente il paganesimo. Le loro opere, nelle quali viene ripresa la tesi degli autori pagani sulla crescente degenerazione delle religioni, sono preziose – al pari di quelle dei loro avversari e di altri autori cristiani – in quanto ci tramandano molto materiale storico-religioso relativo ai miti, ai riti e ai costumi di quasi tutti i popoli dell’Impero romano, nonché degli gnostici e delle sette cristiane-eretiche. L’interesse per le religioni forestiere fu risvegliato in Occidente durante il Medioevo dalla minacciosa presenza dell’Islam. Nel 1141 Pietro il Venerabile fece tradurre il Corano da Roberto di Rétines, e a studiosi di arabo si dovettero importanti opere sulle religioni pagane. Al-Birrmi (9731048) fornì una pregevole descrizione delle religioni e filosofie indiane; ash-Shahrastànì (morto nel 1153) scrisse un trattato sulle scuole islamiche; Ibn Hazm (994-1064), nell’opera voluminosa ed erudita La discriminazione, diede una critica del dualismo mazdeo e maniaco, del bramanesimo, dell’ebraismo, del cristianesimo, dell’ateismo e di varie sette islamiche. Ma fu soprattutto Averroè (ibn Rushd, 1126-1198) che, dopo aver profondamente influenzato il pensiero islamico, doveva dare il primo impulso a un’intera corrente intellettuale in Occidente; per interpretare la religione, Averroè adottò il metodo simbolico e allegorico e giunse alla conclusione che tutte le religioni monoteistiche sono vere, pur condividendo l’opinione di Aristotele che – in un mondo eterno – le religioni compaiono e scompaiono incessantemente. Fra i dottori ebrei del Medioevo due meritano particolare menzione: Sa’adyah (882-942) che nel Libro delle credenze e dei dogmi interpretò il bramanesimo, il cristianesimo e la religione musulmana nel quadro di una filosofia religiosa, e Maimonide (1135-1204), che intraprese uno studio comparato delle religioni evitando scrupolosamente di cadere nel sincretismo. Egli cercò di spiegare le imperfezioni della prima religione rivelata, il giudaismo, con la teoria della condiscendenza divina e del progresso umano, tesi queste che erano state sostenute anche dai Padri della Chiesa. La comparsa dei Mongoli – ostili agli Arabi – in Asia Minore indusse i papi a inviare missionari affinché si informassero sulle loro religioni e sui loro costumi. Nel 1244 Innocenzo IV inviò due domenicani e due francescani, uno dei quali, Giovanni da Pian del Carpine, arrivò fino a Karakorum, in Asia centrale, e al suo ritorno scrisse la Historia Mongalorum. Nel 1253 Luigi IX inviò Guglielmo di Rubruquis a Karakorum, dove – egli ci racconta – tenne testa in un dibattito a manichei e a Saraceni. Infine, nel 1274 il veneziano Marco Polo pubblicò Il Milione in cui, fra innumerevoli altre meraviglie orientali, raccontava la vita del Buddha. Tutti questi libri riscossero enorme successo. In base a questa documentazione, Vincenzo di Beauvais, Ruggero Bacone e Raimondo Lullo esposero in varie opere le credenze degli “idolatri” Tartari, Ebrei, Saraceni. Furono riesumate le tesi dei primi apologisti cristiani – in particolare la teoria della conoscenza spontanea di Dio e le tesi della degenerazione e dell’influenza demoniaca nella diffusione del politeismo». (Mircea Eliade, voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Roma 1975, p. 131).

Agostino di Tagaste (354-430)

Africano come Tertulliano, Agostino porta nel cuore l’ardore combattivo, la ricchezza di stile dell’apologeta, senza portarne l’intemperanza e il senso di ribellione. Genio vasto e profondo studiò tutte le fonti del sapere antico: dalla letteratura all’eloquenza di cui fu maestro per lunghi anni della sua vita, alla poesia per cui entrò in una pubblica gara e vinse, all’occultismo e al teosofismo manicheo, che solo più tardi abiurò, alla musica di cui scrisse un trattato, ed infine alla filosofia che venne da lui introdotta nel mondo latino.

Nato a Tagaste, una cittadina della Numidia, ebbe come padre un tepido pagano e come madre una fervente cristiana. Il padre gli fece dare un’accurata educazione pagana, la madre lo spinse sempre al cristianesimo.

Studiò a Cartagine, poco il greco, che non seppe mai bene, ma radicalmente e con ardore la lingua latina e la sua letteratura. Ma in questi studi e nella vita spensierata che andava conducendo si convinse della inutilità di questa vita e fu assalito dal tedio. Si trovava in questa situazione quando l’Ortensio di Cicerone, un’esortazione all’indagine filosofica, destò in lui il primo ardore alla conquista del divino. Ma soprattutto lo vinsero l’esempio e la dolcezza sicura e ardente della fede di Ambrogio, le sue prediche e i suoi canti liturgici, che parlavano all’anima con il fascino, per lui sempre vivissimo, dell’arte. La storia della lotta interiore sostenuta per abbandonare per sempre le passioni della vita mondana, per aspirare a qualche cosa di superiore e di divino, sono mirabilmente narrate nelle Confessioni, libro costituito solo di eventi di anime, che compendia la tragicità e il lirismo cristiano. Con l’animo ormai maturo alla nuova fede abbandonò le dottrine manichee, che poi in seguito combatté per tutta la vita. Se le Confessioni sono il lavoro capitale della prima parte della vita di Agostino, i ventidue libri della Città di Dio sono quelli più importanti della seconda parte di questa travagliatissima esistenza, con essi si suole conoscere la provvidenza divina attraverso gli avvenimenti della storia.

Dopo il distacco delle dottrine maniche, in Agostino sopravvenne una fase di dubbio scettico, della quale egli si trasse fuori con l’aiuto delle dottrine platoniche, nella forma che queste avevano assunto con Plotino e con gli altri neoplatonici. Tra le idee dei neoplatonici due sono quelle che lo colpirono in modo particolare: l’assoluta spiritualità di Dio e la negatività del male. L’anima, secondo Agostino, è tratta alla verità come da due pesi: l’autorità della fede e la forza della ragione. Ora essendo la ragione limitata si chiede la fede come presupposto all’intendere, e a chi ne è capace la fede dà come ricompensa l’intendere. D’altra parte è la ragione stessa che ci dimostra la necessità della fede, riconoscendo la sua finitudine, ed in questo senso si può dire che la ragione precede la fede. È altrettanto vero dunque che bisogna intendere per credere, quanto occorre credere per intendere.

Il problema della verità e della certezza. «Non uscire da te, torna in te stesso, nell’interno dell’uomo abita la verità. E se troverai mutevole la tua natura, trascendi anche te stesso». (De vera religione, 39).

E altrove: «Bisogna dunque raggiungere il più intimo nucleo dell’io per trovare la verità e Dio. Anzi, la verità è Dio e finché l’uomo non l’ha trovata non sarà mai felice. “Tu ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”». (Confessioni, I, 1).

All’inizio dei Soliloqui Agostino dichiara lo scopo della sua ricerca: «Io desidero conoscere Dio e l’anima. Niente altro dunque? Niente altro assolutamente». (I, 2,7).

La ragione che è il privilegio dell’uomo è fatta per la verità e nel possesso del vero soltanto l’uomo pone la sua beatitudine. Nel possesso e non nella semplice ricerca del vero, come volevano gli Scettici; in quanto non cerca se non chi ha in parte di già trovato. Contro gli Scettici occorre stabilire un punto fermo: Agostino lo trova nella stessa coscienza del dubbio. Chi dubita, nell’atto stesso di dubitare, coglie in se stesso una realtà che è al di fuori di ogni dubbio. Lo spirito è spirito in quanto pensa se stesso, ha coscienza di sé.

«Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Sì, perché tu eri dentro di me ed io fuori […]. Eri con me ed io non ero con te […]. Mi hai chiamato, ed il tuo grido ha sfondato la mia sordità; hai sfolgorato, ed il tuo splendore ha dissipato la mia cecità; hai diffuso la tua fragranza ed ora io anelo verso di te; mi hai toccato, ed ora ardo di desiderio della tua pace». (Confessioni, X, 27).

Ora, la coscienza dell’io, considerata nel suo aspetto soggettivo – appunto di attività interiore a se stessa – è il tipo della certezza, cioè il tipo della realtà in quanto conosciuta. Ora, l’anima nell’apprendere se stessa, e nell’apprendere ad amare il suo essere medesimo e il suo conoscere; sente di aspirare all’unità del suo essere attuantesi nella coscienza e nell’amore dell’ordine universale. Solo dopo che l’anima ha colto in sé i concetti di essere, unità, verità, bene, li può cogliere anche fuori di sé, negli oggetti e nella loro armonia simmetrica. In altri termini, qualunque oggetto noi apprendiamo, qualunque sia il linguaggio che uomini e cose ci parlano, c’è sempre un’intima energia nella nostra anima, un maestro che ci parla dentro, che non è greco né latino né ebraico né barbarico, ma è di tutti i paesi, e questo ci fa intendere la verità e ci istruisce. Dunque l’anima nostra di tutto giudica secondo se stessa, e a sé commisura la verità della cose.

«L’essere vero, genuino, autentico è solo l’essere immutabile. Perciò la mutabilità è la nota che meglio caratterizza gli esseri finiti, mostrandone l’intera composizione e la radicale contingenza. Le cose gridano che sono state fatte, perché vanno soggette a mutazione e variazione. Il loro grido è irrecusabile: ciò che non è stato fatto, e tuttavia esiste, non può avere qualcosa che prima non avesse, cioè non può andare soggetto a mutazione. L’immutabilità è la nota prima dell’essere per essenza e serve a distinguerlo, senza pericolo di confusione, dall’essere per partecipazione. Con quest’argomento incalza contro il panteismo manicheo. Da questa immutabilità si possono dedurre gli altri attributi divini e raggiungere la nozione più alta di Dio. Poiché è immutabile, Dio esclude ogni composizione, ed è assolutamente semplice: V’è un solo bene semplice, e perciò un solo bene immutabile, che è Dio. Da questo bene sono stati creati gli altri beni, che non sono semplici, e perciò sono mutabili. Nulla di ciò che è semplice è mutevole; ma qualsiasi natura è mutevole». (La città di Dio, I, II).

Ora il fatto stesso che la nostra mente è capace di dubitare ci permette di capire come essa abbia coscienza di una legge di verità da un lato e dall’altro veda che il nostro comportamento non è conforme a questa legge medesima. Dunque il nostro io non può essere la suprema e sola realtà; piuttosto vi è un’unità, una giustizia, un essere, un bene, che è assoluto ed eterno; secondo cui l’uomo pronuncia i suoi giudizi, ma su cui egli non può giudicare, perché quell’assoluto ha ragione della sua verità in se stesso. E questa legge è Dio.

Il tempo. Dio eterno ha con il suo atto creativo dato origine al mondo. Ora si potrebbe pensare che Dio per avere creato il mondo abbia impiegato del tempo e che quindi dopo un certo periodo si sia trovato diverso da come era prima. Ma questo è inconcepibile con la definizione che la Chiesa dà di Dio stesso. Il tempo affinché possa considerasi una realtà, occorre che venga riportato a cose che mutino. Se non che esso non è una realtà per se stante. Infatti esso è passato, presente e futuro. Il passato e il futuro non esistono (il primo non è più, il secondo deve ancora esistere); e il presente non avendo di per se stesso durata non è realtà.

Il male. Dio, sommo bene, ha creato il mondo con il male. Come si può concepire la realtà e l’ordine del male in rapporto a Dio? Ora, noi quel che diciamo male è deficienza di essere, privazione o limitazione di essere, non essere. E ve ne sono tre forme: a) una inerente al concetto stesso di creatura: la creatura appunto perché tale non può essere il creatore nella sua completezza, essa ha un essere necessariamente limitato. Di tale deficienza di essere ve ne sono vari gradi a seconda che si discenda nella scala gerarchica delle creature dall’uomo al più piccolo microbo. Ma queste deficienze dell’essere sono da Dio convertite in bene in quanto costituiscono l’ordine armonico dell’universo; b) l’altra forma di privazione di essere è il male morale, il peccato avente la sua origine nella libertà del volere che indubbiamente è essa stessa un bene; c) la terza forma di male è la punizione che il peccato porta in se stesso, come diminuzione dell’essere del peccatore: voluta questa da Dio, ma per soddisfazione della giustizia e per emenda del reo, quindi per un bene.

«Poiché è immutabile e non può mutare in alcun modo, Dio è l’essere sussistente, lo stesso essere, l’Essere, cioè, com’egli dice, che non è in qualche modo, ma è ciò che è. Come ti chiami, o Signore Dio, Signore nostro?, domanda commentando il noto passo dell’Esodo 3, 14; e Dio risponde: “Mi chiamo È”. Ma che significa “mi chiamo È?”. Che permango in eterno, che non posso mutare. Le cose che mutano, non sono, perché non rimangono. Ciò che è rimane. Ciò che muta fu qualcosa e sarà qualcosa, ma non è perché è mutevole». (La città di Dio, II).

«Qualcuno potrà dire che la pace è la vita – o la morte – e che la guerra è la morte – e la pace – perché è indifferente assimilarle una all’altra, rispettivamente e che la pace nella guerra – o la guerra nella pace – sia la vita nella morte, la vita della morte e la morte della vita che è l’agonia. Puro concettismo? Concettismo è San Paolo e sant’Agostino e Pascal. La logica della passione è una logica concettista, polemica e agonica. E i Vangeli sono pieni di paradossi, di ossa che bruciano. E così come il cristianesimo, anche Cristo è sempre agonizzante. Terribilmente tragici sono i nostri crocifissi, i nostri Cristi spagnoli. È il culto di Cristo agonizzante, non morto. Il Cristo morto, diventato già terra, diventato pace, il Cristo morto sepolto fra altri morti, è quello del santo Sepolcro, è il Cristo che giace nel suo sepolcro: ma il Cristo che si adora sulla croce è il Cristo agonizzante, quello che grida consummatum est! E a questo Cristo, a quello del “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”, (Matteo, XXVII, 46), è quello a cui si rivolgono i credenti agonici, fra i quali ci sono molti che credono di non avere dubbi, che credono di credere. Il modo di vivere, di lottare, di lottare per la vita e vivere della lotta, della fede è dubitare. L’abbiamo già detto altrove, ricordando quel passo del Vangelo che dice: “Credo, soccorri la mia incredulità!” (Marco, IX, 24), “Fede che non dubita è fede morta”. Credere in quello che non abbiamo visto ci è stato insegnato, nel cattolicesimo, che è la fede: credere in quello che è e in quello che non vediamo – è la ragione, la scienza, è credere in quello che vedremo – e non vedremo – è la speranza. È tutto credenza. Affermo, credo, come poeta, come creatore, guardando il passato, il ricordo: nego, rifiuto, come ragionatore, come cittadino, guardando il presente e dubito, lotto, agonizzo come uomo, come cristiano, guardando l’avvenire irrealizzabile, l’eternità. C’è nella mia patria spagnola, nella mia gente spagnola, gente agonica e polemica, un culto del Cristo agonizzante: ma c’è anche quello della Madonna Addolorata, col cuore trafitto da sette spade. Che non è propriamente la Pietà italiana. Non si rende culto tanto al Figlio che giace morto nel grembo di sua Madre, quanto alla Vergine Madre che agonizza di dolore con suo figlio tra le braccia. È il culto dell’agonia della Madre». (Miguel De Unamuno, L’agonia del Cristianesimo, tr. it., Milano 1946, pp. 13-14).

Secoli IX e X

La storia delle campagne di Occidente subisce qualche illuminazione solo ai tempi di Carlo Magno per l’aumento dei testi e per la possibilità di confrontare le vestigia archeologiche relative.

Ma questi monumenti possono essere al massimo qualche decina e tutti delimitati alla zona dell’Impero. La regione privilegiata si trova tra la Loira e il Reno. Meno favorite la Baviera e le zone lombarde. Grande oscurità nella Gallia meridionale.

In questo periodo la campagna è tutto. Vaste zone come l’Inghilterra e quasi tutta la Germania sono prive di città. Quando ci sono si tratta di piccoli centri di qualche centinaio di abitanti. La vita degli abitanti è scandita sul ritmo della campagna, anche se sono vescovi, re, mercanti e non proprio contadini.

Ci sono “campagne”, cioè zone coltivate, quindi con insediamenti fissi, anche se c’è un certo spazio per il nomadismo, ma si tratta di fenomeni stagionali. Il campagnolo non vive isolato ma a gruppi, le case sono vicine fin quasi a costituire villaggi, la forma normale dell’esistenza civile. Intorno a questi punti fissi si sistemava l’agro, la rete delle strade e delle piste, e si fissava il sistema di requisizione e di esazione delle imposte.

Tranne che sulle rive del Mediterraneo, dove si costruiva in pietra, le case di campagna erano abitazioni effimere di legno e paglia.

Ma il villaggio sebbene formato da capanne effimere è stabile in quanto ha una situazione giuridica speciale. Gli appezzamenti chiusi all’interno della cintura del villaggio (con cinte e siepi) costituivano il manso. La violazione era punita con pene gravissime. Gli abitanti fuori del manso erano considerati nuovi venuti, abitanti di seconda categoria.

L’altro motivo che determinava la stabilità del villaggio era la crescente richiesta del territorio circostante, sia perché lavorato, sia perché concimato naturalmente dagli animali.

Le zone esterne, sebbene più liberamente, erano lo stesso sottoposte a certe norme. Il fiume, la palude, la foresta, offrivano larghe riserve di viveri per il nutrimento e per il bestiame.

Non sappiamo con precisione che cosa mangiassero gli uomini, ma è certo che non si limitavano a ciò che dava la terra, ma si sforzavano di trarre da essa ciò che la consuetudine imponeva loro di consumare. L’uso del pane pare universale. Esso era fatto oltre che col frumento, segale e farro, anche con altri cereali, tra i quali l’orzo e l’avena che serviva molto per l’alimentazione umana.

Qualche vigneto veniva coltivato anche in climi impropri, per i padroni. La birra era una bevanda diffusissima nel settentrione. Ma la massima parte dell’agro era occupata dai cereali.

Avremmo quindi tre zone: la chiusura del villaggio, i seminativi a spazio cerealicolo e infine una larga cintura incolta. Tre zone dove lo sforzo umano si attenua gradatamente ma ugualmente produttive.

Secondo l’opinione più diffusa, l’Europa carolingia sarebbe stata poco popolata. Essa si basa sul modello dell’Inghilterra, dove un documento dell’XI secolo, quasi un censimento, fornisce notizie assai precise. Forse le zone come la Sassonia o la Germania centrale erano simili all’Inghilterra.

Per i paesi tra la Loira e il Reno abbiamo alcuni inventari che individuano una popolazione rigogliosa e in aumento. Anzi esistono problemi di sovrappopolazione. Mansi sono abitati da parecchie famiglie. Comunque, proprio per quel problema della zona incolta che doveva circondare il manso, non si hanno documenti certi di una espansione agraria di conquista.

Sono da escludere i casi delle terre nuove ai limiti dell’Islam, dove i Carolingi accoglievano sistematicamente i profughi cristiani e li sistemavano, e le zone della Germania che usciva allora da una selvatichezza assoluta.

La pressione demografica dei mansi non viene quindi alleggerita da imprese di dissodamento, neppure da partenze di coloni, ma solo da morie periodiche, da guerre e dalle incursioni degli invasori.

Notizie per nulla chiare sulle attrezzature. I mulini ad acqua erano grandi opere che richiedevano investimenti duraturi, ma non mancavano nei grandi domini. Vicino a Parigi, nel polittico di Saint-Germans-de-Prés se ne enumeravano cinquantanove. I signori si rendevano conto che risparmiavano un gran numero di giornate dei domestici e potevano crearsi delle rendite fissando un canone per la macinazione del grano dei contadini dei villaggi.

L’uso dell’aratro è rimasto nell’oscurità. Non sappiamo se veniva usato l’aratro semplice o quello a versoio.

L’attrezzatura minuta, a parte l’attrezzatura di base che serviva per modellare il legno e per segare, era fatta di le-gno.

Il fabbro dell’epoca carolingia è indicato da tutti i documenti sullo stesso piano dell’orafo, come uno specialista di manifatture preziose.

La descrizione dei raccolti e delle semine, contenuta nei documenti indica che sia i campi villici che quelli dei signori producevano grani invernali e anche primaverili, oltre che avena.

Il calendario delle corvée per l’aratura indica che si facevano due semine: una d’inverno e una d’estate o primaverile.

Ma questi dati si rifanno alle grandi aziende monastiche o regie, amministrate in modo sapiente e razionale, con procedure tecniche che si rifacevano agli scrittori latini di cose agrarie. Abbiamo quindi una grande varietà del ciclo di rotazione, male attrezzato l’uomo deve piegarsi alla disposizione naturale del terreno.

Le rese erano minime in media, sebbene non esistano documenti probanti.

Sappiamo che il manso è la parte abitata del villaggio, il luogo dove sorge la casa, tutto il complesso economico, dove il sito residenziale ha posto (per estensione).

Ma il fondamento è dato dal significato di famiglia. Significa quindi la “terra di una famiglia”, “il luogo di residenza di una famiglia”, “il territorio che una unità lavorativa può coltivare in un anno con l’aratro”. Da qui il significato di unità di misura.

Inoltre il manso si presenta come l’unica unità fissa su cui si possono poggiare sia i criteri di requisizione che di assegnazione, infatti gli individui non erano identificabili come pure i campi, ma i mansi sì, erano delle unità fisse.

Vediamo adesso le conclusioni cui è giunta la storia rurale.

La superficie dei mansi variava considerevolmente e quindi non corrispondeva sempre al terreno che una famiglia poteva lavorare in un anno con l’aratro.

La differenza era dovuta al fatto che alcuni mansi più grandi erano liberi da corvées, altri più piccoli, detti servili, dovevano fare queste prestazioni al signore, non possedevano buoi, quindi oltre ad allontanarsi periodicamente dovevano lavorare con la vanga, da qui la scarsa limitazione di questi mansi.

Anche tra le stesse categorie giuridiche vi erano delle differenze, dovute agli spostamenti e alla dimensione delle appendici e al numero degli ospiti.

Il numero delle famiglie concessionarie non corrispondeva al numero dei mansi.

Tra i concessionari della signoria si distinguono i ricchi e i poveri, ma tutti e due coltivavano la terra di un padrone immensamente più ricco di loro. Tra i concessionari e i signori esistevano piccoli coltivatori capaci di salvaguardare la loro indipendenza economica, ma erano eccezioni. Una gerarchia assoluta, un piccolo numero di signori dominava la massa dei villici. Le donazioni dei contadini liberi finiranno per arricchire le grandi abbazie, specie nella Germania meridionale.

Il complesso organico gestito a profitto di un padrone prendeva il nome di villa.

Le maggiori conoscenze l’abbiamo per le zone tra la Loira e il Reno e la Lombardia.

La villa si divideva in due parti complementari: una era gestita in conduzione diretta, che gli storici chiamano “riserva” ma che i signori dell’epoca chiamavano “dominio”. L’altra parte era costituita dalle tenures, piccole aziende in concessione.

Il dominio si presentava come un manso, ma smisurato. In effetti si aveva un manso centrale e un certo numero di mansi in concessione che formavano le tenures.

La prima funzione dei domini era quella di dare da vivere ai signori, bene e nell’ozio. In una società con grande penuria alimentare, potente è chi mangia sempre e a sazietà e chi dà da mangiare al maggior numero di persone. Infatti i dipendenti prendevano appunto il nome di nutriti. Un’esistenza del genere presupponeva un grande approvvigionamento, bisognava infatti potere attingere senza misura, non fare i conti era proprio del nobile, evitare di trovarsi nel bisogno. Mancava la mentalità del profitto: i signori non desideravano accrescere l’azienda o le entrate, ma solo estendere le loro famiglie e avere il necessario per sostenerle. In quel tempo il valore fondamentale era la devozione personale e il servizio.

Le tecniche di produzione erano così rudimentali che il sostentamento di una sola famiglia richiedeva la coltivazione di superfici smisurate, parecchie ville con grandi appendici. Occorreva quindi una grande quantità di mano d’opera.

La soluzione era facilitata dall’esistenza della schiavitù. Questi servi venivano indicati col termine generico di mancipium, la loro condizione giuridica era uguale a quella degli schiavi dell’antica Roma, un po’ addolcita dall’ambiente cristiano. Il loro matrimonio era riconosciuto, avevano diritto ad accumulare un gruzzolo per l’acquisto della terra, dovevano obbedire senza limiti e fornire lavoro gratuito.

La più gran parte erano schiavi addetti ai servizi domestici. Anche piccole famiglie contadine ne avevano, ma i signori ne possedevano a migliaia. Erano negli inventari annoverati tra i beni mobili che non sempre si descrivono, quindi di non grande importanza. Tra i beni immobili invece erano indicati gli schiavi accasati, che avevano ricevuto, cioè, una capanna per condurvi vita familiare individuale.

Il mantenimento di questi schiavi non poneva problemi, dove c’erano i mulini le tasse di molitura bastavano a nutrire la famiglia servile. Malgrado il processo di cristianizzazione i mercanti erano sempre forniti.

Anche dei salariati venivano impiegati, nei periodi di punta delle coltivazioni, e ciò allo scopo di evitare di tenere un gran numero di servi nell’ozio nei periodi di magra. I pagamenti erano quasi sempre in natura, eccezionalmente in denaro.

In cambio della loro dotazione le “case” contadine dovevano alla “casa” del padrone prestazioni la cui natura si può riassumere nell’innalzare per una certa lunghezza il recinto temporaneo che in primavera proteggeva le messi e i prati, inoltre nel lavorare un lotto prelevato dagli arativi del dominio. Le corvée invece strappavano il personale dalle loro famiglie e lo integravano per un certo periodo nell’équipe dominicale. Ma erano limitate ad una sola persona o ad un aratro. Talvolta questa prestazioni duravano qualche giorno, e allora gli inventari parlavano di “notti”.

Tutti questi impegni erano differenti in peso ed importanza a seconda che si trattasse di mansi liberi, aggregatisi poi al manso del padrone perché caduti in povertà o per bisogno di protezione, o di mansi servili, cioè costituiti dal padrone stesso con schiavi liberati o fatti sposare.

I signori avevano spesso più ville quindi erravano in continuazione da un dominio all’altro. All’arrivo si preparava tutto per il signore e la sua corte che consumava le provviste accumulate nel frattempo.

La presenza di questi diversi domini, specie per la coltivazione dell’uva e la produzione del vino, bevanda tipicamente signorile, dava luogo ad una certa politica fondiaria perché i signori cercavano di accaparrarsi le terre dove la produzione del vino era migliore.

La figura dell’intendente era necessaria, dato che i signori si spostavano sempre. Aveva un grande potere e una grande responsabilità: faceva a modo suo e i signori cercavano a volte di mitigarne le angherie.

La molteplicità dei centri di produzione faceva sorgere il problema dei trasporti, la cui tecnica arretrata necessitava di un grande impiego di mano d’opera. Le corvées avevano qui la loro migliore destinazione.

Quindi l’ideale del signore era di natura autarchica, ma era difficilmente attuabile. Si avevano anche le necessità dei contadini di effettuare degli scambi tra villaggio e villaggio. È certa l’esistenza di numerosissimi mercati settimanali nelle campagne e nei più piccoli villaggi, con una certa utilizzazione di denaro. I pagamenti dei concessionari erano in parte obbligatori in denaro, specie in Italia, ma era consentito anche il riscatto in natura o in corvées.

I signori vendevano per ricavare denaro in quanto quello che ricevevano dai concessionari non poteva loro bastare. In tal modo si aveva un’attività commerciale di una certa entità e a larghissimo raggio.

Oggetto di traffici erano specialmente i cereali, e si può supporre che si facessero anche delle speculazioni. Un ca-pitolare del 794 condannava chi acquista grano e vino senza necessità ma a fini di cupidigia, comprando un moggio per due denari per poi rivenderlo per sei denari e anche più.

La villa era un patrimonio assai instabile. Se il fondo apparteneva ad una famiglia laica le eredità lo smembravano. Le donazioni erano un altro elemento di instabilità. Si donava agli amici per ricompensare i servizi e per ottenere la devozione; donavano i sovrani in larga misura e costituivano le fortune delle grandi famiglie; si donava alle chiese.

In questo modo gruppi dominicali si disfacevano e altri si costituivano. In Fiandra e nel Brabante, si occupavano nuovi suoli. L’impianto di nuovi domini era di pari passo con il dissodamento e una più civile organizzazione sociale.

Ciò, fece cadere in disuso la distinzione originaria tra manso servile e manso libero. Comunque ciò non avvenne parimenti in tutte le province. Nelle regioni primitive, come la Germania, pare che i servizi fossero in via di aggravamento, mentre nelle regioni più progredite aumentavano le prestazioni in numerario.

Secoli XI-XIII

Il secolo IX è molto documentato per le campagne d’Occidente, poi cadono le tenebre. Il tentativo di rinascita intellettuale operato dall’alto clero carolingio in gran parte fallisce. Nei secoli XI e XII le relazioni sono regolate ancora una volta dalle parole e dalle cerimonie non dagli scritti.

Verso la metà del XII secolo i testi ridiventano più abbondanti ad opera di un gruppo di specialisti in materia contabile.

L’Italia ha la maggiore abbondanza di testi. Poi il Mezzogiorno della Francia dove, alle fine del XII secolo, si diffuse l’uso del notaio per redigere i contratti. Poi l’Inghilterra che alla fine del XI secolo iniziò la redazione del Domesday Book, una specie di scrupoloso inventario sulla forma dei polittici carolingi.

Malgrado la loro imperfetta ripartizione nel tempo e nello spazio i documenti danno l’impressione di un progresso generale e continuo dell’economia rurale, che si è sviluppata fino alle soglie del 1330.

Malgrado che molte campagne carolinge fossero sovrappopolate e il grano fosse insufficiente, i tentativi di dissodamento furono limitati. Tranne che in Germania e in Fiandra i documenti non parlano di esperimenti del genere.

I tempi nuovi cominciano con un progresso della coltura a spese dei pascoli e dei terreni incolti o delle foreste, delle paludi e dello stesso mare. Oltre che lo studio dei resti fossili delle torbiere, i documenti che ci restano sono statuti preparati in rapporto alle imprese di dissodamento. Stabilire l’inizio di questi movimenti non è possibile, per la Borgogna si può parlare della metà del X secolo. In Fiandra verso il 1100.

La parte avuta dagli ordini monastici tradizionali è irrisoria in quanto si trattava di una vita di tipo signorile, quindi oziosa. È importante invece la parte degli ordini nuovi portati all’ascetismo e degli eremiti. Nuovi monasteri sorgono nella foreste o in zone paludose e si danno da fare per costituire i loro mansi. Importante anche l’azione dei cacciatori, dei carbonai, ecc.

L’iniziativa fu comune dei contadini affamati, in cerca di un pezzo di terra da coltivare, e dei signori che vedevano un certo interesse ad aumentare le terre arate ma che dovevano rinunciare ad esempio al piacere della caccia. Il più delle volte si dovette risarcire i signori. Poi questi si persuasero che era meglio ricorrere allo sfruttamento agricolo.

Nella maggior parte dei casi i campi nuovi si estendevano sulla fascia delle sodaglie e dei pascoli come semplice processo di allargamento della radura. Certe volte si trattava di azioni furtive, di cui c’è traccia in alcuni processi.

Altre volte si trattava di azioni collettive sotto la guida del signore. Ma questi dissodamenti non si potevano estendere efficacemente oltre una cerca distanza. Furono i pionieri a dissodare i punti deserti creando nuovi villaggi. L’azione avveniva in gruppo su iniziativa dei contadini oppure su iniziativa del signore. In genere i fondatori erano i detentori del potere regio, gli stessi re, i conti, i castellani, i grandi istituti religiosi.

Spesso erano scelte politiche: rafforzare la sicurezza di una strada, consolidare la frontiera di un principato. Per attirare i nuovi abitanti i signori davano al nuovo territorio uno stato giuridico particolare dotandolo di privilegi che potessero attrarre gli immigrati.

Quando il posto era veramente deserto e lontano dai centri abitati il compito di attirare i coloni era più difficile. Allora il signore spesso faceva un contratto con un socio, un imprenditore subalterno di rango sociale molto inferiore a quello del padrone il quale doveva occuparsi dell’affare e che ci trovava ovviamente il suo tornaconto. Spesso anche il cadetto di una famiglia di cavalieri in un affare del genere si sistemava.

Fra le frazioni e i villaggi esistevano un habitat isolato, alloggi temporanei e mobili occupati da boscaioli, eremiti e cacciatori. Poi con il progresso della circolazione viaria si fondarono chiese e monasteri nei posti più isolati. Le filiali degli ordini degli eremiti, come le certose, si diffusero in tutto il territorio. Certe volte il nuovo habitat sparso nasce ad iniziativa di gruppi di contadini che preferivano non unirsi in stretti gruppi.

Anche i padroni stessi avevano una certa tendenza a spostare la loro residenza dal centro della villa al margine, forse per segnare una differenza con i contadini in un momento in cui la superiorità economica cominciava ad essere messa in dubbio.

La nuova occupazione del suolo determina una nuova posizione dell’uomo di fronte alla natura. Mentre prima la campagna era circondata da una siepe provvisoria o stagionale, oltre la quale c’era sempre la zona delle sodaglie che apparteneva pure alla villa; ora si ha il fenomeno del bocage, cioè della chiusura. Il colono pianta una siepe fissa o in muratura. La siepe sostituisce in un certo senso la foresta, fornendo rami, paletti, foglie per la lettiera degli animali e il loro foraggio invernale; protegge i raccolti ed è infine simbolo dell’appropriazione.

Nella seconda meta del XIII secolo fiorirono le opere di agronomia, come il trattato del bolognese Pietro de’ Crescenzi o dell’inglese Walter de Henley, redatti in volgare, che si possono considerare una continuazione della tradizione dell’uso dei trattati dei teorici latini Varrone, Columella, ecc.

Queste opere contenevano consigli sul modo di disporre le semine e sulla rotazione, ma la pratica collettiva dell’avvicendamento è attestata solo nel XIV secolo quindi non si sa se era anche conosciuta nel periodo precedente.

I grani che vengono seminati in autunno (frumento e segale) hanno un’organizzazione diversa dei grani primaverili (orzo e avena). Il pane bianco era mangiato dai ricchi, per cui il signore imponeva la coltivazione di frumento anche in zone che avrebbero dato maggiore rendimento in segala. Senza dubbio il frumento era un prodotto pregiato che trovava maggiori compratori e un traffico meno irregolare: da ciò maggiore spazio ai grani invernali.

Ma il pane comune medievale era il cattivo pane nero con cui si nutriva il popolo, comprendente perfino del miglio, spesso orzo e avena, che veniva consumata anche come zuppa.

Quando si capì che era più razionale alternare le colture anche allo scopo di ridurre i rischi di cattivi raccolti, i grani primaverili si fecero strada. Invece non sappiamo nulla in merito alla durata dei maggesi. La terra era lasciata riposare un anno su due, un anno su tre, o di più? Anche nei tempi moderni i contadini applicano qua e là ritmi diversi, i loro antenati non dovevano essere diversi.

In epoca carolingia si hanno pochissime testimonianze di cicli triennali. Poi il silenzio: gli inventari non si occupano dei campi non produttivi. Nel XIII secolo i documenti riappaiono e si hanno le prime testimonianze di rotazioni bilanciate su tre anni specie nelle campagne del Mezzogiorno.

Altri documenti attestato l’esistenza di maggesi più prolungati, i campi dovevano essere lasciati in riposo di più per la scarsità del concime, l’insufficienza delle arature. Un trattato di agronomia che si chiama Fleta consiglia di avere un buon raccolto ogni due anni anziché due mediocri ogni tre.

Alla fine del XIII si intensificarono le coltivazioni più razionalizzate allo scopo di avere maggiori profitti. È il caso delle campagne alsaziane che adottarono un ciclo biennale. Questo sforzo di adattamento rispondeva alla crescita delle città renane, al maggiore fabbisogno alimentare e al conseguente rialzo del prezzo del frumento.

Nel nuovo secolo si ha un ulteriore processo di intensificazione, come se dalla fase del dissodamento di nuove terre gli uomini ripiegassero sul solo possesso delle vecchie terre e sul maggiore sfruttamento, arrivando anche a rotazioni quadriennali.

Le rese delle sementi erano molto basse, preoccupazione costante era quella che aumentassero o, comunque, che non diminuissero. Anche sugli stessi campi la resa, a volte, differiva di moltissimo, certi dati che si posseggono indicano rese talmente basse da fare pensare che non siano reali ma che vi siano delle manomissioni degli amministratori o dei contadini. Nel XIII secolo i rendimenti aumentano, mentre in epoca carolingia nessuna terra forse raggiungeva il due per uno, nel XIII secolo una terra che non fornisse tre volte la semente non era produttiva. In questa epoca si possono ipotizzare anche rendimenti fino al quattro per uno.

Il problema degli attrezzi è difficile. I mulini ad acqua e poi anche a vento sono presenti e si diffondono sistematicamente. La fabbricazione degli attrezzi che prima avveniva nella foresta ora avviene nelle città. Uno dei mestieri più importanti del secolo XII era il vomeraio. Dappertutto s’incontrano fabbri, ex domestici che ora lavorano dietro pagamento per i contadini, la cosa significa che l’uso di attrezzi in ferro è molto più diffuso dell’epoca carolingia. Ma questi attrezzi sono migliori di quelli, e quanto valgono? sono domande che non hanno risposta. L’aratro era ancora costruito quasi interamente in legno. Cambiamenti e miglioramenti subisce invece l’attacco. Oltre ai buoi vengono forse usati anche i cavalli. Il cavallo nei paesi del Mezzogiorno non venne mai adottato per l’aratura, forse perché l’avena vi cresceva molto male.

L’espansione verso le terre nuove alleggerì i gravami signorili, e le aree di disboscamento apparvero come zone di libertà. I signori, per impedire che gli uomini, attirati della propaganda degli imprenditori, se la svignassero dovettero alleggerire i gravami dei vecchi villaggi.

Ma anche qui il signore locale esercitava il suo dominio. Si ha quindi una diversità di pressione del potere signorile a seconda delle diverse regioni.

Certo le nuove forme di insediamento, con i contadini chiusi all’interno del bocage favorivano una maggiore indipendenza dei concessionari. La terra da canto suo diventava sempre più rara e i nuovi ospiti dovevano sottoporsi a una gravosa tassa di entrata o alla perdita della propria libertà e di quella dei propri discendenti.

Il predominio del signore prese un altro aspetto, attraverso prestiti e anticipi per l’acquisto del bestiame, o col noleggio di buoi ai contadini privi di bestiame. In questo modo il capitale urbano si introdusse ad esempio nel contado italiano.

Un nuovo tipo di servaggio restò legato ai mezzi mobili di produzione, infatti i contadini avevano il diritto di andarsene, dichiararsi liberi e andarsene sotto un altro padrone, ma dovevano abbandonare i mezzi.

La disgregazione del manso fu provocata da una modificazione delle strutture familiari. Anche nei mansi carolingi esistevano famiglie di tipo coniugale. Poi sia a causa della pressione demografica, sia per un rinnovamento dei ruoli utilizzati per le riscossioni signorili, sia anche per un migliore rendimento del lavoro umano, per cui non si aveva più bisogno di grandi estensioni di terra per sostenere una famiglia coniugale, il manso si frantumò in una miriade di aziende familiari.

Lo spezzettamento del manso si riscontra in tutte le regioni che beneficiarono dell’espansione agricola. Nelle campagne normanne, nel secolo XI era del tutto scomparso.

Il dissodamento dette una grande spinta allo sviluppo demografico. Tutti gli indizi lasciano vedere quasi un vero e proprio scatto tra l’XI e il XII secolo. Le cifre compaiono solo nel XIII secolo e si moltiplicano dopo il 1250. Adesso i signori si preoccupano di censire coloro che devono le tasse, o più esattamente i “fuochi”, cioè i focolari.

La spinta demografica latente, che nell’alto Medioevo solo le insufficienze delle tecniche agrarie comprimevano, non appena liberata, si orientò verso il popolamento degli spazi vuoti o poco popolati. Si hanno notevoli movimenti di popolazione sia di singoli che di vasti gruppi. Esempio i Fiamminghi e gli Olandesi si dirigono verso i paesi del Nord e dell’Est, i Vandeani e i Bretoni occupano le terre tra la Garonne e la Dordogne.

Il fenomeno del sovrappopolamento determinava le carestie. Anche la penuria di certi raccolti le facilitava: turbe di affamati premevano alle porte dei monasteri, dove l’elemosina aveva carattere istituzionale. Cluny dava da mangiare a circa 16000 poveri. Terribili anche sul finire dell’XI secolo le grandi carestie si andarono diradando in seguito. Pare che crisi granarie colpissero le campagne francesi e inglesi un’altra volta a partire della seconda metà del XIII secolo. La storia delle carestie è molto incerta.

In definitiva, a dispetto dei miglioramenti, l’aumento demografico faceva trovare molta parte della popolazione, nella stessa situazione di fame dei tempi carolingi.

L’espansione agricola fu accompagnata nel corso del suo movimento da una progressiva apertura verso gli scambi commerciali. Le aziende agricole furono sollecitate a produrre non solo per il proprio consumo, ma anche per la domanda dei compratori. Il vino e le stoffe di lana a smaglianti colori, costituivano i due prodotti di lusso del Medioevo.

La domanda di questi beni di lusso era grandissima. Addirittura alcuni re, per impedire che i propri vassalli si rovinassero, emisero degli editti dove fissavano il numero di vestiti di cui era permesso l’acquisto ogni anno, nei diversi livelli sociali. Tutto ciò stimolava fortemente l’attività agricola.

Una crescita dei prodotti alimentari si ebbe anche a seguito del fatto che cresceva il numero degli individui che non producevano più direttamente col lavoro della terra: artigiani che fabbricavano oggetti di lusso, soldati di professione, abitanti delle città.

Le città, borgate ingrandite, avevano ricevuto l’apporto dei contadini venuti a sistemarsi appunto in città. In questa nuova sistemazione avevano portato la loro esperienza per cui coltivavano ancora piccoli appezzamenti di terreno che poi serviva sia per loro che per buona parte degli altri abitanti. Comunque in città c’era sempre una parte degli abitanti che doveva comprare il proprio vitto.

Per altro una città di 3000 anime (e molte superavano questa estensione) aveva bisogno di 1000 tonnellate di grani all’anno. Con le rese del tempo occorrevano grandi estensioni di terreno che non era pensabile avere fuori le mura. Per questo ad esempio la Firenze del 1300 poteva vivere solo 5 mesi con i grani di sua proprietà, il resto doveva comprarli.

Si diffondeva così l’uso del denaro. Si moltiplicavano gli uffici della zecca, le emissioni diventavano più frequenti. Si diffonde anche la nozione di “cambio”, di valore diverso e variabile, delle diverse monete in circolazione. Dopo il 1050 negli atti francesi redatti dai notai compare l’uso di indicare le specie di moneta emessa da questa o quella zecca.

I mercati della città in corso di formazione fecero atrofizzare ben presto i piccoli mercati di villaggio. In Germania la nascita di questi mercati più grossi si può seguire tramite gli statuti di fondazione che tra le altre cose indicavano la libertà del mercato come uno degli argomenti più importanti da tenere presente.

I signori accentravano ancora nelle mani i migliori prodotti e quindi avevano una certa ingerenza in questi traffici, ma la polverizzazione dei mercati, tra il 1000 e il XIII secolo fece diminuire sempre più questa importanza. Certe volte i signori imponevano speciali restrizioni, come agli osti che non potevano vendere vino nel periodo in cui il signore contrattava il suo, ma in definitiva le borgate e i villaggi circostanti divennero centri di attività commerciali di notevoli dimensioni.

Il grano. Fu oggetto di una domanda sostenuta. Ne è prova il rialzo continuo dei prezzi per quanto riguarda i quattro “grani”: frumento, segale, orzo e avena, in modo costante e identico. Degli studi per lunghe serie, tra gli inizi del 1200 e il primo quarto del 1300, sono stati fatti in Inghilterra. L’aumento è più veloce nella prima parte del periodo e meno veloce in seguito. L’aumento della produzione dovette consentire un maggiore soddisfacimento della domanda e quindi una flessione nell’aumento del prezzo. Da canto loro tutti i signori, anche quelli di elevato rango, si adattarono a produrre per il commercio.

Il vino. I vigneti si diffusero intorno alle città, sedi dei nobili e delle elite religiose. Le prime esportazioni di vino si osservano per il prodotto renano verso i Paesi Bassi, l’Inghilterra e la Scandinavia. Si trattava di una coltura da giardino, di rendimento ritardato, che imponeva lunghi lavori a braccia: quindi con grande apporto di mano d’opera, ma con necessità minime di equipaggiamento. In questo modo i braccianti ebbero maggiori possibilità di lavoro che il progresso delle tecniche agricole aveva diminuito. I migliori vini uscivano dalle chiusure signorili, in quanto i signori si facevano un punto d’onore nel migliorare il proprio vino. La conduzione non veniva data in concessione, perché troppo importante, ma veniva fatta a volte in economia sotto il controllo diretto del signore, oppure sotto l’occhio di un amministratore pagato dal signore e alloggiato, che comandava un gruppo di salariati che lavoravano la vigna.

I prodotti della foresta e dei pascoli. Insieme agli orti fu potenziato lo sfruttamento delle terre incolte. La comunità stabiliva quanti animali ogni capo di casa poteva mandare al pascolo, oppure il signore, dietro pagamento di denari, o di capi di bestiame, concedeva l’uso del pascolo sulla riserva.

Si distingueva il diritto di mandare i maiali a pascolare nella foresta, il ghiandatico e il legnatico.

Il prezzo del bestiame tese a salire dopo il XII secolo, lo apprendiamo dagli archivi inglesi molto ben tenuti.

Il legno era stato usato sempre senza parsimonia, le foreste medievali erano scarse di alberi buoni e di legname da lavoro. Anche se non si costruivano più castelli in legno c’era sempre la richiesta per le navi e per le abitazioni delle città. Tutti questi bisogni fecero salire il prezzo del legno.

In definitiva gli uomini della fine del XIII secolo consideravano lo spazio boscoso come un valore prezioso che meritava speciale protezione. Da questo periodo in poi si moltiplicano in Francia e nella vecchia Germania, le pergamene che regolano gli usi della foresta.

Mentre la foresta si chiudeva agli animali, aumentava il consumo di carne e formaggio, di cuoio, di lana, di pergamena, ecc. L’allevamento, in particolare dei montoni per lane pregiate, fece arricchire molte persone, specie in Inghilterra.

Caratteri generali della Scolastica

Con la grande opera compiuta da Carlo Magno in favore degli studi, la cultura rinasce a nuova vita e si inizia quella filosofia che, perché insegnata nelle scuole cristiane, è detta Scolastica. Giustamente qualcuno ha detto che la Scolastica, la quale ci ha dato la definizione di tante cose, sembra avere dimenticato la definizione di se stessa. Come definizione della Scolastica possiamo assumere la seguente: la Scolastica è la sintesi dello spiritualismo medioevale.

Il metodo seguito dalla scolastica non è soltanto deduttivo, come alcuni studiosi vogliono affermare, ma anche e principalmente induttivo. Tale metodo infine quando giunge alla sua maturità, sopprime nello stile tutto ciò che è letterario, personale e affettivo, mirando esclusivamente alle cose nella perfezione del metodo stesso.

In quanto all’aspetto dottrinale, la filosofia scolastica contiene nei sistemi dei suoi maggiori rappresentanti, accennate o chiaramente espresse, le seguenti tesi: 1) la filosofia è una ricerca puramente razionale che si svolge nell’orbita delle verità rivelate dal cristianesimo. 2) Tutti i corpi sono costituiti da materia, principio di indeterminazione, e di forma, principio determinante o atto. 3) L’individuo è la vera sostanza e l’universale è l’elaborazione del nostro intelletto. 4) Ogni cosa nell’universo dipende da una causa razionale operante secondo un’idea prestabilita. 5) Dio è essenzialmente distinto dall’esperienza (principio di trascendenza). 6) Dio può essere dimostrato mediante argomenti razionali. 7) Dio è l’essere in sé, atto puro che contiene eminentemente le perfezioni di tutte le cose. 8) Dio crea tutte le cose dal nulla, senza il bisogno di una causa materiale preesistente (creazionismo). 9) Il mondo sensibile non è eterno ed è finito. 10) L’uomo è un composto sostanziale di anima e corpo, l’anima è la forma e il corpo è la materia.

Dalla enunciazione di queste tesi che costituiscono l’ossatura fondamentale della Scolastica, appare chiaro l’influenza della filosofia aristotelica; a differenza della Patristica che risentiva chiaramente delle idee platoniche. In effetti la Patristica, partendo dal dato della rivelazione, era giunta a una formulazione dei dogmi, la Scolastica, invece, parte dai dogmi, per giungere all’ordine sistematico di essi, in un accordo di tutto il sapere. Gli scolastici si possono quindi definire come coloro che sistemano i materiali sparsi nelle opere dei maggiori filosofi classici.

«L’atto pertanto di cui si parla in questa filosofia non è confondibile con l’atto (enérgheia) di Aristotele e della filosofia scolastica. L’atto aristotelico è anch’esso pensiero puro, ma un pensiero trascendente, presupposto dal nostro pensiero. L’atto della filosofia attualistica coincide appunto col nostro pensiero; e per questa filosofia, l’atto aristotelico, nella sua trascendenza, è semplicemente una astrazione, e non un atto: è logo, ma logo astratto, la cui concretezza si ha solamente nel logo concreto, che è il pensiero che attualmente si pensa. Non solo l’atto aristotelico, ma l’idea platonica, e in generale ogni realtà metafisica o empirica, che realisticamente si presupponga al pensiero, è, secondo l’attualismo, logo astratto, che ha un senso soltanto nell’attualità del logo concreto. Anche se in questo si rappresenta e ha ragione di rappresentarsi come indipendente dal soggetto, per sé stante, cosa in sé, estranea al pensiero e condizione del pensiero, si tratta sempre di logo astratto le cui determinazioni sono sempre un prodotto dell’attività originaria dell’Io, che nel pensiero si attua come concreto logo. Ogni realismo perciò ha ragione; ma purché non pretenda di esaurire tutte le condizioni del pensare. Alle quali infatti resterà sempre da aggiungere, affinché sia superata la trascendenza e raggiunta la terra ferma dell’effettiva realtà, quella che sarà la condizione fondamentale d’ogni pensabilità, l’attività pensante. Ma l’attività pensante, per reggere l’infinito carico e la responsabilità infinita di ogni realtà pensabile, che è pensabile solo in quanto è immanente al mondo spirituale che tale attività realizza, non va più concepita materialisticamente come attuantesi nel tempo e nello spazio. Tutto è in me, in quanto io ho in me il tempo e lo spazio come ordini di tutto ciò che si rappresenta nell’esperienza. Lungi dunque dall’essere contenuto nello spazio e nel tempo, io contengo lo spazio e il tempo. E lungi dall’essere compreso io stesso, come volgarmente si pensa appoggiandosi a una fallace immaginazione, nella natura che è il sistema di tutto ciò che è ordinato nello spazio e nel tempo, io comprendo la natura dentro di me. E dentro di me cessa questa di essere quella natura spaziale e temporale, che è meccanismo, e si spiritualizza e si attua anch’essa nella concreta vita del pensiero. Per questa sua infinità, a cui tutto è immanente, l’Io è libero. Ed essendo libero, può volere e conoscere e scegliere sempre tra gli opposti contradittorii in cui si polarizza il mondo dello spirito, che ha valore perché si contrappone al suo opposto. Libertà non compete alla natura nella sua astrattezza; ma non compete a nessuna forma del logo astratto: né anche alla verità logica, né alla verità di fatto, né alla legge, che si rappresenta al volere con la necessità coattiva di una forza naturale: a nulla insomma che, contrapponendosi nel pensiero al soggetto che pensa il suo oggetto, lo definisce e chiude in certi termini, e fissa, e priva di quella vita che è propria dell’attuale realtà spirituale. Non è libero l’uomo in quanto si considera e raffigura come una parte della natura, un essere che occupa un certo spazio per un certo tempo, che è nato e morrà, ed è limitato in ogni senso, e nella stessa società è circondato da elementi che non sono in suo potere e agiscono sopra di lui. Ma per quanto egli si muova in quest’ordine di idee, e metta in rilievo i propri limiti, e menomi e impoverisca le proprie possibilità ed entri in sospetto che la propria libertà non sia altro che una illusione e che egli nulla veramente possa né per dominare il mondo e neppure per conoscerlo, egli, al sommo della disperazione, non potrà non ritrovare e riaffermare nel fondo di se stesso la disconosciuta libertà, senza la quale non gli sarebbe possibile pensare quel tanto che pensa. Hoc unum scio, me nihil scire. Ma, per quanto limitato, questo sapere importa la capacità di conoscere la verità; la quale non sarebbe tale se non si distinguesse dal falso, e non si concepisse e appercepisse in questa sua distinzione, che è opposizione. Il che non sarebbe possibile senza libertà, e cioè infinità di chi concepisce e appercepisce, giudicando quel che è vero, e questo giudizio pronunciando con autorità suprema, contro la quale non è ammissibile appello. Autorità che non potrebbe competere evidentemente a chi fosse chiuso entro determinati limiti». (G. Gentile, Introduzione alla filosofia, op. cit., pp. 21-22).

Misticismo e razionalismo

La Patristica rappresenta lo sforzo grandioso di riflessione filosofica sul contenuto della fede, e per tal rispetto la Scolastica è continuazione della Patristica, però presenta una impronta sua particolare. La Patristica esprime il fermento di una vita religiosa che è in continuo sviluppo, la fede che cerca se stessa, la teologia in via di formazione. Tutto ciò fondato sulla filosofia greco-romana che serve di punto di partenza alla fede per illuminare il suo contenuto.

Al sorgere della Scolastica, la filosofia cristiana, è già nel pieno possesso dottrinale di se stessa. Si tratta ora di organizzare in un sistema le formule dogmatiche. In altri termini è come se la ragione adesso cercasse se stessa, dopo che la fede aveva trovato se stessa.

In questa opera di conguagliamento della ragione alla fede si distinguono due grandi indirizzi: l’indirizzo razionalistico e quello mistico.

Il primo si collega più direttamente al pensiero antico e culmina nel grande sistema di Tommaso. Per esso la ragione è un potere dell’uomo indipendente dalla fede: tanto è vero che nel pensiero antico, anteriore dunque alla rivelazione cristiana, ha dimostrato con immensa fecondità la sua potenza. Dio è sì, nella sua assolutezza ed infinitudine, imperscrutabile per la mente umana; ma egli include nella sua essenza una necessità razionale, che l’intelletto umano può indagare con frutto. E in questa indagine la mente umana deve seguire i procedimenti della filosofia antica: la logica di Aristotele è l’espressione della stessa ragione umana.

Il secondo indirizzo invece accentua il contrasto tra la concezione cristiana e greca della realtà e della vita, e ritiene che la prima non possa essere salvata che ammettendo al di fuori o al di sopra dell’intelletto, un’altra forma di conoscenza adeguata all’infinitudine ineffabile e alla libera attività di Dio. Il principio della interiorità della vita spirituale affermato da Agostino, è quello che ispira l’indirizzo mistico della Scolastica. Il misticismo, in alcuni dei suoi rappresentanti, riconosce anche la validità della conoscenza razionale, ma non le riconosce un valore autonomo vedendola come preparazione della esperienza mistica del divino.

Questi due indirizzi potrebbero sembrare antitetici, ma nella loro antitesi, risultano complementari, in quanto l’uno non esclude l’altro, ma tutti e due pongono l’accento su due fattori essenzialmente necessari alla vita e al pensiero cristiano. È una dialettica interna della filosofia cristiana che ne determina lo sviluppo.

«Nella storia delle religioni quel complesso di fenomeni religiosi diversi che prende il nome di misticismo rappresenta precisamente il tentativo di comunicare ad altri e interpretare per altri le vie che i mistici hanno seguito, le illuminazioni che sono state loro concesse e le “esperienze” che hanno subito. Senza questo tentativo il misticismo non costituisce un fenomeno storico. E proprio nel corso di questi tentativi avviene l’incontro o lo scontro fra il misticismo e l’autorità religiosa». (G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, tr. it., Torino 1980, p. 10).

Tommaso d’Aquino

Il domenicano Tommaso d’Aquino (1225-1274) realizza la grande opera di cristianizzare Aristotele.

Nato nella famiglia dei conti d’Aquino a Roccasecca, riceve una prima educazione a Montecassino ed in seguito studia le arti liberali a Napoli. In seguito va in Francia e vi insegna per parecchi anni. Tornato in Italia sollecita il suo confratello Guglielmo di Moerbeke a fare una traduzione completa delle opere di Aristotele, sulla quale egli poté dare l’interpretazione del peripatetismo. Dieci anni dopo torna a Parigi per combattere le teorie di Sigieri di Brabante, e mai stanco di girare il mondo riprende la via dell’Italia per andare a insegnare teologia a Napoli. Nel 1274, mentre era in viaggio per il concilio di Lione, si ammala e muore a Fossanova, tra Napoli e Roma.

Nell’aristotelismo egli vide l’opera della ragione naturale. I poteri e i procedimenti della ragione propria dell’uomo non possono essere altro che quelli descritti e sistemati nella psicologia e nella logica di Aristotele. Ora la ragione nel senso aristotelico non è che la capacità di astrarre dal sensibile l’intelligibile; ogni processo conoscitivo ha come punto di partenza l’esperienza sensoriale. Non è dunque la conoscenza razionale una forma di rivelazione, come aveva generalmente pensato la Scolastica nel periodo precedente, dominata dal principio agostiniano dell’illuminazione divina; in essa secondo Tommaso si manifesta un’attività dello spirito umano, del tutto autonoma rispetto alla fede. Aristotele, un filosofo pagano, seguendo i princìpi della ragione naturale, aveva saputo trovare, o meglio costruire, un sistema in cui i fenomeni della natura trovano la loro spiegazione. La filosofia naturale e la teologia sono due discipline distinte e separate. Le verità della fede non si possono dimostrare, come aveva affermato Agostino, in quanto esse sono soprarazionali.

La verità, secondo Tommaso è una sola, e siccome ciò che per la ragione è assolutamente necessario, è anche assolutamente vero, se la fede insegnasse l’opposto della ragione, essa insegnerebbe il falso, cosa che è del tutto impensabile. Dall’altra parte i domini della fede e della ragione non hanno dei confini ben distinti, vi sono delle verità che appartengono a tutti e due i domini: l’esistenza di Dio, il monoteismo, l’immortalità dell’anima; sono assiomi che costituiscono campo comune di studio per la filosofia e per la teologia. Un’altra cosa in cui la ragione giova alla fede è quella di confutare le obiezioni degli avversari.

Vi possono essere dei casi in cui si manifestano delle contraddizioni tra il dogma e la nostra proposizione filosofica, allora in questo caso, secondo Tommaso, noi dobbiamo vedere l’errore soltanto nella nostra parte; dobbiamo considerare la contraddizione come una specie di avvertimento con cui la fede vuole indicare alla ragione di avere superato i limiti dei suoi propri poteri.

Dio e la creazione. Il concetto di Dio e del suo rapporto col mondo, essendo comune alla filosofia e alla teologia è il punto centrale della speculazione tomistica. Per Tommaso è impossibile dimostrare Dio partendo, come aveva fatto Anselmo da noi stessi: ogni dimostrazione intuitiva per Dio è assurda. Noi dobbiamo dimostrarlo partendo dalla esperienza sensoriale, senza alcun presupposto fideistico o teologico. Le prove sono l’esistenza del movimento, la connessione causale dei fatti particolari, la contingenza delle cose, il vario graduarsi delle perfezioni degli esseri, l’ordinamento teleologico del mondo; aspetti del mondo sensibile che si possono spiegare soltanto se si parte del presupposto che Dio esiste come Motore immobile, Causa prima, Essere necessario, Perfezione assoluta, Intelligenza ordinatrice.

«Nelle sostanze composte, quindi, forma e materia sono note, come nell’uomo l’anima e il corpo. Non si può però sostenere che una sola di queste due realtà sia l’essenza. È evidente, infatti, che la materia da sola non è l’essenza, poiché una realtà è conoscibile proprio in virtù della sua essenza e viene classificata in genere e specie grazie ad essa, mentre la materia non è principio di conoscenza, e neppure può determinare qualcosa secondo il genere o la specie: ciò è possibile solo grazie a ciò per cui qualcosa è in atto. E neppure si può identificare l’essenza con la sola forma della sostanza composta, sebbene alcuni si sforzano di sostenere questa tesi. Da quanto è stato detto è evidente, infatti, che l’essenza è ciò che viene indicato con la definizione della cosa, e la definizione delle sostanze naturali contiene non solo la forma ma anche la materia: se così non fosse, non ci sarebbe alcuna differenza tra le definizioni delle realtà fisiche e quelle delle realtà matematiche. E neppure si può affermare che la materia, nella definizione della sostanza naturale, venga posta come qualcosa di aggiunto alla sua essenza, o come un ente indipendente dalla sua essenza: questo tipo di definizioni infatti è tipico degli accidenti, che non hanno una essenza in senso proprio, e la cui definizione perciò deve comprendere il soggetto che è esterno al loro genere. È evidente quindi che l’essenza comprende materia e forma. D’altra parte non si può neppure sostenere che l’essenza indichi la relazione tra la materia e la forma, o qualcosa di aggiunto ad esse: infatti ciò sarebbe, necessariamente, un accidente o comunque qualcosa di estraneo alla cosa in questione, e non sarebbe possibile conoscere, attraverso di essa, la cosa stessa. Tutto ciò, invece, è proprio dell’essenza. Infatti attraverso la forma, che è atto della materia, quest’ultima è resa ente in atto e realtà determinata, e perciò ciò che si aggiunge non dà alla materia semplicemente l’essere in atto, ma l’essere-tale, come fanno gli accidenti: la bianchezza, per esempio, fa esistere in atto una cosa bianca. Perciò quando viene acquisita una forma simile (cioè accidentale) non si può dire che generi qualcosa in senso vero e proprio, ma solo in un certo senso. Resta stabilito che il termine essenza nelle sostanze composte indica ciò che è composto dalla materia e dalla forma. Boezio è d’accordo con questa affermazione quando dice, commentando le Categorie, che ousia significa composto. Ousia infatti presso i Greci ha lo stesso significato che essenza per i Latini, come egli stesso spiega nel libro De duabus naturis. Anche Avicenna dice che la quiddità delle sostanze composte è la stessa composizione di materia e forma. E infine Averroè, a proposito del settimo libro della Metafisica, scrive: “La natura che hanno le specie nelle cose generabili è qualcosa di medio, cioè composto di materia e forma”. Il ragionamento infine conferma queste affermazioni autorevoli, poiché l’essere della sostanza composta non è solo l’essere della forma e neppure quello della sola materia bensì dallo stesso composto: l’essenza invece è ciò sotto il cui profilo la cosa è detta esistente». (De ente et essentia, II).

L’anima umana. Secondo Tommaso la generazione materiale dà luogo al formarsi dell’organismo, e quando questo si è sviluppato, nella vita embrionale, in modo da potere compiere la funzione vegetativa e sensitiva, Dio, direttamente, infonde in esso l’intelletto. Questo è capace di completare la funzione dell’intendere, cioè di apprendere le forme intelligibili, funzione che è del tutto indipendente dal corpo. Ora per il fatto che l’anima sia stata creata da Dio in occasione del formarsi di un dato corpo, si viene automaticamente a stabilire tra l’anima e il corpo un rapporto speciale, nel senso che questo dà a quella un’impronta particolare che la individualizza, cioè che la distingue da ogni altra anima umana. Questo non significa che l’anima debba sussistere solo se sussiste il corpo, ma piuttosto la sua autonomia ed immortalità è assicurata dal fatto che ha come causa efficiente Dio, e non una qualsiasi causa materiale.

«L’anima spirituale dell’uomo è sostanza; sussiste in se stessa. Non nel senso che sia completa nella sua natura specifica o che esista come singolo individuo. E neppure nel senso che esista come completa natura specifica, non in se stessa ma in singoli individui molteplici, come l’umanità esiste nei singoli uomini. È sostanza, qualcosa di determinato, capace di sussistere in se stessa». (De Anima, a.1c).

La conoscenza. Il conoscere non è altro che un processo di dematerializzazione del soggetto conoscente. Infatti nella sensazione il soggetto coglie in sé la forma sensibile dell’oggetto ma senza la materia. Inoltre nell’intellezione si astrae anche la forma, eliminando le determinazioni spaziali e temporali, lasciando soltanto l’idea dell’oggetto, che si va ad unificare col soggetto in un universale intelligibile. Questo universale è soltanto potenzialmente nella cosa, non può divenire attuale che nel soggetto. In questo attuarsi dell’universale per opera del soggetto consiste l’intendere.

«Ogni potenza è a sua volta atto di un’altra potenza, non potendo ciò procedere all’infinito, deve necessariamente esistere un primo atto il quale non sia potenza, vale a dire Dio, motore immobile. I fenomeni ne causano degli altri e sono contemporaneamente causati. Poiché non è possibile che ci sia una serie infinita di cause efficienti, deve esserci necessariamente una causa prima, e questa causa è Dio. Le cose sono contingenti, vale a dire possibili, non necessarie, ed esistono in forza di cose che sono anch’esse contingenti. Ma se tutte le cose fossero solamente possibili, non esisterebbe nulla. Deve perciò esserci un qualcosa di non contingente, di necessario. Tutti gli enti finiti possiedono un grado maggiore o minore di perfezione, ne consegue l’esistenza di un ente perfettissimo “che è la causa dell’esistenza, della bontà e di qualsiasi perfezione di tutti gli altri enti”. L’universo opera secondo un fine che non è casuale. “Dunque c’è un essere intelligente che ordina le cose naturali al loro fine”». (Summa Teologica, II, I).

Il legame intrinseco tra Tommaso e Bonaventura. «La prima condizione da osservare, se si vuole studiare e comprendere S. Bonaventura, è di esaminare la sua opera in se stessa, invece di considerarla, e talvolta accade, come un tentativo più o meno felice di ciò che, nello stesso momento, stava compiendo S. Tommaso. La dottrina di S. Bonaventura, in effetti, è caratterizzata da uno spirito che le è proprio ed essa procede, attraverso vie coscientemente scelte, verso una finalità compiutamente definita. Questa finalità è l’amore di Dio; e le vie che vi ci conducono sono quelle della teologia. La filosofia deve dunque aiutarci a realizzare il nostro disegno, di modo che, seguendo le tracce dei suoi predecessori, aderendo volontariamente alle dottrine dei maestri, e in particolare del suo padre e maestro, fra Alessandro di Hales di felice memoria, Bonaventura non esiterà ad accogliere dalle nuove dottrine tutto quanto gli consentirà di completare le antiche. Questo è lo spirito che anima sia la sua opera capitale, il Commentario sopra le Sentenze, sia i suoi numerosi trattati e opuscoli, come l’Itinerario della mente in Dio, nei quali la sua dottrina trova uno svolgimento. L’anima umana è fatta per percepire un giorno il bene infinito che è Dio, per riposarsi in lui e per gioirne. Da questo oggetto supremo verso il quale tende, l’anima possiede già in questa vita una conoscenza imperfetta, ma molto certa, che è quella della fede. Nessuna altra conoscenza può darci una convinzione così profonda, così incrollabile come la fede. Il filosofo è meno sicuro di ciò che sa del fedele di ciò che crede. Eppure è la fede stessa nella verità rivelata che è la fonte della speculazione filosofica. In effetti, laddove la ragione è sufficiente per determinare l’assenso, la fede non può trovare spazio; accade, però, più spesso che la fede si occupa di un oggetto troppo alto perché possiamo coglierlo razionalmente. Non è dunque più mediante la ragione, ma mediante l’amore per questo oggetto che noi facciamo atto di fede. Ed è a questo momento che anche la speculazione filosofica entra in gioco. Colui che crede in virtù dell’amore, vuole avere delle ragioni per la sua credenza; nulla è più dolce per l’uomo di comprendere ciò che ama; la filosofia, dunque, nasce da un bisogno del cuore che vuole gustare con maggiore pienezza l’oggetto della sua fede. Ciò signífica che filosofia e teologia, distinte per i loro metodi, si continuano e si completano l’una e l’altra, al punto da sembrare come due guide che ci conducono verso Dio». (E. Gilson, La philosophie au moyen âge des origines patristiques à la fin du XIV siècle, ns. tr., Paris 1952, pp. 439-440).

La signoria e l’economia rurale

Nell’alto Medioevo si può a malapena intuire l’esistenza di piccoli allodi. Dopo l’anno 1000 crescono, ad eccezione dell’Inghilterra, dove il sistema giuridico era basato essenzialmente sulle tenures. La crescita avviene con i contratti di complant (una chiusura veniva data da coltivare a vigneto ad un contadino dal signore, dopo cinque anni, quando i vitigni producevano, la terra si divideva a metà); con l’appropriazione surrettizia delle terre da parte del sorvegliante; con la negligenza nel riscuotere le rendite, per cui dopo molti anni che il signore non pretendeva nulla il campo si considerava libero. Vi erano poi in pratica delle tenures così libere da sfuggire ad ogni vincolo di dipendenza fondiaria.

Ma per quanto il contadino fosse libero restava legato al signore per molti altri lati. Questi poteva essere il signore della sua persona a cui restava legato della devozione, fonte di obblighi severi a cui erano obbligati anche i figli. Poteva essere il capo militare, il capo della polizia, il detentore del banno. Poi c’era il re. Quindi per quanto libero, il piccolo allodio subiva sempre requisizioni e imposizioni.

La grossa casa signorile, con le sue compere e le sue vendite, condizionava tutto il mercato locale, con i ritmi di coltura adottati nelle sue terre, determinava il calendario agricolo di tutta la zona; con i prestiti e gli appoggi di varia natura finiva lo stesso per tenere sottomessi i vari allodi della zona. Questi è uno dei motivi per cui nessuno di questi possedimenti indipendenti si trovava mai molto lontano da una corte signorile.

Il sentimento religioso ancora assai rozzo faceva sì che l’offerta di beni materiali ai servi di Dio fosse considerata come il più salutifero dei gesti di pietà. Principalmente si donavano terre, quindi considerevoli passaggi dai patrimoni laici ai patrimoni ecclesiastici. I re donavano intere contrade e ne approfittavano le abbazie benedettine, e le cattedrali.

Nella seconda metà del secolo XI lo zelo dei donatori s’intiepidisce, le opere di pellegrinaggio o di prestare cure ai viaggiatori vengono considerate più salutifere. D’altro canto impoverite dalle generosità dei loro antenati molte famiglie signorili erano diventate più parsimoniose.

Nel secolo XII si ebbero molti processi e liti con gli istituti religiosi. Molti patrimoni laici si ingrossarono a spese di quelli ecclesiastici. I diritti di molte chiese si ridussero sempre di più.

In questo periodo aumentarono gli acquisti fatti dai patrimoni religiosi in quanto gli ordini ricevevano cospicui versamenti in numerario dai primi borghesi arricchiti.

In pratica queste abbazie, intorno all’XI secolo erano spesso troppo vaste. Lo spirito commerciale non era ancora diffuso e d’altronde sarebbe stato considerato, all’epoca, in contrasto con la religione. Quindi erano frequenti le concessioni ad amici e membri delle grandi famiglie alle quali la Chiesa era legata o di cui voleva assicurarsi la protezione e i favori. Con tutto questo l’estensione a volte restava enorme. In tempo di magra poi alcuni amministratori ecclesiastici cercavano di recuperare qualcosa ma non sempre ci riuscirono: da qui le liti.

Le grandi case erano divise in unità separate che costituivano altrettanti domini. In certi casi si aveva una rotazione, per cui a turno, ogni mese o ogni settimana, uno di questi domini – a seconda l’estensione numerica della loro totalità – doveva servire ad approvvigionare il refettorio. Poi per evitare gli scompensi si fece in modo che ognuno si approvvigionasse molto al di sotto delle proprie possibilità effettive e che le eccedenze venissero conservate in modo da costituire un margine di sicurezza. In questo modo i singoli imprenditori (canonici che conducevano i singoli domini) avevano una notevole possibilità di azione autonoma. Tra l’altro trovandosi spesso in altra sede per motivi dell’ordine, a dirigere in pratica i singoli domini erano degli incaricati a volte di umili origini, ma tutti competenti nel proprio lavoro.

Questo tipo di conduzione si avvicinava molto all’affitto. Per ogni azienda veniva stabilito quanto poteva rendere e l’affittuario era obbligato a quelle rese, in caso contrario il contratto decadeva. Periodicamente si facevano delle stime per stabilire l’entità delle rese e per aggiornarle.

Riguardo ai patrimoni laici esistevano forze disgregatrici, come le donazioni agli organismi ecclesiastici e le ripartizioni ereditarie.

In contropartita le grandi casate si difendevano e riuscivano a mantenersi al di sopra del contadiname, approfittando delle elargizioni, spontanee e obbligate, della Chiesa, delle concessioni di affitti, di feudi, di livelli, ecc. La stessa solidarietà familiare faceva poi in modo che si riducessero le elemosine individuali. A questo si deve aggiunge che l’istituzione della dote in numerario a partire dal XII secolo consentì di frapporre un ulteriore ostacolo al processo di disgregamento.

In Germania la vitalità della nobiltà laica era mantenuta con la conquista di nuove terre per l’aratura. In Francia con l’erosione della foresta. In questo modo l’aristocrazia si presenta, nei secoli XI e XII in una posizione economica forte e preminente su quella dei contadini.

Tra i membri di questa vigorosa aristocrazia si avevano due livelli. Un piccolo gruppo di “grandi”, definiti spesso baroni o sire, nei testi, che avevano il comando di una fortezza e quindi esercitavano un pubblico potere. Questo non era ripartibile in eredità e andava al figlio primogenito. Da qui la compattezza e la sottomissione anche dei gruppi ecclesiastici. Anche questi grandi signori davano in affitto parte dei loro domini agli imprenditori vassalli, amici del padrone, ecc., tutta gente che formava il gradino inferiore dell’aristocrazia. Tutti questi cavalieri vivevano quindi comodamente di rendita, avendo chi più chi meno sufficienti entrate e potevano perciò partecipare alla vita militare e politica del regno, nell’ambito della loro importanza.

Nel secolo XI si andava precisando la generale sottomissione dei lavoratori contadini, allodieri o concessionari alla dominazione privata di qualche capo. Costoro formavano una piccola elite di uomini di illustri natali, aventi un dominio abbastanza vasto da potere vivere nell’ozio.

L’economia rurale venne influenzata moltissimo da questa situazione politica che determinava il carattere e la forza della fiscalità. In pratica poi il peso non gravava sui signori più piccoli, parenti e amici dei feudatari, ma sui contadini, a quelli era richiesta sola la fedeltà e il servizio d’armi. In questo modo scompaiono gli schiavi e i liberi, restano solo “lavoratori”.

Contro i castellani resisteva l’autorità del tutto privata dei capi delle famiglie nobili e degli istituti religiosi. Tutti gli appartenenti alla masnada o al manso, restavano quindi fuori della competenza del castellano. Quando andavano invece nelle tenures allora cadevano sotto quella competenza.

Il conflitto tra l’autorità bannale, cioè di origine regia perché si fondava sul banno, e le autorità religiose che fondavano la loro immunità su antichi diplomi rilasciati dal re, fu lunghissimo.

L’autorità bannale in genere ebbe la prevalenza, molti padroni persero il possesso di schiavi che abitavano troppo lontano della loro dimora. Il contadino finì per avere due padroni che si sovrapponevano su di lui.

L’estensione del dominio della signoria fondiaria. Si ritiene che la superficie del dominio si restringe dal secolo IX al XII. Dagli immensi campi vangati dagli schiavi si giunge alla riserva limitata e vicinissima alla casa del signore, sufficiente alla sua mensa. Le parti del dominio si assottigliano per piccoli tagli dati in concessioni temporanee e poi definitive. Le rese più elevate distoglievano il padrone dall’avere a disposizione vaste estensioni di terra per cui preferiva cederne dei pezzi e ricavarne il pagamento di un fitto.

Anche in questo senso le donazioni svolsero il loro ruolo. Le elemosine introducevano nuove terre nel patrimonio delle chiese, ma senza l’aggiunta della mano d’opera necessaria alla loro valorizzazione. Era allora necessario cedere queste terre agli “ospiti”, oppure creare nuove aziende.

C’erano poi gli ordini, come i cistercensi, che si proibivano di acquistare decime, mulini, censi e coloni, per cui i territori sempre in aumento a seguito delle donazioni venivano divisi in numerosissime porzioni affidati a lavoratori domestici.

La mano d’opera domestica. I metodi di conduzione dominicale non sono molto differenti da quelli del IX secolo. L’aratro, intendendo lo strumento, gli animali da tiro e i servi che li conducevano, era la base di tutte le corti. Di questi facevano parte i “bovari”, a coppia, di cui uno guidava il tiro e l’altro teneva i manici.

Nelle comunità religiose questa funzione veniva assolta dai conversi, confratelli senza istruzione, sottoposti a esercizi liturgici minori, che avevano maggiore tempo per i grossi lavori dell’appezzamento.

Accanto ai servitori permanenti legati al padrone attraverso le tenures si avevano mercenari ingaggiati per compiere certi lavori, per la mietitura, il lavoro delle vigne, la cura degli animali.

Le corvée. Nei secoli XI e XII la corvée resta il mezzo principale per procurare ai servitori insediati nella case o nelle vicinanze un sussidio di mano d’opera per i grossi lavori stagionali.

In Italia e nei paesi a sud della Borgogna e della Loira le corvées sono leggere o inesistenti affatto. D’altro canto i signori aiuti ne chiedevano, specie sotto forma di unità lavorative, di aratri; ma forse in forza del loro diritto di banno, più che per l’esistenza di vere e proprie corvées significative. Evidentemente le corvées bracciantili erano in diminuzione o in disuso.

Nella metà settentrionale del continente i servizi in lavoro restavano più pesanti. Nella regione della Mosa i contadini dovevano lavorare due o tre giorni al mese con le loro bestie, se ne avevano, nel campo del padrone. Alcuni dovevano provvedere alla siepe o fornire legno lavorato. Comunque anche queste corvées pesanti erano sempre più leggere dei mansi del periodo carolingio.

In Inghilterra la situazione era più grave. I manieri possedevano i propri aratri, quando non bastavano i concessionari dovevano effettuare un terzo e talvolta una metà dell’aratura.

In genere si ha un lento movimento di commutazione di questi obblighi in pagamenti in denaro. Ai signori conveniva in quanto prendevano dei salariati e ci guadagnavano pure qualcosa.

La struttura della rendita signorile. I prelievi diretti sulla produzione di tutte la aziende contadine circostanti crebbero considerevolmente in questo periodo, dato che gli abitanti del villaggio si fecero più numerosi e le loro terre meno ingrate.

Gli obblighi erano fissati dalle liste dei censi, mansi vicini potevano avere obblighi diversi verso lo stesso signore. Prevalgono sempre i canoni in natura ma esiste anche una componente in numerario.

D’altro canto i signori mal sopportavano le frodi, per cui se non con i vigneti almeno con i prati che davano frutto subito si fissava un canone fisso indipendente dalla resa. Questa riscossione appariva a tutti più comoda. Per scovare le frodi si aumentò il numero dei fedeli del signore e quindi dei cosiddetti parassiti.

La presenza delle riscossioni in denaro aumenta ma resta sempre una piccola porzione della globalità delle entrate signorili.

Lo sfruttamento degli uomini. La famiglia. Gli uomini erano sempre pochi e preziosi, senza di loro la terra non poteva essere sfruttata e non valeva niente. La potenza di un signore quindi era funzione del numero di uomini su cui estendeva il suo potere, dei servitori, dal complesso delle devozioni su cui poteva contare.

La vera ricchezza di quel tempo era la famiglia. Composta da domestici, da contadini stabili nella propria casa, e da concessionari anche di altri padroni. Infatti non sempre la signoria domestica coincideva con la signoria fondiaria.

Che cosa ci si aspettava da questa gente: a) Lavoro. Una riserva di mano d’opera. Il dipendente doveva eseguire tutti gli ordini. Si trattava di ragazzi e ragazze in pieno vigore. Una volta accasati potevano essere adibiti a servizi di corvées ma si trattava di lavori limitati, invece il padrone da questi si aspettava che mettessero al mondo dei figli per potere entrare a servizio. Diventavano cioè dei vivai. b) Denaro. Anche piccole contribuzioni a testa, per significare la loro libertà. Gli uomini dell’altare una volta l’anno depositavano uno, cinque o trenta denari, nelle abbazie bavaresi, per testimoniare la loro indipendenza ma nello stesso tempo il loro legame al signore dell’abbazia. c) Entrate per motivi di giustizia. Quando un membro della famiglia subiva un danno il signore riscuoteva l’ammenda sul colpevole e inoltre, come protettore, il terzo dei danni e interessi dovuti alla vittima. Le più piccole evasioni facevano applicare ammende forti, di cinque o sette soldi, di più di quanto un povero uomo poteva risparmiare, allora il giustiziere interveniva e arraffava quello che di buono aveva nella casa il debitore. d) Doni. Gli uomini del corpo e i villani, in certe occasioni – esempio del loro matrimonio – facevano dei doni. D’altro canto, sposandosi lasciavano la capanna del padre e quindi diminuiva la forza lavorativa, da qui la necessità di una autorizzazione che veniva pagata. e) Morte. Si considerava che i beni mobili acquistati in vita dall’uomo di corpo appartenessero al signore, che era primo erede. Da qui il diritto di manomorta. Egli prendeva un terzo o la metà oppure sceglieva un capo di bestiame se era l’uomo a morire o un capo di vestiario, se era la donna.

Il banno. Il sistema venne messo in pratica nella prima metà dell’XI secolo I profitti incominciarono a venire dall’esercizio del diritto di vicaria. Cioè i signori dominavano i tribunali locali e incassavano le ammende.

Poi c’erano le coutumes, cioè i doni di una parte dei covoni per l’alimentazione dei cavalli dei gendarmi, a questo prelievo pensavano i sergenti del signore.

Il diritto di alloggio si moltiplica nell’XI secolo. Il signore metteva per un giorno a carico delle famiglie contadine il mantenimento dei suoi agenti, dei loro cavalli e cani.

Sulle strade vennero istituiti pedaggi e diritti commerciali, in particolare sulla vendita e trasporto del vino.

Il diritto della tolta, cioè di togliere qualcosa in occasione di particolari necessità, si aggiungeva agli altri diritti di banno.

L’economia signorile restava sempre un’economia di spreco, per cui gli incaricati anche se domestici, a volte raggiungevano fortune notevoli che contribuivano a creare famiglie di un certo peso sebbene lontane come nobiltà dalle famiglie nobili.

In più queste famiglie sviluppavano presto lo spirito di guadagno e di iniziativa.

Evoluzione della rendita signorile

A far tempo dal XIII secolo il numerario interviene come uno dei fermenti più attivi per modificare la consistenza dei patrimoni signorili. Le abitudini di lusso, il gusto del viaggio, dell’ornamento, dell’ostentazione accrebbero la necessità di moneta. Però l’unica ricchezza, oltre le dipendenze personali, era la terra, da qui la necessità di mobilizzare parte di questi beni.

I signori da tempo avevano fatto ricorso al piccolo credito. Avevano il diritto di posticipare di quindici giorni il pagamento di quanto acquistato al mercato del villaggio e ne abusavano. Poi si fecero fare dei prestiti per le crociate dando in garanzia le loro terre. Ma le difficoltà aumentavano, le necessità di numerario all’inizio del XIII secolo diventano impressionanti. Per partecipare alle feste, per rinnovare il guardaroba, la scuderia. Le rendite erano basse.

Prima l’allodio era stato protetto contro la vendita dalla solidarietà familiare, il feudo dalla vigilanza del signore. Adesso l’assenso del signore feudale o dei membri della casa diventa una formalità. Siamo davanti ad un fenomeno modificativo molto più rapido ed efficace di quello delle donazioni che due secoli prima modificava il patrimonio fondiario.

Acquirenti erano gli istituti religiosi, anche essi pieni di debiti, ma spesso i donativi in denaro erano subordinati al fatto di non potere essere spesi per pagamento di debiti, quindi questo denaro veniva investito in acquisto di terre.

Nuovi ricchi cominciano a nascere. Le opere letterarie del tempo dirette al pubblico cavalleresco sono piene delle maniere ridicole di questi villani che si erano da poco insediati nei manieri e cercavano di occupare il posto della gente ben nata.

Certo, in linea generale, solo una piccola parte dei patrimoni signorili venne venduta, la maggior parte di questi signori non si trovò in difficoltà; però tutti acquisirono la mentalità di comprare e vendere e di maneggiare denaro. In tutti sorgeva la coscienza del fatto che la loro ricchezza era mobile.

La formazione delle entrate signorili. Censi. Dato il problema centrale di trovare denaro molti signori modificarono il loro diritto a richiedere in natura quanto dovuto dai concessionari. Questi potendo pagavano in denaro purché si lasciasse loro la disponibilità del raccolto. Le corvée, la manomorta, le taglie vennero riscosse in numerario. I censi in parte furono commutati in parte no. In pratica questa commutazione, in un periodo di continuo rialzo dei prezzi, si rivelò illusoria. Quindi il valore reale dei censi in denaro diminuì moltissimo durante tutto il XIII secolo.

Tenure. La maggiore frequenza nella vendita delle tenure faceva sì che spesso esse ritornavano in mano al signore che poteva quindi adeguare i censi. In questo modo le tenure vicine avevano censi molto differenti.

Tasse di permuta. Anche per i contadini cresceva il bisogno di denaro, per procurarselo bisognava poter disporre del fondo, in modo da venderne anche una parte. Occorreva quindi acquistare la possibilità di frazionare le tenures. Per questo pagavano una tassa, ma l’alienazione doveva avvenire sempre dietro autorizzazione del padrone, per evitare che gli acquirenti fossero chierici o gente di città che data la loro condizione sociale sarebbe stato più difficile sfruttare.

La taglia. In molti paesi gli accordi tra il signore e le comunità rurali fissarono i limiti dei diritti signorili. L’ottenimento di uno statuto che fissasse i buoni usi era determinato dal pagamento di una somma. Con questo si otteneva l’affrancamento. Le carte di libertà venivano vendute alle comunità a prezzo carissimo da parte del signore che vedeva in questo modo una grande fonte di entrate insperate.

Le esazioni tramite funzionari. A partire dal secolo X il re, il duca, il conte, lontani, esigevano tramite un loro funzionario, invadente, esoso, spesso cambiato di posto, estraneo al paese.

Più spesso il re sollecitava solo i signori, ma allora questi diventavano immediatamente più esigenti verso il contadiname.

In genere le esazioni principesche, fino al XIV secolo, resteranno intermittenti quindi imprevedibili, e turberanno notevolmente i circuiti economici. Il passaggio dei collettori assumeva l’aspetto della catastrofe temporanea, come una calamità climatica.

L’indebitamento contadino. Sovrapposti ai vecchi censi e alle tasse precedenti, gli arretrati delle rendite recentemente costituite vennero a gravare sulla terra dei rurali. Da qui il bisogno di denaro per i contadini.

Tra l’altro i contadini avevano sempre più bisogno di denaro per acquistare bestiame, per ingrandire l’azienda, per ottenere la libertà giuridica, per stabilirsi su terre in costante rincaro.

I trafficanti di denaro, lombardi, ebrei, sfruttavano una larga clientela contadina, anche per l’acquisto anticipato delle messi.

Certe volte in cambio di una fornitura immediata di denaro si vendeva una rendita sul fondo. Tracce di queste operazioni si scoprono in Francia nel corso del XII secolo. Questo uso fu di tale portata che si formò sempre a fianco delle terre contadine, un altro tipo di dominazione, quella di questi prestatori di denaro che si costituivano delle rendite, in genere in natura, e si approvvigionavano perpetuamente anche nelle annate peggiori, se non erano di tale entità addirittura da fare commercio. Un nuovo tipo di signoria era sorto a carico dei contadini. Comprando queste rendite, anche categorie sociali di livello bassissimo poterono partecipare allo sfruttamento dei contadini.

La valorizzazione del dominio. Inghilterra. I fatti si conoscono meglio. Il rapido aumento dei prezzi dei viveri richiese una maggiore attenzione nell’amministrazione del dominio, che venne in un certo senso rivalorizzato. I contratti di fitto non vennero rinnovati riprendendo in mano la conduzione diretta, si fecero delle inchieste dirette a stabilire le entrate dei manieri, degli investimenti per migliorare il patrimonio zootecnico, si ripristinarono le corvée.

Il continente. I fatti sono più oscuri. Escludendo le case religiose i cui regolamenti imponevano il lavoro manuale e che quindi si basavano sulla conduzione diretta, i conventi facevano fatica a trovare i conversi. Come mai i figli dei contadini si distolsero da una vocazione che aveva attirato tanti uomini prima? Non si sa, fatto sta che i cistercensi dovettero ingaggiare mercenari, l’obbligo fatto di coltivare la terra era eluso con facilità dai monaci, quindi occorreva mano d’opera.

Questo fece passare ai livelli più modesti dei lavoratori una certa quantità di numerario proveniente dalla vendita delle eccedenze. Si calcola che un bovaro guadagnasse quanto un contadino proprietario di una azienda di buona dimensione, inoltre mangiava a spese del padrone.

Il mutamento del XIV secolo

La crisi

In genere si assiste ad un ripiegamento delle attività in contrasto con gli sviluppi del secolo precedente. Naturalmente esistono zone ad andamento diverso, come l’Olanda in cui le città mercantili e lo sforzo di riconquistare terre periodicamente strappate dalle invasioni del mare, mantennero viva l’economia rurale. Lo stesso nella bassa Lombardia. Comunque le diversità locali anche se determinano forti contrasti non alleggeriscono l’impressione generale di difficoltà crescenti.

I flagelli. a) Irregolarità nella produzione dei mezzi di sussistenza. Condotta in condizioni climatiche poco favorevoli, con metodi primitivi che esaurivano i terreni, la produzione dei grani subiva forti oscillazioni. Ora sembra che il susseguirsi di annate molto piovose abbia reso acute difficoltà croniche, la punta di estrema gravità si collocherebbe tra il 1315 e il 1317. La situazione era drammatica specie per gli abitanti della città. In campagna più o meno si poteva superare. In ogni caso l’economia dei villaggi uscì fortemente turbata da questi sbalzi dei prezzi relativi agli sbalzi della produzione.

b) Le guerre. Lo sviluppo dei principati contrastanti, la formazione delle compagnie di ventura, che vivevano dei combattimenti ed erano interessati che durassero il più a lungo possibile. La lotta era localizzata e impegnava piccoli gruppi di combattenti di mestiere, ma poi questa gente viveva a spese delle campagne, perché le città erano protette dalle mura e dalle milizie borghesi. In effetti però le piccolissime aziende subirono meno danni delle grandi dove i mulini ad esempio venivano spesso incendiati. I vigneti invece subirono danni maggiori, come il bestiame, insomma tutta la parte migliore. I terreni arativi di meno.

c) Epidemie. Calamità più gravi specie quella che dal 1348 al 1349 devasta tutta l’Europa: la Peste Nera. Le città con le loro pessime condizioni igieniche, la loro penuria di approvvigionamento soffrirono di più, ma anche le campagne non furono esenti.

Spopolamento. Conoscere l’entità della popolazione non è facile. Infatti i redattori delle liste fiscali evitavano di registrare i fuochi troppo miserabili per non gravarsi di un compito di esazione impossibile. Poi non sappiamo quante persone componevano un fuoco. Le dichiarazioni dei capi del villaggio erano falsate per alleggerire la comunità da parte del peso dello imposte.

Restrizione dello spazio coltivato. La rarefazione degli uomini è in relazione all’arretramento delle colture, una fase di ripiegamento nell’occupazione del suolo che seguì la fase dei dissodamenti. In Inghilterra sono stati identificati i resti sul terreno di centinaia di villaggi abbandonati in quest’epoca.

Evoluzione dei prezzi e dei salari. Il mercato dei grani risulta caratterizzato da forti fluttuazioni durante tutto il secolo. Ogni anno si aveva una forte variazione stagionale. La domanda diventava più sensibile al rischio del raccolto a seguito delle calamità, al ribasso di settembre succedeva il rialzo primaverile, ma questo si accentuava se la messe precedente era mediocre, diventa smisurato se la prossima annata si annunciava di cattiva qualità. Se le annate cattive si susseguivano la variazione diventava mostruosa.

Considerando in lunghi periodi i corsi dei grani erano stagnanti o in regolare diminuzione. I prezzi dei cereali erano in flessione. A tutto questo per aggravare la situazione si aggiunse un naturale forte rialzo dei salari dei braccianti, in concorrenza con i mestieri urbani: l’economia signorile era condannata.

Le vicende del XIV secolo furono sopportate peggio dall’azienda signorile. Le guerre, le calamità, la colpirono di più. Inoltre era obbligata ad aiutare i contadini se non voleva farli allontanare. I prelievi fiscali del re colpivano di più questa azienda, le spese per la guerra, il fatto che il signore era sempre impegnato altrove per la guerra completavano i danni.

Il processo non fu uguale dovunque. In alcune regioni come nell’Italia settentrionale la Signoria rimase prospera. Nei dintorni di Genova persistono queste aziende e le corvée, usi sorpassati in altri posti. I signori italiani mettevano nello sfruttamento delle campagne lo stesso spirito d’iniziativa dei loro affari commerciali.

Caratteristiche particolari si hanno anche nel versante orientale dei paesi germanici. Qui gli spopolamenti e l’abbandono della terra coltivata suscitarono una ripresa di vitalità nell’istituzione signorile a spese delle terre contadine.

Le corti principesche hanno un’organizzazione migliore, restano legate alla concezione antica della chiusura autarchica e si preoccupano di migliorare i metodi di conduzione. Carlo V di Francia fece tradurre il Trattato di Pietro de’ Crescenzi e ne ordinò uno a Jean de Brie. Ma in generale resta presente un senso di allontanamento dalla conduzione diretta delle grandi imprese signorili. Nella seconda metà del 1300 questo ritmo di allontanamento aumenta sia con l’affitto del dominio, sia con la lottizzazione via via delle frange periferiche e poi anche di tutto il dominio. Il movimento di maggiore importanza si ha negli anni Ottanta.

L’incidenza dei salari era altissima per cui o si vendeva e si lottizzava o si dava in appalto. L’incidenza della fluttuazione dei prezzi diventa quindi, nei confronti dei salari, un argomento meno determinante. Compare e progredisce rapidamente il contratto di mezzadria.

La flessione dell’economia signorile pone termine ai conti di gestione. L’azienda condotta da contadini benestanti non ha archivi. La crisi non risparmia i contadini. Questi devono subire la pressione crescente dei padroni che per uscire dal disagio volevano trarre tutto il possibile dai loro diritti. In effetti il risparmio contadino pagò le taglie, riparò i manieri bruciati e le chiusure devastate.

I mali meno tollerabili non erano le calamità ma gli agenti fiscali che restavano mentre le prime passavano in fretta. A questi si aggiungevano i soldati del principe stanziati nella contrada che dovevano essere vettovagliati e che terrorizzavano i contadini con la minaccia di bruciare le case e quindi imponevano taglie.

L’agitazione venne sulle prime orientata dalle crociate, ma poi sollevazioni contadine chiaramente dirette contro il fisco si fecero in ogni parte d’Europa. Le prime sorsero nelle campagne dell’Italia del Nord che pure appaiono in un momento di grande prosperità. Nella zona di Vercelli una rivolta unita ai movimenti religiosi della povertà evangelica venne repressa duramente. Nella zona di Parigi si sviluppò la jacquerie, un movimento senza speranza e senza capi che venne represso nel sangue dai cavalieri ma che causò danni notevoli ai nobili.

Questi gruppi di rivoltosi erano formati da due correnti con interessi in contrasto. I contadini ricchi che chiedevano una minore pressione fiscale e il riconoscimento della libera iniziativa, l’abolizione del servaggio in genere; accanto ai veri e propri poveri, uomini senza terra, i giornalieri. Questi volevano la distribuzione delle terre ecclesiastiche e la libertà di lavoro. L’opposizione delle due tendenze causò il fallimento dei moti.

In contropartita all’aggravamento fiscale dei signori si verificò un miglioramento dovuto alla decompressione demografica e alla riduzione delle zone occupate e un altro miglioramento dovuto alla riduzione e poi quasi all’annullamento della rendita signorile. Tuttavia non è possibile stabilire se queste congiunture favorevoli riuscirono a superare l’aggravamento della fiscalità. Ciò spiega i pareri contrastanti degli storici. Per risolvere il problema bisognerebbe sapere l’entità della ricchezza dei contadini. Un tale che possedeva un pezzetto di terra poteva avere altri beni altrove e anche considerevoli.

I Comuni

Nell’Alto Medioevo le città erano piccoli centri di poche centinaia di abitanti intorno a una fortezza o a una cattedrale, si distinguevano poco dalla campagna.

Poi, con l’ampliamento del mercato, e con lo sviluppo dei mercati locali, nacque lentamente una nuova classe: la borghesia.

La prima necessità per questa classe era quella di usare liberamente della propria ricchezza, ma la resistenza dei signori fu fortissima. Oltre al tradizionale bisogno di danaro da parte dei signori una buona occasione fu data dalla lotta politico-religiosa contro i vescovi simoniaci.

Col riconoscimento di statuti, ottenuti pagandoli o con la forza, i centri cittadini si erano trasformati in comuni: una nuova realtà era nata.

Però non in tutti i posti i comuni riuscirono a conseguire quell’ampia libertà che ebbero altrove. Nell’Italia meridionale, ad esempio, a Capua, Napoli, Gaeta, Bari, ecc., i comuni non avevano una borghesia abbastanza forte da imporsi ai signori. In Inghilterra, per motivi opposti, i comuni non nacquero in quanto l’autorità regia, abbastanza forte, garantiva una sufficiente tutela del diritto e della pace e l’incremento del commercio.

Il frazionamento della grande proprietà ecclesiastica e dominicale determinava la formazione di una classe di medi proprietari, di nobili, di vassalli minori, legati con vincoli diversi ai signori ma tutti desiderosi di liberarsi della soggezione feudale: questa classe costituirà, insieme ai mercanti più ricchi, l’oligarchia dei comuni e il punto centrale di forza che dette origine a queste formazioni sociali.

Anche nei villaggi si aveva un movimento similare tendente a formare il comune rurale in modo da ottenere dal signore il riconoscimento dei patti collettivi e dei rapporti consuetudinari ed evitare gli abusi tanto frequenti in passato.

Le istituzioni comunali. Finché il comune fu un’associazione privata i suoi organi erano il parlamento o arengo (assemblea di tutti gli associati) e il consiglio del boni homines cui era affidata la tutela degli interessi collettivi.

Diventata un’istituzione pubblica si ebbero i consoli, eletti o estratti a sorte, e i due consigli, maggiore e minore, il primo formato dalle famiglie più importanti col compito di formare le leggi, gli statuti e trattare gli affari generali.

Tutto ciò non comportava la partecipazione di tutti i cittadini alla direzione del Comune dalla quale restava esclusa la maggioranza della popolazione. Ma pur tuttavia questa si trovava in una situazione sensibilmente avvantaggiata. Anche se la sua struttura resta aristocratica, il Comune è nato dalla lotta ai grandi signori feudali.

I signori piccoli e medi, costretti dalle lotte contro i feudatari entrano nei comuni, come pure i servi che acquistano in questo modo la libertà. L’aumento della popolazione urbana è una conseguenza del potere di attrazione che dal punto di vista economico e politico ha la città.

La divisione del lavoro tra città e campagna diventa netta: la città è il luogo del commercio e della manifattura, la campagna dell’economia agricola. Poi, a poco a poco, l’aumento del mercato interno e dei traffici del comune fece crescere la classe più debole, il popolo della città, che venne a costituire la parte politicamente più attiva che rivendicò così la sua partecipazione al potere.

Il movimento associativo si allarga: nascono le corporazioni, che dalle varie regioni hanno nomi diversi: arti, fraglie, paratici, nell’Europa centro-occidentale si chiamano gilde. Esse imitano, in un settore circoscritto, l’ordinamento del Comune, e la loro sfera d’azione si estende anche al di là del campo puramente professionale ed economico.

La fase podestarile significa che le varie fazioni si mettono d’accordo a nominare un magistrato straniero, un podestà, che per il fatto di essere estraneo alle fazioni locali, può dare garanzie di imparzialità.

Umanesimo e Rinascimento

Ancora prima di trovare la sua espressione tecnica nelle dottrine filosofiche, una nuova concezione del mondo e dell’uomo si afferma a partite dalla fine del secolo XIV. La difficoltà di stabilire i tratti essenziali di questa nuova concezione deriva appunto dal fatto che solo in un secondo tempo essa venne formulata e fissata dai filosofi, mentre in un primo tempo s’incarna e vive solo nella personalità dei letterati, poeti e moralisti.

I temi che trattarono i letterati umanisti e rinascimentali prima e poi i filosofi della stessa epoca non differiscono dai temi tradizionali della Scolastica, tanto da sembrare che nessuna differenza sussista fra Rinascimento e Scolastica: la differenza, evidentissima, sta nel considerare la libertà con cui questi temi vengono discussi e tratteggiati.

D’altro canto non è possibile considerare il Rinascimento e l’Umanesimo come l’affermarsi della immanenza di fronte alla trascendenza medioevale, della irreligiosità, del paganesimo, dell’individualismo, del sensualismo, dello scetticismo, di contro alla religiosità, allo spiritualismo e al dogmatismo del Medioevo. Non mancano nel Rinascimento, anzi abbondano, motivi schiettamente religiosi, affermazioni energiche della trascendenza, riprese da elementi cristiani e dogmatici. Quindi una scissione netta tra i due mondi non è possibile effettuarla, neppure seguendo la via delle polemiche che agitarono tutto il Rinascimento.

L’Umanesimo è caratterizzato dalla polemica tra la sapienza classica e la scienza, che da taluni è stata presentata come la polemica dell’Umanesimo contro il Rinascimento. Poiché lo sbocco del Rinascimento è la nascita della nuova scienza della natura, la polemica contro la scienza, iniziata dal Petrarca, è stata interpretata come la difesa della trascendenza religiosa e della sapienza rivelata, contro la libertà della ricerca scientifica. È dunque evidente che questa interpretazione non consente di intendere l’Umanesimo come un momento integrante del Rinascimento.

In primo luogo l’Umanesimo non è soltanto l’amore e lo studio della sapienza classica, ma è anche la volontà di ripristinare questa sapienza alla luce della verità cristiana. Altra preoccupazione dell’Umanesimo è quella di svolgere la sapienza classica nella sua vera realtà storica: il Medio-evo assimilava in sé la sapienza classica e in generale ogni elemento di vita e di cultura senza alcuna preoccupazione della storia, che veniva il più delle volte alterata e camuffata nei suoi caratteri fondamentali.

A questo carattere dell’Umanesimo si deve aggiungere l’altro: la riscoperta del valore umano della sapienza classica.

Già, al tempo di Cicerone e di Varrone, la parola humanitas indicava l’educazione dell’uomo come tale. Alla poesia, alla eloquenza, alla filosofia veniva riconosciuto così un valore essenziale per ciò che l’uomo veramente è e deve essere, la capacità formativa dell’uomo vero, il potere di ricondurlo alla genuina forma umana. L’Umanesimo del Rinascimento riscopre questo carattere formativo delle buone arti. L’interesse che lo muove a rintracciare i vecchi codici e a ripristinare nella forma originaria la sapienza classica è un interesse fondamentalmente umano, è la convinzione che solo attraverso quelle buone arti, di cui gli antichi furono i cultori inarrivabili, l’uomo potrà rinnovare se stesso e restituirsi alla forma autentica di umanità. Ma proprio per questa via l’Umanesimo si collega e si identifica col Rinascimento. Per quanto riguarda il significato della parola Rinascimento i moderni studi hanno accertato al di là di ogni dubbio l’origine religiosa della parola e del concetto di Rinascimento. Rinascita è la seconda nascita, la nascita dell’uomo nuovo o spirituale di cui parlano il Vangelo di Giovanni e le Lettere di Paolo. Quindi il Rinascimento è una rinascita dell’uomo proprio in questo senso, cioè come rinnovamento spirituale; unica differenza è che questo rinnovamento, non va inteso, come era già fatto nel Medioevo, come soltanto un puro rapporto con Dio, ma come il rinnovamento dell’uomo nei suoi poteri umani, nei suoi rapporti con gli altri uomini, con il mondo e con Dio. Come si vede il puro rapporto dell’uomo e Dio, che costituiva il fine conclusivo della Patristica, nel Rinascimento non viene totalmente tagliato fuori, anzi è incluso nel significato della rinascita; esso però non esaurisce la rinascita stessa, la quale viene estesa all’attività pratica dell’uomo, alle sue arti, alla sua poesia, alla sua vita associata. Il significato religioso e il significato mondano della rinascita si identificano: il termine ultimo della rinascita è l’uomo stesso.

La via della rinascita si delinea quindi chiaramente come la via del ritorno all’antichità classica, che è nello stesso tempo il ritorno dell’uomo a se stesso, cioè una lenta riconquista della personalità umana. Da questa lenta ma sicura riconquista si delinea la divisa mentale dei maggiori filosofi rinascimentali (Ficino, Pico, Bovillo, Pomponazzi), che chiameranno l’uomo “copula del mondo”. Da qui pure l’affermazione della libertà umana e le discussioni intorno al rapporto di essa con l’ordine provvidenziale del mondo.

Il primo annuncio della rinascita è di Dante Alighieri. Tutta la sua cultura è medievale e scolastica. Il suo pensiero filosofico concilia Tommaso e Sigieri di Brabante che, nonostante la condanna ecclesiastica, egli esaltò nel Paradiso. Ma la sua opera vive in un clima nuovo e annuncia gli aspetti fondamentali del Rinascimento.

Se Dante è ancora dottrinariamente legato al Medioevo, Francesco Petrarca si stacca anche dal punto di vista della dottrina da quel mondo e inizia in pieno l’Umanesimo. La polemica che egli condusse contro l’averroismo nel De sui ipsius et multorum ignorantia, segna appunto quel distacco. La polemica è condotta in nome di quella antica sapienza romano-cristiana che è rappresentata da Cicerone e da Agostino, che Petrarca considera fondamentalmente d’accordo tra loro. La diffusione dell’averroismo col crescente interesse che suscitava per l’indagine naturalistica sembra a Petrarca, che distragga pericolosamente gli uomini da quelle arti liberali che sole possono dare la sapienza necessaria per conseguire la pace spirituale in questa vita e la beatitudine eterna nell’altra. Alla rinascita Petrarca contribuì con la sua opera di poeta e di storico: l’Africa è il poema latino da cui si attendeva la massima gloria, esso è un’esaltazione della virtù romana, che non è mai disgiunta dalla giustizia e dalla benevolenza.

«Il Rinascimento fu, senza dubbio, uno dei punti focali della ricerca storica del Gentile; ma anche qui egli non venne procedendo in modo lineare, con uno sviluppo, cioè, fedele alla successione temporale; l’approfondimento dell’Umanesimo fu in lui posteriore all’interesse per Telesio, Bruno e Campanella. Fu dopo gli studi bruniani, dopo il discorso su Telesio, che nel 1916 compose uno dei suoi saggi di maggior rilievo: Il concetto dell’uomo nel Rinascimento. Né può dimenticarsi che lo scavo sempre più profondo nella cultura del Quattrocento si connette con le indagini vichiane, in particolare con quella parte della produzione vichiana che gli si veniva scoprendo strettamente saldata al platonismo quattrocentesco. I Ficino, i Pico, i Patrizi, illuminano Vico; Vico aiuta a comprendere l’Umanesimo: il regno dell’uomo nelle dimensioni della cultura, la filosofia dello spirito come filosofia della cultura. Così d’altra parte, il circolo si chiude. Partito dal Risorgimento, il Gentile ne aveva cercato le radici lontane risalendo a Federico II, a San Tommaso, a Dante; ridiscendendo attraverso Petrarca, una nitida linea lo riconduce, oltre Bruno, oltre Campanella e Galileo, a Vico, alla tradizione vichiana, a Cuoco; al punto di partenza, mentre nei caratteri della tradizione italiana ritrova i temi fondamentali del proprio pensiero, per l’indistruttibile nesso di filosofia e storia della filosofia. Contemporaneamente l’ampliarsi del suo concetto della filosofia, non più limitata entro i confini della teoria della conoscenza lo porta a sfumare sempre di più i confini fra la trattazione dei filosofi in senso stretto e quella di poeti e scienziati, di letterati e uomini d’azione. Già negli studi sul Rinascimento, e sul Vico e il vichismo, entrano in scena retori e pedagogisti, politici e uomini di scienza. I suoi articoli de “La Critica” sulla cultura siciliana, toscana, piemontese, ricollocano figure, già da lui viste sotto un profilo rigorosamente speculativo, in un tessuto più ricco, più articolato. Soprattutto notevoli in tal senso le pagine sulla cultura toscana (1916-1920) destinate a raccogliersi nel 1922 in uno dei suoi libri più belli, il Gino Capponi e la cultura toscana del secolo decimonono, non a caso dedicato “al nome caro e venerato di Alessandro D’Ancona, maestro indimenticabile, degli scrittori toscani della nuova Italia il più italiano”. Vi ritornano, ad esempio, Pasquale Villari e Felice Tocco, ma in un contesto in cui le questioni filosofiche si intrecciano con i molteplici aspetti della vita culturale, religiosa, civile di un popolo. Nello stesso tempo si direbbe che tutta la storia della cultura toscana, dai tempi di Dante, dal Gentile ricercata con tanta passione, dia il debito sfondo e fissi le proporzioni di quell’ambiente fiorentino che si va come restringendo e facendo via via più angusto nelle sue peculiarità locali, mentre tutti i suoi aspetti validi si sono risolti nella vita nazionale. Comunque si possa valutare oggi quel quadro, esso resta senza dubbio uno dei più riusciti nell’operosità del Gentile, che in quella dedicata al D’Ancona volle forse in qualche modo indicare, accanto al risolversi della cultura locale in quella nazionale, anche una sintesi finalmente raggiunta fra storia e filosofia, secondo il desiderio e l’insegnamento del vecchio Maestro. Quella sintesi, appunto, di cui aveva parlato nella prolusione palermitana del 1907: “la storia della filosofia compendia la storia dell’umanità, tutta la storia. E se nella storia della filosofia... si realizza la filosofia, ... storia e filosofia sono due concetti sostanzialmente equivalenti e reciprocamente convertibili”. Anzi, proprio nella prolusione palermitana, e nelle successive pagine del 1909 (Il circolo della filosofia e della storia della filosofia, “La Critica”, VII, 1909, pp. 143-149), il Gentile venne fissando i propri metodi e i propri concetti in modo chiaro. Non si fa storia della filosofia senza una logica che permetta la ricostruzione di un pensiero; ma tale logica, che permette la comprensibile sistemazione, da parte dello storico, di un pensiero del passato, se affonda le proprie basi nell’unità della ragione, non può non essere “quella che venne operando nel tempo”. Solo così lo storico potrà concludere: “così era logico che si pensasse”. Ancora: la ricostruzione e la comprensione del pensiero passato implica – secondo il Gentile – un preciso concetto dello spirito – o, se si vuole, della cultura – e del suo sviluppo, che, a suo parere, non può non essere presieduto da un preciso principio, e quindi da un fine determinato. “Credere che lo spirito non abbia un principio ideale e un ideal fine, che è la sua verità, e perciò la verità stessa; credere che proceda a tentoni, tastando tutte le parti della verità, come cieco..., è come ogni scetticismo, credenza in sé contraddittoria”. Infine, questo concetto non può non essere il soggettivo concetto dello storico (“non è dato scrivere la storia della filosofia, senza... farsi lume del proprio concetto alla ricerca e alla ricostruzione”); solo che c’è falsa e vera soggettività. La soggettività vera è quella che adegua il concetto dello storico al tempo in cui si muove, ossia la logica dello storico alla logica egemonica del proprio tempo. “Vera [soggettività] soltanto potrà dirsi quella consistente nel concetto, che uno storico abbia della filosofia adeguato al momento storico a cui appartiene”. Si deve stabilire, insomma, un rapporto fra la logica del tempo del filosofo studiato e quella del tempo dello storico: rapporto possibile per l’unità della ragione, e proprio per questo capace di raggiungere, attraverso una vera soggettività, l’oggettività. Infatti, in concreto, la ricerca storica non potrà non essere filologica, deterministica e oggettiva. Diceva Gentile nel 1907: “La storia... deve ricavare dai documenti la notizia del pensiero che vuole rappresentare. Documenti interpretati con tutti gli ausili glottologici, criticamente vagliati, esternamente e internamente: studiati, se indiretti, nelle loro fonti... Vogliamo studiare il pensiero di una persona? Non le si può certo voltare le spalle: ma bisogna starle innanzi, potendo, ad ascoltarla attentamente, e cercare di mettersi nelle condizioni del suo spirito, e intenderne soprattutto il linguaggio... La storia deve... mostrare di ogni sistema gli antecedenti non solo filosofici ma religiosi, artistici, sociali, che concorsero a formare e atteggiare in un certo modo la mentalità del filosofo: senza di che il sistema filosofico diventa uno schema astratto, falso perché non corrisponde al prodotto storico reale, che si vuol rappresentare. Il filosofo, anche quando sta filosofando, non cessa di essere una determinata personalità storica, che ha una determinata biografia. Conoscerne la filosofia, è conoscere la sua mente, conoscere lui come ha vissuto spiritualmente, e quindi anche materialmente, nel suo tempo, nella sua città o nazione, nel suo mondo”. In altri termini la storia deve “aver annodato il processo dello spirito universale alla condizionalità storica degli spiriti in cui esso si viene realizzando”. Infine “la storia deve essere soggettiva”; ossia: “la valutazione... deve prescindere da una forma prestabilita, non derivante dallo stesso processo storico della filosofia”. Infatti, “se la filosofia è la stessa vita storica della filosofia, ... un giudizio che parta da una filosofia contrapposta a quella che la storia ci dà, è un giudizio antifilosofico per eccellenza”. Ovviamente, e Gentile ben lo sapeva, tutta la difficoltà sta nel raggiungere la sintesi fra “la logica del tempo dello storico” e la “logica del filosofo del passato”. “La verità della filosofia e della logica è nell’unità di entrambe” – concludeva il Gentile, ma con la piena consapevolezza che si trattava di un’idea “regolativa”, di un ideale. Resta quella sua precisa volontà di ricostruire una storia compiuta della tradizione filosofica italiana, partendo dal Risorgimento, anzi della coscienza di sé raggiunta, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, da quella parte dell’“intelligenza” nazionale che aveva cooperato alla costruzione dell’unità nazionale. Non a caso l’opera storica del Gentile, la sua Storia della filosofia italiana, è sostanzialmente completa agl’inizi della prima guerra mondiale, e le sue ulteriori rilevanti integrazioni si possono considerare concluse, anch’esse, intorno al 1920. Le pagine sulla cultura piemontese che confluiranno ne L’eredità di Vittorio Alfieri, escono ancora su “La Critica”, fra il 1921 e il 1922, nel clima di una piena collaborazione culturale col Croce: rientrano nel programma di una ricostruzione della storia intellettuale dell’Italia partendo dall’Unità, dalla coscienza realizzata con l’Unità da parte di coloro che, nel movimento di unificazione, avevano, sul terreno della cultura, posizioni egemoniche. In campi diversi Croce e Gentile assolsero il compito che si erano proposti con grande lucidità e chiarezza. La ricostruzione gentiliana della tradizione intellettuale italiana dalle origini fu condotta attraverso una serie di scelte consapevoli e precise, e secondo una linea di metodo nettamente dichiarata; secondo la logica – com’egli dice – del proprio tempo: una storia degl’intellettuali italiani dal Rinascimento al Risorgimento, nelle loro sconfitte e nei loro esilii, nelle loro affermazioni e nei loro ritorni. Una storia, si è detto, fatta di scelte consapevoli, fra cui, forse, la più vistosa è la condanna dell’illuminismo a favore del romanticismo, il sì a Rosmini e il no a Cattaneo. Ma, va aggiunto, scelte operate sempre con grande finezza, si tratti di Bruno o di Vico, di Alfieri o di Leopardi, di Spaventa o di De Sanctis. Di qui una storia della cultura italiana che è stata capace di penetrare dovunque, che è presente nei luoghi più impensati, presso gli avversari più acerbi, raggiungendo sottilmente una egemonia non esaurita. Diffusa mediante strumenti eccezionali, dalla riforma della scuola all’Enciclopedia italiana, dai programmi liceali alle edizioni di classici, per i suoi indiscutibili punti di forza, per la larga base documentaria, essa deve essere ancora sottoposta, in molti aspetti, a un’analisi e a una valutazione adeguata che ne svelino radici, implicanze, conseguenze. E questo è possibile fare solo affrontandone con chiarezza la linea unitaria e la totalità della visione». (E. Garin, Introduzione a G. Gentile, Storia della filosofia italiana, Firenze 1969, vol. I, pp, XLVIII-LI).

L’Italia comunale

La formazione del Comune a Milano inizia con le lotte dei piccoli nobili contro la grande feudalità laica ed ecclesiastica. Ad un certo momento si inserisce anche il popolo sotto la guida di Lanzone della Corte. La conclusione è un governo in cui sono rappresentati signori, vassalli e grande borghesia. Il movimento della pataria colora di motivi religiosi il tutto.

In Toscana il movimento comunale era già diffuso prima della morte della contessa Matilde avvenuta nel 1115. A Lucca il governo comunale esisteva nel 1080, a Firenze viene creato nel 1138. Ancora prima nelle città marinare di Genova e Pisa nasce l’autonomia. Venezia non ebbe un vero periodo feudale, allo stesso modo delle città marinare del sud: Napoli, Gaeta, Amalfi, Bari.

Per Roma la situazione è diversa. Una rivolta crea le istituzioni nel 1143. Papa Lucio II tenta di abbattere il Comune ma ha la peggio e muore nell’assalto al Campidoglio. Il Comune a Roma si allarga in potenza e finisce per mettere in discussione il potere temporale dei papi. Cresce un movimento religioso che condanna la ricchezza e il possesso dei beni da parte del clero e il ritorno della Chiesa all’antica povertà. Arnaldo da Brescia guida il comune in senso popolare. Fatto prigioniero a seguito degli accordi tra il papa e Federico I, Roma è occupata dalle truppe imperiali. Il comune muore sotto Innocenzo III.

La monarchia meridionale. La dinastia normanna fa della struttura del meridione fatta di ducati e repubbliche cittadine, formalmente dipendenti da Bisanzio, e della Sicilia, appartenente ai musulmani, un organismo politico unitario.

I primi arrivi di Normanni si ebbero dopo la rivolta di Melo di Bari. Dopo ebbero una contea dal duca di Napoli, quella di Aversa. Poi Guglielmo detto Braccio di ferro conquistò il ducato di Melfi. Il successore Roberto il Guiscardo lo allargò.

Il papa tenta di attaccare ma è sconfitto a Civita e fatto prigionierio. In seguito cambia la posizione del papa e viene concesso a Roberto il titolo di duca di Puglia e Calabria. Con l’aiuto di Roma i Normanni iniziarono la conquista della Sicilia approfittando dei contrasti tra gli emiri siciliani.

Si ebbero così due regni separati: uno sotto i successori di Roberto nel continente e uno sotto i successori di Ruggero in Sicilia. Con Ruggero II si ha l’unificazione anche per ovviare all’inettitudine del governo continentale. Il papa ancora una volta cerca di impedire il crescere della potenza normanna ma è sconfitto. Solo Benevento resta dipendente dalla Chiesa.

I Normanni seppero unificare diversi gruppi etnici: Arabi, Bizantini, Ebrei, Longobardi. Testimonianza di questa convivenza: i monumenti palermitani, il duomo di Cefalù. Però il sistema feudale degenerò in breve. Solo la Sicilia ebbe uno sviluppo più organico. Comunque i Normanni restarono estranei ai veri e propri problemi locali, specie del mezzogiorno continentale .

L’Italia dai comuni alle Signorie. L’economia comunale si basa sull’economia artigiana. Solo col secolo XVI prende l’avvio il sistema capitalistico.

Anche il commercio è modesto nell’età comunale perché muove modeste quantità di merce. Si ha la fase precapitalista.

L’agricoltura è ancora feudale. Sussistono gli usi comuni. La produzione industriale è per la maggior parte tessile (Firenze, Lucca, Milano, Como, ecc.). La tessitura serica, introdotta dapprima in Sicilia, si diffonde a Firenze, Genova, Milano.

Si sviluppa il commercio internazionale e il credito. Nel XIV secolo i Bardi hanno 25 filiali in Italia, Levante, Francia, Inghilterra, Paesi Bassi, Spagna e Africa. Si fanno società. Nascono le commende. Nasce il sistema a partita doppia. Si diffonde il prestito a interesse. Sorge la figura del mercante imprenditore, che fa lavorare a domicilio i suoi operai. È il sistema dell’arte della lana a Firenze. Tra l’artigiano e il consumatore si inserisce un intermediario.

Origine delle Signorie. Nei comuni la lotta di classe è tra Magnati (nobili feudali trapiantati in città e famiglie mercantili nobilitate) e Popolo.

Per popolo si intende quella parte della cittadinanza organizzata nelle associazioni di mestiere (mercanti, artigiani, professionisti). I contadini e la massa dei lavoratori più umili non hanno diritti politici.

Ma tra il popolo vi sono differenze notevoli. I ricchi formano il popolo grasso (a Firenze organizzato nelle Arti Maggiori) insieme ai professionisti, giudici e notai; i meno ricchi, artigiani, bottegai, formano il popolo minuto (arti minori).

Il popolo elegge i suoi rappresentanti, i Capitani del Popolo, che vuole far partecipare al governo. Si ha un vero sdoppiamento dello Stato: coesistono il Comune maggiore e il Comune minore. L’assemblea popolare (in cui si riuniscono le arti) tende a trasferire tutti i poteri dal podestà al capitano del popolo.

Nel 1250 a Firenze si forma un’organizzazione militare autonoma a capo della quale è messo il capitano del popolo e un organo di governo, gli Anziani del popolo, assistito da un consiglio di boni homines.

A Bologna il popolo conquista la maggioranza. A Genova si arriva all’elezione di un capitano del popolo che resta in carica 10 anni. A Milano il popolo riesce ad ottenere una sua autonomia.

Si tratta di un movimento globale che investe tutti i Comuni italiani. Emerge il contrasto tra la concentrazione della ricchezza (neocapitalismo) e queste tendenze democratiche determinatesi con l’avvento al potere del popolo. Per superare questi contrasti la nuova classe dirigente si rivolgerà alla dittatura.

Frattanto l’Italia perde il predominio economico in quanto nelle altre nazioni la borghesia aveva trovato condizioni più favorevoli allo sviluppo industriale. Il particolarismo resterà il dato dominante della situazione politica italiana.

L’Italia meridionale e l’imperialismo angioino. Muore Federico II e il papato riprende il sogno del controllo dell’Italia meridionale. Il reggente, figlio naturale, Manfredi, seppe resistere alle mire del papa che aveva offerto la corona a Carlo d’Angiò, fino alla venuta dell’erede legittimo, Corrado IV, dalla Germania, con un esercito. Manfredi si estese allora con la sua politica.

Le sorti del partito ghibellino si ridestano. Roma, con il popolo vittorioso contro i nobili, Genova, Lucca, Orvieto, gli offrono alleanza. In Toscana i ghibellini sotto la guida di Farinata degli Uberti sconfiggono i guelfi a Montaperti.

Manfredi va trasformando la sua alleanza col partito ghibellino in una supremazia sull’Italia settentrionale. Si allea poi con il re d’Aragona e con il desposta dell’Epiro.

Preoccupazioni papali. Accordo con Carlo D’Angiò. Sconfitta di Manfredi a Benevento dove muore sul campo. I Ghibellini puntano su Corradino che viene sconfitto a Tagliacozzo e giustiziato a Napoli in Piazza del Mercato.

La vittoria di Carlo d’Angiò riporta a galla il partito guelfo. A Firenze i Ghibellini sono cacciati, lo stesso a Milano.

Riprendendo la politica del predecessore, Carlo cerca di espandersi in Oriente. Qui aveva preso il potere l’imperatore di uno Stato greco indipendente: Michele Paleologo. Da ciò traggono vantaggio i genovesi, alleati del nuovo imperatore. Questi fanno nuove basi a Giaffa e a Bataclava. Carlo appoggia l’imperatore precedente. Cerca di spingere il fratello alla ottava crociata. Muore di peste. La crociata è un fallimento.

Il papato modifica l’atteggiamerto favorevole verso Carlo con il chiarirsi delle mire espansionistiche. Il papa sostiene il nuovo re di Germania: Rodolfo d’Asburgo facendolo riconoscere dai signori e dai Comuni settentrionali. A Firenze fa riconoscere la pace tra guelfi e ghibellini.

La guerra del Vespro. Il nuovo papa, Martino IV, è favorevole a Carlo e lo aiuta contro l’impero greco, in accordo con Venezia. Ma scoppia l’insurrezione in Sicilia: i Vespri siciliani. Questa fu promossa da Pietro III d’Aragona e dai fuoriusciti siciliani tra cui Giovanni da Procida. I Francesi sterminati. Carlo tenta di impadronirsi di Messina che resiste eroicamente al comando di Alaimo da Lentini. Pietro III viene incoronato re.

La rivolta scoppia nell’Italia meridionale, la flotta di Carlo è battuta vicino a Napoli e il figlio del re fatto prigioniero (Carlo lo Zoppo).

Il papa salva la dinastia angioina deponendo Pietro III e invitando Filippo III, re di Francia, a invadere il regno di Aragona. Muoiono nel 1285 tutti i protagonisti del conflitto. Carlo lo Zoppo viene rilasciato e rinuncia al regno. I Siciliani offrono le corona a Federico d’Aragona, ma gli Angioini fanno una spedizione comandata da Carlo di Valois che non ha successo. Finalmente la pace di Caltabellotta. Federico d’Aragona viene riconosciuto re di Sicilia e questa si stacca da Napoli dove c’erano gli Angioini.

L’espansione del regime signorile. A Ferrara, Azzo d’Este diventa signore dopo aver ricoperto la carica di podestà. A Milano il potere passa alla famiglia della Torre, Filippo diventa in perpetuo anziano della Credenza di Sant’Ambrogio, capo del popolo. Ma questo dominio popolare si capovolge quando le forze magnatizie danno il potere all’arcivescovo Ottone Visconti, cui succede il nipote Matteo Visconti. In Piemonte il marchese del Monferrato vuole sottomettere tutto il Piemonte ma incontra la resistenza degli altri tra cui Amedeo V, duca di Savoia. A Verona salgono al potere gli Scaligeri. A Treviso i Da Camino. A Mantova (tendenza popolare) i Gonzaga. In Toscana, gli istituti comunali durarono più a lungo. Pisa (ghibellina), sconfitta da Genova nella battaglia della Meloria, viene spopolata per il trasferimento di 11000 prigionieri, dà il potere al guelfo Ugolino della Gherardesca. Ma l’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini abbatte Ugolino e lo rinchiude. La Signoria a Pisa si ha con Uguccione della Faggiola, romagnolo. A Rimini, salgono al potere i Malatesta. A Ravenna, i Da Polenta. A Faenza e Imola, i Manfredi. A Urbino, i Montefeltro.

Lotta politica a Firenze. Caduto Manfredi, la parte guelfa stabilisce collegamenti con la borghesia che aveva interesse, tramite i propri banchieri, a inserirsi nel vasto giro d’affari finanziari della corte pontificia. La pace del cardinal Latino, del 1280, e le condizioni imposte riflettevano questo equilibrio. Ma si trattava di un compromesso effimero che le violenze dei magnati e dei popolani renderanno assai instabile.

La grande borghesia può sfruttare ora, in funzione antimagnatizia, la forza e la pressione politica di quest’ultima senza arrivare ad una alleanza vera e propria. Si fece una riforma che spostava l’asse del potere politico sulle Arti maggiori e medie, i cui capi furono chiamati ad eleggere i nuovi governanti, i sei priori.

Il popolo grasso s’insediò così nella direzione politica del Comune. Poi la guerra contro Pisa e Arezzo, le difficoltà finanziarie, le rappresaglie dei sovrani inglesi e francesi contro i mercanti fiorentini per ottenerne prestiti e contributi. Emersero contese che posero in discussione il sistema dei priori.

Giano della Bella, un nobile divenuto capo dei popolari, promuove una nuova riforma. Furono promulgati gli Ordinamenti di giustizia, fissato il numero della Arti in 21.

I magnati vennero esclusi dalle maggiori cariche pubbliche. Fu creata una nuova magistratura: il gonfaloniere di giustizia, con 2000 uomini al suo comando, che perseguitava con grande severità i magnati colpevoli di delitti contro il popolo.

La riforma fu fatta senza violenza, ma i magnati passarono all’offensiva. Essi guadagnarono alla loro causa la grande borghesia, preoccupata dell’aggressività della Arti minori. Posto sotto accusa Giano fu esiliato, ma non si poterono abrogare gli ordinamenti di giustizia per l’opposizione del popolo grasso.

Il popolo voleva il ritorno di Giano ma papa Bonifacio VIII minacciò l’interdetto se il “seminatore di discordie” fosse tornato. Il pericolo di una guerra civile venne scongiurato.

Dopo il bando di Giano si formarono in Firenze due fazioni: i Bianchi, capeggiati dalla famiglia dei Cerchi, esponenti della ricca borghesia cittadina, di tendenza popolare, che mirava a mantenere il predominio del popolo grasso e a conservare i legami politici con le Arti minori; i Neri, capeggiati dalla famiglia dei Donati, nobili di antica data, meno ricchi, sostenitori di una restaurazione del potere nobiliare.

Il Papa volle eliminare questa rivalità, i fiorentini con un’ambasceria cercarono di dire le loro ragioni contro questa ingerenza. Fu un tentativo inutile. Carlo di Valois, inviato dal Papa, entrò in Firenze nel 1301 e si schierò a favore dei Neri. Dante fu condannato in contumacia al rogo. Le ambizioni di Corso Donati, con la vittoria dei Neri, però non furono attuate, perché il governo rimase a struttura popolare. Nel 1307 una sommossa pose fine alla sua ambizione.

Genova, Venezia, Pisa. Le prospettive di Genova erano legate all’impero greco. Da qui l’ostilità di Pisa che nel 1282 divenne guerra aperta, provocata dalle mire sulla Corsica e sulla Sardegna. La battaglia navale della Meloria, il 6 agosto 1284, vide la disfatta della flotta pisana.

A questo si aggiunse l’offensiva della lega guelfa toscana. Arezzo, alleata di Pisa, fu sconfitta nella battaglia di Campaldino (alla quale partecipò anche Dante) e Pisa si trovò a fronteggiare Fiorentini e Lucchesi per terra, e Genovesi per mare. Dovette accettare gravi condizioni di pace, avviandosi al declino.

L’urto con Venezia fu determinato dai privilegi genovesi sui territori orientali. Preceduto da atti di pirateria, il conflitto culminò nella battaglia navale di Curzola, la flotta genovese, comandata dall’ammiraglio Doria, vinse e quella veneziana fu quasi distrutta. L’ammiraglio veneziano Dandolo, preso prigioniero, si uccise. La sconfitta non ebbe per Venezia gravi ripercussioni. Mentre Genova, pur vittoriosa, era agitata da rivoluzioni e lotte faziose. Venezia si consolidava. Il suo organo di governo: il Maggior Consiglio venne composto da coloro che erano discendenti da persone che vi avevano fatto parte in passato. In questo modo il potere divenne appannaggio di una ristretta oligarchia di grandi mercanti che rappresentavano veramente gli interessi della repubblica.

Michel de Montaigne

Il ritorno dell’uomo a se stesso, che costituisce l’essenza del moto di rinnovamento rinascimentale, trova la sua espressione culminante e determina l’avvio al pensiero moderno in quel colloquio con se stesso, a cui il filosofare si riduce nell’opera di Montaigne.

Nato nel castello di Montaigne nel Perigord in Francia, venne educato dal padre con un metodo che escludeva ogni costrizione o rigore, imparò il latino da un precettore che non conosceva il francese. Dopo alcuni lavori letterari che furono delle traduzioni e delle raccolte di fatti o di sentenze di scrittori antichi e moderni, egli inizia la sua meditazione filosofica che è stata definita una dipintura dell’io, in quanto al centro di tale meditazione si trova solo la personalità dell’autore e nient’altro. Dopo avere pubblicato due libri di saggi, iniziò alcuni viaggi in Svizzera, Germania ed Italia. Nominato sindaco di Bordeaux la carica politica non gli permise di dedicarsi agli studi e alla meditazione.

Il titolo dell’opera di Montaigne (1533-1592) indica chiaramente la sua natura. Saggi vuol dire esperienze (non tentativi): Montaigne intende rintracciare le esperienze umane espresse negli scritti di autori antichi e moderni e metterle alla prova in riferimento alla proprie esperienze. Lo sguardo rivolto continuamente in se stesso; la meditazione interiore non più religiosa ma laica e filosofica è vertente quindi non solo sul proprio io spirituale ma su tutti gli affari e le cose umane; e nello stesso tempo il continuo dialogare con gli altri ed il continuo confronto tra le esperienze proprie e altrui, costituiscono i tratti essenziali dell’opera di Montaigne. In realtà egli è passato da un indirizzo stoico ad un indirizzo scettico, per trovare il suo equilibrio in una posizione socratica; ma solo quest’ultima costituisce la sostanza della sua persona e del suo pensiero. Lo stoicismo e lo scetticismo sono per lui, non già dottrine alle quali rimanga ancorato, bensì esperienze attraverso le quali giunge all’equilibrio che gli è proprio. Così egli scrive:

«Un tempo ho visto fra noi degli uomini condotti per mare da lontani paesi; poiché non comprendevamo affatto la loro lingua e, quanto al resto, il loro modo di fare e il loro contegno e i loro vestiti erano quanto mai diversi dai nostri, chi di noi non li riteneva e selvaggi e bruti ? Chi non attribuiva a stupidità e bestialità il fatto di vederli muti, ignoranti della lingua francese, ignoranti dei nostri baciamano e dei nostri inchini serpentini, del nostro portamento e del nostro contegno che, senza fallo, la natura umana dovrebbe prendere a modello? Tutto quello che ci sembra strano, lo condanniamo, e così tutto quello che non comprendiamo; come ci accade nel giudizio che diamo delle bestie». (Essais, II, 12).

Stoicismo e scetticismo sono le esperienze che portano Montaigne a mettere in chiaro la posizione della condizione umana. Ma la valutazione dell’uomo si determina meglio in lui come valutazione di quel singolo uomo che è egli stesso; i suoi ultimi saggi assumono sempre un carattere autobiografico per il quale il filosofare diventa un continuo sperimentare se stesso, un continuo chiarimento dell’io a se stesso.

«Non potendo regolare gli avvenimenti, regolo me stesso, e mi adatto ad essi, se essi non si adattano a me. Non ho arte per saper schivare la fortuna e sfuggirle o forzarla, e per guidare e condurre con prudenza le cose a mio vantaggio. Ho ancor meno pazienza [tolérance] per sopportare la sollecitudine dura e penosa che è necessaria per questo». (Essais, II, 17).

D’altro canto possiamo dire che in Montaigne l’Umanesimo raggiunge il suo equilibrio. L’uomo non si esalta più, ma si accetta per quello che è. Se agli albori del Rinascimento l’uomo era stato portato all’esaltazione del suo stato privilegiato, con Montaigne e con la teoria del continuo provarsi, riconosce i suoi limiti; appunto per questo Montaigne apre la via a Cartesio e a Pascal.

«Noi abbiamo un testimone di quel momento capitale, di quell’ora che sembra tragica agli occhi dello storico. Quel testimone è di una specie rara. Ha un’intelligenza così penetrante e possente che ha visto il fondo delle cose. Ha un genio così vivo e così appassionato che ci fa ancor oggi passare attraverso tutte le emozioni di quell’ora. E l’esperienza non gli è mancata. Tutte le correnti del secolo, le ha attraversate; a tutte s’è lasciato andare per un istante, ma da uomo superiore, e non con una passione cieca e brutale. Ha frequentato il mondo – la corte e la città al tempo di Richelieu – i salotti di provincia, la Parigi della Fronda e la società del dopo Fronda; si è applicato con prodigioso successo alle scienze d’osservazione e alle scienze astratte, avvicinandosi ora a Gassendi, ora a Descartes, emulo di Galilei e di Torricelli; è stato sedotto da Epitteto, è stato sedotto da Montaigne; la sua anima fu una delle più religiose che si siano mai conosciute. La sua vita riproduce nel modo più patetico, più sincero e completo tutta la vita religiosa e morale del suo tempo. Quel testimone unico, sì, è Blaise Pascal». (F. Strowski, Pascal et son temps, vol. I, ns. tr., Paris 1928, p. 102).

Il platonismo. Cusano e Ficino

Il platonismo e l’aristotelismo che erano le due correnti fondamentali della Scolastica si rinnovano anche nel Rinascimento; ma vengono ricondotti alle loro fonti originarie e assunti, nella loro autenticità storica, come mezzi di rinnovamento dell’uomo e del suo mondo. L’antagonismo tra platonici e aristotelici è, nel Rinascimento, l’antagonismo di due diversi interessi spirituali. Platonici sono quelli che pongono in primo piano l’esigenza della rinascita religiosa e pertanto vedono nel ritorno al platonismo, considerato come la sintesi di tutto il pensiero filosofico dell’antichità, la condizione di questa rinascita. Aristotelici sono quelli che tendono sopratutto alla rinascita dell’attività speculativa e specialmente della filosofia naturale: costoro vedono nel ritorno alla genuina scienza di Aristotele la condizione della rinascita di una libera e rigorosa ricerca naturalistica. Il rinnovatore del platonismo è Nicolò da Cusa, che è la più completa personalità filosofica del Quattrocento.

Nicolò Krebs (1401-1464), detto il Cusano, dal nome del suo paese natale, giovanissimo fu indirizzato agli studi giuridici e teologici, divenuto prete fu incaricato dal cardinale Giulio Cesarini di partecipare al Concilio di Basilea. Poi fu mandato in Grecia dove visse per molti anni a contatto con i più insigni teologi greci, e acquistò una grande padronanza della lingua greca; potendo leggere negli originali i testi di Platone, filosofo dal quale egli trasse l’ispirazione fondamentale. Nominato cardinale, per un conflitto col duca del Tirolo venne rinchiuso in carcere dove visse parecchi anni. Morì lontano dalla sua diocesi.

Il punto di partenza di Cusano è una precisa determinazione della natura della conoscenza. Questa è da lui modellata nella conoscenza matematica. La possibilità della conoscenza risiede nella proporzione tra l’ignoto e il noto. Si può giudicare di ciò che si conosce solo in relazione a ciò che ancora non si conosce; ma questo è possibile solo se ciò che non si conosce, si possiede in una certa proporzionalità con ciò che si conosce. La conoscenza è tanto più facile quanto più vicine sono le cose che si ricercano a quelle conosciute; e per esempio, in matematica, le proporzioni che più direttamente derivano dai primi princìpi di per sé notissimi sono le più facili; mentre quelle proporzioni che derivano da princìpi poco conosciuti o che si allontanano dai princìpi noti, sono le più difficili a risolversi.

«Nei capitoli precedenti abbiamo mostrato che tutte le cose, eccettuato l’uno semplicemente massimo, sono finite e limitate rispetto a questo. Ciò che è finito ha un termine da cui comincia e uno in cui finisce. E poiché non si può dire che il massimo è più grande di un dato finito e sia finito, anche se si procede all’infinito – poiché nelle cose eccedenti e nelle eccedute il processo all’infinito non può darsi in atto (il massimo, altrimenti, apparterrebbe alla natura delle cose finite), il massimo è necessariamente in atto il principio e la fine di tutti i finiti. Niente potrebbe essere inoltre se non ci fosse il massimo semplice. E poiché tutto ciò che non è massimo, è finito, ha anche un principio: sarà allora necessario che dipenda da altro; se, dipendesse da sé, sarebbe quando non sarebbe. Non è possibile procedere all’infinito nei princìpi e nelle cause, come risulta dalla regola. Esisterà, dunque, il massimo semplice senza il quale niente può essere». (N. Cusano, De docta ignorantia in Opere filosofiche, tr. it., Torino 1971, pp. 65-66).

Da ciò deriva che quando quello che è ignoto e si cerca non ha nessuna proporzione con le conoscenze in nostro possesso, sfugge ad ogni possibilità di conoscenza e non rimane che proclamare di fronte ad esso la nostra ignoranza. Questo riconoscimento dell’ignoranza che Cusano ricollega alla sapienza antica di Pitagora, di Socrate, di Aristotele e alla sapienza biblica di Salomone: è la dotta ignoranza. L’atteggiamento della dotta ignoranza è l’unico possibile davanti a Dio, egli è infatti il grado sommo dell’essere e in generale della perfezione. Ora l’uomo può avvicinarsi alla verità per gradi successivi di conoscenza; ma poiché questi gradi saranno sempre finiti e la verità è l’essere nel suo grado infinito, la verità sfuggirà necessariamente allo sforzo diretta a comprenderla. Tra la conoscenza umana e la verità c’è lo stesso rapporto che intercede tra i poligoni e la circonferenza: moltiplicando non definitamente i lati dei poligoni, essi si avvicineranno alla circonferenza, ma non si identificheranno mai con essa.

E come il massimo assoluto così il minimo assoluto sfugge alla conoscenza. Questa si muove nell’ambito di ciò che è suscettibile del più e del meno; ma il minimo assoluto sfugge al più e al meno perché è ciò di cui non ci può essere il meno.

Il massimo assoluto ed il minimo assoluto coincidono perché entrambi appartengono al dominio della necessità e dell’attualità piena, mentre il dominio del più e del meno, nel quale si muove la conoscenza umana in tutti i suoi gradi, è quello della possibilità e della potenzialità.

In queste tesi fondamentali di Cusano confluiscono le due manifestazioni della filosofia medioevale: l’occamismo e il misticismo. L’uno aveva dichiarato impossibile per l’uomo l’accesso alla realtà divina, e il misticismo aveva cercato questo accesso al di fuori della conoscenza, nella fede.

«La “filosofia prima” di Leibniz è ontologia pura. Comincia con la definizione della sostanza, non con un cogito. E se in essa si parla del soggetto conoscente, è perché quest’ultimo appartiene all’essere. Contrapposta al cogito di Descartes, la monade sarebbe frutto di una metafisica che vuole stabilire la natura substantiae in universum. In essa il problema del metodo scomparirebbe, assorbito da una “scienza a priori dell’essenza dell’essere”. Se questa è un’ipotesi troppo opposizionale, considerato il progetto armonicistico leibniziano, certo è che nel capitolo VIII del Discorso di metafisica (1686) Leibniz comincia a percorrere un sentiero che dalla sostanzialità logica e matematica lo condurrà alla sostanza individuale. È interessante notare come sia Husserl che Heidegger vedano nella teoria della monade uno dei centri di irradiamento del pensiero moderno, cogliendone però l’uno la portata ontologica, l’altro il valore coscienzialistico. Sembra verosimile che entrambi afferrino qualcosa che è realmente presente in Leibniz: non c’è in lui un’esclusione dell’essere a favore della coscienza, né una dissoluzione del soggetto nell’infinità dell’essere. Essi vedono a ragione che ontologia in Leibniz è sempre discorso sull’esistenza della monade. La teoria della sostanza non è mai separata – a esigerlo è il principio secondo cui nihil est sine ratione dalla conferma nell’esistenza (sia umana che divina). Se pensiamo al carattere attivo della sostanza, possiamo ora anche azzardare: la sostanza per Leibniz è strettamente legata al conatus ad existentiam e per questo Husserl e Heidegger le attribuiscono una funzione determinante nella filosofia moderna, pur sottoponendola a critica serrata e valorizzandola in base a prospettive diverse. Husserl ritiene che nella monade si prefiguri l’io trascendentale sul quale si fondano la vita individuale e quella intersoggettiva. In Erste Philosophie definisce quindi la monadologia come “una delle più grandi anticipazioni della storia”, una “geniale apertura alla fenomenologia”. Leibniz non ha tematizzato direttamente la funzione dell’intenzionalità, ma nel suo sforzo di pensare un tutto intermonadico fondato sull’armonia sarebbe presente un tentativo di elaborare la correlazione fenomenologica. L’“accordo tra le monadi” non sarebbe un agglomerato meccanicistico, ma una “unità intenzionale”, la “costituzione di un’intenzionalità unitaria”. In questo senso la capacità rappresentativa della monade sarebbe un effetto dell’intenzionalità, che estendendosi formerebbe l’armonia: “il collegamento tra essenze (sostanze) assolutamente autonome è possibile solo se non si elimina l’autonomia delle sostanze collegate”. Ma l’autonomia consiste nel fatto che esiste collegamento fattuale in quanto, secondo una delle due regolazioni impresse, entrambe le monadi “si dirigono l’una verso l’altra”, possono incontrarsi spiritualmente in forma reciproca per mezzo dell’Einfühlung e della reciproca comprensione, possono esercitare motivazioni spirituali l’una sull’altra, poiché quello che succede nell’una o quello che una pensa, sente, ecc., può essere compreso dall’altra per mezzo della presentificazione appresentativa (dunque della “rappresentazione”) e può quindi diventare motivazione; ma d’altra parte ciò non deruba la monade della sua autonomia. La coscienza non è esclusivamente un ripiegarsi della monade/soggetto in se stessa ma, ormai oltre Descartes, è un dirigersi verso qualcosa, verso l’Altro. La struttura di questa attività si avvicina per molti aspetti a quella del concetto leibniziano di rappresentazione. Infatti se in Husserl la coscienza di qualcosa implica: a) l’io che nella percezione si dirige verso qualcosa (io-polo), b) ciò verso cui la percezione è diretta (noema) e c) l’atto stesso del dirigersi (noesi), in Leibniz si verifica qualcosa di analogo per quanto riguarda la vis expressiva o repraesentativa: l’essere della monade consiste nel rappresentarsi il mondo e questa azione si articola su tre piani: a) ciò che esercita l’espressione (cioè la monade come sostanza rappresentativa), b) ciò che viene espresso o rappresentato (res expressa) e c) il rapporto attraverso cui qualcosa si rappresenta a qualche altra cosa (è quello che Leibniz definisce “un rapport constant et reglè”). Pur trattenendo la sostanza sul piano dell’armonia prestabilita, Leibniz anticipa – dice Husserl – l’intenzionalità e per questo motivo, aggiunge “noi abbiamo in fin dei conti rinnovato la teoria leibniziana della monade”. In questo senso – anche se nel 1917 scrive che “Leibniz non ha l’idea di fenomenologia” perché in lui “non c’è la correlazione noetico-noematica”, e anche se in due lettere del 16 e 17 ottobre 1932, indirizzate rispettivamente a Ingarden e a Mahnke, scrive che “[la mia fenomenologia] non è una monadologia nel senso leibniziano”, e che “la monadologia leibniziana, pur essendo preintuizione della mia, è radicalmente diversa dalla mia. Infatti nella riflessione interna intenzionale si delinea che le monadi sono implicate reciprocamente, che il loro esterno e il loro interno non sono contraddizioni, ma si esigono”, – allo stesso Mahnke egli confessa: “io sono veramente monadologo”. Da parte sua, Heidegger legge nella vis repraesentativa monadica un’irruzione del problema del mondo e della trascendenza: Leibniz ha certamente “inserito la sua intuizione autentica nell’ontologia tradizionale. Tuttavia, in questa idea della rappresentazione delle monadi deve essere visto qualcosa di positivo, cosa che fino a oggi ha avuto nella filosofia un influsso quasi inesistente”. Egli non adotta la terminologia leibniziana (come fa Husserl), anzi ne smaschera il fondo ontoteologico che la sostiene, ma ritiene che la sostanzialità della monade come impulso rappresentativo possa costituire un aspetto fecondo per tematizzare il rapporto tra soggetto e mondo. La valutazione positiva della monade come unità intenzionale di esperienza interna non lo trova d’accordo, tuttavia, come non scorgere in quella zona del pensiero leibniziano che secondo lui “ha avuto nella filosofia un influsso quasi inesistente”, un riferimento alla problematica fenomenologica dell’intenzionalità e della trascendenza? La monade non risponde all’esigenza heideggeriana, ma con questa metafora Leibniz avrebbe sfiorato il problema autentico: “le monadi non hanno finestre, perché non ne hanno bisogno; non ne hanno bisogno [...] perché quello che contengono in sé, come loro possesso, è loro sufficiente. [...] L’esserci, in quanto monade, non ha bisogno di finestre [...] non perché, come ritiene Leibniz, ogni ente sia accessibile già all’interno del suo involucro e possa quindi tranquillamente essere chiuso in sé e incapsulato, ma perché la monade, l’esserci, secondo il proprio essere (secondo la trascendenza) è già sempre fuori, cioè presso l’altro ente e sempre presso se stesso. L’esserci non è affatto un involucro. In base alla trascendenza originaria si rende superflua, per l’esserci, una finestra”. L’esperienza dell’esistenza rende possibile l’assenza di finestre: in questa prospettiva un passo di Jean Wahl echeggia in modo straordinario le riflessioni heideggeriane qui riportate, risalenti al 1927 ma pubblicate solo nel 1978. “Leibniz diceva che le monadi non hanno né porte né finestre – scrive Wahl –; ma il fatto è che, dopo Heidegger, le sostanze reali non ne hanno affatto bisogno: le sostanze comunicano direttamente le une con le altre e con il reale. Non hanno porte e finestre, perché sono nella strada”. L’impatto con la monade provoca dunque in Husserl e in Heidegger reazioni differenti: per quest’ultimo, Leibniz non si sarebbe reso conto che “la monade, essendo per essenza rappresentante, rispecchiante cioè un mondo, è trascendenza e non elemento semplicemente presente di tipo sostanziale, involucro privo di finestre”. Come avrebbe detto nel suo ultimo seminario, la monade, analogamente all’ego cogito, è “uno spazio chiuso. L’idea di ‘uscire’ da questo spazio chiuso è in sé contraddittoria. Di qui la necessità di partire da qualcos’altro”. L’istanza di un nuovo inizio si colloca nell’intersezione fra il riconoscimento delle scoperte fenomenologiche e la necessità di radicalizzarle, staccandosene. Dal canto suo, Husserl non cerca una via d’uscita nella trascendenza originaria, ma ipotizza che il soggetto si trovi in una “trascendenza nell’immanenza”, ritenendo quindi che “ogni monade psichica abbia infinitamente molte finestre”, per accogliere influssi esterni: “sono le finestre dell’Einfühlung. Attorno all’immagine della finestra si gioca qualcosa di piú di un’opzione linguistica: sostenendo che la monade è priva di finestre, Leibniz ha ontologizzato il cogito, proiettandolo in un universo in cui al di sopra dell’autoriflessione si trova un accordo prestabilito che custodisce “il rapporto tra il singolare e la molteplicità”. Husserl invece inserisce le finestre nella monade per accentuarne il ruolo attivo e al tempo stesso per risolvere in forma antisolipsistica il problema dell’intersoggettività. Con Heidegger ci troviamo a dire la verità spiazzati rispetto alle categorie tradizionali, perché eliminando la figura della finestra egli non pensa certo di restaurare un progetto cosmologico come quello leibniziano o cusaniano, ma non intende neppure inserirsi nel filone della filosofia trascendentale: per lui la monade è senza finestre perché è esteriorità, Ab-gründigkeit, sfondamento, trascendenza. Come Dasein la monade è tutta fuori da sé e tutta dentro il mondo: saltano così le nozioni di interno ed esterno, rendendo superflua qualsiasi metafora dell’apertura. L’essere stesso è apertura. Rispetto a Husserl, che sarebbe rimasto “bloccato nell’immanenza”, egli passa dall’intenzionalità del soggetto trascendentale a quella dell’esserci finito, per arrivare alla pura trascendenza della Lichtung. Per Heidegger la (“dicibilità” del soggetto rimane, come per Leibniz, una questione di metafore – mentre per Husserl si tratta di rimpiazzare le “lacune delle precedenti filosofie della soggettività usando categorie rinnovate in senso fenomenologico” –, ma se Heidegger, esercitando una personalissima ars inveniendi della metaforica, esclude la parola monade dal proprio cammino linguistico, Husserl stringe un legame anche terminologico con Leibniz. Il quale, in definitiva, sembra passare attraverso entrambi come un bergsoniano “colpo di sonda”, che scuote Husserl ricordandogli che il cogito deve essere mediato con la sostanza composta e corporea, e suggerisce a Heidegger che al Dasein appartiene lo stesso conatus della monade. Secondo Leibniz l’essere è l’essere della monade, cioè la sostanza dell’essere è la sostanzialità della monade: e l’essere è uno, come una è la monade. L’essere è uno poiché essere-uno è l’essenza della monade. Le monadi sono “perfette unità sostanziali” e, dal momento che “solo la monade è sostanza, mentre i corpi sono sostanze, non una sostanza”, allora “il soggetto ultimo è sempre la sostanza”. La cui sostanzialità – scriverà Leibniz in una delle sue ultime lettere – è l’azione vitale della monade. Ecco perché possiamo giungere all’espressione: substantia est monadare; la sostanza è il farsi della monade. L’essere è quindi una realtà monadica e l’essere-uno della realtà è il mondo. A questo punto si spalanca una dimensione paradossale, in cui la sostanza monadica costituisce l’essere del mondo ma nel contempo è l’essere stesso del mondo a pervadere la sostanza individuale. Affrontando una tensione analoga, Husserl sviluppa il paradosso “dell’io umano, che è nel mondo soggetto per il mondo”, o quello “dell’essere del mondo nel possesso del mondo”. Solo dopo una riflessione su me stesso posso accedere alla comprensione dell’essere dell’alterità. Heidegger tenta invece una risposta ontologicamente piú audace: “c’è essere soltanto se l’esserci comprende l’essere”. È l’unità dell’essere: “la possibilità che nel comprendere si dia l’essere si basa sul presupposto dell’esistenza fattuale dell’esserci e quest’ultima a sua volta sul fattuale essere semplicemente presente della natura. Proprio nell’orizzonte del problema dell’essere posto in forma radicale si mostra che tutto questo è visibile e può essere compreso solo se è già presente una possibile totalità dell’ente”. Egli critica l’accesso all’essere per mezzo dell’autoriflessione e quindi non condivide l’idea husserliana (ma ancora di eco leibniziana) della “armonia conoscitiva dei soggetti umani”, ma nella nozione di comprensione dell’essere la fenomenologia sembra presente. Detto questo, bisogna subito chiarire che Heidegger stesso ha voluto, nell’Introduzione del 1949 a Che cos’è metafisica?, dissolvere qualsiasi fraintendimento: “l’esser-ci non è un sostituto della coscienza trascendentale”. Attrarre Heidegger nell’orbita husserliana attraverso simili trasposizioni significa forzarne gli intenti, mentre cercare un varco soffermandosi sull’espressione: “è essenziale che l’essere non sosti mai senza l’essente, e che l’essente non sia mai senza l’essere”, consente forse di ripensare il concetto di differenza-relazione ontologica in Heidegger, chiedendosi in che misura la nozione di coappartenenza sia da collegare a quella husserliana di “correlazione”. Non tanto in vista di un appiattimento di Heidegger sul “maestro”, quanto per ricostruire geneticamente alcuni nodi centrali della fenomenologia, che hanno trovato declinazioni espressive differenti di cui bisognerebbe conservare la ricchezza delle contaminazioni. La connessione di rimandi tra essere ed ente che caratterizza la prima fase heideggeriana sfiora a piú riprese la tesi husserliana della polarità e della inscindibile composizione del mondo. È nota la considerazione in cui Heidegger ha tenuto negli anni Venti le “scoperte” fenomenologiche: intenzionalità, intuizione categoriale e senso dell’a-priori avrebbero rappresentato un vero e proprio rivolgimento nella “concezione del rapporto tra soggetto e oggetto”. In questi anni Heidegger matura la propria posizione rispetto a Husserl, con un succedersi di critiche e testimonianze di stima. Nel 1925, per esempio, individua la caratteristica del pensiero husserliano nel fatto che “il suo interrogare è ancora completamente in movimento (‘nel vago’) e quindi dobbiamo in ultima analisi essere molto prudenti con la critica. Ma non si tratta appunto di critica in quanto criticare, ma di critica come liberazione delle cose e della comprensione. Del resto è appena necessario ammettere che di fronte a Husserl ancora oggi io mi sento come uno che impara”. Liberare fenomenologicamente le cose stesse significa per Heidegger dimorare nell’ontologia, non come dominio specifico della scienza degli enti, ma come orizzonte universale del pensiero. In un manoscritto datato “maggio 1931”, una delle rare occasioni in cui affronta il tema ontologico, Husserl si domanda se “l’elaborazione heideggeriana del problema circa l’essere dell’ente ha un senso valido”, rispondendo che la validità di qualsiasi interrogazione ontologica è relativa alla “coscienza trascendentale”. Qui il problema dell’essere non scompare, ma è svolto secondo lo schema della riduzione. “Cosa significa ‘il mondo’ quando diciamo ‘il mondo’?”. Vuol dire che in fondo siamo noi, nella nostra paradossalità, a pensare, descrivere, analizzare, comprendere il mondo, vivendovi dentro: “la soggettività pratica non è anche costitutiva? L’intenzione della mia fenomenologia non è forse semplicemente quella di mettere allo scoperto in senso costitutivo la natura di cui si appropriano gli scienziati della natura? Se quindi si inizia, come faccio io, a mettere in evidenza in senso estetico-trascendentale un concetto naturale di mondo, questo fatto, come credo ancora, nonostante Heidegger, delinea un sistema di compiti necessario e in sé primo, che si è scelto la via della riflessione teoretica astrattiva solo in forma diversa, ma in un certo senso piú primaria, di quanto lo sia quella heideggeriana”. Tra l’essere come vita della coscienza e l’essere come tautologia i nessi si fanno oggettivamente sempre piú deboli, tuttavia forse nell’idea di relazione tra essere e soggetto, che è speculare a quella di differenza, è contenuto il senso di un eventuale riesame del rapporto fra fenomenologia, ontologia e monadologia. Riscoprendo così una linea genealogica che dal cogito di Descartes, passando per l’Io di Fichte giunge all’ego trascendentale husserliano, e di un’altra che dalla visione medievale dell’essere, Duns Scoto in particolare, ma anche Cusano e la mistica, filtra nell’universo monadico leibniziano e arriva tortuosamente fino a Heidegger. Mentre nella prima si afferma il carattere attivo dell’Io, separato dal mondo oggettivo, concepito a sua volta come estensione statica, nella seconda emerge un’idea dinamica dell’essere, visto come potenza creatrice, in cui il soggetto è relativamente passivo. Husserl rappresenta però anche una possibile intersezione: con l’immissione del paradosso egli corregge la soggettività assoluta, accostandosi a Leibniz. Al quale sembra approssimarsi anche Heidegger – in questo caso nell’ultima fase –: l’essere che sparisce nell’Ereignis, il pensiero come Ereignis dell’essere non indica forse che nell’essere è presente una forza metafisica molto simile alla vis attiva di Leibniz? Con Leibniz la materia non è più estensione euclidea, ma evento energetico, Ereignis vero e proprio. Per Heidegger si tratta di una energia unificante che realizzandosi fa che l’essere si doni, inviandosi e destinandosi: la tesi monadologica rinasce forse nell’Ereignis, nell’evento appropriante e unitario? Nel 1932 Heinrich Ropohl ha proposto un’analogia tra ereignen ed ereinigen, tra l’accadere e l’unificazione, mostrando come l’essere sia evento unitario e questo “uno si unifichi nell’estendersi, nel completarsi e nell’accadere”. L’essere sarebbe allora l’unificarsi; l’Ereignis heideggeriano sarebbe l’evento appropriante-unificante? Forse si può interpretare in questa direzione il commento heideggeriano del verso Hölderlin “Alles ist innig”, “Tutto è stretto intimamente”: “L’uno si unifica nell’altro, ma in modo da rimanere appunto nel suo proprio: Dèi e uomini, terra e cielo. L’intimità non significa affatto fusione e cancellazione delle differenze. Intimità nomina la coappartenenza dell’estraneo, l’agire dello stupore, la pretesa del riserbo”. L’essere come mondare? Forse; l’essere come forza è comunque il punto archimedico dell’interpretazione heideggeriana: “secondo il principio monadologico non è il singolo ente ad essere mosso da forza, ma viceversa: la forza è l’essere, che solo fa essere come tale un singolo ente. [...] Ciò che noi ricaviamo dal richiamo di Leibniz all’esperibilità di urto e controurto è questo: per concepire il lineamento fondamentale dell’essenza della forza non è necessario ritornare al soggetto. Manifestandosi come luogo in cui si gioca l’essere, l’Ereignis si manifesta come identità di una riduzione che è nella differenza e nella differenza ha investito l’essere e non piú il soggetto, ma che resta localizzazione/riduzione per appropriarsi della verità dell’essere, dell’essenza della verità. Eidos ed Ereignis: sull’uso fenomenologico di questa coppia bisogna procedere con cautela, tenendo presente però la possibilità di ipotesi sensate”. Come per esempio una rapida indicazione di Wahl: “Nella filosofia di Heidegger vediamo riapparire l’idea di essenza”, non nel senso classico del termine ma in quello fenomenologico: infatti “Husserl si preoccupa di cogliere le essenze non separate dall’esistenza, ma nell’esistenza stessa; e in secondo luogo si è preoccupato di mostrare l’importanza dell’idea di mondo, suolo fondamentale di tutte le nostre concezioni [...]. Se si aggiunge che Husserl aveva insistito sul fatto che l’intenzionalità non si applica solo alle idee, ma a tutti i fenomeni dello spirito, in particolare ai sentimenti, si vede che anche su questo punto la meditazione di Husserl prepara quella di Heidegger”. Limitiamoci qui ad applicare il suggerimento genealogico di Wahl al rapporto fra eidos ed Ereignis. Cercando – “come un rabdomante – scrisse Gadamer – nella povertà del linguaggio le parole essenziali, originarie, Heidegger cerca di fondere il dire (Sagen) con il mostrare (Zeigen): dire è anche indicare, “solo però a colui che già usa i propii occhi”. Affiorano qui i problemi del vedere, dell’indicare ciò che si coglie con lo sguardo, dell’eidos nel senso fluidificato della fenomenologia, ma anche quelli del dire e dell’ascoltare. Nell’immagine dell’Ereignis, Heidegger condensa tutti questi motivi, rivelando un legame con Husserl. Pur raccomandando di considerare il pensiero come un ascolto, di disporsi ad ascoltare le cose, creando una differenza anche di atteggiamento rispetto alla metafisica della visione e della luce, egli riprende la metaforica del vedere e la inserisce nel problema dell’essere. “Il pensiero deve cogliere con lo sguardo l’udibile”, assorbendo il cogliere con lo sguardo e il cogliere con l’udito. Certo non si tratta di due movimenti identici: “Noi vediamo molto e scorgiamo poco. Perfino quando abbiamo scorto la cosa vista è raro poter sostenere la vista della cosa scorta e mantenere questa cosa sotto il nostro sguardo”. Il pensiero non fissa l’essenza delle cose, ma le libera in uno “spazio di gioco che è il tempo”, in cui convergono vista e ascolto. Il pensiero deve disporsi a scorgere ciò che si sente: allora “esso scorge ciò che non è mai stato udito prima. Il pensiero è un cogliere con l’udito che coglie con lo sguardo. Nel pensiero l’udito e la vista ordinari svaniscono, perché il pensiero ci conduce in un cogliere con l’udito e un cogliere con la vista”. Recuperando il campo della visione nella sua coappartenenza con l’ascolto Heidegger non solo ripropone ora, nel 1955/56, una variante metaforica del tema husserliano, ma sembra anche arricchirlo. Se ereignen è anche erdugen, adocchiare, nell’Ereignis fenomenologico sembra radicalizzarsi in senso ontologico, sollevando motivati dubbi sul presunto rifiuto heideggeriano della fenomenologia come filosofia del vedere. Il gioco tra Ereignis: essere visto e ascoltato, quindi eidos nel senso ora analizzato, e Lichtung: spazio libero di ascolto illuminante, quindi intenzionalità come forma originaria della trascendenza di Erblicken ed Erhören, può essere interpretato allora come la massima proiezione ontologica della fenomenologia eidetica husserliana. Anche se per Heidegger l’essenza non sarà mai qualcosa di afferrabile in modo oggettivabile, si profilano qui i problemi stessi che hanno impegnato Husserl. Come avrebbe detto Heidegger in una conferenza del 1949, “Ereignis è adocchiamento appropriante”, o ancora, senza timore ormai di cadere nella metafisica della visione: “Ereignis è sguardo in ciò che è”. Proprio come ai tempi delle sue esercitazioni sulle Ricerche logiche, quando era assistente di Husserl. Ma da allora erano trascorsi quasi sessant’anni». (Renato Cristin, “La monade, l’eco, l’arcobaleno. Heidegger, Husserl e il concetto leibniziano di sostanza”, in “Aut aut”, nn. 223-224, 1981, pp. 239-243).

Marsilio Ficino (1433-1499)

Nasce in quel di Valdarno e fa i suoi studi a Firenze e a Pisa. Da Cosimo dei Medici, suo protettore e amico, ha l’incarico di tradurre Platone. Dopo una grave malattia, e dopo avere cercato invano conforto nella filosofia e negli studi profani, cerca e trova la guarigione facendo un voto a Maria. Decise allora di mettere la sua attività filosofica al servizio della religione. Da giovane pubblica il De voluptate. Il suo primo scritto composto dopo la crisi è il De christiana religione; in seguito pubblica la Theologia platonica ed il De vita. Di parecchi anni più tardi è il commento al Convito di Platone e i dodici libri delle Epistole, che non sono altro che saggi filosofici. Lo scopo dichiarato della speculazione di Ficino è quello di rinnovare e promuovere la saldatura tra religione e filosofia. Questa saldatura ci fu nelle epoche antiche, presso tutti i popoli in cui religione e filosofia ebbero una grande fioritura. Il loro distacco ha determinato la decadenza della religione che è diventata superstizione ignorante e la decadenza della filosofia che è diventata iniquità e malizia. Il rinnovamento della religione e della filosofia insieme si può raggiungere solo ristabilendo il loro vitale rapporto e per questo fine bisogna rivolgersi al platonismo, nel quale il nesso tra religione e filosofia è stato più stretto. Il titolo stesso dell’opera principale di Ficino: Theologia platonica, ha lo scopo di rinnovare la speculazione cristiana risaldandola al platonismo. Ma una speculazione così intesa deve avere necessariamente per centro l’uomo. La teologia medioevale non ha per oggetto che Dio; ma la teologia come Ficino la intende, ha veramente per oggetto l’uomo, giacché lo scopo unico di una speculazione religiosa è il rinnovamento dell’uomo. L’intera speculazione di Ficino si può dire verta su questa centralità dell’uomo nel mondo. Tutta la realtà è distinta in cinque gradi: il corpo, la qualità, l’anima, l’angelo, Dio. L’anima sta in mezzo ed è perciò la terza essenza od essenza media; e come tale è il nodo vivente della realtà. Dio ed il corpo sono diversissimi tra di loro e costituiscono i due estremi dell’essere; l’angelo non lega questi due estremi perché è tutto teso verso Dio e trascura le cose terrene; la qualità, compie la stessa funzione in senso inverso; essa è tutta tesa verso le cose terrene e trascura le superiori. L’anima invece afferra le cose superiori senza tralasciare le inferiori e come tale è la vera copula del mondo. Per questa sua natura l’anima è necessaria all’economia e all’ordine del mondo: deve essere dunque indistruttibile. Ficino riprende tutti gli argomenti adottati da Platone e dai Neoplatonici a sostegno di tale indistruttibilità; ma l’argomento principe è quello fondato sulla partecipazione dell’anima all’infinito. L’anima è capace di misurare il tempo e di dividerlo, di risalire indefinitamente il corso del tempo verso il passato e di estenderlo infinitamente verso il futuro. È essa che scopre e definisce l’infinità del tempo ed è la vera misura di tale infinità. Dunque per potere avere la sensazione dell’infinito, anche l’anima deve essere infinita. E questa infinità, infatti si rivela nelle sue stesse aspirazioni. Il possesso di certe cose, il raggiungimento di un certo piacere bastano ad appagare tutti gli altri esseri animali: l’uomo soltanto non si quieta mai e non è mai contento di ciò che possiede.

«Tre sono i benefici dell’amore: restituendoci all’integrità, da divisi che eravamo, ci riconduce al cielo; colloca ognuno al suo posto e fa che in questa distribuzione tutti sono paghi; abolisce ogni noia e accende nell’anima una gioia continuamente nuova, rendendola beata con un blando e dolce godimento». (Commentario al Convivio, IV, 6).

«Ma non è affatto necessario restare sulla difensiva in questa disputa, giacché Platone ha lasciato qualche testimonianza in suo favore. Possiamo anzitutto esaminare questi testi che dimostrano che Platone era completamente esente da tendenze storicistiche in situazioni in cui, se fosse stato uno storicista, difficilmente avrebbe mancato di lasciare indicazioni positive sulle sue vedute. Si ricorderà che nel mito di Eros, nella conclusione della Repubblica, Platone ha descritto la scelta delle vite effettuate dalle anime separate dal corpo che stanno per discendere nuovamente sulla terra. Ora, se Platone avesse avuto anche una sola oncia di sangue storicistico nelle sue vene, non avrebbe forse parlato della malinconia della tendenza verso il basso, che trascina ogni singola generazione di anime verso livelli inevitabilmente sempre più bassi di degradazione? Nel mito del Fedone (113d-114c), e ancora nel mito del Fedro (248e-249d), non c’è nessun indizio d’un fatale abbassamento delle speranze delle anime in tempi successivi, ma dinanzi ad ogni anima, in ogni incarnazione, sta sempre la speranza di migliorare il proprio destino mediante la scelta della vita di virtù. L’intero messaggio morale di Platone, pertanto, verrebbe vanificato da qualsiasi altra dottrina. Questa urgenza morale, questa proclamazione della grande speranza, l’enorme importanza della scelta d’ogni singola anima, come potrebbe conciliarsi con la dottrina della degenerazione inevitabile? E che cosa è più centrale nel messaggio di Platone, il suo quadro della mitica età dell’oro, o il suo appello alla rinascita morale? La sincera difesa, da parte di Platone, della vita di virtù offre inoltre la chiave per cogliere il senso del passaggio di Leggi (904c), che Popper ha perversamente interpretato erroneamente come una spiegazione dell’inevitabile e progressiva degenerazione delle anime degli uomini. Esso fa parte dell’esortazione, che ha inizio in 903b, che si immagina rivolta al giovane che ha negato che gli dèi si interessano delle faccende umane, e ciò al fine di convincerlo che gli dèi ripagheranno la virtù e il vizio secondo la loro vera natura, e che è per lui doveroso cercare l’una e rifuggire dall’altro. Prima di tutto gli vien detto che è stata escogitata la causa dell’“esistenza beata” del “mondo-tutto”, e che il bene suo e quello del Tutto verrà attinto simultaneamente dal piano divino. Ciò non riflette l’inclinazione al disfattismo né sembra profetizzare il decadimento. Reiteratamente (903d, 904d, 904e, 905a) il giovane si sente dire che la bontà porta il movimento verso l’alto, verso la felicità, mentre il male conduce verso il basso, verso l’abisso; non c’è nessuna tendenza generale verso il basso, come suggerisce la parafrasi unilaterale di Popper, né una limitazione del movimento verso l’alto all’“anima eccezionale”, nella quale Popper inutilmente vede il riferimento di Platone alla propria eccezionalità. Platone sottolinea piuttosto gli orrori dell’abisso, a beneficio del suo lettore, che gli sembra correre il serio pericolo di cedere alla tentazione; ma al giovane viene detto che la volontà è libera (904b-c), e che a lui è dato di vedere chiaramente la possibilità di assurgere alla compagnia delle “anime migliori” o perfino alle “altezze del cielo”. “Tutto il contesto drammatico”, quindi, non implica, come dice Popper, un declino totale, con eccezioni di un carattere solo straordinario. Esso implica piuttosto un processo continuo di movimenti verso l’alto e verso il basso, forse con un certo equilibrio favorevole (l’“esistenza beata” del mondo-tutto sembrerebbe implicarlo), e una scala di valori e di felicità, lungo la quale ogni anima ha la possibilità di salire, come anche corre il pericolo di cadere». (R. B. Levinson, In Defense of Plato, ns. tr., Cambridge (Ma) 1953, pp. 624-625).

L’aristotelismo. Pomponazzi

Accomunati sul terreno della storicità, dello sforzo di ritornare alle dottrine genuine di Platone e di Aristotele, platonici e aristotelici del Rinascimento si oppongono gli uni agli altri nella difesa di interessi spirituali contrastanti: la religione e la ricerca naturalistica. I platonici vedono nel platonismo la sintesi del pensiero religioso dell’antichità e quindi nel ritorno al platonismo la condizione della rinascita religiosa. Gli aristotelici vedono nell’aristotelismo il modello della scienza naturalistica e quindi nel ritorno all’aristotelismo la rinascita della diretta indagine della natura. La polemica tra platonici e aristotelici è dunque l’urto tra due esigenze di cui si avverte l’eguale necessità per l’uomo.

Pietro Pomponazzi (1462-1525) (detto Peretto) nacque a Mantova e dopo essersi laureato in filosofia nell’università di Padova, vi insegnò per parecchi anni in concorrenza con Alessandro Achillini, secondo l’abitudine di contrapporre un professore all’altro nello stesso insegnamento. Dopo Padova, Pomponazzi andò ad insegnare a Ferrara e da lì a Bologna, dove compose i suoi scritti e morì suicida. La sua opera principale è la De immortalitate animae, che gli causò parecchie accuse di empietà e per la quale dovette combattere non poche polemiche con altri filosofi.

L’intento fondamentale della speculazione di Pomponazzi è quello di riconoscere e giustificare l’ordine razionale del mondo. In Aristotele egli vede il filosofo che ha escluso l’intervento diretto di Dio o di altri poteri soprannaturali nelle cose del mondo e ha valuto intendere il mondo come un puro sistema di fatti. Pomponazzi rimanda al dominio della fede tutto ciò che è miracoloso; da un canto egli dice che la Chiesa insegna la verità e si limita modestamente a dichiarare l’opinione di Aristotele; dall’altro canto si vede come egli sia convinto che la sola e vera guida sia la ricerca razionale, e che l’ossequio dovuto alla fede, sia come un inchinarsi davanti alle autorità.

Dio è la causa universale delle cose; ma egli non può agire immediatamente sulle cose del mondo sublunare. Ogni sua azione su queste ultime è solo un’azione mediata, che si compie mediante i corpi celesti che sono gli organi o strumenti necessari all’azione divina. Il che implica che nessun miracolo può essere direttamente operato da Dio: oracoli, guarigioni, resurrezioni e quanti altri effetti miracolosi sono operati nel mondo da maghi o negromanti sono soltanto gli effetti naturali dell’azione di corpi celesti. Interessante è la teoria di Pomponazzi secondo la quale tutto ciò che è nel mondo è soggetto ad una nascita, a uno sviluppo e a una fine: l’uomo, le cose, le idee, le religioni. Anche la religione cristiana, sembra ormai che stia per finire: i miracoli si sono affievoliti tranne quelli finti o simulati, la fine sembra prossima.

«L’esperienza dimostra che l’intelletto umano non può intendere se non mediante le immagini; e poiché le immagini non possono essergli fornite che dal corpo la vita stessa dell’intelletto è legata al corpo e ne subisce la sorte». (De immortalitate animae libellus, Bologna 1516, 9).

«Il concetto di Aristotele è quello che si realizza nel giudizio, nel sillogismo, nell’apodissi; tre operazioni logiche, che non aggiungono nulla al concetto, perché sono possibili in quanto il concetto già nel suo contenuto comprende per l’appunto quelle relazioni immediate e mediate con altri concetti, che siffatte operazioni mettono in luce; onde il principio della scienza aristotelica, qual è vagheggiata nella sua logica, coincide con lo sviluppo del principio. Ciò che vuol dire che non c’è reale sviluppo, o c’è tal quale era nella gerarchia delle idee platoniche: tutte belle e organizzate, secondo la loro eterna natura immobilmente. Tale scienza non si costituisce, perché è già fatta; non diviene, ma è: è, s’intende, in se stessa. Noi, con l’analisi delle nostre idee, la scopriamo: ci ricordiamo, diceva miticamente Platone, di quel che vedemmo già in una vita premondana. La verità, in una parola (e questo è il platonismo che non muore), è in sé quella che è; e in sé tutta quella che è: un mondo in sé perfetto. L’errore è dell’uomo immemore: la verità è pura, tutta verità, tutta luce. Noi le stiamo di contro; la vediamo o non la vediamo; ne siamo illuminati o restiamo nelle nostre tenebre: e nel secondo caso peggio per noi. Ciò non tocca la verità, di sé beata. Questo è l’oggettivismo antico, che culmina in Platone e resta, ripeto, consacrato nella logica di Aristotele per millenni: resta, o meglio è stato sempre nella coscienza del genere umano, il quale sente il bisogno di porre la verità, e quindi la vera giustizia, la vera libertà, tutto ciò per cui combatte e per cui vive, al di sopra, al di là degli errori e delle malvagità umane. Quest’oggettivismo è infatti momento di verità. Ma, come ogni momento, destinato a esser superato. L’età moderna è appunto la conquista lenta, graduale del soggettivismo; la lenta graduale immedesimazione dell’essere e del pensiero, della verità e dell’uomo: è la fondazione, celebrata nei secoli, del regnum hominis, l’instaurazione dell’umanismo vero. Religiosamente, l’opposizione platonica della verità alla mente, la separazione assoluta del divino dall’umano è negata la prima volta dal cristianesimo, nella travagliosa elaborazione del domma dell’uomo Dio. Ma, filosoficamente, la teologia cristiana rimane impigliata nella rete del platonismo e aristotelismo; e quando la filosofia moderna proseguì l’opera, che essa aveva iniziata, di intrinsecare il divino coll’umano le si volse contro nemica; e fissa ormai nella tradizione de’ suoi istituti, s’è poi straniata per sempre, irrimediabilmente, dal pensiero moderno. Ora non posso tracciare tutta la storia del progresso del soggettivismo. Ma non posso non accennare che G. B. Vico ha, per questo rispetto, il merito di avere, benché oscuramente, affermato, di contro all’analisi cartesiana, la necessità tutta moderna di quella sintesi che egli scolpiva nella celebre frase: verum et factum convertuntur; di avere primo, con entusiasmo che ha del religioso, additato nello sviluppo eterno del mondo delle nazioni, che è lo sviluppo dello spirito, la stessa realizzazione di quella che egli diceva Provvidenza divina: unificando il divino e l’umano, e risolvendo, per conseguenza, l’immobilità ed eternità pura di quello nel processo storico, ed eterno in quanto storico, di questo; di avere insomma inaugurato la nuova metafisica, che è filosofia dello spirito, anticipando di un secolo il movimento del pensiero, quale si svolse poi gradatamente in Germania». (G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 112-113).

Giordano Bruno e Tommaso Campanella

Giordano Bruno (1548-1600)

Bruno ritorna al neoplatonismo e alla magia. Nato a Nola, a quindici anni entrò in un chiostro domenicano, dove crebbe come un ragazzo prodigio per le sue qualità di ingegno e di memoria. A diciotto anni i primi dubbi sulla verità della religione cristiana lo posero in urto con l’ambiente ecclesiastico, per cui fu costretto a riparare a Ginevra, e da qui a Tolosa e a Parigi. Qui pubblicò la sua commedia: il Candelaio e il suo primo scritto filosofico: De umbris idearum. I primi successi gli vennero non come filosofo, ma come maestro dell’arte lulliana della memoria. Recatosi a Venezia per invito del patrizio Giovanni Mocenigo che si aspettava di essere da lui istruito nell’arte magica; venne da questi denunciato e arrestato dall’inquisizione di Venezia. Bruno si sottomise. Egli riconosceva alla religione una certa legittimità come guida della condotta pratica, soprattutto di chi non può o non sa elevarsi alla filosofia.

Rimase in carcere sette anni. Ai ripetuti tentativi di fargli ritrattare le sue dottrine, rispose che non aveva nulla da ritrattare; e il 17 febbraio del 1600 venne arso vivo in Campo dei Fiori a Roma, senza essersi riconciliato col crocifisso, dal quale negli ultimi istanti distolse lo sguardo.

Oltre alla commedia il Candelaio e parecchi scritti lulliani, bisogna ricordare: gli scritti didattici che espongono le dottrine di altri pensatori, come il Figuratio Aristotelici physici auditus. Gli scritti magici, come il De magia et theses de magia, e il De magia matematica. Gli scritti di filosofia naturale, come la Cena de le ceneri, De la causa, principio et uno, ecc. Gli scritti morali e gli scritti di occasione.

In tutti i molteplici interessi che agitarono la mente di Bruno si presenta una nota fondamentale comune: l’amore per la vita nella sua potenza dionisiaca, nella sua infinita espansione. Quest’amore per la vita gli rese insopportabile il chiostro e gli fece nutrire un odio inestinguibile contro tutti coloro, pedanti, grammatici, accademici, aristotelici, che facevano della cultura una pura esercitazione libresca e distoglievano lo sguardo dalla natura e dalla vita. Dall’amore per la vita nasce il suo interesse per la natura, che non sfociò in lui come in Telesio in un puro e pacato naturalismo; ma si esaltò in un impeto lirico e religioso che trovò spesso espressione nella forma poetica. Bruno considerò la natura tutta viva, tutta animata, e nell’intendere questa universale animazione, pose il termine più alto del suo filosofare. Da qui la sua predilezione per la magia che cerca di conquistare dal niente la natura come si conquista un essere animato; da qui la rinuncia alla paziente e laboriosa indagine naturalistica che Telesio aveva prospettato. Da qui anche la sua predilezione per la mnemotecnica o arte lulliana che ha pretesa di prendere d’assalto il sapere e la scienza, superando a gran passi la lenta ricerca scientifica.

Il naturalismo di Bruno è in realtà una religione della natura: impeto lirico, raptus mentis, contractio mentis, esaltazione e furore eroico. Perciò si ritrova meglio nel simbolismo numerico dei neopitagorici che nella matematica scientifica; meglio nelle invenzioni di Fabrizio Mordente che nelle formule rigorose di Copernico. L’opera di Bruno segna una battuta di arresto nello sviluppo del naturalismo scientifico, ma realizza nella forma più appassionata e potente quell’amore per la natura che fu uno degli aspetti più fondamentali del Rinascimento. Il carattere fantastico degli sviluppi della speculazione bruniana, sviluppi che avrebbero voluto essere tecnici e rispondere ad un preciso problema speculativo, riconferma la natura dell’intera speculazione bruniana. Bruno non ha mai raggiunto la forma di un filosofare guardingo e critico, nonostante ne avvertisse l’esigenza: filosofare significava per lui lottare contro i limiti e le angustie che stringono l’uomo da ogni parte e perciò raggiungere una visione del mondo per la quale il mondo stesso sia, non un limite all’uomo, ma il dominio della sua libera espansione.

Per quanto riguarda la religione Bruno la ritiene ripugnante e assurda, ma la tiene come necessaria per governare gli individui che non sanno elevarsi alla filosofia. Per lui la religione è un insieme di superstizioni contrarie alla natura: “vuol far credere che è vile e scellerato ciò che alla ragione pare eccellente; che la legge naturale è una ribalderia; che la natura e la divinità non hanno lo stesso fine; che la filosofia e la magia sono pazzie; che la ignoranza è la più bella scienza, del mondo”. (Lo spaccio della bestia trionfante).

Di fronte a questa religiosità che egli chiama santa asinità; Bruno pone la religiosità del filosofi: cioè lo stesso filosofare, come Bruno lo intende e lo pratica.

«La natura è l’unità a cui tutte le cose si riducono nella loro sostanza. E difatti Atteone giunge a conoscerla [Diana], vede il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte ragioni, che è la monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che li è simile, che è la sua immagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia, come il sole nella luna, mediante la quale ne illumina, trovandosi egli nell’emisfero delle sostanze intellettuali». (De gl’heroci furori, Londra 1585, II, 473).

«La possibilità di un’autocritica della ragione presuppone, in primo luogo, che l’antagonismo di ragione e natura sia in una fase acuta e catastrofica, e in secondo luogo che in questa fase di alienazione completa l’idea di verità sia ancora accessibile. Le forme di un industrialismo estremamente sviluppato hanno tolto libertà ai pensieri e alle azioni dell’uomo, il peso dei meccanismi della cultura di massa, che non lasciano scappatoie per nessuno, ha determinato la decadenza dell’idea di individualità: così si sono create le condizioni essenziali all’emanciparsi della ragione. In ogni tempo, il bene ha recato le tracce dell’oppressione da cui è nato: l’idea della dignità dell’uomo è nata dall’esperienza di barbariche forme di dominio. Ai tempi del più spietato feudalesimo la dignità era attributo dei potenti; le teste di imperatori e re erano cinte da un’aureola, essi prendevano e ottenevano venerazione, e chi non era abbastanza pronto all’obbedienza veniva punito, chi si macchiava del delitto di lesa maestà veniva messo a morte. Oggi, persa ogni traccia delle sue cruente origini, il concetto della dignità dell’individuo è una delle idee che definiscono un’organizzazione umana della società. I concetti di legge, ordine, giustizia e individualità hanno subito un’evoluzione consimile. L’uomo medievale cercava di sfuggire alla giustizia facendo appello alla pietà. Oggi lottiamo per la giustizia, una giustizia universalizzata e transvalutata, che abbraccia equità e pietà. Dai despoti asiatici, dai faraoni e dagli oligarchi greci giù giù fino ai prìncipi mercanti e ai condottieri del Rinascimento, il valore dell’individuo è stato esaltato da coloro che avevano la possibilità di sviluppare la propria individualità a spese degli altri. Più e più volte nella storia le idee si sono liberate dalle fasce e si sono rivoltate contro i sistemi sociali da cui erano nate. La causa sta in buona misura nel fatto che lo spirito, il linguaggio, tutte le manifestazioni dell’intelletto, pretendono necessariamente all’universalità. Persino i gruppi al potere, intenti soprattutto a difendere i loro interessi particolari, devono dar rilievo a motivi universali nella religione, nell’etica, nella scienza. Di qui la contraddizione fra la realtà esistente e l’ideologia, una contraddizione che è lo sprone d’ogni progresso storico. Mentre il conformismo presuppone una fondamentale armonia delle due (e le discrepanze di secondaria importanza trovano posto nell’ideologia stessa), la filosofia rende l’uomo consapevole della contraddizione; da una parte essa valuta la società alla luce di quelle idee in cui la società stessa vede i propri più alti valori; dall’altra si rende conto che queste idee riflettono i vizi della realtà». (M. Horkheimer, L’eclisse della ragione, tr. it., Torino 1969, pp. 150-155).

Tommaso Campanella (1568-1639)

Campanella nacque a Stilo in Calabria. Entrato fin da giovane nell’ordine domenicano la sua attività di scrittore gli procurò sempre delle noie con l’ordine. Imprigionato una prima volta a Napoli sotto accusa di eresia, dopo alcuni mesi venne liberato e gli si diede il “tempo di sette giorni”, per ritornare nella sua provincia; ma egli trasgredì l’ordine e si recò a Roma, a Firenze e poi a Padova, dove si scrisse all’università. Trasportato a Roma e torturato venne poi rilasciato e confinato nella sua Stilo da dove continuò la sua attività di scrittore. Quando fu scoperta la congiura che tendeva a creare una repubblica teocratica con legislatore unico e capo Campanella, questi venne imprigionato e, dopo un lungo processo, condannato alla pena capitale, ma egli si finse pazzo, finzione che continuò anche sotto le più tremende torture. Così venne condannato al carcere perpetuo. Ma anche dalla fossa di Sant’Elmo egli continuava a scrivere, e se i suoi manoscritti venivano distrutti dalle guardie o dalle persone che lo venivano a visitare, alle quali incautamente egli li aveva affidati, ricominciava daccapo il lavoro. Così alcune opere sue uscirono in Germania e il nome ebbe una rinomanza mondiale. Le sue idee politiche si orientarono allora verso la Spagna, che veniva considerata come l’unica monarchia che avesse la possibilità di riunire il mondo in un unico Stato e sotto una unica religione. Liberato dalla Spagna, dopo ventisette anni di carcere duro, egli venne in Vaticano dove il papa gli diede come carcere il palazzo del Santo uffizio. Dopo alcuni anni egli si recò in Francia dove venne accolto con amore dal re, che gli assegnò una lauta pensione; con essa trascorse felice gli ultimi anni della sua lunga vita, tutto dedito alle sue opere. Al momento della morte a nulla valsero i riti magici, nei quali aveva sempre creduto. L’interesse dominante di Campanella è uno solo: ed è teologico-politico. Il punto di partenza di Campanella è la fisica di Telesio, di cui fu sempre un grande ammiratore, ma ben presto, pur confermando i capisaldi di questa fisica, con una massa di osservazioni disordinate, egli se ne stacca per cercare integrazioni magiche e metafisiche che sono estranee a Telesio.

Egli distingue la sua metafisica in tre parti: la prima dedicata ai princìpi del sapere, la seconda ai princìpi dell’essere, la terza ai princìpi dell’operare. Egli sostiene che questi princìpi derivano dall’interno dell’anima i primi, da una facoltà innata i secondi, dall’esterno, per universale consenso di tutti gli uomini, i terzi. La speculazione filosofica di Campanella non è fine a se stessa. Essa ha lo scopo di dare la base teorica a una riforma religiosa che dovrebbe riunire l’intero genere umano in una sola comunità. Egli sa che la possanza, il senno, e l’amore sono i tre princìpi metafisici dell’essere; la loro scoperta equivale per lui alla distruzione della tirannide dei sofismi e dell’ipocrisia. Il potere di liberazione politica della sua filosofia è così chiaramente affermato.

«Io nacqui a debellar tre mali estremi
Tirannide, sofismi, ipocrisia:
Ond’or m’accorgo con quanta armonia
Possanza, senno, amor m’insegnò Temi.
Questi principii son veri e supremi.
Della scoverta gran filosofia,
Rimedio contra la trina bugia,
Sotto cui tu piangendo, mondo, fremi.

Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno,
Ingiustizia, lussuria, accidia, sdegno;
Tutti a que’ tre gran mali sottostanno,
Che nel cieco amor proprio, figlio degno

D’ignoranza, radice e fomento hanno.
Dunque a diveller l’ignoranza io vegno».
E molto più dura ed efficace quella che descrive la sua terribile condizione carceraria:

«Come va al centro ogni cosa pesante
dalla circonferenza, e come ancora
in bocca al mostro che poi la devora,
donnola incorre timente e scherzante;
così di gran scienza ognuno amante,
che audace passa dalla morta gora
al mar del vero, di cui s’innamora,
nel nostro ospizio alfin ferma le piante.
Ch’altri l’appella antro di Polifemo
palazzo altri d’Atlante, e chi di Creta
il laberinto, e chi l’Inferno estremo
(ché qui non val favor, saper, né pièta),
io ti so dir; del resto, tutto tremo,
ch’è ròcca sacra a tirannia segreta».

«Mentre la filosofia antica seguiva la strada dell’astrazione e mediante l’astrazione cercava di afferrare l’essere, egli [Cusano] volle seguire la strada della concretezza. Mentre quella viaggiava mediante il principio di contraddizione, egli volle camminare con un metodo nuovo, che gli parve fosse richiesto dalla diversa via intrappresa: ed ecco la sua coincidenza oppositorum, la lente dell’ignoranza dotta. Cusano è tutto qui. Questo, e non altro. è il punto da discutersi. L’organicità per lui – insisto ancora – non significava negazione dell’Assoluto, del Trascendente, di Dio. Al contrario, era la meditazione di Dio, dell’Unitas eterna, perfetta ed immutabile, che costituiva il fondamento della sua visione organica della realtà. L’intellectus – a suo giudizio – a differenza della ratio, che si ferma al concetto astratto, sale ad un’altra forma di conoscenza: ad una conoscenza, cioè, sistematica al modo stesso della realtà, che coglie l’universale nell’individuale. Ed era in questo nuovo dominio del pensiero, che il principio di contraddizione gli sembrava non potesse essere più applicato». (F. Olgiati, L’anima dell’umanesimo e del rinascimento. Saggio filosofico, Milano 1924, pp. 457-58).

La fine dell’universalismo politico

Bonifacio VIII. Tradizionale concezione teocratica, formulata da Gregorio VII. La debolezza di molti imperatori e Stati dava al pontefice l’illusione di considerarsi ancora moderatore del mondo cristiano.

Alla fine del 1200 la Francia era nelle condizioni migliori per rompere questa tesi. I vari e complessi elementi della sua unificazione nazionale, (lingua, ecc.) erano fatti. La borghesia, la feudalità e lo stesso clero erano legati alla monarchia dal vincolo della nazionalità. L’urto tra potere nazionale e potere universale, mise in evidenza il disfacimento del secondo.

Abdica Celestino V (spirituale). Bonifacio VIII abroga i provvedimenti del predecessore. Forte movimento di opposizione capeggiato dai Cardinali Colonna (di cui fa parte Jacopone da Todi). Palestrina, sede dei Colonna, è rasa al suolo.

Compromesso all’interno, Bonifacio VIII aveva l’accordo con i Francesi, come dimostrano i suoi impegni verso gli Angioini e verso Carlo di Valois. Ma poi rompe con loro. L’origine del conflitto è una richiesta di contributi finanziari da parte di Filippo IV impegnato in una guerra contro gli Inglesi. Bonifacio VIII emise una bolla in cui vietava ad autorità politiche di imporre tasse al clero senza l’autorizzazione della Santa Sede, pena la scomunica. Filippo IV ostacolò il flusso commerciale verso l’Italia e le attività italiane in Francia. Si venne ad un compromesso.

Da canto loro i giuristi avevano sviluppato la tesi della sovranità nazionale. Nell’ambito di ogni regno il re aveva pienezza e indipendenza del proprio potere politico. Pietro di Flotte è uno di questi giuristi. Dall’altro lato (Egidio Romano) si sostiene la tesi teocratica.

Nel 1302, a Roma, è convocato un concilio in cui si emette la bolla Unam Sanctam dove tutti i poteri temporali si devono sottomettere al sovrano pontefice.

Filippo IV convoca gli Stati generali che gli danno il loro appoggio. In più una schiera di armati, con a capo Gugliemo di Nogaret e Sciarra Colonna, fa prigioniero il papa, liberato da una rivolta di popolo. Il papa muore un mese dopo. La violenza dell’attacco fu resa possibile dai conflitti interni al papato.

Dopo Bonifacio VIII e il breve pontificato del suo successore, fu eletto Clemente V, arcivescovo di Bordeaux, su insistenza di Filippo IV, che si rifiutò di andare a Roma, per cui la consacrazione avvenne a Lione. I successori fissarono la loro dimora ad Avignone, che poi venne venduta dagli Angiò al papato.

Clemente V accondiscese a molte pretese di Filippo IV, fra cui la sua azione contro i Templari, per motivi finanziari. Le grandi ricchezze di questo ordine furono incamerate.

Enrico VII di Lussemburgo. Filippo IV cercò di fare eleggere imperatore Carlo di Valois, ma non gli riuscì. Fu eletto Enrico VII. La tesi del potere imperiale che viene direttamente da Dio è esposta in questo periodo nel De Monarchia di Dante.

Enrico VII venne in Italia risollevando le sorti ghibelline. Consolidò il potere dei Visconti e degli Scaligeri che divennero vicari imperiali. La lega guelfa della Toscana gli si schierò contro, insieme a Roberto d’Angiò, re di Napoli.

L’imperatore ebbe dalla sua le città ghibelline dell’Italia centro-settentrionale e il re di Sicilia Federico d’Aragona. Ma l’imperatore morì presso Siena nel 1313.

Ripresa del ghibellinismo italiano. Ugoccione della Faggiola di Pisa riporta una notevole vittoria sulla lega guelfa a Montecatini. Castruccio Castracani degli Antelminelli di Lucca sconfigge i Fiorentini a Altopascio. I Fiorentini chiedono la protezione angioina offrendo la signoria per dieci anni.

Il papato cerca di demolire la roccaforte del ghibellinismo, la signoria viscontea. I ghibellini lombardi chiamano Ludovico di Baviera, successore di Enrico VII. Questi cerca di fare leva oltre che sulle forze ghibelline sull’opposizione religiosa al papato: ordine francescano (Guglielmo di Ockham), Marsilio da Padova (Defensor Pacis).

I risultati della spedizione di Ludovico di Baviera in Italia furono scarsi. Egli fu incoronato a Roma dal capo del governo cittadino che era Sciarra Colonna (antipapale, in relazione con le teorie di Marsilio).

Declino dell’universalismo del papato ma anche dell’autorità imperiale.

Gli Stati regionali italiani

Napoli. Il particolarismo italiano ebbe ragione della possibilità egemoniche del regno di Napoli. Roberto d’Angiò basandosi sulla Francia e sul Papa (era capo del guelfismo italiano) poteva attuare questo programma in quanto era stimato per la sua cultura e la sua saggezza (vedi lodi di Boccaccio e l’esame che si fece fare il Petrarca). A Napoli fioriva una grande scuola giuridica e vennero Simone Martini e Giotto.

Al di sotto della faccia i contrasti feudali e gli interessi stranieri che si erano installati nel regno. Il re perseguiva una politica feudale a favore dei baroni che anziché risolvere le discordie le aggravava.

Gli Angioini erano inoltre signori della Provenza e di una parte del Piemonte.

Ma anche qui le questioni erano forti. Il Piemonte era oggetto delle cupidigie dei signori di Monferrato e dei Visconti; la Provenza voleva rendersi indipendente dagli Angioini.

I fallimenti delle banche fiorentine, che erano la forza finanziaria del guelfismo, dettero il colpo principale.

Alla morte di Roberto la regina Giovanna acuì col suo comportamento i contrasti tra la corrente dei prìncipi di Durazzo, quella dei prìncipi di Taranto e quella dei re d’Ungheria. Giovanna sposa Andrea, fratello del re d’Ungheria, che poi viene ucciso pare con la complicità della moglie. Il fratello Luigi I d’Ungheria viene per vendicare il congiunto e si insedia a Napoli, ma non può risolvere i problemi per il contrasto dei feudatari e del popolo, e poi per lo scoppio della peste nera. Il re andò via ma restarono i suoi mercenari a devastare il regno.

La restaurazione venne con l’aiuto del papa e per i consigli di un uomo d’affari fiorentino: Nicola Acciaiuoli, consigliere della regina e del marito Luigi di Taranto. Si riconquistò la Sicilia.

La regina Giovanna, sul finire del regno, assegnò la successione della corona d’Ungheria a Carlo di Durazzo. Ma la nobiltà, la Francia e il papa di Avignone premevano per riconoscere la corrente angioina. Le guerre e le violenze cessano con l’ascesa al trono di Ladislao di Durazzo, ma una corrente angioina resterà sempre sostenuta dalla più antica e turbolenta nobiltà napoletana.

Lo Stato della Chiesa. Nessuna coesione politica, diviso in tante piccole signorie. L’esigenza di una maggiore coesione politica, assente il pontefice, venne fatta propria dal popolo. Da qui l’azione di Cola di Rienzo, figlio di popolani. Divenuto notaio, si dedica agli studi di storia antica e di archeologia. Dopo che un moto popolare abbatte il Senato fu inviato ad Avignone per esporre la situazione al papa. Accolto da Clemente VI egli torna Roma con la carica di notaio della Camera Municipale.

Così, al sicuro con una carica pubblica, preparò la congiura antinobiliare. Preparò la costituzione in modo ostile ai nobili, diretto a ristabilire la pace. L’esercito dei nobili fu vinto da quello dei popolari alle porte di Roma nel 1347.

Ma la reazione venne organizzata dallo stesso papa che mandò il cardinale Bertrand de Deux. Non sostenuto da una vera e propria borghesia il governo popolare cadde. Cola fuggì presso Carlo IV ma fu fatto prigioniero e spedito ad Avignone.

Innocenzo VI, eletto nel 1352, riconobbe legittime le aspirazioni alla pace di Cola, ma impiantò il programma dal punto di vista nobiliare, ad attuarlo venne mandato il cardinale Egido Albornoz, con Cola in posizione subalterna. Ma ormai il tribuno era finito e cadde vittima di un moto nobiliare.

Con le costituzioni egidiane rimaste poi in vigore con qualche modifica, fino ai primi del 1800, il cardinale Albornoz ristabiliva l’ordine ma non la coesione. Questa mancanza si vide quando lo Stato della Chiesa volle estendersi in Toscana. I signori si ribellarono e ripresero l’autonomia. Il papa dovette spedire contro Firenze un corpo mercenario al comando del cardinale Roberto di Ginevra, corpo che suscitò un grande orrore con il feroce saccheggio di Cesena. Firenze resistette nominando otto magistrati, gli Otto Santi, che però videro la guerra affievolirsi in quanto il problema dello scisma occupava il papato in cose più importanti.

Lo Stato di Milano. A metà del 1300 comprendeva già tutta la Lombardia. Iniziata da Giovanni Visconti l’espansione continua anche dopo la sua morte. Con Gian Galeazzo Visconti le direttive d’ingrandimento si orientarono perso il Veneto e la Toscana.

Ostacolo a questo sviluppo la concezione patrimoniale dello Stato. Nel momento in cui il dominio visconteo raggiunse la sua massima ampiezza venne diviso tra i tre figli di Gian Galeazzo: Giovanni Maria, Filippo Maria e Gabriele. Non era la condizione per resistere alle pressioni di Firenze, papato e Venezia.

Dopo la morte di Gian Galezzo, Venezia riusciva ad eliminare il dominio lombardo nei territori veneti fino al Mincio e a strappare il Friuli ai duchi d’Austria.

Firenze da canto suo si annetteva Pistoia, Arezzo e Volterra e acquistava Pisa con il suo territorio raggiungendo uno sbocco sul mare.

Il papa riprendeva Bologna e Perugia, già incorporate nel dominio visconteo.

La prospettiva di un grande Stato nell’Italia centro-settentrionale venne meno lasciando il posto a Stati regionali che raggiungeranno nel 1400 un equilibrio stabile.

Le vicende genovesi anticipano quelle dei maggiori Stati italiani: ceduta al re di Francia sul finire del 1300, ribellatasi cade sotto i marchesi di Monferrato, poi sotto i duchi di Milano e poi ancora sotto i Francesi.

Ci fu anche un risveglio di espansione nello Stato di Napoli ma l’iniziativa di Ladislao provoca la reazione di Firenze e degli Angiò.

Le compagnie di ventura. Fenomeno tipico dell’Europa del 1300, dettero molto da fare ai re di Francia nella Guerra dei Cento anni. Le lotte interne tra le Signorie, i conflitti dinastici napoletani e le guerre dei domini ecclesiastici avevano avuto come protagonisti capitani di ventura come Fra’ Moriale (già dell’ordine dei Templari) fatto uccidere da Cola, Giovanni l’Acuto, il tedesco Duca di Urslingen.

Alla fine del secolo queste compagnie ebbero capitani italiani che si intromisero negli affari politici degli Stati che li assoldavano. Fino al 1500 questa sarà la sola forma di organizzazione militare esistente nel nostro paese. Capitani di grande valore militare e politico furono Alberico da Barbiano, Braccio da Montone, Francesco Bussone (il Carmagnola), Bartolomeo Colleoni. Francesco Sforza si impadronirà del ducato di Milano.

L’equilibrio. Milano, sotto Carmagnola, riprende la sua politica espansionista ed occupa Forlì. Firenze fa lega con Venezia la quale aveva interesse a mantenere rapporti commerciali con Milano ma temeva la sua espansione. Si unirono alla lega il duca di Savoia, il marchese del Monferrato, i signori di Ferrara e di Mantova. Ad aggravare la situazione di Milano, Carmagnola passa con Venezia. I milanesi sono sconfitti a Maclodio, non irrimediabilmente perché Carmagnola non volle spingersi a fondo nel ducato. In questo modo cadde in sospetto, venne arrestato e condannato a morte. Milano poté riprendersi e dopo la pace riavere Venezia, Bergamo e Brescia.

A Firenze lo sforzo bellico aggrava il peso fiscale e fa riprendere le lotte politiche. I Medici, famiglia di banchieri di fortuna recente, prevale nel governo e Cosimo inaugura la dinastia che sarebbe restata fino al XVIII secolo.

Milano riprende la sua attività espansionistica contro lo Stato pontificio. Venezia e Firenze rifanno lega e assoldano i migliori capitani di ventura: Gattamelata, Sforza, Colleoni. Il conflitto si estende: muore Giovanna di Napoli e i successori scatenano una lite tra Alfonso d’Aragona, padrone della Sicilia e della Sardegna, e Renato d’Angiò. Il condottiero Sforza passa dalla parte dei milanesi, la guerra ha termine con il riconoscimento di Alfonso come re di Napoli: Venezia ottiene Ravenna.

Adesso è Venezia ad avere mire espansioniste. Cerca di allearsi con lo Stato di Milano, in grave travaglio per la successione di Filippo Maria Visconti. Firenze si affida allora allo Sforza sostenendolo contro i Veneziani nel suo tentativo di impadronirsi del ducato di Milano. In quegli anni cade Costantinopoli con tutte le gravi conseguenze per le posizioni commerciali e politiche veneziane verso l’Oriente. Venezia è portata quindi a stabilire la pace a Lodi con la quale nasce la Santa Lega tra Milano Venezia e Firenze, subito approvata dal pontefice.

Le leghe contro i Turchi, progettate come crociate dai vari papi, da Callisto III a Paolo II (Enea Silvio Piccolomini), non fanno nulla di concreto.

La rottura dell’equilibrio si ebbe a causa dello Stato pontificio. Il frammentarismo politico aveva avuto qui come effetti quello di rendere costante la pratica del nepotismo. In particolare con Sisto IV il papato si mise a stendere rapporti di donazioni, parentele, acquisti e altro che, specie all’esterno, misero in preoccupazione Firenze. Lorenzo dei Medici stipulò allora un’alleanza con Milano e Venezia.

Il papa divenne allora sostenitore di una corrente antimedicea a Firenze, quella dei grandi banchieri della famiglia dei Pazzi. La congiura prevedeva l’uccisione di Giuliano e Lorenzo dei Medici e l’attacco contemporaneo di Roma contro Firenze, mentre l’esercito napoletano sarebbe avanzato nel senese. L’attentato uccise solo Giuliano, Lorenzo ferito si mise in salvo. L’assalto al palazzo della signoria condotto dall’arcivescovo di Pisa, Francesco Salviati, fallì. Il popolo insorse e represse nel sangue la congiura contro i suoi signori. Da qui una guerra tra Roma e Firenze che si portò avanti senza mutamenti territoriali.

A Napoli era morto intanto Alfonso il Magnanimo e il successore Ferrante di Aragona vide scoppiare la congiura dei baroni. Il papa – sempre nell’intento di conquistare domini per i nipoti – si schierò con i ribelli. Milano e Firenze intervennero a favore di Ferrante che col loro aiuto represse la congiura.

Napoli era lo Stato in cui i baroni, contrari alla nobiltà aragonese, cercavano, con l’appoggio francese, di riprendere il potere. Quindi era lo Stato più debole che metteva sempre in serio pericolo tutto l’equilibrio. Con l’appoggio di Firenze e Milano invece questa debolezza scomparve. Lorenzo il Magnifico ebbe la chiara consapevolezza del suo ruolo catalizzatore.

Frattanto si apriva il periodo storico in cui l’Italia sarebbe stata terra di conquiste e contese tra Francia e Spagna, le grandi potenze europee.

Il mondo orientale e la rinascita dell’Europa

All’inizio dell’XI secolo, mentre l’Occidente usciva dalle tenebre, le grandi civiltà bizantina, orientale e islamica, che avevano raggiunto il massimo splendore, erano in crisi.

Bisanzio. Sotto Basilio I, della dinastia macedone, e Basilio II, Costantinopoli era diventata una grande città con quasi 1000000 di abitanti contro i 50000 di Roma dello stesso periodo. Dopo la conversione del principe di Kiev, Vladimiro I, l’influenza di Costantinopoli era diventata grandissima.

Sotto Basilio II cominciarono i torbidi dinastici. Ma la guerra contro i Bulgari fu condotta autorevolmente. In Italia i possedimenti meridionali poterono essere difesi contro i musulmani con l’aiuto delle città marinare.

Alla morte di Basilio II, l’aristocrazia feudale conquista il potere per non perderlo più. La sua avidità e il suo egoismo minarono la solidità dello Stato. Il ceto medio viene praticamente dissanguato, proprio il ceto che forniva i soldati, di conseguenza aumenta l’autorità dei mercanti stranieri (Genovesi, Pisani, Veneziani).

Nel 1054 lo scisma d’Oriente spezza definitivamente le due Chiese: l’ortodossa e la cattolica. Il conflitto sorse per stabilire chi dovesse comandare nelle diocesi dell’Italia meridionale.

Due offensive preoccuparono il regno. Quella dei Normanni nell’Italia meridionale, quella dei Turchi nel cuore dell’impero. I Bizantini furono sconfitti a Manzikert gravemente e i Turchi conquistarono l’Armenia e il Caucaso.

L’Islam. La civiltà musulmana nell’anno 1000 era in piena fioritura. Però esistevano tre grandi califfati indipendenti: Abbasside (Asia musulmana), Fatimide (Egitto e Africa settentrio-nale), Ommiade (Spagna). Queste tendenze erano in lotta tra di loro. Nel secolo successivo il frazionamento si accentuò all’interno di ogni dinastia.

In Africa gli emirati berberi non riconobbero il califfo del Cairo. Un’altra famiglia, gli Almoravidi, impose il suo dominio.

In Spagna i gruppi della popolazione erano diversissimi: arabi, berberi, cristiani, slavi, discendenti degli schiavi importati, ecc. Si rifiutarono al califfo e formarono degli Stati indipendenti. Incapaci di fronteggiare l’offensiva cristiana, i musulmani spagnoli fecero appello agli Almoravidi che vennero in Spagna ma finirono per imporre il proprio potere su tutta la zona araba. Sotto il loro dominio la cultura spagnola ebbe una grande fioritura: Averroè e Maimonide.

In Asia gli emiri si sottrassero al califfo, l’arrivo dei Turchi si tradusse in una conquista, ma l’impossibilità di questi a costituire una dominazione organizzata, fece coesistere emirati musulmani accanto a sultanati turchi. Sfruttando questa debolezza organizzativa, e la rivalità tra i vari sultani, sia gli emiri che Bisanzio poterono sopravvivere a lungo.

Le città marinare. Venezia. Sebbene sotto la sovranità di Bisanzio, in pratica nel IX secolo aveva conquistato una completa autonomia. La tratta degli schiavi slavi acquistati sulle coste dalmate, la vendita del legno e del ferro, furono le attività principali dei Veneziani. Sulle isolette della laguna, abitate da poveri pescatori, si formò una classe di ricchi diretti a conquistare il dominio marittimo del Mediterraneo a mezzo di una forte flotta. Il doge Pietro Orseolo condusse la lotta contro i Dalmati ottenendo dall’imperatore di Bisanzio i primi privilegi commerciali. Il governo era affidato al consiglio dei savi eletti tra l’aristocrazia mercantile col compito di assistere il doge.

Amalfi. Ebbe una funzione importante nella ripresa degli scambi con i paesi europei conquistati dagli Arabi (Spagna e Sicilia). Gli Amalfitani redassero le Tavole amalfitane, una specie di codice mercantile. Essa perdette la sua autonomia nel secolo XI, quando venne incorporata nel regno normanno.

La riforma gregoriana e le crociate. Nei secoli precedenti la Chiesa si era integrata nel sistema feudale dato che questo era la forma di organizzazione generale della società. Si era costituita così la consuetudine che le autorità politiche conferissero ai vescovi e agli abati l’investitura delle loro funzioni spirituali e politiche in una sola volta. Il clero si era quindi secolarizzato con la compromissione della missione spirituale della Chiesa.

Un movimento di riforma prese vita a Cluny, il movimento cluniacense. In Italia ebbe come centri i monasteri di Camaldoli, Vallombrosa, Montevergine. Non si pose direttamente il problema dei rapporti politico-religiosi, ma si rivolse alla moralizzazione del clero, contro il concubinato e contro la pratica dell’acquisto delle cariche ecclesiastiche. Questi monasteri si sottrassero all’autorità dell’alto clero ponendosi sotto il pontefice immediatamente.

Questo movimento incoraggiò la ribellione dei ceti popolari contro i vescovi-conti. Il movimento popolare che ne seguì fu quello dei Patari (in milanese: venditori di robe vecchie). A Milano la lotta fu condotta contro l’arcivescovo simoniaco Guido da Velate; a Firenze contro Pietro Mezzabarba. I vescovi furono costretti a fuggire.

Anche i re, come Enrico II e Enrico III furono attratti da questo movimento di riforma che prelude alla lotta per le investiture.

Gregorio VII. L’elezione di Niccolò II avvenne nel momento in cui Enrico IV era in minore età. Momento favorevole per il movimento, a cui il papa apparteneva insieme al suo consigliere, il monaco Ildebrando di Soana, per affrontare il problema di sottrarre la Chiesa al potere dei sovrani e di stroncare le tendenze autonomistiche all’interno del meccanismo religioso.

Per prima cosa venne modificato il sistema di elezione del pontefice, che prima spettava al clero e al popolo di Roma, con conseguente pressioni delle fazioni politiche e degli imperatori, riservando l’elezione solo ai cardinali. Fu poi messo il divieto di ricevere cariche ecclesiastiche dalle autorità laiche.

Con l’elezione di Ildebrando di Soana al papato col nome di Gregorio VII, le idee di riforma si svilupparono. Il Dictatus del 1075, elenco di 27 proposizioni, afferma che il pontefice è superiore a tutti i sovrani e allo stesso imperatore.

Il potere politico era considerato valido e legittimo soltanto in quanto riconosciuto dal papa. In questo modo il papa si riservava il diritto di sciogliere i sudditi dall’obbligo di fedeltà al sovrano che non avesse obbedito alle direttive ecclesiastiche.

Se alcuni prìncipi fecero atto di vassallaggio al papa (il re d’Ungheria, i duchi normanni dell’Italia meridionale, il conte di Barcellona, i re d’Aragona); Enrico IV impersonificò la resistenza al disegno teocratico della Chiesa. Enrico convocò a Worms nel 1076 un sinodo di vescovi tedeschi accusando il papa di fomentare il disordine e di diminuire il prestigio imperiale. Gregorio risponde lanciando la scomunica. Enrico IV preoccupato per i sintomi di ribellione che si manifestavano tra la feudalità laica e per il fatto che la scomunica favoriva le manovre e le iniziative dei suoi oppositori, dovette darsi da fare per ottenere il perdono del papa, tramite la contessa Matilde e l’abate Ugo di Cluny, e si sottomise. A Canossa per tre giorni.

Ma, nel frattempo, l’opposizione laica a Enrico aveva opposto come anti-re Rodolfo di Rheinfelden che fece appello a Gregorio VII, ma nel 1080 Enrico superò questi contrasti e allora abbandonò ogni cautela contro il suo avversario. Riprese le nomine e indisse un sinodo a Brixen dove fece deporre Gregorio VII e al suo posto fece elegge Clemente III, venne poi a Roma e si fece incoronare imperatore. Il papa venne arrestato a Castel Sant’angelo da Roberto il Guiscardo, che saccheggiò la città, e portato a Salerno, dove morì.

Ma la battaglia doveva essere vinta dalla Chiesa, lo stesso figlio Enrico V si schierò contro il padre che fuggì. Morì a Liegi. La lotta si concluse con un concordato a Worms tra Callisto II e Enrico V, in questo modo l’investitura dei vescovi restava al papa mentre l’imperatore poteva concedere anche poteri di carattere politico.

Le crociate. Il fervore creato dal movimento cluniacense, l’aumento del prestigio del papato, l’idea della guerra santa elaborata dai riformatori cluniacensi in rapporto alla lotta dei cristiani in Spagna, la tradizione del pellegrinaggio in Terra Santa, che era stato il legame ininterrotto tra Oriente e Occidente; insieme all’esasperazione di alcuni atteggiamenti cristiani: l’attesa della fine del mondo, l’ansia della salvezza, il terrore della dannazione, caratterizza il clima delle crociate. Masse di contadini alla ricerca di terre, di cavalieri alla ricerca di gloria e bottino, di mercanti e navigatori, accolsero l’appello.

La crociata venne lanciata da Urbano II direttamente ai fedeli senza l’intermediarietà del sovrano: la lotta per le investiture era in corso. Venne promessa l’immediata remissione dei peccati. Una prima spedizione fu di iniziativa popolare indipendentemente dalla crociata organizzata dalla Chiesa, turbe disordinate si riversarono i cui eccessi per la strada provocarono la reazione prima degli Ungheresi e dei Bulgari, poi il massacro definitivo a opera dei Turchi.

Prima crociata. Ebbe un reclutamento limitato, i beni dei partecipanti furono posti sotto la tutela dei vescovi. Furono nominati organizzatori il vescoso Adhémal di Monteil e il conte Raimondo di Tolosa che reclutarono nella Francia meridionale e nell’Italia settentrionale. A questi si aggiunsero Goffredo di Buglione con un nucleo franco-lorenese (Belgio), un altro gruppo al comando di Roberto Courteheuse e di Baldovino di Boulogne, animati da spirito di avventura. Un altro al comando di Boemondo e Tancredi animati da spirito di conquista coloniale e di espansione.

Queste diverse tendenze si manifestarono arrivati in terra santa. Baldovino si recò in Armenia e la conquistò. Boemondo conquistò Antiochia. Finalmente nel 1099 si raccolsero davanti a Gerusalemme e la conquistarono nella notte tra il 13 e il 14 luglio. Si costituirono la contea di Tripoli (Conte di Tolosa); la contea di Edessa (Baldovino); il regno di Gerusalemme (Goffredo di Buglione); il principato di Antiochia (Boemondo). Questi Stati si organizzarono su basi feudali ma non ebbero mai forza bastante a reggersi da soli, per cui si dovette intervenire con altre crociate per difendere i domini in terra santa.

A sostegno degli Stati cristiani in Asia Minore sorsero degli ordini religiosi e militari che avevano lo scopo di mantenere in vigore lo spirito primitivo di crociata contro gli infedeli. Esempio, l’Ordine dei Templari, una specie di legione straniera in Terra Santa.

Seconda crociata. Quando il principato di Edessa fu riconquistato dai musulmani una seconda crociata venne indetta da Luigi VII re di Francia e da Corrado re di Svezia.

Terza crociata. Fu promossa poco dopo la caduta del regno di Gerusalemme e fu guidata da Federico I di Svevia, da Filippo II re di Francia e da Riccardo Cuor di Leone d’Inghilterra. Il risultato fu la conquista di Cipro che divenne regno indipendente.

Quarta crociata. Fu deviata dagli interessi di Venezia contro l’Impero d’Oriente. Approfittando dei conflitti dinastici i crociati conquistarono Costantinopoli e i territori furono divisi tra i capi crociati. Si costituiva così l’impero latino.

La reconquista. Nello stesso periodo delle crociate si sviluppa in Spagna la lotta contro i musulmani da parte dei singoli Stati indipendentemente. In questo modo pur non avendosi subito la nascita di uno spirito nazionale si mettevano le basi per l’unificazione politica del XV secolo.

Gli Spagnoli vennero sostenuti dalla Francia e dall’ordine cluniacense che aprì diversi monasteri in Spagna, esempio S. Giacomo di Compostela. Tappa importante della reconquista fu la liberazione di Toledo da parte dei Castigliani, poi di Saragozza da parte degli Aragonesi; poi vennero liberate Cordova, Siviglia, Valenza. Solo Granada restò sotto il dominio musulmano.

La crisi del Trecento. Dopo il 1000 si era avuto un costante sviluppo demografico, nel 1300 si ha un regresso che ha influenza nella vita sociale. I dissodamenti sono finiti e le carestie si fanno frequenti. L’importazione di grano dalle regioni nord-occidentali, dove il dissodamento è presente anche nel 1300, non basta.

A questo si aggiungono le epidemie. Quasi un terzo degli abitanti periscono in Italia, Francia e Inghilterra. È l’ambiente del Decamerone. I Mongoli trasmisero la peste nera ai Genovesi assediati a Caffa in Crimea e questi diffusero il contagio.

La vita economica è turbata dalla riduzione del fino con cui gli Stati cercano di fronteggiare la mancanza di materia prima per la coniazione delle monete. Falliscono i Peruzzi e i Bardi, nel 1343 per forti somme prestate al re d’Inghilterra, somme di cui non riescono ad ottenere il rimborso.

Si cerca di trasferire questo disagio nei ceti inferiori, sfruttando i contadini come sappiamo. Le associazioni che si formano tra i salariati sono stroncate con grande violenza, a esempio in Italia. Da qui le rivolte con la partecipazione popolare, jacquerie, come quella dei Ciompi a Firenze, di Cola di Rienzo a Roma, dei Lollardi in Inghilterra, di Etienne Marcel, in Francia.

A Firenze la rivolta dei Ciompi, con Michele di Lando, anch’egli lavoratore della lana, arriva al potere per quattro anni, attuando un suo programma politico. Poi la borghesia ristabilisce l’oligarchia delle maggiori famiglie cittadine.

Il Grande Scisma. Il contrasto tra l’esigenza di riforma e l’indirizzo politico-religioso del papato si era acuito. La sede di Avignone del papato era la più fastosa corte dell’Europa medievale, era cominciato il fenomeno del nepotismo dei papi.

Un movimento di cui erano interpreti Francesco Petrarca, Caterina da Siena, Brigida di Svezia, voleva il ritorno a Roma del Papa. Con Gregorio XI il ritorno è definitivo. Dopo la morte (1378) il conclave aveva una maggioranza di cardinali francesi. Il popolo temeva che un’elezione di un francese si traducesse in un ritorno dei papi ad Avignone, da qui tumulti. Fu eletto Urbano VI, cardinale di Bari. I cardinali francesi insorsero affermando che l’elezione era stata fatta sotto la minaccia popolare, elessero un altro papa, Clemente VII e lo portarono ad Avignone.

Il mondo cristiano si divise, alcuni Stati (Francia, Napoli, Scozia, gli Stati spagnoli) riconobbero Avignone; altri Roma (Inghilterra, Impero, Polonia, Ungheria, Fiandre, Italia centro-settentrionale).

Le eresie. Questa frattura favorì le eresie.

John Wycliffe, professore ad Oxford, parte dalla povertà del Vangelo, nega la gerarchia ecclesiastica, i sacramenti, il culto dei santi, la Madonna, le indulgenze e la confessione. Solo la conoscenza diretta della Bibbia viene riconosciuta. Le sue idee dettero vita al movimento dei lollardi, duramente perseguitato e disperso nel 1400. Le idee di Wycliffe penetrarono profondamente il popolo inglese preparando il terreno alla chiesa anglicana.

Giovanni Hus. Riceve l’influenza di Wycliffe, insegna all’università di Praga. Le sue idee meno radicali vennero accettate dal movimento nazionalista boemo che mirava a conquistare l’indipendenza dell’Impero. Hus fu bruciato come il suo discepolo Gerolamo da Praga. Tutta la Boemia insorse. Contro gli hussiti gli eserciti dell’Impero fecero sei crociate ma senza risultati. Si giunse ad un compromesso, i Patti di Praga, dove si accettava la posizione dei taboriti che volevano solo la comunione nelle due specie, ma veniva rigettato tutto quello che gli ussiti radicalmente negavano. La presenza divina nell’eucaristia in primo luogo.

La fine dello scisma. Lo scisma e le eresie avevano messo in discussione il sistema monarchico elettorale della Chiesa. L’università di Parigi, con i teologi Gerson e d’Ailly, propose la teoria che il papa fosse sottoposto al concilio e che questo fosse la regolare assemblea legislativa della Chiesa.

Una viva battaglia si scatenò contro la terrena cupiditas, il concubinato e l’ignoranza del clero. Anche a causa della crisi economica la Chiesa subiva duri colpi. Le rivolte contadine si facevano specialmente contro le proprietà ecclesiastiche, anch’esse esose e fiscalissime.

Un concilio a Pisa elesse un terzo papa deponendo i primi due: la confusione aumentò avendosi tre papi. Poi con l’intervento dell’imperatore Sigismondo si fece in modo di fare rinunciare Gregorio XII, mentre il successore del papa pisano Giovanni XXIII, nominava un nuovo concilio. Il papa eletto, Martino V, fu il papa del superamento della divisione del papato. Il concilio si pronunciò anche sulla superiorità del concilio sul papa e sulla necessità di porre un freno alle crescenti ingerenze di natura terrena nel governo della Chiesa.

MartinoV era contrario al concilio ma si era impegnato a indirne un altro, cosa che fece a Basilea, che fu caratterizzato da una scarsa partecipazione di prelati e dalla presenza solo del basso clero. Il successore di Martino V era lo stesso contrario al concilio: si arrivò a una rottura e fu eletto un antipapa, Felice V, ma fu uno scisma di breve durata e dimostrò l’impotenza del concilio sul papa.

Le Chiese francesi e tedesche ebbero due concordati (concordato di Amboise e concordato di Francoforte) in cui si riconoscevano le forti tendenze nazionali di queste Chiese, e si riconosceva una divisione a metà dei benefici, in modo da stabilire un nuovo equilibrio politico e religioso in cui l’elemento statale nazionale acquistava un grande rilievo.

Ma la riforma non era stata realizzata. Questo immobilismo doveva condurre alla rivoluzione protestante.

L’uomo del Trecento è spinto verso il nuovo e ha timore. Lo spirito religioso raggiunge estremi ascetici e di purificazione (flagellanti). Ma l’alta società accentua il lusso e i disordini. L’arte trova in Giotto il perfetto equilibrio tra religiosità e senso dei valori umani. La letteratura in Petrarca l’insistenza del tema della morte e della sofferenza con quello dell’amore, essa è l’espressione massima di questo dissidio. Boccaccio significherà l’apertura.

La Guerra dei Cento anni. Dal 1337 al 1453 una serie di conflitti oppose la Francia all’Inghilterra. Fu definita la Guerra dei Cento anni. Motivi del conflitto il possesso a titolo feudale delle Fiandre da parte dei sovrani inglesi fin dal 1259. Motivi nazionali e dinastico-feudali spingevano il re di Francia a rivendicare quel territorio.

Morto Luigi X senza eredi maschi successe Filippo V al quale seguì Carlo IV il Bello che morì senza eredi. Una assemblea di notabili nominò erede alla corona Filippo di Valois, nipote del padre di Luigi X (Filippo IV). Enrico III, re di Inghilterra, anch’egli imparentato con Filippo IV per parte di madre, mise avanti la sua pretesta alla successione. In Francia la monarchia aveva fatto grandi progressi ma alcuni signori erano eccessivamente indipendenti. Le città fiamminghe erano interessanti perché centri di produzione dei tessuti di lana e per il mantenimento dei rapporti con l’Inghilterra, per cui si ribellarono contro il loro signore, conte di Fiandra, offrendo a Edoardo III di riconoscerlo come re di Francia. Intervenne Filippo VI sterminando i ribelli a Cassel.

Si combatteva per mare, nello stesso tempo, la prima battaglia navale della guerra dei Cento anni, a l’Ecluse, la flotta inglese distrusse quella francese. In questo modo gli Inglesi poterono condurre la lotta sul suolo francese aiutati anche dal Duca di Normandia.

La battaglia di Crécy ebbe un risultato sorprendente e Francesi più numerosi e con la cavalleria pesante vennero battuti, Edoardo III si limitò solo a conquistare una testa di ponte a Calais.

Una seconda sconfitta subirono i Francesi a Poitiers, dove il re francese, figlio di Filippo IV, Giovanni II il Buono, fu fatto prigioniero. Gli Inglesi, in base al trattato di Bretigny, ebbero quasi un terzo della Francia in pieno possesso (senza omaggio feudale). Una situazione disperata per la Francia.

La Francia era in subbuglio attraversata da bande di soldati che la saccheggiavano dopo avere smesso di combattere gli Inglesi. Dopo Poitiers scoppia a Parigi la rivolta di Etienne Marcel, console della corporazione dei mercanti di Parigi. Questi aveva proposto di imporre alla monarchia un ordinamento politico con rappresentanti popolari che potessero esercitare un ampio controllo sul governo. La rivolta si collegò poi con i moti contadini dell’Île de France. Alcuni nobili cercarono di accordarsi con gli Inglesi per rovesciare la monarchia dei Valois. Il delfino Carlo, reggente in nome del padre prigioniero, seppe sfruttare le insufficienze dei movimenti borghesi-popolari che si esaurirono con l’assassinio del loro capo.

Carlo V succede a Giovanni II morto in prigionia. Amante della cultura invece che dell’arte militare si affidava all’abilità politica. Costituì il primo nucleo di quella che sarà poi la Biblioteca nazionale, il suo connestabile, un bretone, Bertrand Du Guesclin, liberò il paese dai saccheggiatori indirizzandoli in una spedizione organizzata in Spagna in aiuto di Enrico di Trastamara. Poi vennero riconquistati territori degli Inglesi escluso quattro teste di ponte di grande valore militare e politico: a Bordeaux, a Brest, a Cherbourg e a Calais.

Carlo VI succede appena dodicenne, i reggenti, duchi di Berry, di Borgogna e di Orleans dilapidano quasi tutto. Salendo al trono il re richiama gli antichi consiglieri di suo padre, borghesi e letterati contrari alla nobiltà che riorganizzano le finanze e riconciliano la monarchia con la borghesia cittadina.

Ma il re è preso da un accesso di follia. Riprendono gli intrighi e scoppia la guerra civile tra Luigi d’Orleans e Giovanni senza paura, duca di Borgogna. Morto Luigi capo della fazione diventa Bernardo d’Armagnac. Da qui i nomi delle due parti di Armagnacchi e Borgognoni. La guerra civile è in pieno svolgimento quando Enrico V d’Inghilterra nel 1415 decide di riprendere la guerra.

La tregua era durata tanto a lungo, perché l’Inghilterra aveva dovuto reprimere la rivolta dei lavoratori, dei movimenti religiosi (lollardi) e i contrasti dinastici. Il successore di Edoardo III, Riccardo II, accusato di non essere abbastanza energico contro gli eretici era stato deposto e sostituito con Enrico di Lancaster, il successore, Enrico V, aveva ripreso le ostilità appoggiato in Francia dai Borgognoni.

Sbarcato in Normandia Enrico V consegue una grande vittoria distruggendo la cavalleria francese a Azincourt. Si decise nel trattato successivo che Enrico V avrebbe sposato la figlia di Carlo VI e alla morte di quest’ultimo avrebbe assunto la corona francese. Ma i due re morirono nel 1422 quasi contemporaneamente. Il figlio di Enrico V, Enrico VI, un bambino di pochi mesi, venne nominato re di Francia e d’Inghilterra.

Al figlio di Carlo VI venne fatta assumere la corona a Bourges e prese il titolo di re di Bourges ma senza troppa convinzione. Il rinnovamento stava per avvenire ma in mezzo al popolo, alla massa dei contadini.

Giovanna d’Arco, una ragazza del popolo di diciannove anni, esprimendo in forma religiosa le esigenze di natura politica, crede di udire delle voci di santi che invitavano alla riscossa. Convince uno dei capi fedeli a Carlo VII, ottiene una lettera e raggiunge il re, il quale dopo averla fatta interrogare da una commissione di teologi, si lascia convincere e gli dà il comando di un’armata col compito di portare aiuto alla città di Orleans assediata dagli Inglesi. Incominciano i successi dei Francesi. Ma poi Carlo VII ha uno scacco nel tentativo di riprendere Parigi si lascia convincere a smobilitare l’esercito. Giovanna continua a guerreggiare con poche truppe ma cade prigioniera dei Borgognoni che la vendono agli Inglesi. Questi la uccidono sul rogo come una strega. La sua azione era stata quella di dare alla guerra un carattere nazionale: un compito storico importante.

La riconciliazione del duca di Borgogna con Carlo VII pone la guerra in una situazione differente. I territori del primo comprendevano la Borgogna, la Fiandra, il Brabante, il Lussemburgo e l’Olanda. Il duca rompeva l’alleanza con gli Inglesi.

La riforma dell’esercito, l’eliminazione dei saccheggiatori, la restaurazione della marina e la creazione dell’artiglieria, permisero a Carlo VII di riconquistate tutti i territori escluso Calais. La guerra finiva senza un trattato. Dopo quasi vent’anni il re d’Inghilterra rinunciava formalmente alla corona francese.

La grande feudalità continuava ad esistere ma si scioglieva nel quadro della nazione. Lo Stato borgognone venne diviso tra la Francia (Borgogna e Piccardia) e l’impero che ebbe i Paesi Bassi (Fiandre e Olanda).

La guerra della Due rose. Durante la guerra dei Cento anni in Inghilterra divampò pure la guerra civile tra la casa di Lancaster e la casa di York, che avevano per emblema una rosa rossa e una bianca.

La malferma salute e sanità mentale di Enrico VI diedero il via alla guerra che decimò i baroni inglesi delle due fazioni. Prevalse la casa di York ma per poco. Prevalse poi la famiglia dei Tudor che conquistò il potere regio d’Inghilterra con Enrico VII.

Ma queste agitazioni avevano colpito solo il baronaggio. il paese era in aumento demografico e in miglioramento economico. Si estendeva il fenomeno delle enclosure e la trasformazione dei seminativi in pascoli. I signori si indirizzano adesso non più solo al consumo ma anche al mercato. Cadono i privilegi dei contadini sulle terre dei signori. Essi vengono sfrattati e spinti ad andare nelle città dove si crea una grande disponibilità di mano d’opera che favorisce lo sviluppo delle manifatture.

Il dissanguamento della nobiltà favoriva l’ascesa politica della borghesia, che così trovava campo grandissimo di attività nella marina mercantile. La stessa aristocrazia si modificava da militare in commerciale.

Col suo avvento al trono Enrico VII contribuì a dare all’Inghilterra, impegnata in questo sforzo collettivo di trasformazione, l’assetto politico stabile.

Spagna e Portogallo. Riconquistati ai musulmani (escluso Granada che rimase fino alla fine del 1400), si erano costituiti i regni di Aragona, Castiglia e Portogallo. Il regno più vitale nel mediterraneo era Aragona, la vitalità era dovuta alla iniziativa economica delle città catalane, esempio Barcellona. Ma il regno era disgregato: alla nobiltà aragonese i sovrani avevano riconosciuto privilegi tali da consentire a questi di ribellarsi in armi nel caso non fossero rispettati. L’autonomia tradizionale della Catalogna accentuava la cosa, portata com’era ad appoggiarsi alla Francia.

Un impulso economico venne dal fatto che la Castiglia era produttrice di lana e la Francia, in guerra con l’Inghilterra, non potendosi rifornire in questo paese, si riforniva in Castiglia. Per questo la Francia credette opportuno intervenire nei disordini spagnoli sostituendo il re Pietro il Crudele con Enrico di Trastamara.

Il matrimonio tra Isabella e Ferdinando, eredi la prima di Castiglia e il secondo d’Aragona condusse all’unione monarchica. Le grandi energie del popolo si indirizzarono verso l’esterno in una grandiosa politica internazionale che verrà svolta nel secolo successivo con le conquiste coloniali.

I re cattolici Ferdinando e Isabella effettuano la riconquista di Granada, favoriscono la spedizione di Colombo, infine conquistano il regno di Napoli. I tentativi di unificazione del Portogallo non hanno successo.

Quest’ultimo paese aveva acquistato sempre più nette caratteristiche di nazione, con una sua lingua, letteratura, leggi, economia. Aveva superato le difficoltà feudali e il nuovo ordinamento alfonsino, emanato da Alfonso V, era solido ed equilibrato. La sua prosperità era basata sulla politica marittima iniziata da Giovanni I e da Enrico detto il Navigatore, che promosse il commercio marittimo, le esplorazioni. Realizzando l’obiettivo di raggiungere le Indie per via mare costeggiando l’Africa, Lisbona divenne centro del commercio delle spezie.

La caduta di Costantinopoli. In coincidenza con la crisi mongola comincia l’espansione di un gruppo di popolazioni turche, gli Ottomani, di religione musulmana, che si erano insediate nei primi del 1300 di fronte a Costantinopoli. Premuto dai Serbi al Nord e da contrasti interni dovuti all’aristocrazia, il regno bizantino non era in grado di opporre resistenza. Gli Ottomani attraversati i Dardanelli si insediarono ad Adrianopoli, i Bizantini impotenti furono i Serbi a contrastare, ma vennero sconfitti. Gran parte della penisola balcanica venne occupata dagli Ottomani. La crociata del re Sigismondo d’Ungheria subì una clamorosa sconfitta a Nicopoli.

Costantinopoli rimase isolata in mezzo ai territori occupati dagli Ottomani. La conquista fu ritardata dall’offensiva di Tamerlano che sconfisse gli Ottomani. Sparita questa minaccia nel 1453, essi conquistano Costantinopoli che cambia il nome in Istanbul.

Gli Ottomani conquistano poi l’Asia Minore, la Siria, la Mesopotamia e l’Egitto, creando un vasto impero musulmano.

Naturalismo rinascimentale e rivoluzione scientifica

Misticismo spagnolo. Letterario: S. Teresa d’Avila e S. Giovanni della Croce. Artistico: El Greco.

Rinascenza inglese. Teatro: Shakespeare.

Arte in Italia. Preludio del Barocco. Sensibilità esasperata. Dopo Michelangelo. Opera di Bernini e Caravaggio.

Teorie politiche estremiste. I monarcomachi francesi, svizzeri, olandesi, proclamano la legittimità della rivolta e della resistenza al sovrano, sostenendo che la sovranità non appartiene al re ma ai rappresentanti del popolo. Teodoro di Beza, collaboratore di Calvino espone queste tesi. In Francia abbiamo Hotman e il suo Franco-Gallia. In Inghilterra le opere degli scozzeri Knox e Buchanan. Subordinazione della politica alla religione e antimachiavellismo caratterizzano questi autori.

Un posto a parte ha la corrente dei libertini. Vanini. Affinità col libertinismo. Bruno e Campanella. Opposizione alla Controriforma. Bruno, favorevole al colloquio coi protestanti, sostenitore di una religione naturale. Campanella, congiura di Calabria, che intendeva sottrarre alla Spagna e organizzare secondo natura e ragione.

Paolo Sarpi, resistenza alla Controriforma. Problema dei rapporti tra Stato a Chiesa. Rivendica la sovranità dello Stato nella propria sfera.

Le teorie assolutistiche. Dopo le lotte religiose ritornano in auge. Bodin dà sistemazione organica. Dal fallimento delle tesi dei monarcomachi e delle rivolte popolari molti borghesi e nobili videro la necessità di un consolidamento del potere regio. L’assolutismo diventa in questo modo uno degli sbocchi più moderati dell’esperienza rivoluzionaria del 1500. Giusnaturalismo. Grozio, Altusio. Richiamo ad una legge di natura. Richiamo ad un contratto che leghi gli uomini in società.

La rivoluzione scientifica. Ripresa del naturalismo filosofico (Galileo). Critica dell’aristotelismo e del principio di autorità. La natura è recuperata all’osservazione liberata da idee preconcette. Copernico. La rivoluzione scientifica determina la nascita di un nuovo metodo anche negli altri campi della cultura europea (Bacone). Cartesio. Rifiuto dell’autorità e del dogmatismo.

Guerre di religione e lotte politiche

La diplomazia di Cateau-Cambrésis aveva tenuto conto di tutto tranne il fatto nuovo: la rivoluzione religiosa,

Il malcontento popolare, come supporto dei feudatari, preoccupava i prìncìpi perché poteva costituire la base per la distruzione dei loro arcaici ideali di autonomia. In realtà, però, erano le forze nuove che si muovevano: mercanti, artigiani, liberi proprietari. Categorie considerate ignobili.

Il calvinismo, a differenza del luteranesimo, nascondeva un fondo politico eversivo.

Quindi contrasti all’interno di ogni Stato, contrasti tra calvinismo e controriforma, ma carichi di motivi politici, economici, culturali che si erano accumulati durante un secolo e che avevano modificato le strutture e la mentalità.

La Spagna di Filippo II. Il grande compito che si prefissò il re fu di diventare il braccio secolare della controriforma. Da canto suo la Chiesa, attraverso il processo controriformistico si andava liberando dagli interessi immediatamente politici, dal nepotismo, dai rapporti soffocanti con gli Stati italiani. In una parola la Chiesa si mobilita per riaffermare se stessa. Se da un lato mantiene i rapporti con le classi dominanti, dall’altro si mobilita per ricostruire una complessa rete di rapporti col mondo popolare.

Il secondo compito fu la lotta contro la pirateria turca nel Mediterraneo, il terzo compito fu la difesa degli interessi coloniali attraverso il rigido monopolio dei rapporti commerciali con le terre americane. I pirati inglesi, francesi e olandesi, non erano un grosso pericolo. Più importante come pericolo il Portogallo, malgrado il diverso orientamento coloniale, sotto la benedizione di Alessandro VI. Per questo, approfittando di una crisi dinastica, nel 1580 si annette il Portogallo.

Egli si sentiva intimamente spagnolo. La sua politica si guadagna le classi dirigenti in quanto era un misto di rigore assolutistico e rispetto delle istituzioni tradizionali. I domini italiani conservavano le loro istituzioni tradizionali. Molto più intransigente fu nel perseguire l’unità religiosa in tutti i suoi domini.

Rivolta e massacro dei moriscos (zone di Granata). Massacro dei valdesi di Calabria. Molto più grave la situazione religiosa nei Paesi Bassi.

La Rivoluzione dei Paesi Bassi. Questi comprendevano: l’Olanda, il Belgio, il Lussemburgo, il Nord della Francia. Ex Stato borgognone con forte autonomia dei signori e della grande borghesia mercantile e finanziaria. Il paese aveva una funzione di primo piano nella vita economica mondiale.

Filippo II, pressato da esigenze finanziarie, decide di diminuire l’autonomia locale per una maggiore pressione fiscale, poi decide di reprimere le comunità protestanti.

Una prima resistenza è popolare (anabattisti), poi si organizza la resistenza dei signori (motivi finanziari). Scoppia la rivolta. Azione repressiva totale del Duca d’Alba. I rivoltosi presero il nome di pezzenti. Migliaia sono mandati al rogo. La ribellione cova sotto e Filippo II riconosce l’errore dei metodi terroristici del Duca e lo sostituisce con Alessandro Farnese che riesce a mettere d’accordo le province cattoliche del Sud e a staccarle dalla lega antispagnola. Si costituisce la Repubblica delle Province Unite. Filippo fa assassinare Gugliemo d’Orange. Dopo 80 anni di lotta la Spagna riconosce l’indipendenza dell’Olanda.

Le guerre di religione in Francia

Intreccio di passioni religiose, conflitti feudali, rivendicazioni borghesi, agitazioni di popolo. Crisi della monarchia e reggenza di Caterina dei Medici. Si sviluppa il potere dei feudatari fautori di repressione religiosa.

Ugonotti furono detti i calvinisti francesi e Ugonotti di Stato i signori che aderirono al movimento per motivi politici e non per convinzione religiosa.

Caterina cerca dapprima la strada del dialogo. Poi accorda libertà di culto fuori delle mura della città. Ma i nobili capeggiati della famiglia Guisa, spinti dall’esterno da Filippo II, vogliono la guerra.

La prima guerra di religione. Il Duca di Guisa fa assassinare una comunità di Ugonotti a Vassy. I capi calvinisti dichiarono guerra. Scompaiono i capi delle fazioni. Caterina cerca la solita politica di conciliazione.

La seconda e terza guerra di religione. A capo degli Ugonotti resta solo Coligny, conduce la resistenza in Borgogna e ottiene, nella pace di Saint-Germain, quattro città con libertà di culto. Massacro della notte di S. Bartolomeo dei capi Ugonotti convenuti a Parigi.

La quarta guerra di religione. Le ostilità continuano fino ad un editto della monarchia ma riprendono ben presto dimostrando la debolezza monarchica.

La quinta guerra di religione. Il partito protestante è comandato da Enrico di Borbone che, con l’aiuto di un esercito tedesco, costringe i cattolici ad una pace vantaggiosa.

La sesta e settima guerra di religione. L’erede del Duca di Guisa promuove la lega santa, diretta a soppiantare di fatto la monarchia. L’erede di Enrico III è Enrico di Borbone. La lega e il Papa Sisto V, che dichiara decaduti i diritti dei Borboni, cercano di evitare la successione.

L’ottava guerra di religione. La più lunga e accanita. Enrico III fa assassinare il duca di Guisa e la parte cattolica fa lo stesso con lui. La morte del re sviluppa un ampio dibattito tra i sostenitori delle teorie medievali degli obblighi reciproci tra re, vassalli e i sostenitori del controllo dal basso. I monarcomachi. Nel campo avverso il gesuita Suarez.

Enrico IV dovette faticare per salire al trono. Ci riuscì quando l’aperta ingerenza di Filippo II nelle cose francesi spaccò la Lega cattolica. Enrico IV abiurò il calvinismo proclamandosi cattolico. L’esercito spagnolo inviato nei Paesi Bassi al comando del Farnese, ci restò in quanto Filippo II giudicava politica la conversione di Enrico. Ma anche il papa accettò la conversione.

Dopo la fine della guerra Enrico IV liberalizzò il culto, furono assegnati agli Ugonotti un centinaio di città di sicurezza, fu loro concessa l’annessione agli uffici pubblici. Solo a Parigi e dintorni fu vietato il culto protestante. Il Parlamento digerì assai lentamente l’iniziativa regale. (Editto di Nantes).

Inglesi e Spagnoli nell’Atlantico. La politica filospagnola di Maria la Cattolica aveva avuto frutti negativi. La perdita di Calais, l’aumento dell’influenza francese, la passiva accettazione del monopolio spagnolo nell’Atlantico.

Elisabetta (figlia di Enrico VIII e Anna Bolena) attuò il mutamento della politica estera e religiosa senza colpi di scena destreggiandosi con Filippo II. Con la Legge di supremazia ristabilì l’autorità regia sulla Chiesa e con la legge di uniformità ristabilì l’anglicanesimo, scontentando cattolici e protestanti.

In Scozia penetrava la predicazione calvinista di John Knox, appoggiandosi al sostegno di Elisabetta alcuni nobili scozzesi si contrapponevano alla regina di Scozia Maria Stuart, cattolica, aiutata da Filippo II. Una rivolta costrinse a fuggire Maria che fu tenuta prigioniera in un castello per 19 anni diventando il centro degli intrighi cattolici.

La lotta alla Spagna venne condotta dagli Inglesi con i corsari, guidati sapientemente dal consigliere della regina Thomas Gresham, in questo modo veniva intaccato il monopolio commerciale con le colonie.

Filippo II contrattacca con congiure e intrighi che facevano capo a Maria Stuart, l’ultimo, scoperto, fa condannare a morte Maria. Nell’occasione della morte della regina vi fu una scorreria fortunata di Francis Drake sulle coste spagnole.

Filippo II allestisce la Invincibile Armata (130 navi) che doveva congiungersi con l’esercito del Farnese nei Paesi Bassi e occupare l’Inghilterra. Fallimento. Il motivo era sempre la debolezza della struttura economica spagnola che non si rivelò del tutto finché Filippo II fu in vita.

L’Inghilterra, dopo la morte di Elisabetta, inizia tramite una compagnia commerciale una colonia in America, la Virginia. Sorge il movimento dei puritani di ispirazione calvinista (Università di Cambridge).

Spagnoli e Turchi nel Mediterraneo. L’Impero Turco. In Europa: tutta la penisola balcanica, fino all’Ungheria. In Asia: l’Anatolia, l’Armenia, la Mesopotamia, l’Arabia, la Siria, la Palestina. In Africa: l’Egitto e il controllo sugli Stati barbareschi dell’Algeria.

Il problema di Filippo II era la conquista e la difesa delle coste africane vicine alla Spagna e alla Sicilia. Un primo scontro fu un insuccesso per gli Spagnoli, i Turchi invasero Malta, che resistette fino all’arrivo degli Spagnoli.

Occupazione dei Turchi di Cipro e Famagosta. Il papa Pio V rilancia l’idea di una lega contro i Turchi, con Spagna, Venezia e S. Sede. Sotto il comando di Don Giovanni d’Austria, fratello naturale di Filippo II. La vittoria fu ottenuta nella battaglia di Lepanto. La vittoria non venne sfruttata per gli interessi commerciali di Venezia che preferì firmare una pace separata rinunciando a Cipro.

Le origini della scienza. Galilei

Il risultato ultimo del Rinascimento e del naturalismo è la scienza. In essa confluiscono le ricerche naturalistiche degli ultimi scolastici che avevano rivolto il loro interesse alla natura, perché si erano accorti che il mondo soprannaturale era inaccessibile alla ricerca umana, e la dottrina di Telesio che aveva affermato la perfetta autonomia della natura.

Questi elementi sono integrati dalla nuova scienza con la riduzione della natura a pura oggettività misurabile: a un complesso di forme o cose costituite essenzialmente da determinazioni quantitative e soggette a leggi matematiche. La scienza elimina i presupposti teologici ai quali erano rimaste ancorate le indagini fisiche degli ultimi scolastici, ed elimina la magia.

Galileo Galilei (1564-1642)

Nacque a Pisa e fin da giovane si dedicò allo studio della medicina. A soli diciannove anni vedendo oscillare una lampada nel duomo di Pisa gli riuscì di determinare la legge dell’isocronismo dell’oscillazione del pendolo. Negli anni seguenti giungeva a formulare alcuni teoremi di meccanica e di geometria, che più tardi dette alla luce. Dallo studio di Archimede fu portato a scoprire la bilancetta per determinare il peso specifico dei corpi. La sua grande cultura matematica gli procurò la stima e la simpatia di tutti i matematici europei e la cattedra di matematica nella sua Pisa: dove rimase per tre anni. In seguito andò ad insegnare matematica a Padova, dove rimase per ben diciannove anni: che furono i più fecondi della sua attività di studioso.

Dopo avere effettuato la scoperta del cannocchiale, iniziò le sue scoperte astronomiche. Prima dette l’annunzio della scoperta dei satelliti il Giove, che chiamò pianeti medicei; poi in seguito scoprì gli anelli di Saturno, le fasi di Venere intorno al sole, come la via lattea sia un insieme di stelle, ecc., ma per avere difeso la dottrina copernicana, fu accusato dalla Santa Inquisizione. Egli continuò nella sua strada e pubblicò il Saggiatore, in risposta a un certo Orazio Grassi che lo aveva attaccato in uno scritto. Pubblicò in seguito il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Dopo la pubblicazione del dialogo, Galilei venne chiamato dal Papa a comparire davanti al Santo Uffizio di Roma. Il processo si concluse con l’abiura di Galilei che cedette, perché stanco e sfiduciato, all’età di settant’anni.

Galilei intende sgombrare la via alla ricerca scientifica eliminando gli ostacoli della tradizione culturale e teologica. Da un lato egli polemizza contro il mondo degli aristotelici, che chiama mondo di carta; dall’altro vuole sottrarre l’indagine del mondo naturale ai limiti e agli impacci dell’autorità ecclesiastica.

Contro gli aristotelici afferma la necessità dello studio diretto della natura. Soltanto il libro della natura è l’oggetto proprio della scienza; e questo libro è interpretato e letto soltanto dall’esperienza. L’esperienza è la rivelazione diretta della natura nella sua verità. Essa non inganna mai. Ma l’esperienza costituisce anche il limite della conoscenza umana. Essa non può raggiungere l’essenza delle cose, ma deve limitarsi a determinare le loro qualità e le loro affezioni.

Secondo Galilei il libro della natura è scritto in lingua matematica e i suoi caratteri sono triangoli, cerchi e altre figure geometriche; perciò non lo si può intendere se prima non si impara la lingua e i caratteri nei quali è scritto. La ricerca di Galilei ha trovato la sua intima molla nella certezza della struttura matematica dell’universo, ed è giunta ad una estrema chiarezza, cosa che non avevano saputo fare Cusano e Leonardo, che pur l’avevano intuito.

Secondo Galilei non c’è migliore filosofia che ci possa mostrare la verità della natura che l’esperienza; la quale non anticipa la natura, ma la segue e la manifesta nella sua oggettività.

«Salviati. Or questi passaggi, che l’intelletto nostro fa con tempo e con moto di passo in passo, l’intelletto divino, a guisa di luce, trascorre in un instante, che è l’istesso che dire, gli ha sempre tutti presenti. Concludo per tanto, l’intendere nostro, e quanto al modo e quanto alla moltitudine delle cose intese, esser d’infinito intervallo superato dal divino; ma non però l’avvilisco tanto, ch’io lo reputi assolutamente nullo; anzi, quando io vo considerando quante e quanto maravigliose cose hanno intese investigate ed operate gli uomini, pur troppo chiaramente conosco io ed intendo, esser la mente umana opera di Dio, e delle più eccellenti». (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Opere di Galileo Galilei, vol. II, Torino 1980, pp.133-134).

«I metodi scientifici si sviluppano e sono storicizzati anche loro, perché noi non possiamo considerare la scienza come basata tutta intera su un metodo che sarebbe, appunto, il solo metodo valido, il metodo scientifico. Nei testi degli scienziati-filosofi del primo Novecento noi troviamo ancora la critica a questo o quell’indirizzo, oppure al tale o talaltro studioso, perché “non applicavano il metodo galileiano”. Ma che cosa è questo “metodo galileiano”? Studiando un po’ a fondo Galilei vediamo che, per la verità, Galilei stesso ha seguito diversi metodi, adattandoli alle circostanze e ai problemi che ha via via affrontato nel corso della sua attività di studioso. Insomma: esiste il problema e si crea un metodo adatto a risolvere o ad aggredire criticamente quel problema. Però, la domanda seria che sorge immediatamente, è la seguente: “... tu crei un metodo per risolvere questo problema, e lo chiami scientifico, ma perché?”. Se obbediva a certe regole, più o meno formulate da Galilei, da Bacone, da Descartes, ecc., noi potevamo dire che quello era un metodo scientifico, ma se questo non esiste – poiché dobbiamo abbandonare l’idea dell’unico metodo scientifico (quello vero, non gli altri fasulli) –, allora che cosa è che ci fa distinguere la scienza dalla non-scienza? Che cosa è che ci fa distinguere lo scienziato e lo studioso serio dallo studioso non-serio? Questa è una domanda che tutti noi ci poniamo: “Se tu dici che non esiste un metodo scientifico unico, un metodo scientifico valido in se stesso ed eternamente valido, ma allora che cosa è che ti fa distinguere, per esempio, la matematica di oggi dalle altre discipline?”. A questo proposito basterebbe riferirsi alla matematica di oggi basata sulla teoria degli insiemi e sulla costruzione di insiemi anche molto articolati ma molto “fantastici” – personalmente, per esempio, ho studiato degli insiemi che risultano essere, nello stesso tempo, “chiusi” ed “aperti”. Ma allora cosa si fa? Introduciamo la fantasia? E questo è ancora scientifico o non è scientifico? Se non possediamo un criterio per distinguere quello che è un metodo seriamente scientifico da quelli che sono invece dei metodi improvvisati, fantastici – forse anche metodi geniali, può darsi – ma che cosa è che ci fa accettare un metodo come scientifico e, quindi, una certa disciplina come una disciplina scientifica?». (L. Geymonat, Dialettica scientifica e libertà, in L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza, op. cit., p. 22).

Francesco Bacone (1561-1626)

Se Galilei ha chiarito il metodo della ricerca scientifica, Bacone ha intravisto per primo il potere che la scienza offre all’uomo sul mondo. La scienza è essenzialmente diretta a realizzare il dominio dell’uomo sulla natura, il regnum hominis: ha visto la fecondità delle sue applicazioni pratiche, sicché può dirsi filosofo e profeta della tecnica.

Nato a Londra da sir Nicholas, guardasigilli della Regina Elisabetta, il giovane Bacone studiò a Cambridge e in seguito trascorse alcuni anni a Parigi al seguito dell’ambasciatore d’Inghilterra. Di ritorno in patria intraprese la carriera politica, che finché visse la regina Elisabetta non gli fruttò nessuna carica. Dopo l’ascesa al trono di Giacomo I, fu nominato avvocato generale, poi procuratore generale, e infine guardasigilli. Come tale egli rendeva esecutivi i decreti del re. Per cui quando Giacono I dovette convocare il Parlamento per l’imposizione di nuove tasse, Bacone venne accusato di avere ricevuto denaro nell’esercizio delle sue funzioni. Fa condannato a quarantamila sterline di ammenda e alla prigione nella Torre di Londra; Giacomo I condonò al filosofo la prigione e l’ammenda ma la sua vita politica era finita.

Il processo e l’accusa gettano una cattiva luce sulla vita di Bacone; ma quest’uomo ambizioso e amante del denaro e del fasto si salva agli occhi della filosofia per avere avuto un’idea altissima del valore e della scienza al servizio dell’uomo. Tutte le sue opere tendono ad illustrare il progetto di una ricerca scientifica che portando il metodo sperimentale in tutti i campi della realtà faccia della realtà stessa il dominio dell’uomo. Quando nella Nuova Atlantide volle dare l’immagine di una città ideale, non si fermò a vagheggiare forme di vita sociale o politiche perfette, ma immaginò un paradiso della tecnica dove fossero portati a compimento le invenzioni ed i ritrovati di tutto il mondo. E difatti in questo scritto rimasto incompiuto, l’isola della Nuova Atlantide è descritta come un enorme laboratorio sperimentale, nel quale gli abitanti cercano di conoscere tutte le forze della natura, “per estendere i confini dell’impero umano, ad ogni cosa possibile”. L’attività maggiore di Bacone fu dedicata alla compilazione di una enciclopedia delle scienze, opera che egli non riuscì a portare a termine ma di cui ci dette un esauriente svolgimento soltanto della seconda parte. La ricerca scientifica, secondo Bacone, non si fonda sui sensi soltanto né solamente sull’intelletto. Se l’intelletto per suo conto non produce che nozioni arbitrarie e infeconde e se i sensi dall’altro lato non danno che indicazioni disordinate e inconcludenti, la scienza non potrà costituirsi come conoscenza vera e feconda di risultati se non in quanto impone, all’esperienza sensibile la disciplina dell’intelletto, e all’intelletto la disciplina dell’esperienza sensibile. Il procedimento che realizza questa esigenza è, secondo Bacone, l’induzione.

Egli si preoccupa di distinguere nettamente la sua induzione da quella di Aristotele. L’induzione aristotelica, la giudica un’esperienza puerile, in quanto trattandosi di una induzione puramente logica, che non morde la realtà, è soggetta al pericolo degli esempi contrari che possono smentirla. Invece l’induzione che è utile all’invenzione e alla dimostrazione delle scienze e delle arti si fonda sulla scelta e sulla eliminazione dei casi particolari: scelta ed eliminazione ripetute successivamente più volte, sotto il controllo dell’esperimento fino a giungere alla determinazione della vera natura e della vera legge del fenomeno. Questa induzione procede quindi senza salti e per gradi risale gradatamente dai fatti particolari ai princìpi generali e solo in ultimo giunge agli assiomi generalissimi.

La grandezza di Bacone sta nell’avere riconosciuto la stretta connessione tra la scienza e la potenza umana e nell’essere stato il profeta della tecnica, cioè della possibilità di dominio che la ricerca scientifica apre sul mondo.

«Come la situazione delle scienze non sia felice né progressiva; come sia da aprire all’intelletto umano una via completamente diversa da quella nota nel passato; come debbano essere apprestati aiuti alla mente affinché essa, secondo il suo diritto, possa esercitare il suo dominio sulla natura». (Instauratio Magna, Prefazione, ns. tr., in Works, vol. I, Londra 1857-1859, I).

«Ma il successo garantisce veramente la serietà razionale di quel modello, oppure no? Ma allora la razionalità sarebbe dettata e regolata dal successo, dall’ordine pratico? Effettivamente, da questo punto di vista, esiste una tradizione che affonda le sue radici in Bacone e in Galileo secondo la quale la scienza deve essere, in primo luogo, una scienza che serve, una scienza che risolve problemi concreti, che ci guida nel superare dei problemi pratici. Si tratta di una tradizione che si sviluppa fino al marxismo il quale sostiene, appunto, che occorre stabilire un nesso molto stretto tra pratica e teoria». (L. Geymonat, Dialettica scientifica e libertà, op. cit., p. 29).

La crisi economica della prima metà del 1600

Il 1500 fu un secolo di relativa e prolungata prosperità. Il 1600 inizia con una crisi di recessione nell’Europa occidentale. Lo sbocco di questa crisi fu duplice.

Una zona di sviluppo con la creazione delle premesse del sistema capitalistico: (Francia, Olanda, Inghilterra). Una zona depressa con il consolidamento dell’economia feudale e l’arresto del progresso: (Spagna, Italia meridionale).

A determinare questa ripartizione influirono anche le rivoluzioni e le evoluzioni nelle istituzioni, dove queste fecero in modo che le nuove forze sociali andassero al potere. La prosperità del Cinquecento venne definita come una “falsa partenza”. La ristagnante agricoltura e la crescente domanda da parte delle città determinarono lo scompenso di sviluppo. Inoltre il tradimento della borghesia.

Il colonialismo. Spagnolo. Diminuzione dell’importazione di metalli preziosi. L’oro e l’argento non furono sostituiti da altri prodotti che in misura insufficiente. Il governo non fece altro che aumentare il peso fiscale nel tentativo di controbilanciare le entrate. Tentativi comunisti nel Paraguay dei gesuiti. Sviluppo dell’attività schiavistica.

Portoghese. Perdita delle posizioni in Africa e Asia. Il pepe venne sostituito con la canna da zucchero. Brasile. L’annessione del Portogallo non cambia i due indirizzi coloniali, ma espose il Brasile agli attacchi degli antispagnoli. Gli olandesi occuparono una parte del Brasile.

Francese. In ritardo nel Nuovo Mondo. Canada agli inizi del 1600, sorge la città di Quebec. Le Antille, i filibustieri.

Inglese. Colonie nordamericane solo di bianchi. Virginia. Ondata migratoria preceduta dalla “Mayflower”. Lotta spietata contro i pellerossa. Le persecuzioni religiose spiegano in parte questa migrazione. Nasce l’espansione tipo nuova frontiera, anche la situazione economica costringe alla migrazione.

Olandese. Mantenne nel 1600 una posizione dominante. Dovunque nel mondo erano presenti gli Olandesi con le loro flotte che contavano l’80% della marina mercantile europea. Imitarono lo stile dei portoghesi. Eccezioni il dominio dell’Indonesia con la città di Batavia (attuale Giacarta) e l’insediamento stabile al Capo di Buona Speranza (colonie di Boeri).

Evidente la presenza, quindi, di un nuovo colonialismo diretto a sfruttare le differenze di sviluppo tra i diversi paesi, aggravandole. Vecchio e nuovo si mischiava. Il vecchio colonialismo mercantile (spostamento di merci) si univa al nuovo: rifornimento delle nuove manifatture in patria e creazione di nuovi mercati.

La Francia dall’editto di Nantes a Richelieu. La Francia incoraggia l’agricoltura, allevia il peso fiscale dei contadini, inizia un’opera di bonifica delle paludi e migliora la rete delle comunicazioni per consentire lo scambio dei prodotti agricoli.

Linea di politica economica mercantilista. Protezione doganale. Si diffonde l’uso della venalità degli uffici, che diventano ereditari col pagamento di una tassa detta paulette.

Un fanatico cattolico assassina Enrico IV. Reggenza di Maria dei Medici. Offensive dei grandi feudatari. Concino Concini acquista grande influenza a corte e si arricchisce. Cambia la politica. Avvicinamento alla Spagna. Si profila il pericolo di una guerra civile. Sono convocati gli Stati generali. Questa assemblea diede la misura evidente del profondo antagonismo tra nobiltà e borghesia. Fino al 1789 non ci saranno più convocazioni. I nobili accusavano i nuovi ricchi (nobili di toga) dell’eredità degli uffici e dei privilegi strappati; questi accusavano i primi di avidità, di abusi, ecc.

Richelieu, diventa il capo del Consiglio di Stato. Lotta a fondo contro i feudatari per restaurare la potenza monarchica, e lotta contro i centri ugonotti e la libertà dell’editto di Nantes. La Rochelle. Editto di grazia. Moderata libertà di culto ma assenza di struttura politica su cui fondarsi. Più difficile la lotta contro i nobili. Forti movimenti di rivolta popolare. Alla sua morte Richelieu lasciava un governo più solido ma minacciato dalle persistenti inquietudini popolari.

L’Inghilterra degli Stuart. Situazione diversa da quella francese. Una nobiltà indipendente non c’era mai stata, la borghesia era molto forte. Tra i puritani era diffuso l’antiautoritarismo politico, tra gli anglicani l’assolutismo.

La dinastia che succede ai Tudor è quella degli Stuart che unificano i regni di Scozia e Inghilterra, appoggiano il clero e la nobiltà. Giacomo I è un teorico dell’assolutismo. Cattolici organizzano la congiura delle polveri. Ma il re non fa nulla per aiutare la borghesia e la piccola nobiltà agraria, che si coalizza in opposizione. Da ciò il contrasto tra Parlamento e corona. Con Carlo I il contrasto si fa più aperto. Il Parlamento pretende che non si applichino tasse senza il suo consenso e che non si proceda ad arresti senza procedimento giudiziario. Carlo I reprime queste tendenze con una spietatezza che aumenterà la frattura.

Le Province Unite. Olanda, Zelanda, Utrecht, Frisia, con predominio borghese in alcuni Stati e nobiliare in altri. Ogni provincia ha un’organizzazione. Tutte fanno capo al Pensionario. Esistono gli Stati Generali. La più ricca provincia è l’Olanda che ha una forte preminenza. Oltre al Pensionario, espressione della borghesia ricca, esiste lo Stathouder, espressione della nobiltà. Esistono dottrine calviniste diverse che li dividono.

La Spagna si avvia alla decadenza. Profondi squilibri sociali. Offensiva feudale. Banditismo che si batte contro i feudatari e i grandi proprietari con l’aiuto della popolazione rurale. Una specie di rivolta sociale. Debolezza della borghesia. Filippo III l’abulico. Si sviluppa il militarismo castigliano del duca di Olivares; il suo programma è: abbandono della tradizionale politica dell’autonomia e accentramento per avere maggiori contributi finanziari.

La guerra dei Trent’anni

L’aumento della richiesta da parte dei paesi occidentali di legname e grano, determina nei paesi dell’Europa orientale un aumento dello sfruttamento contadino da parte dei grandi proprietari.

Polonia, Danimarca, Russia, Svezia, Germania orientale, vedono un movimento regressivo che aumenta il potere dei grandi feudatari.

In Polonia tutti i tentativi verso l’assolutismo furono inutili. In Russia la dinastia Romanov si sostituisce a quella di Ivan il Terribile. La Svezia ha una situazione un poco migliore riguardo i feudatari. La Germania ha problemi religiosi. Il protestantesimo è bloccato dalla propaganda dei gesuiti.

La guerra. Fase boemo-palatina. Rivolta feudale in Boemia. L’imperatore Ferdinando II a capo della Lega cattolica sconfigge i Boemo-palatini. Feroce repressione in Boemia.

Fase della Valtellina. Il passaggio tra la Lombardia e il Tirolo austriaco. Nel Canton dei Grigioni scontri tra cattolici e protestanti. Intervento spagnolo e la Valtellina diventa protettorato della Spagna.

Fase danese. Cristiano IV di Danimarca è battuto dall’esercito della lega cattolica, aiutato dagli spagnoli, comandato dal boemo Alberto di Waldstein. La restaurazione cattolica andava di pari passo col tentativo di imporre la supremazia asburgica alla Germania.

Fase svedese. Lo spinge ad intervenire la difesa del protestantesimo e la necessità di dominio nel Baltico. Le violenze dell’esercito cattolico nella città di Magdeburgo, spinsero i prìncipi protestanti del Brandeburgo e della Sassonia a intervenire. Gustavo Adolfo, imperatore vince e si dirige verso Vienna. Dalla Boemia viene ancora Waldstein, che è sconfitto a Lutzen dagli Svedesi. Muore Gustavo Adolfo. La revoca dell’editto di restaurazione e la concessione della libertà religiosa riconciliano i prìncipi protestanti con l’Imperatore asburgico.

Fase francese. Dichiarazione di guerra alla Spagna. Questa era impegnata su troppi fronti. Lo sforzo finanziario esaspera i conflitti interni. Catalogna e Portogallo proclamano la propria indipendenza. Gli Spagnoli sono duramente sconfitti. Cade la loro fama di invincibilità.

Per l’Impero la situazione si aggrava. I Francesi ottengono vittorie in Germania, gli Svedesi penetrano in Boemia. Ferdinando accetta la pace di Westfalia.

La Francia ottiene i vescovati di Metz e Verdun e la sovranità sull’Alsazia. La Svezia la Pomerania occidentale, il Brandeburgo la Pomerania orientale. In questo modo comincia l’ascesa del Brandeburgo che diventerà il forte regno di Prussia. I prìncipi tedeschi videro riconosciuta la più ampia autonomia, l’autorità imperiale si ridusse ad una larva. La soluzione del problema religioso fu definitiva: convivenza delle fedi, possibilità per il suddito di essere di fede diversa dal suo sovrano.

Le rivolte antispagnole

Catalogna. Inizia con i contadini, poi aderisce Barcellona, la ricca borghesia e anche alcuni nobili. Da qui la natura indipendentistica. Fu richiesta la protezione alla Francia e il titolo di Conte di Barcellona venne offerto al re di Francia. La rivolta dovette poi continuare contro i Francesi per gli abusi di quest’ultimi. La rivolta stava per propagarsi in Aragona. Ma i contrasti interni tra contadini e proletariato urbano da un lato e borghesia e nobili dall’altro, che avevano motivi diversi (sopravvivenza i primi e motivi fiscali i secondi), non consentirono di riportare la cose alla normalità.

Portogallo. La guerra dei Trent’anni determina, come in Catalogna, inasprimento fiscale. Crisi dell’impero coloniale portoghese, esposto ora agli attacchi degli avversari della Spagna. Il movimento tende ad espandersi in Andalusia ma senza riuscirvi. Francia e Inghilterra aiutano il Portogallo nell’indipendenza. Trattato di Lisbona, con cui la Spagna riconosce l’indipendenza.

Italia meridionale. Solo i ceti popolari e gruppi di intellettuali e borghesi erano contro. Le classi aristocratiche dirigenti furono dalla parte spagnola. L’enorme pressione fiscale e militare avevano distrutto i primi e favorito i secondi. Rivolta di Masaniello, carattere antinobiliare. Si proclama la Repubblica a Napoli.

L’aiuto francese tarda a venire. A capo della Repubblica si mette il megalomane Enrico di Guisa che cerca di convincere i baroni a passare contro gli Spagnoli. Ma le caratteristiche popolari della rivolta si accentuano. L’armata spagnola soffoca la repubblica. Terribile repressione.

La Fronda

Dopo Richelieu, Mazzarino. Impegno antispagnolo, antiasburgico e contro i grandi signori.

La rivolta venne dalle tasse. Si prolungò la paulette. Il Parlamento si riunì al completo e studiò una riforma che prevedeva il controllo parlamentare sull’amministrazione finanziaria e sull’imposizione delle tasse. Cioè una monarchia controllata dalla borghesia privilegiata. Il Parlamento era contrario alla guerra. Almeno l’opposizione capitanata da Broussel. Il re fa arrestare Broussel. Scoppia la rivolta.

Scoppia la fase parlamentare della Fronda, la corte fugge da Parigi. Questa fase si esaurisce per le preoccupazioni destate dalla partecipazione popolare alla rivolta.

Scoppia la fase dei prìncipi, con a capo Condé. Fuga di Mazzarino. Turenne, un generale fedele, riesce a sconfiggere Condé che si mette al servizio spagnolo.

La nazione è in uno stato disastroso. I contadini fanno le spese di tutto. Inizia l’attività di S.Vincenzo de’ Paoli per alleviare le pene della povera gente.

Mazzarino si dimostra clemente contro i responsabili della Fronda e prosegue la lotta contro la Spagna, che conclude vittoriosamente con la pace dei Pirenei dove la Spagna cede alla Francia il Rossiglione.

Nota riguardante il passaggio

“Ah! se da sole ora le porte del tuo santuario si spezzassero,
o Cerere, tu che in Eleusi avevi il trono!
Ebbro di entusiasmo, io proverei ora
il fremito della tua vicinanza,
comprenderei le tue rivelazioni,
interpreterei l’alto senso delle immagini, udrei
gli inni nei banchetti degli dèi,
gli alti detti del loro consiglio. –
Pure i tuoi atri sono ammutoliti, o dea!
Il cerchio degli dèi è fuggito nell’Olimpo
dagli altari consacrati,
fuggito dalla tomba dell’umanità profanata
il genio innocente, che qui li incantava! –
La saggezza dei tuoi sacerdoti tace; non un suono delle sacre iniziazioni si è salvato fino a noi – e invano si sforza,
più che l’amore della saggezza, la curiosità
dello studioso (questa posseggono i ricercatori
e ti disprezzano) – per padroneggiarla essi scavano in cerca
di parole, in cui il tuo alto senso fosse impresso!
Invano! Solo polvere e cenere essi afferrano, dove, per loro, mai la tua vita fa ritorno.
E, tuttavia, anche nel marcio e nell’inanimato si compiacciono, eterni morti! – contenti di poco – invano – nessun segno
è rimasto della tua festa, nessuna traccia di immagine.
Al figlio dell’iniziazione la pienezza dell’alta dottrina,
la profondità dell’indicibile sentimento troppo era sacra perché egli degnasse i segni prosciugati.
Già il pensiero non afferra l’anima,
sprofondata oltre il tempo e lo spazio a espiare l’infinito, di sé si dimentica, e ora di nuovo si desta
alla coscienza. Chi ad altri volesse parlarne,
parlerebbe con lingua di angelo, proverebbe la povertà delle parole. Ed egli ha orrore di aver pensato così piccolo
il sacro, di averlo reso con le parole così piccolo, che il discorso gli appare come una colpa ed egli, da vivo, si chiude la bocca.
Ciò che l’iniziato così vieta a se stesso, una saggia
legge vieta agli spiriti più poveri, di render noto
ciò che è stato visto, udito, sentito nella sacra notte:
perché anche il migliore nella sua preghiera
non fosse turbato dal chiasso del loro disordine, e le chiacchiere vuote non lo indisponessero verso il sacro stesso, e questo
non fosse trascinato nel fango, ma fosse
affidato alla memoria – perché non diventasse
un trastullo e una mercanzia del sofista,
che l’avrebbe venduto per un obolo,
o mantello dell’ipocrita eloquente ovvero
ferula del gioioso fanciullo, e diventasse alla fine
così vuoto, che solo nell’eco di estranee lingue
trovasse radici alla sua vita.
I tuoi figli, o dea, avari del tuo onore, non l’hanno portato per strade e mercati, ma l’hanno custodito.

(G. W. F. Hegel, Werke in zwanzig Bänden,

ns. tr., Frankfurt am Main 1971, vol. I, pp. 231-233)

Nota riguardante il passaggio

Lo spartiacque Cartesio, ma non solo lui, qualcosa lo segna davvero, che poi questo qualcosa non sia l’avvento della modernità non è comprovabile. Forse segna l’inizio di una presa di coscienza nuova, che la realtà non può semplicemente constatarsi ma deve anche, e forse principalmente, “ordinarsi”.

Ecco perché i miei dubbi – qualcuno li direbbe tardivi – sul compito cartesiano di dividere l’antico dal moderno in filosofia. Dio è ancora il punto di riferimento, sia pure esterno, per Cartesio, ma non lo è nel modo in cui lo era stato per un pensatore scolastico o rinascimentale. Il caos è veramente il diavoletto cattivo che si cela dietro il creatore? Ipotesi questa contraddittoria, quindi da eliminare? Oggi sappiamo che c’è quel diavoletto e quello che manca è proprio il creatore e la stessa bontà di fondo, ipotizzata parallelamente al consolidarsi delle forze scientifiche e al loro convincimento – non ancora morto, tutt’altro direi – di mettere ordine nel mondo, di raddrizzare gli storpi, di aggiustare le faccende genetiche, di alleviare i dolori e tutto il resto.

Il fatto che l’uomo sia proprio questi stessi dolori, e che sia lui stesso il diavoletto della favola, non sfiora nemmeno la mente degli scienziati e dei filosofi. E, in questo senso, le riflessioni che qualche avventuroso ha letto nella mia introduzione al primo volume, tornano qui esattamente al posto giusto, sono o non sono costoro rifornitori della caverna dei massacri? Se lo sono stanno facendo ancora il proprio lavoro, non ne possono fare a meno, non lo stanno facendo perché sono particolarmente “cattivi” – mentre, ma quanto, erano buoni i filosofi del buon tempo andato – ma solo perché non posso fare altrimenti.

In fondo tutto dipende dal fatto di avere una mente “ordinata”, quindi produttrice di “ordine”, destinata e fabbricata apposta per tenere lontano gli incubi che la mancanza di ordine produce negli spiriti schiettamente amanti del possesso delle proprie idee, prima di tutto, su cui si basa, in fondo, e come potrebbe essere in altro modo, il possesso di tutto il resto. Possediamo il mondo perché abbiamo idee precise, se lasciamo che l’anarchia dilaghi, che il caos riesca a trovare la strada per arrivare fino a noi, allora per noi, per quello che possediamo, quindi per quello che facciamo e che potremo continuare a fare, allora è finita. E non vogliamo che tutto finisca così, la modernità è proprio questa testarda tutela di un mantenimento di coordinate ben chiare, regole valide per tutti e da tutti rispettate, perché nel caso in cui qualcuno non voglia accettarle possiamo dire, a cuor leggero, che questo qualcuno è un pericoloso e strano essere diverso, e puntare verso di lui tutte le nostre armi, prima quelle della critica filosofica e storica e poi quelle più pesanti in grado di ucciderlo. E tutto ciò restando assolutamente in pace con la nostra coscienza. Dopo tutto schiacciare un diverso non è qualcosa di molto diverso di uccidere un immondo topo di fogna.

Scrivono Geymonat e Giorello: «È noto per esempio che l’idea di un dio creatore e signore dell’universo giocò un ruolo essenziale per la nascita della moderna scienza della natura: questo dio infatti offriva ai ricercatori dei secoli XVII e XVIII la sola garanzia in tale epoca possibile dell’ordine dell’universo, cioè della sua conformità a leggi (che le scienze particolari avrebbero poi avuto il compito di scoprire). C’è però da chiedersi se questo appello a un ordine stabilito da dio abbia sempre giocato un ruolo di pari importanza anche nelle fasi successive dello sviluppo della scienza. La risposta sembra negativa o per lo meno dubitativa, se pensiamo al famoso dialogo che la tradizione fa risalire a Napoleone e Laplace. Secondo questo dialogo, Napoleone avrebbe chiesto a Laplace, che gli aveva offerto in omaggio i primi volumi della Mécanique céleste, in quale capitolo della grande opera si parlava di Dio, e Laplace gli avrebbe risposto: non ho avuto bisogno di questa ipotesi». (Le ragioni della scienza, Bari-Roma 1986, pp. 6-7). Ed è considerazione condivisibile, ma non affonda dentro il problema stesso della modernità, che è poi quello medesimo della scienza.

Che senso avrebbe la lettura di una storia della filosofia se non si ponesse qui, proprio alla fine di uno sforzo che rimane considerevole, il problema della filosofia e della storia, armi potentissime in mano agli scienziati, i quali, in perfetta buona fede, sembrano neanche avvedersi di quanto e di come riescano ad utilizzarle nell’abbozzare le loro ricerche e nel finalizzarle al raggiungimento dell’ordine su cui si fonda il dominio, qualunque dominio, l’ordine del massacro.

Non è un caso, anzi non poteva essere diversamente, che la matematica costituisca il linguaggio della scienza e che per molti aspetti – estendendosi come logica – cerchi di catturare perfino il terreno della filosofia e quello della storia. Continuano gli autori citati: «[…] abbiamo accennato al rigore delle scienze sperimentali, sottolineando che si tratta di un carattere non meno importante che il rigore delle scienze formali. Ora ci proponiamo di ritornare su di esso, analizzandolo un po’ più a fondo di quanto si sia fatto allora. Questa esigenza di rigore nelle scienze sperimentali non riguarda soltanto l’esigenza di avvalersi di apparecchi (di osservazione e di misura) che siano i più sensibili e i più esatti possibile, ma riguarda anche problemi generali di indubbio interesse filosofico, come i rapporti fra esperienza e teoria. Mentre la prima esigenza testé accennata concerneva gli strumenti tecnici di osservazione, la seconda concerne essenzialmente la loro registrazione, e perciò ci riporta al problema del linguaggio di cui ci serviamo per tale registrazione. Orbene, come tutti sappiamo, il linguaggio più usato per questo scopo è incontestabilmente il linguaggio della matematica. Se ci domandiamo il perché, la risposta è facile: 1) perché le operazioni della matematica (anche allorché questa non sia assiomatizzata) sono semplici e precise, cosicché è facile manovrare con esse, vuoi che si tratti della geometria, vuoi che si tratti dell’algebra, dell’aritmetica o anche dell’analisi differenziale e integrale; 2) perché la matematica dispone di una ricchezza di simboli enormemente superiore a quelli del linguaggio comune (si pensi soltanto ai numeri interi, frazionari, irrazionali, immaginari dell’aritmetica). Ai tempi dell’antica Grecia si era pensato (dai pitagorici e dai platonici) che la straordinaria utilizzabilità del linguaggio matematico per la descrizione e la spiegazione dei fenomeni dipendesse dal fatto che essi costituiscono l’essenza della natura. Più tardi – nel Medioevo, nel Rinascimento e nei primi secoli dell’Era Moderna – questa medesima tesi fu espressa in termini diversi, affermando che dio aveva creato l’universo secondo un ordine matematico; e ancora oggi questa affermazione è ripresa da alcuni autori (anche da alcuni filosofi della scienza) che desiderano avvolgere la scienza in una atmosfera di mistero, forse proprio per difenderne il valore in una cultura oscurantista, assetata di magia e astrologia come la nostra. Ma essa (la tesi pitagorica e platonica) si rivela manifestamente incompatibile con quell’esigenza di rigore in cui abbiamo detto consistere una delle principali caratteristiche della scienza moderna (una delle caratteristiche che più la differenziano dalla teologia e dalla metafisica)». (Ib., pp. 13-14). Quale risposta migliore all’esigenza di ordine? L’assiomatizzazione non è altro che un richiamo all’ordine con una fortissima pretesa oggettualizzante. Ma la vita non è imposizione di ordine, tutt’altro. Colgo a volte il pulsare di questa forza misteriosa dentro di me, anche adesso, mentre scrivo queste linee tornato a casa, dopo la parentesi delle carceri greche, e ne rimango impressionato. Anche in termini di fare, quindi pure restando nell’ambito della propensione al massacro, non capisco come si possa essere tanto ottusi da cedere alla conservazione del male minore. E la qualità? O, per dire meglio questo concetto su cui mi soffermo da quasi quarant’anni, la libertà? Se si riflette per un attimo su questo punto non si possono accettare chiusure o limitazioni. Si tratta di un messaggio che scava dentro di noi e denuncia gli spaventati contrasti della mia miseria. Posso convivere col caos? Non solo posso, ma direi che devo, altrimenti divento un procacciatore della caverna dei massacri.

Ammettendo tutto questo illumino di una luce particolare la vita e la valuto dall’interno, attraverso la mia vicenda personale, quindi non per sentito dire, e solo così sono in grado di valutare me stesso. Rimetto a posto i miei possedimenti con tutto questo darmi da fare? Qualcuno potrebbe dire di sì, a partire da vecchie storie di fanciullesche illusioni, e forse avrebbe ragione. Ma non sto passando in rassegna uno schieramento militare, ogni singolo momento di riflessione non mi trova saldamente sui miei piedi, anche se non mi trova nemmeno addormentato nel mio letto. Sono sveglio e in guardia, seppure un po’ traballante. Dopo tutto sono un vecchio lottatore. Queste riflessioni non sono destinate a portare la pace dentro di me ma a fondare, ancora una volta, la mia vita sul caos. Non lottare contro la vita ma contro di me, contro i miei assopimenti, sia pure transitori, i miei rallentamenti. Il vero nemico è la mia miserabile condizione di assetato di possesso, che torna continuamente a misurare e a regolare le distanze e i significati. Quando smetterò aprendomi all’assolutamente altro? Nuove prospettive mi attendono, anche se ormai temporalmente si possono riassumere tutte su di una punta di spillo. Ma quante illusioni risiedono su di uno spazio così piccolo, una infinità incommensurabile. È così che valuto le nuove possibilità del destino, le nuove parole che posso dire, ben altrimenti di quelle che ho detto mezzo secolo fa, qui elencate con accuratezza da maniaco. La libertà verso cui vado, il caos che intendo abbracciare, qui e subito, non è soltanto una ignota destinazione, è l’ascolto della voce dell’altro, un modo indefinibile e indicibile di cogliere ciò che non è semplicemente un accadere, ma anche un prepararsi a ricevere l’assenza, un allenarsi alla parola che cessa di parlare e risuona sempre più ristretta fino a diventare puntuale, collocandosi anch’essa su quella punta di spillo, diventata ormai piazza e rocca sporgente su di un eterno mare in burrasca. Mi conforta l’avere finalmente compreso che il caos e non l’ordine, la desolazione e non l’arredamento barocco e quantitativamente soffocante, sono gli snodi essenziali della vita. Così, senza poterlo dire, la mia voce irrompe nel silenzio ma non lo spezza. Così la vita cede alla comunicazione senza accettare l’impossibile fare della parola che la mortificherebbe in una modificazione utile e preziosa perché accumulabile in uno sterminato territorio che conduce esattamente alla porta principale del cimitero.

Scrive Heidegger: «La comprensione porta con sé la possibilità dell’interpretazione, cioè dell’appropriazione del compreso. Poiché la situazione emotiva è cooriginaria alla comprensione, essa si mantiene sempre in una certa comprensione. A questa corrisponde parimenti un certo assetto interpretativo. L’asserzione costituisce il derivato ultimo dell’interpretazione. La chiarificazione del terzo significato dell’asserzione, la comunicazione (espressione) ci ha condotto ai concetti del dire e del parlare, rimasti finora volutamente inesplorati. Il fatto che il linguaggio sia posto in discussione proprio ora, sta a significare che questo fenomeno ha le sue radici nella costituzione esistenziale dell’apertura dell’Esserci. Il fondamento ontologico-esistenziale del linguaggio è il discorso. Nelle nostre analisi della situazione emotiva, della comprensione, dell’interpretazione e dell’asserzione abbiamo già ripetutamente fatto appello a questo fenomeno, ma esso è sempre sfuggito, in certo modo di soppiatto, all’analisi tematica. Il discorso è esistenzialmente cooriginario alla situazione emotiva e alla comprensione. La comprensibilità, anche prima dell’interpretazione appropriante, è già sempre articolata. Il discorso è l’articolazione della comprensibilità. Esso sta quindi già alla base dell’interpretazione e dell’asserzione. Abbiamo definito il senso come ciò che costituisce l’articolabile dell’interpretazione e, più originariamente ancora, del discorso. Ciò che risulta così articolato nell’articolazione discorsiva è la totalità dei significati». (Essere e tempo, tr. it., Torino 1978, pp. 259-260). Posso girare in mille modi questa posizione filosofica ma non accedere alla base del senso, la parola mi dice solo una parte del suo contenuto e mai la voce con tutti i suoi significati, la voce dell’uno che è. La volontà dell’uno che è non ha niente a che vedere con la mia volontà, e nemmeno come espressione del fare voluto può essere pensata facente parte dell’uno. L’uno mi interroga perché io stesso mi chiedo che cosa mi impedisce di rompere i legami che mi asfissiano, la radicalità feroce della connivenza scientifica o, il che torna lo stesso, filosofica o storica. Quella voce non mi fornisce una strada, ma mi propone un ulteriore ascolto che si diffonde e si ripete e di cui non posseggo le parole con cui potrei tradurlo in termini di comprensione. La voce dell’uno riempie l’universo con la sua ridondanza, ma devo imparare ad ascoltarla, essendo suono privo di regole, non posso usare quelle che mi assillano nel mondo delle convenzioni. La corrispondenza – arida parola priva di quell’amarezza di cui vorrei caricarla qui – tra caos e ordine dovrebbe darmi il senso della lontananza tra la presenza delle regole e la loro totale mancanza, ma non mi fornisce che una linea di demarcazione, un confine con tanto di visti doganali.

Se l’uno comprende il caos comprende anche la linea di demarcazione suddetta, quindi anche il mio affannoso battito di cuore nel registrare regole e possessi. Posso così essere tentato di pensare che è di certo un passo avanti questa demarcazione, l’averla individuata – resta da considerare che cosa ho veramente individuato –, ma non mi è consentito di tradurre quel suono. Interpreto e mostro, faccio risuonare, decido in merito a nuove demarcazioni, più sfumate e più leggere, ma la realtà di quel suono rimane remota e non scioglie da sola le mie catene, devo coinvolgermi, e ascoltando parlare, le mie parole di vento non intaccheranno quel suono, lo faranno ripercuotere all’infinito. Ha scritto Aldo Masullo: «Se il pluralismo della storia comprende in sé l’effettualità di questa o quella filosofia, lo stesso filosofare invece – la ricerca di quella ragione della storia che, nel suo essere la ragione di tutte le ragioni, è fondamento – esplicitando tematicamente la storicità della vita e così favorendo la dissoluzione dei simboli sclerotizzati, sempre da capo condiziona la vitalità della storia, alla propria unità richiamandone la dialogica e non atomistica pluralità. In questo senso si può dire che la storicità della storia è nata dallo storicamente nato filosofare e che nella storia, in corrispondenza della storica penetrazione critica del filosofare, vi è oggi più storicità che in altre epoche: insomma, la storia propriamente detta è solo un momento della “storia”, del divenire del mondo umano, il quale è nato prima della storia, come ragione dialogica ancora “nascosta” a se medesima, “ancora del tutto nello stato della oscurità notturna”, secondo la parola di Husserl, e quindi non ancora veramente storica: “preistoria”, direbbe Hegel, poiché “la narrazione della storia appare contemporaneamente alle azioni e agli eventi storici”». (Antimetafisica del fondamento, Napoli 1971, p. 14). Il che mi appare come una difesa d’ufficio, faccenda di avvocati e carte procedurali. Non sono di certo le parole della storia quelle che possono favorire l’ascolto di quello che l’uno ha da dirmi, riguardo la mia avventura nell’assolutamente altro, al contrario possono bloccarlo fino a rendermi servo di un ascolto che mano a mano va perdendo la sua capacità di aprire il mio cuore. Il suono aperto, che liberamente passa dall’apertura, intelligenza e qualità, cede di fronte alle mie ansiose miserie, alle mie povere orecchie che vogliono per forza derubricarlo nella dicibilità, per cui mi sembra che se ne vada per altri lidi, che mi parli e mi faccia rammemorare mondi fantastici ed estranei. In effetti il processo e l’incontro dovrebbero invertirsi. Il punto di partenza dovrebbe essere sempre il modesto, modestissimo fare, quello di cui abbiamo qui, in questi due volumi, un esempio, l’articolazione primaria della conoscenza.

L’inospitalità della desolazione è la caratteristica della qualità. Per i miei sensi abituati alla fantasmagoria della quantità, la visione del deserto mi annichilisce, mi pone di fronte a qualcosa che sembra il risultato di un rifiuto, mentre è l’estraneazione della vita quella che mi sono lasciata alle spalle. Il falso è adesso capovolto nel vero e il vero nel falso. Abituato al luccichio dell’utile, l’inutile mi atterrisce e mi martella nel cervello una paura, la paura della perdita, del non potere più avere qualcosa da stringere fra le mani. Il possesso prima di tutto. Per la mancanza della parola. L’uno è muto, il niente è muto, il caos è muto, non esistono parole che dicono questa realtà molteplice e unica nello stesso tempo. L’uno è, quindi il niente è, il caos è, tutto questo è produzione del dire, sono concetti disegnati con le parole ma non possono avere la pretesa del rispecchiamento, come l’elefante disegnato sulla carta corrisponde a un elefante vero. Nessuna parola può descrivere la desolazione dell’uno, del niente, del caos, neanche la parola della rammemorazione che descrive l’esperienza nella qualità, la mia esperienza nell’azione. Si tratta di abbandonarsi, di volare con le stesse parole, di negare la forza pressante della volontà. Oggi mi rendo conto di quello che mezzo secolo fa non potevo capire. Lo schifo della caverna dei massacri non posso allontanarlo da me, ma posso agire, quindi andare oltre al fare che alimenta – e questa stessa esperienza di storia della filosofia non sfugge a quello che sto dicendo adesso – il massacro, e oltrepassando questa condizione anche la parola spicca il volo. Certo, lo spessore dalla perdita è ancora tutto da scoprire. Se considero la mia esperienza diversa, la mia esperienza nella qualità, mi sembra una piccola cosa, eppure è di questa piccola cosa che la mia vita è stata caratterizzata, sconvolta, investita di un senso di leggerezza e di pianezza che non è possibile descrivere perché la parola non me lo consente. Tutto questo non ha rapporti di causa ed effetto con la mia realtà presente, con i miei anni, tanti, con la mia vecchiaia, ma che me ne importa, non c’è illuminazione che può chiarire questo rapporto che so bene esistente, anche se inesprimibile.

La prudenza di Rickert non mi aiuta. «Sappiamo che il presupposto della massima prestazione del concetto naturalistico consiste nell’essere libero da determinazioni spaziali e temporali, per adattarsi così a ogni configurazione della realtà, qualunque determinazione spaziale e temporale essa possa avere. In altri termini, deve possedere generalità non solo empirica ma pure illimitata. Ma la generalità dei significati delle parole, col cui aiuto potevano semplificare una molteplicità data, finché il significato sta ancora in rapporto diretto con l’intuizione, è sempre limitata empiricamente, e non si può vedere come un significato indeterminato, rappresentato in modo intuitivo o anche trasferito in forma di giudizi, debba diventare più che empiricamente generale. Perciò le formazioni rappresentative, non solo a causa della loro indeterminatezza, ma anche a causa della loro generalità solo empirica, non possono bastare ai fini ultimi della scienza naturale. Ma i giudizi generali, di fronte a questo compito di conoscenza, si comportano in modo del tutto diverso dalle rappresentazioni generali. Così la nostra teoria del concetto si inquadra facilmente in un contesto più grande. Tuttavia l’ulteriore perseguimento di questo nesso ci porterebbe a un’interpretazione gnoseologica del concetto del mondo che la scienza naturale deve formare per superare la molteplicità dell’intuizione empirica. Allora si dovrebbe chiedere in che misura si può parlare di una “realtà” delle ultime cose, non più intuitive, della scienza naturale. Tuttavia una interpretazione simile non appartiene più a questa serie di idee. Qui si tratta solo della verifica e del fondamento dei metodi naturalistici e dell’indicazione degli ideali ai quali la scienza naturale, sul terreno del realismo empirico, deve cercare di avvicinarsi con l’aiuto di questi metodi. In questa sezione della ricerca, per separare l’uno dall’altro i diversi problemi, ci atteniamo provvisoriamente all’idea che il mondo materiale è costituito da cose e che queste cose sono sostanze materiali dotate di proprietà». (Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung, ns. tr., Tübingen 1896-1902, pp. 98-99). Poca cosa, in ogni caso avente la pretesa di mettere da parte l’intuizione che invece mi consente di entrare in sospetto nei riguardi della realtà del fare, la prigione che mi circonda, non quella che ho lasciato appena qualche mese fa, ma la prigione generalizzata, quotidiana, intollerabilmente inevitabile se non torno, ancora una volta, a spezzare il confine che mi separa dalla qualità, se non mi avvio verso l’apertura, verso ciò che definisco l’uno come unità di qualità e quantità, unità del mondo che significo e da cui sono significato. Ma come posso trovare l’uno se all’intuizione che dovrebbe farmelo cogliere nell’azione non si comanda? Disponendo percorsi opportuni, stratagemmi e inganni, non tradimenti, che sono altro e da condannare perché menano ancora una volta al controllo. Posso cogliere l’uno nell’agire, quindi l’assolutamente altro, perché vi sono destinato, ma il destino è una possibilità che io stesso ho contribuito a costruire, non il dono di una volontà sia pure diversa dalla mia. Il cogliere, la sua possibilità, mi è inviata dall’assolutamente estraneo, che mi suggerisce l’abbandono e l’apertura per capire la possibilità che mi viene offerta. La mancanza di scopo è la caratteristica essenziale. Io non voglio possedere la qualità, anzi fino a quando non comprendo la sua impossibilità a essere posseduta, avrò sempre conquistato ulteriori, e utili, quantitativi di quantità. Cessando il possesso, e la voglia di possesso, accedo alla qualità, cioè all’uno che è e non può non essere.

Ecco una lunga citazione di Dewey che dice meglio di come potrei dirlo io stesso quello in cui non credo. «Al presente le nuove forze meccaniche di produzione, che sono i mezzi di emancipazione da questo stato di cose, sono state impiegate per intensificare ed esasperare il capovolgimento della vera relazione fra mezzi e fini. Umanamente parlando, io non vedo come sarebbe stato possibile evitare un’epoca con questa caratteristica, ma il suo perpetuarsi è la causa del disordine continuamente crescente e delle discordie sociali. D’altra parte essa non potrà essere superata col predicare agli individui che essi dovrebbero collocare i fini spirituali al di sopra dei mezzi materiali. Essa può essere effettuata da una ricostruzione sociale organizzata, la quale ponga i risultati del suo meccanismo dell’abbondanza alla libera disposizione degli individui. Il materialismo corrosivo dei nostri tempi non procede dalla scienza, esso sorge dalla nozione, sediziosamente coltivata dalla classe al potere, che le capacità creative degli individui possano essere risvegliate e sviluppate soltanto nella lotta per il possesso materiale e per il guadagno materiale. E allora ci si pone questa alternativa, o rinunciare alla nostra professione di fede nella supremazia dei valori ideali e spirituali, accomodando così le nostre credenze al predominante orientamento, oppure, attraverso uno sforzo organizzato, istituire una economia socializzata di sicurezza e di abbondanza materiale che liberi l’energia umana per il conseguimento di valori più alti. Finché la liberazione delle capacità individuali per una spontanea autonoma espressione, è una parte essenziale del credo del liberalismo, un liberalismo sincero deve pretendere i mezzi che sono la condizione per il raggiungimento dei suoi fini; e la reggimentazione delle forze materiali e meccaniche è la sola via per cui la massa può essere affrancata dalla reggimentazione e dalla conseguente soppressione delle sue possibilità culturali. L’eclissi del liberalismo è dovuta al fatto che esso non ha affrontato le alternative e non ha adottato i mezzi da cui dipende la realizzazione dei fini professati. Il liberalismo può essere fedele ai suoi ideali solo se persegue la via che conduce al conseguimento di essi. È un luogo comune che i liberali si dividano fra coloro che sono prudenti e coloro che amano i tentativi, mentre i reazionari sarebbero legati da una comunanza d’interessi e di costumi. Ma è vero che un accordo fra tesi e credo liberale può essere raggiunto solo con una unità di sforzi; una unità organizzata d’azione accompagnata dal consenso dottrinale progredirà nel grado in cui il controllo sociale delle forze economiche sarà di fatto l’obiettivo dell’azione liberale. Il maggiore potere educativo, la maggior forza nel formare le disposizioni e le attitudini degli individui, è il medium sociale in cui essi vivono; e il medium che al presente ci sta più vicino è quello dell’azione unificata per il fine inclusivo di una economia socializzata. Ma il conseguimento di uno stato sociale in cui una base di sicurezza materiale liberi le possibilità culturali degli individui non è un lavoro di un giorno; tuttavia un modo c’è di stringere in effettiva unità le presenti attività dei liberali, ora disperse e spesso in conflitto; è quello di concentrarsi sul compito di assicurare una economia socializzata come fondamento e medium per lo sviluppo degli impulsi e delle capacità, che gli uomini sono d’accordo nel chiamare ideali. La domanda, cosa si deve fare, non può essere passata sotto silenzio. Le idee devono essere organizzate e questa organizzazione implica un gruppo di persone che sostenga queste idee e la cui fede sia pronta a tradursi in azione. E tradurre in azione significa formulare il credo generale del liberalismo come un programma concreto d’attività. È nell’organizzarsi in azione che i liberali sono deboli, e senza questa organizzazione c’è il pericolo che gli ideali democratici possano andare falliti. La democrazia è stata una fede di combattenti; quando i suoi ideali saranno rinsaldati da quelli del metodo scientifico e d’intelligenza sperimentale, non può darsi che essa sia incapace di risvegliare disciplina, ardore, organizzazione. Restringere l’esito per il futuro a un conflitto fra fascismo e comunismo significa chiamare una catastrofe che può trascinarsi dietro, nella lotta, la civiltà stessa. Un vitale e coraggioso liberalismo democratico è la sola forza che può sicuramente evitare un tale disastroso restringimento della questione dibattuta. Per mio conto non credo che gli statunitensi che vivono nella tradizione di Jefferson e di Lincoln s’infiacchiranno e s’arrenderanno senza uno sforzo generoso per dare alla democrazia una realtà vivente. E questo, lo ripeto, richiede organizzazione». (Liberalismo e azione sociale, tr. it., Firenze 1946, pp. 113-114). Quello che mi serve è una critica del mondo, una critica negativa, che mi proponga non un genere diverso di possesso, ma il rifiuto di possedere, apprendendo la maniera per riempire questa mancanza cancellando l’inquietudine che l’incomprensibilità degli scopi di cui la vita continua a essere piena mi causava. Ciò non nega il mondo. È sempre nel mondo che torno e da cui non mi sono mai allontanato.

La grande forza del fare nasce dalla sua illusione di completezza. Lavoro tutta la vita illudendomi di raggiungere questo obiettivo ma, alla fine, devo ammettere che proprio in questo tentativo e nella sconfitta dei suoi risultati risiede la possibilità dell’apertura all’esperienza diversa, qualitativamente carica di qualcosa di diverso. Tutti, prima o poi, si accorgono di questa spaventosa contraddizione, alcuni fanno in tempo ad aprirsi a quella nuova e sconvolgente esperienza, altri, più paurosi, se ne accorgono troppo tardi vedendo alle loro spalle la miseria di una vita non vissuta, di essere morti prima ancora di essere stati vivi. Lo scopo più alto, completare i propri possessi, e non solo quelli più vili, ma anche quelli più elevati, come la conoscenza, è così una sconfitta che può cadere sulle spalle all’improvviso, con spaventevoli conseguenze, o essere cercata, costruita con coraggio e perseveranza. Coltivare il fare, amarlo, è l’inizio del suo abbandono per andare oltre. Rifiutando questo passaggio la mia stessa ignoranza mi farà protervo e stupido, incapace di cercare, sprovveduto, un fuscello in balia degli allettamenti della vita. Ognuno si rende conto di quanto sia difficile rifiutare a priori l’illusione di completezza che ogni giorno ci è messa sotto il naso. Se da un lato è proprio qui la mia forza, nel fare e nel possedere, come posso poi proprio qui cominciare a costruire la mia sconfitta? Quello che stringo fra le mani non lo vorrò più abbandonare, e così mi legherà a sé, mi farà suo prigioniero. Ma, se si riflette bene, questa difficoltà si colloca tutta nella paura della perdita, e questa nella pretesa di separare sé da quello che si possiede. In termini di coinvolgimento totale la situazione è diversa. Io mi perdo completamente, mi abbandono con tutto il mio possesso. Sarebbe impossibile per me perdermi senza l’esperienza diversa nell’agire, senza l’esperienza nella qualità, nella libertà. Solo partendo da questa esperienza, sia pure puntuale e irriferibile perché la parola me lo vieta a causa della sua incapacità di servirmi in questo territorio desolato, riesco a diventare sordo e cieco alla conoscenza e perfino all’amore, possesso fra i più difficili da dichiarare fallito, per andare oltre, con conoscenza e amore, dalla negligenza alla possibilità nuova che il destino mi offre. Solo così posso non avere paura della sconfitta, anzi cercarla senza stare a commisurami per la misera condizione in cui mi trovo.

Mi ribello pertanto a una pressione regolamentatrice e lo faccio in nome della libertà, non di una qualsiasi delle tante libertà che un occhiuto potere mi mette davanti agli occhi tutti i giorni, ma alla libertà come qualità. Partendo dalla condizione del suicida, che potrebbe sembrare privilegiata sotto questo profilo, Camus fa delle interessanti considerazioni: «Prova ne sia che non utilizza mai, per dominare gli altri, la terribile fuga dalla libertà conferitagli dalla sua decisione di morire; ogni suicidio solitario, quando non avvenga per risentimento, è in qualche modo generoso o sprezzante. Ma si disprezza in nome di qualche cosa. Se al suicida il mondo è indifferente, ciò avviene perché egli ha un’idea di ciò che non gli è o potrebbe non essergli indifferente. Si crede di distruggere tutto di portare tutto con sé, ma da questa stessa morte rinasce un valore per il quale, forse, sarebbe valsa la pena di vivere. La negazione assoluta non si esaurisce quindi nel suicidio. Non può esaurirsi che nella distruzione assoluta, di sé e degli altri. O almeno, non la si può vivere se non tendendo a questo dilettevole limite. Suicidio e omicidio sono qui due volti di uno stesso ordine, quello di un’intelligenza infelice che preferisce alla sofferenza di una condizione limitata la fosca esaltazione in cui s’annientano terra e cielo. [...]. L’assurdo è in se stesso contraddizione. Lo è nel contenuto poiché esclude i giudizi di valore volendo ad un tempo mantenere la vita, quando il vivere è in se stesso un giudizio di valore. Respirare è giudicare. È forse falso dire che il vivere è perpetua scelta. Ma è vero che non si può immaginare una vita priva di qualsiasi scelta. Da questo semplice punto di vista, la posizione assurda, in atto, è inimmaginabile. È inimmaginabile nella sua stessa espressione. Ogni filosofia della non-significanza vive sulla contraddizione per il fatto stesso d’esprimersi. Essa dà con ciò un minimo di coerenza all’incoerenza, introduce un rapporto di conseguenza in quello che, a darle retta, è privo di connessione. Parlare ripara. Il solo atteggiamento coerente fondato sulla non-significanza sarebbe il silenzio, se a sua volta il silenzio non significasse. L’assurdità perfetta cerca di essere muta. Se parla, è perché si compiace oppure, come vedremo, perché si ritiene provvisoria. Questo compiacimento, questa considerazione di sé, indicano chiaramente il profondo equivoco della posizione assurda. In certo modo l’assurdo, che pretende esprimere l’uomo nella sua solitudine, lo fa vivere davanti a uno specchio. L’iniziale lacerazione rischia allora di diventare comoda. La piaga grattata con tanta sollecitudine finisce per dare qualche piacere. [...]. Spezzato lo specchio, nulla resta che possa servirci a rispondere ai problemi del secolo. L’assurdo, come il dubbio metodico, ha fatto tabula rasa. Ci lascia in un vicolo cieco. Ma come il dubbio, esso può, tornandoci sopra, orientare una nuova indagine. La prima e sola evidenza che mi sia data così, all’interno dell’esperienza assurda, è la rivolta. Privo d’ogni scienza, incalzato a uccidere o ad acconsentire a che si uccida, dispongo di questa sola evidenza che trae nuova forza dal dissidio in cui mi trovo. La rivolta nasce dallo spettacolo dell’irragionevolezza, davanti a una condizione ingiusta e incomprensibile. Ma il suo cieco slancio rivendica l’ordine in mezzo al caos e l’unità al cuore stesso di ciò che fugge e scompare. Essa grida, esige, vuole che lo scandalo cessi e che si fissi finalmente quanto finora si scriveva senza posa sull’acqua. È ansiosa di trasformare. Ma trasformare è agire, e agire, domani, sarà uccidere, mentre non sa se l’omicidio sia legittimo. La rivolta genera appunto le azioni che le si chiede di legittimare. Bisogna pure che essa tragga da sé le proprie ragioni, poiché non può trarle da null’altro. Bisogna che acconsenta ad esaminarsi per imparare a comportarsi. [...]. L’uomo è la sola creatura che rifiuti di essere ciò che è. Si tratta di sapere se questo rifiuto possa condurlo soltanto alla distruzione degli altri e di sé, se ogni rivolta dovrà concludersi in una giustificazione dell’uccisione universale, o se al contrario, senza pretendere a un’impossibile innocenza, essa possa scoprire il principio di una colpevolezza ragionevole». (L’uomo in rivolta, tr. it., in Opere, Milano 1969, vol. II, pp. 327-334). La profonda ferita del fare, quella su cui punto tutta la mia attenzione anche qui, ora e subito, è la semplice negazione della produzione, cioè di ciò che il fare oggettualizza mettendolo al mondo come utilità, ma la possibilità radicale e negativa che esso stesso, in quanto fare, venga negato. Non c’è modo di risolvere il fare nelle sequenze infinite delle sue contingenze, non c’è completezza, per cui il fatto nella sua stessa consistenza è alla fine revocato, messo in dubbio. Il mondo stesso che mi sovrasta, sembra per un momento scomparire, cessa di manifestarsi. Le condizioni della diversità sono intrinseche al fare, forse in modo ancora più profondo di quanto non riesce ad apparire dal movimento orientativo che separa la quantità dalla qualità. Non c’è niente di obbligatorio nell’orientamento, potrei non percepire nulla del mondo che mi circonda, e il mio cervello non essersi sviluppato nel modo in cui si è sviluppato. Il fare può venire meno in qualunque momento e cedere all’interpretazione, ma più ancora alla realtà diversa della trasformazione, può anche precipitare del tutto nell’assenza. Questo equilibrio instabile si rinnova a ogni istante e non è mai garantito da una necessità esterna, è un atto che si è liberato dalla volontà, per questo guarda a una vita diversa di cui non ho conoscenza ma solo intuizione priva di regole.

L’enigma di cui parla Heidegger si colloca precisamente in questa insopprimibile distanza tra fare e agire. Ecco le sue parole: «Quello di “essere” è un concetto ovvio. In ogni conoscere, in ogni asserzione, in ogni comportamento [che ci pone in rapporto] con l’ente, in ogni comportamento che ci pone in rapporto con noi stessi si fa uso di “essere”, e l’espressione è “senz’altro comprensibile”. Tutti comprendono cosa significhi: “Il cielo è azzurro”, “Sono contento”, e così via. Ma questa comprensione media non dimostra che un’incomprensione. Essa sta a denunciare che in ogni comportamento e in ogni modo di essere che ci ponga in relazione con l’ente in quanto ente, si nasconde a priori un enigma. Il fatto che già sempre viviamo in una comprensione dell’essere e che, nel contempo, il senso dell’essere continua a restare avvolto nell’oscurità, attesta la necessità fondamentale di una ripetizione del problema del senso dell’“essere”. L’appello alla ovvietà, a proposito dei concetti filosofici fondamentali e particolarmente a proposito di quello di “essere”, è un procedimento dubbio, se d’altra parte l’“ovvio”, e solo esso, cioè “i giudizi segreti della ragione comune” (Kant) deve diventare e rimanere il tema esplicito dell’analitica (“il compito dei filosofi”). Dall’esame dei pregiudizi che abbiamo passato in rassegna, risulta dunque che, a proposito del problema dell’essere, non solo manca la soluzione, ma che il problema stesso è oscuro e privo di guida. Ripetere il problema dell’essere significa dunque: incominciare con l’elaborare in modo adeguato l’impostazione stessa del problema. Il problema del senso dell’essere deve esser posto. Se esso sia un problema fondamentale o il problema fondamentale, è una questione che richiede di esser chiarita in modo adeguato. Occorre perciò prendere brevemente in esame ciò che è proprio in generale di ogni problema, per poter ricavarne con chiarezza ciò che fa del problema dell’essere un problema del tutto particolare. Ogni posizione di problema è un cercare. Ogni cercare trae la sua direzione preliminare dal cercato. Porre un problema significa cercare di conoscere l’ente quanto al suo che-è e al suo esser-così. Il cercare di conoscere può divenire una “ricerca”, se mette capo alla determinazione ostensiva di ciò intorno a cui verte il problema. Il cercare, in quanto cercare intorno a..., ha un cercato. Ogni cercare intorno a..., in qualche modo, è un interrogare qualcuno. Oltre al cercato, il cercare richiede l’interrogato. Quando il cercare assume i caratteri di una vera e propria ricerca, cioè un assetto specificamente teoretico, il cercato deve venir determinato e portato a livello concettuale. Nel cercato si trova dunque, quale vero e proprio oggetto intenzionale della ricerca, il ricercato, ciò che costituisce il termine finale del cercare. Il cercare stesso, in quanto comportamento di un ente, il cercante, ha un carattere d’essere suo proprio. Un cercare può essere condotto in modo casuale o assumere il carattere della posizione esplicita di un problema. Ciò che caratterizza quest’ultima è che il cercare diviene trasparente a se stesso solo dopo che lo siano divenuti tutti i caratteri costitutivi del problema sopra elencati. Il problema del senso dell’essere deve esser posto. Siamo dunque nella necessità di discutere il problema dell’essere rispetto ai momenti strutturali suddetti. La posizione di un problema, in quanto cercare, esige di essere preliminarmente guidata da ciò che è cercato. Il senso dell’essere deve quindi esserci già accessibile in qualche modo. Come dicemmo, noi ci muoviamo già sempre in una comprensione dell’essere. È da essa che sorge il problema esplicito del senso dell’essere e la tendenza alla determinazione concettuale di esso. Non sappiamo che cosa significa “essere”. Ma per il solo fatto di chiedere: “Che cosa è ‘essere’?”, ci manteniamo in una comprensione dell’“è”, anche se non siamo in grado di stabilire concettualmente il significato di questo “è”. E neanche conosciamo l’orizzonte entro cui cogliere e fissare il senso dell’essere. Questa comprensione media e vaga dell’essere è un fatto. Questa comprensione dell’essere può risultare fluttuante ed evanescente fin che si vuole, e rasentare i confini di una semplice nozione verbale – ma questa indeterminatezza della comprensione dell’essere già sempre accessibile è essa stessa un fenomeno positivo che richiede una spiegazione. La ricerca del senso dell’essere non potrà tuttavia fornire questa spiegazione all’inizio. L’interpretazione della comprensione media dell’essere entra in possesso del suo indispensabile filo conduttore solo con l’elaborazione del concetto di essere. Alla luce di questo concetto e delle modalità di autocomprensione esplicita proprie di esso, sarà possibile stabilire che cosa significhi la comprensione dell’essere oscura o non ancora illuminata, e stabilire inoltre quali specie di oscuramento, o di impedimento di una illuminazione esplicita del senso dell’essere, siano possibili e necessari. Inoltre la comprensione dell’essere media e vaga può risultare a tal punto permeata dalle teorie tramandate e dalle opinioni intorno all’essere, da far sì che tali teorie restino nascoste come fonti della comprensione predominante. Ciò che nel problema dell’essere viene cercato non è qualcosa di completamente sconosciuto, benché sia qualcosa di innanzitutto completamente inafferrabile. Nel problema dell’essere che stiamo per elaborare, il cercato è l’essere, ciò che determina l’ente in quanto ente, ciò rispetto a cui l’ente, comunque sia discusso, è già sempre compreso. L’essere dell’ente non “è” esso stesso un ente. Il primo passo innanzi filosofico nella comprensione del problema dell’essere consiste nel non “raccontare storie”, cioè nel non pretendere di determinare l’ente in quanto ente facendolo derivare da un altro ente, come se l’essere avesse il carattere di un ente possibile. In quanto cercato, l’essere richiede pertanto un suo particolare modo di esibizione, distinto in linea essenziale dallo scoprimento dell’ente. Di conseguenza, anche il ricercato, il senso dell’essere, richiederà un apparato concettuale suo proprio, che, di nuovo, si contrapporrà in linea essenziale ai concetti in cui l’ente ottiene la determinazione del proprio significato. Se l’essere costituisce il cercato, e se essere significa essere dell’ente, ne viene che, nel problema dell’essere, l’interrogato è l’ente stesso. L’ente, per così dire, verrà inquisito a proposito del proprio essere. Ma perché l’ente mostri senza falsificazione i caratteri del proprio essere, bisognerà che, da parte sua, risulti in primo luogo accessibile così com’è in se stesso. Il problema dell’essere richiede, per quanto concerne il suo interrogato, il raggiungimento e la garanzia preliminari della giusta via d’accesso all’ente. Ma noi diamo il nome di “ente” a molte cose e in senso diverso. Ente è tutto ciò di cui parliamo, ciò a cui pensiamo, ciò nei cui riguardi ci comportiamo in un modo o nell’altro; ente è anche ciò che noi siamo e come noi siamo. L’essere si trova nel che-è dell’esser-così, nella realtà, nella semplice presenza, nella sussistenza, nella validità, nell’Esserci, nel “c’è”. In quale ente si dovrà cogliere il senso dell’essere? Da quale ente prenderà le mosse l’aprimento dell’essere? Il punto di partenza è indifferente o un determinato ente possiede un primato per quanto concerne l’elaborazione del problema dell’essere? Qual è questo ente esemplare e in che senso possiede un primato? Se il problema dell’essere deve esser posto esplicitamente e portato a soluzione nella piena trasparenza di se stesso, l’elaborazione di questo problema richiederà, in conseguenza delle delucidazioni da noi date, l’esplicazione del modo in cui si può volger lo sguardo all’essere, realizzarne la comprensione e afferrarne concettualmente il senso; e richiederà la preparazione della possibilità della scelta corretta dell’ente esemplare, nonché l’elaborazione della giusta via di accesso a questo ente. Ma volger lo sguardo, comprendere, afferrare concettualmente, scegliere, accedere a, sono comportamenti costitutivi del cercare e perciò parimenti modi di essere di un determinato ente, di quell’ente che noi stessi, i cercanti sempre siamo». (Essere e tempo, op. cit., pp. 58-60). Cerco di realizzare questo “aprimento”, o più semplicemente questa “apertura”. No, non c’è modo di realizzarla, cioè di farla diventare una realtà fattiva. C’è solo il modo di viverla, puntualmente, nell’azione. E la differenza è tutt’altro che una semplice questione di parole. Il fare è in aperta antitesi con l’agire. Io devo rinunciare ad esso, alla distanza che lo contrassegna, e ai risultati che propone, se voglio agire, eppure, nello stesso tempo, se non faccio non riuscirò mai ad agire, tutto si asfissierà in un continuo concerto di impotenza. Nel descrivere a posteriori, nella rammemorazione, questa antinomia ne posso sottolineare i limiti e l’indiretta connessione grazie alle possibilità offerte dal destino, ma in fondo non c’è spiegazione del percorso nella qualità, dell’esperienza diversa, dell’azione. L’apertura, che è fissata nel cuore stesso del fare, è a questo incomprensibile, non può essere detta se non correndo il rischio di qualche approssimazione metaforica. Se parlo di coinvolgimento spiego, e se spiego non sono io quello che voglio spiegare, cioè non sono coinvolto, sono qui che guardo il mio coinvolgimento come il racconto di un di già avvenuto, ma il mio sangue, le mie vene, la mia carne, sono al sicuro, non sono col coltello in mano, non sono nella qualità che sta per essere sperimentata, guardano questa estrema antinomia e se ne ritraggono sbigottiti, mentre non c’è altro da fare che affrontare il prossimo oltrepassamento.

Alla fine, anche questa lunga e, per alcuni aspetti, straordinaria avventura narrativa, iniziatasi tanto tempo fa e conclusasi adesso con queste inadeguate pagine, soffre della necessaria attesa di una scomparsa del fare, quindi del mondo, di tutto il mondo che lo rende logico e possibile, ma è proprio questa sofferente parzialità che ha reso possibile e logica questa storia della filosofia. Sofferenza fuori luogo perché la compattezza della qualità rimane tale e quale nella sua assoluta indifferenza. Non si può modificare ciò che può essere soltanto trasformato. L’impenetrabile non saranno certo degli elenchi di parole che potranno penetrarlo. Le fantasie dialogano con la qualità e in essa annegano, digressione dopo digressione. Se qualche accadimento sembra una visita del destino, e a volte perfino un giro di boa nella mia abilità di costruttore, se non un gesto del mio avventato coraggio di cercatore di fuoco, è sempre la mia personale presenza nell’azione a fare la differenza. Che al fine si giunga a deporre la parola sul ripiano dello scrittoio e di essa si cancelli perfino il ricordo. Alzare le vele.

Fine del secondo volume

 
 

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